Annali d'Italia, vol. 1 - 66
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AURELIANO imperadore 2.
_Consoli_
LUCIO DOMIZIO AURELIANO AUGUSTO e BASSO per la seconda volta.
Il padre Pagi, il Relando ed altri ci danno _Aureliano_ imperadore
_console per la seconda volta_, ma con fondamenti poco stabili, a mio
credere. Si suppone che Aureliano nell'anno 259 fosse console
sostituito; e di questo niuna certezza apparisce. Sono citate due
iscrizioni; l'una ligoriana, pubblicata dal Reinesio[2310], e l'altra
data alla luce dal Relando[2311], e presa dal Gudio; cioè due
monumenti che patiscono varie eccezioni, e vengono da fonti che non
possono servire a darci limpida e sicura la verità. All'incontro tutti
i Fasti consolari antichi ci presentano sotto l'anno corrente
_Aureliano console_, ma senza la nota del consolato secondo.
Altrettanto troviamo nelle iscrizioni di questo o de' seguenti anni,
tutte conformi in mettere questo pel primo consolato di Aureliano. Una
anch'io ne ho prodotta[2312] non diversa dalle altre. _Pomponio Basso_
fu creduto dal Panvinio[2313] il secondo console, perchè sotto Claudio
si truova un riguardevol senatore di questo nome: conghiettura troppo
debole. Dai susseguenti illustratori de' Fasti vien egli chiamato
_Numerio_ o pur _Marco Ceionio Virio Basso_; ma con aver succiato nomi
tali dalle due suddette non affatto sicure iscrizioni. Per altro si
truova un _Ceionio Basso_[2314], a cui Aureliano scrisse una lettera,
ma senza segno ch'egli fosse stato console. Il perchè a maggior
precauzione non l'ho io appellato se non col solo cognome di _Basso_.
L'imperador novello Aureliano nelle monete[2315] parlanti di lui vien
chiamato _Lucio Domizio Aureliano_. Si può dubitare che sia un fallo
in alcune l'esser chiamato _Claudio Domizio Aureliano_, e che in vece
d'IMP. CL. DOM., ec., s'abbia a leggere IMP. C. L. DOM., cioè _Cesare
Lucio_, ec., come nell'altre. Il cardinal Noris e il padre Pagi
credettero che la vera sua famiglia fosse la _Valeria_, perchè,
scrivendogli una lettera Claudio imperadore, il chiama _Valerio
Aureliano_, e nell'iscrizione ligoriana, che dissi pubblicata dal
Reinesio, egli porta il medesimo nome. Ma se fosse guasto il testo di
Vopisco[2316]? Poichè quanto a quella iscrizione, torno a dire ch'essa
non è atta a decidere le controversie. Tanto nelle medaglie che nelle
antiche iscrizioni, altro nome, siccome dissi, non vien dato a questo
imperadore, che quello di _Lucio Domizio Aureliano_, e a questo
conviene attenersi. E se altri[2317] il chiama Flavio Claudio Valerio,
non v'è obbligazione di seguitarlo. Non ebbe difficoltà Vopisco di
confessare che _Aureliano_ sortì nascita bassa ed oscura nella città
di Sirmio, ovvero nella Dacia Ripense. Ma si fece egli largo colla sua
prudenza e valore nella milizia, e di grado in grado salendo, sempre
più guadagnò di plauso e di credito. Bello era il suo aspetto, alta la
statura, non ordinaria la robustezza. Nel bere, mangiare e in altri
piaceri del corpo, in lui si osservava una gran moderazione[2318]. La
sua severità e il rigore nella militar disciplina, quasi andava
all'eccesso. Denunziato a lui un soldato che avea commesso adulterio
colla moglie del suo albergatore, ordinò che si piegassero due forte
rami d'un albero, all'un de' quali fosse legato l'un piede del
delinquente, e l'altro all'altro, e che poi si lasciassero andare i
rami. Lo spettacolo di quel misero spaccato in due parti gran terrore
infuse negli altri. Ebbe principio la fortuna sua sotto Valeriano
Augusto; Gallieno ne mostrò altissima stima; e più di lui Claudio. In
varie cariche militari riportò vittorie contra de' Franchi, de'
Sarmati, de' Goti. Teneva mirabilmente in briglia le sue soldatesche,
e, ciò non ostante, sapea farsi amare dalle medesime. Merita d'essere
qui rammentata una lettera di lui, scritta ad un suo luogotenente, ove
dice: _Se vuoi essere tribuno, anzi, se t'è caro di vivere, tieni in
dovere le mani de' soldati. Niun d'essi rapisca i polli altrui, niuno
tocchi le altrui pecore. Sia proibito il rubar le uve, il far danno ai
seminati, e l'esigere dalla gente olio, sale e legna, dovendo ognuno
contentarsi della provvisione del principe. Si hanno i soldati a
rallegrar del bottino fatto sopra i nemici, e non già delle lagrime
de' sudditi romani. Cadauno abbia l'armi sue ben terse, le spade ben
aguzze ed affilate, e le scarpe ben cucite. Alle vesti fruste
succedono le nuove. Mettano la paga nella tasca, e non già
nell'osteria. Ognun porti la sua collana, il suo anello, il suo
bracciale, e nol venda o giuochi. Si governi e freghi il cavallo, ed
il giumento per le bagaglie; e così ancora il mulo comune della
compagnia; e non si venda la biada lor destinata. L'uno all'altro
presti aiuto, come se fosse un servo. Non han da pagare il medico. Non
gettino il danaro in consultar indovini. Vivano costantemente negli
alloggi, e se attaccheran lite, loro non manchi un regalo di buone
bastonate._ Bene sarebbe che alcun generale od uffiziale de' nostri
tempi studiasse questa sì lodevol lezione, saputa dai gentili, e
talvolta ignorata dai cristiani. Moglie di Aureliano imperadore fu
_Ulpia Severina_, la quale non si sa che procreasse altro che una
figliuola, i cui discendenti viveano a' tempi di Vopisco.
Ora da che fu creato imperadore _Aureliano_, se dice il vero
Zosimo[2319], egli sen venne a Roma, e, dopo aver quivi bene
assicurata la sua autorità, di colà mosse, e per la via d'Aquileia
passò nella Pannonia, che era gravemente infestata dagli Sciti, o sia
dai Goti. Mandò innanzi ordine che si ritirassero nelle città e ne'
luoghi i viveri e i foraggi, affinchè la fame fosse la prima a far
guerra ai nemici. Comparvero, ciò non ostante, di qua dal Danubio i
Barbari, e bisognò venire ad un fatto d'armi. Senza sapersi chi
restasse vincitore, la sera separò le armate, e fatta notte, i nemici
si ritirarono di là dal fiume. La seguente mattina ecco i loro
ambasciatori ad Aureliano per trattar di pace. Se la concludessero,
nol dice Zosimo: e sembra che no, perchè partito Aureliano, e lasciato
un buon corpo di gente in quelle parti, furono alcune migliaia di que'
Barbari tagliate a pezzi. Il motivo per cui si mise in viaggio
Aureliano, fu la minaccia de' popoli, che Vopisco[2320] chiama
Marcomanni, e Desippo[2321] storico Giutunghi, di calare in Italia; se
pur de' medesimi fatti e popoli parlano i suddetti due scrittori.
Secondo Desippo, Aureliano, portatosi al Danubio contro ai Giutunghi
Sciti, diede loro una sanguinosa rotta; e, passato anche il Danubio,
fu loro addosso, e ne fece un buon macello, talmente che i restanti
mandarono deputati ad Aureliano per chieder pace. Fece Aureliano
metter in armi e in ordinanza il suo esercito, e per dare a quei
Barbari una idea della grandezza romana, vestito di porpora andò a
sedere in un alto trono in mezzo del campo, con tutti gli uffiziali a
cavallo, divisi in più schiere intorno a lui, e colle bandiere ed
insegne, portanti l'aquile d'oro e le immagini del principe poste in
fila dietro al suo trono. Parlarono que' deputati con gran fermezza,
chiedendo la pace, ma non da vinti; rammentando allo imperadore
ch'erano giornaliere le fortune e sfortune nelle guerre; ed esaltando
la loro bravura, giunsero a dire d'aver quaranta mila cavalieri della
sola nazion de' Giutunghi, ed anche maggior numero di fanti, e d'esser
nondimeno disposti alla pace, purchè loro si dessero i regali
consueti, e quell'oro ed argento che si praticava prima d'aver rotta
la pace. Aureliano con gravità loro rispose, che dopo aver eglino col
muover guerra mancato ai trattati, non conveniva loro il dimandar
grazie e presenti; e toccare a lui, e non a loro, il dar le condizioni
della pace; che pensassero a quanto era avvenuto ai trecento mila
Sciti, o Goti, che ultimamente aveano osato molestar le contrade
dell'Europa e dell'Asia; e che i Romani non sarebbono mai soddisfatti,
se non passavano il Danubio, per punirli nel loro paese. Con questa
disgustosa risposta furono rimandati quegli ambasciatori. Per
attestato del medesimo Desippo[2322], autore poco lontano da questi
tempi, anche i Vandali mossero guerra al romano imperio, gente anche
essi della Tartaria; ma una gran rotta loro data dall'esercito fece
ben tosto smontare il loro orgoglio, ed inviar ambasciatori ad
Aureliano per far pace e lega. Volle Aureliano udire intorno a ciò il
parere dell'armata; e la risposta generale fu, che avendo que' Barbari
esibite condizioni onorevoli, ben era il finir quella guerra. Così fu
fatto. Diedero i Vandali gli ostaggi all'imperadore, e due mila
cavalli ausiliarii all'armata romana; gli altri se ne tornarono alle
loro case con quiete. E perchè cinquecento d'essi vennero dipoi a
bottinar nelle terre romane, il re loro, per mantenere i patti, li
fece tutti mettere a fil di spada.
Mentre si trovava Aureliano impegnato contra d'essi Vandali, ecco
giugnergli nuova che una nuova armata di Giutunghi era in moto verso
l'Italia. Mandò egli innanzi la maggior parte dell'esercito suo, e
poscia col resto frettolosamente anch'egli marciò per impedire la lor
calata; ma non fu a tempo. Costoro più presti di lui penetrarono in
Italia, e recarono infiniti mali al distretto di Milano. Vopisco[2323]
li chiama Svevi, Sarmati, Marcomanni, e si può temere che sieno
confuse le azioni, e replicate le già dette di sopra. Comunque sia,
per le cose che succederono, convien dire che non fossero lievi le
forze e il numero di costoro. E si sa che, avendo voluto Aureliano con
tutto il suo sforzo assalire que' Barbari verso Piacenza, costoro si
appiattarono nei boschi, e poi verso la sera si scagliarono addosso ai
Romani con tal furia, che li misero in rotta e ne fecero sì copiosa
strage, che si temè perduto l'imperio. In oltre si sa che questi loro
pregressi tal terrore e costernazione svegliarono in Roma, che ne
seguirono varie sedizioni, le quali, aggiunte agli altri guai, diedero
molta apprensione e sdegno ad Aureliano. Scrisse egli allora al
senato, riprendendolo perchè tanti riguardi, timori e dubbii avesse a
consultar i libri sibillini in occasione di tanta calamità e bisogno,
_quasi che_ (son parole della sua lettera) _essi fossero in una chiesa
di cristiani, e non già nel tempio di tutti gli dii_. Il decreto di
visitare i libri d'esse Sibille fu steso nel dì 11 di gennaio, cioè,
secondo il padre Pagi[2324], nel gennaio dell'anno presente. Ma non
può mai stare che Aureliano, come pensa il medesimo Pagi, fosse creato
imperadore in Sirmio sul principio di novembre dell'anno prossimo
passato, e che egli venisse a Roma, tornasse in Pannonia, riportasse
vittorie in più luoghi al Danubio, e dopo aver seguitato gli Alamanni,
o vogliam dire i Marcomanni e Giutunghi, mandasse gli ordini suddetti
a Roma: il tutto in due soli mesi. Chi sa come gl'imperadori non
marciavano per le poste, ma con gran corte, guardie e milizie, conosce
tosto che di più mesi abbisognarono tante imprese. Però convien dire
che Aureliano, siccome immaginò il Tillemont[2325], fu creato
imperadore nello aprile dell'anno precedente, in cui fece più guerre;
o pure che la calata in Italia dei Barbari appartiene all'anno
presente, per la qual poi nel dì 11 di gennaio dell'anno susseguente
vennero consultati in Roma i libri creduti delle Sibille, nei quali si
trovò che conveniva far molti sacrifizii crudeli, processioni ed altre
cerimonie praticate dalla superstizion de' pagani. A noi basterà,
giacchè non possiamo accertare i tempi di questi sì strepitosi
avvenimenti, che si rapporti il poco che sappiamo della continuazione
e del fine di tal guerra, tutto di seguito. Abbiamo da Aurelio
Vittore[2326] (perchè Vopisco qui ci abbandona) che Aureliano in tre
battaglie fu vincitore dei Barbari. L'una fu a Piacenza, che dee
essere diversa dalla raccontata da Vopisco: altrimenti l'un d'essi ha
fallato. La seconda fu data in vicinanza di Fano e del fiume Metauro,
segno che la giornata di Piacenza era stata favorevole ai Barbari, per
essersi eglino inoltrati cotanto verso Roma. La terza nelle campagne
di Pavia, che dovette sterminar affatto questi Barbari turbatori della
pace d'Italia: con che ebbe felice fine questa guerra. Allora
Aureliano mosse alla volta di Roma i suoi passi, non per portarvi
l'allegrezza d'un trionfo, ma per farvi sentire la sua severità, anzi
crudeltà. Imperocchè[2327], pien di furore per le sedizioni che nate
ivi dicemmo, con voce che fossero state tese insidie[2328] a lui
stesso e al governo, condannò a morte gli autori di quelle turbolenze.
Vopisco, tuttochè suo panegirista, confessa che egli troppo aspra e
rigorosa giustizia fece. E tanto più ne fu biasimato, perchè non
perdonò nè pure ad alcuni nobili senatori, fra' quali _Epitimio_,
_Urbano_ e _Domiziano_; ancorchè di poco momento fossero, e
meritassero perdono alcuni loro reati, e questi anche fondati nella
accusa di un sol testimonio. Prima era forse amato Aureliano; da lì
innanzi cominciò ad essere solamente temuto; e la gente dicea, non
altro essere da desiderare a lui che la morte, e _ch'egli era un buon
medico, ma che con mal garbo curava i malati_. Anche Giuliano
Augusto[2329] Apostata l'accusa di una barbarica crudeltà, ed Aurelio
Vittore[2330] con Eutropio[2331] cel rappresenta come uomo privo di
umanità e sanguinario, avendo egli levato di vita fino un figliuolo di
sua sorella. Tal sua barbarie pretende Ammiano[2332] che si stendesse
sotto varii pretesti, spezialmente sopra i ricchi, affine d'impinguar
l'erario, restato troppo esausto per le pazzie di Gallieno; e in tal
opinione concorre anche Vopisco[2333]. Fu in questi tempi che
Aureliano, considerata l'avidità dei Barbari, già scatenati contra
dell'imperio romano[2334], col consiglio del senato prese la
risoluzione di rifabbricar le mura rovinate di Roma, per poterla
difendere in ogni evento di pericoli e guerre. Idacio[2335] ne fa
menzione sotto questo anno. Ma Eusebio[2336], Cassiodoro[2337] ed
altri mettono ciò più tardi. Nella Cronica Alessandrina solamente se
ne parla all'anno seguente. Con questa occasione certo è che Aureliano
ampliò il circuito di Roma, scrivendo Vopisco che il giro d'essa città
arrivò allora a cinquanta miglia; opera sì grande nondimeno, secondo
Zosimo, fu solamente terminata sotto _Probo Augusto_.
NOTE:
[2310] Reinesius, Inscription., pag. 387.
[2311] Reland., in Fast. Consul.
[2312] Thesaurus Novus Inscript., pag. 367, n. 1.
[2313] Panvin., in Fast. Consul.
[2314] Vopiscus, in Aurelian.
[2315] Mediobarb., in Numismat. Imper.
[2316] Vopiscus, in Aurelian.
[2317] Stampa, ad Fast. Consul.
[2318] Vopiscus, in Aurelian.
[2319] Zosimus, lib. 1, cap. 48.
[2320] Vopiscus, in Aurelian.
[2321] Dexippus, de Legat., tom. I Hist. Byzantin.
[2322] Dexippus, de Legat., tom. I Hist. Byzantin.
[2323] Vopiscus, in Aurelian.
[2324] Pagius, in Critic. Baron.
[2325] Tillemont, Mémoires des Empereurs.
[2326] Aurelius Victor, in Epitome.
[2327] Vopiscus, in Aurel.
[2328] Zosimus, lib. 1, cap. 49.
[2329] Julianus, de Caesarib.
[2330] Aurelius Victor, in Epitome.
[2331] Eutrop., in Breviar.
[2332] Ammianus Marcellinus, lib. 30 Histor.
[2333] Vopiscus, in Aurelian.
[2334] Idem, ibidem.
[2335] Idacius, in Chronic.
[2336] Euseb., in Chronic.
[2337] Cassiodorus, in Chronico.
Anno di CRISTO CCLXXII. Indizione V.
FELICE papa 4.
AURELIANO imperadore 3.
_Consoli_
QUINTO e VELDUMIANO o sia VELDUMNIANO.
Domati i Barbari, e restituita la tranquillità all'Italia, due altre
importantissime imprese restavano da fare allo Augusto Aureliano.
_Tetrico_ occupava le Gallie e le Spagne. _Zenobia_ regina dei
Palmireni quasi tutte o tutte le provincie dell'Oriente occupava, ed
anche l'Egitto. Per varii motivi antepose Aureliano all'altra la
spedizion militare contro a Zenobia. Questa principessa, che
s'intitolava regina dell'Oriente, una delle più rinomate donne
dell'antichità, si trova chiamata in alcune medaglie[2338], che si
suppongono vere, _Settimia Zenobia Augusta_, quasichè ella discendesse
dalla famiglia di Settimio Severo Augusto; quando essa, secondo
Trebellio Pollione[2339], vantava di discendere dalla casa di
Cleopatra e dei re Tolomei. Santo Atanasio[2340] pretese ch'ella
seguitasse la religion de' Giudei, e favorisse per questo l'empio
Paolo Samosateno; e da Malala[2341] vien detta regina de' Saraceni.
Scrive il suddetto storico Pollione che in lei si ammirava una
bellezza incredibile, un spirito divino. Neri e vivacissimi i suoi
occhi, il colore fosco; non denti, ma perle pareano ornarle la bocca;
la voce soave e chiara, ma virile. Al bisogno uguagliava i tiranni
nella severità: superava nel resto la clemenza de' migliori principi.
Contro il costume delle donne sapeva conservare i tesori, ma non
lasciava di far risplendere la sua liberalità, ove lo richiedesse il
dovere. Nel portamento e ne' costumi non cedeva agli uomini, rade
volte uscendo in carrozza, spesso a cavallo, e più spesso facendo le
tre o quattro miglia a piedi, siccome persona allevata sempre nelle
caccie. Da _Odenato_ suo marito, che già dicemmo ucciso, non riceveva
le leggi, ma a lui le dava. Prese bensì da lui il titolo di _Augusta_,
dacchè egli fu dichiarato Augusto, e portava l'abito imperiale, a cui
aggiunse anche il diadema. Non sì tosto s'accorgeva essa d'esser
gravida, che non volea più commercio col marito. Il suo vivere era
alla persiana, cioè con singolar magnificenza, e volea essere
inchinata secondo lo stile praticato coi re persiani. A parlare al
popolo iva armata di corazza; pranzava sempre coi primi uffiziali
della sua armata, usando piatti d'oro e gemmati. Poche fanciulle,
molti eunuchi teneva al suo servigio; e l'impareggiabil sua castità,
tanto da maritata che da vedova, veniva decantata dappertutto.
_Aureliano_ stesso in una lettera al senato[2342] ne parla con elogio,
dicendo ch'essa non parea donna: tanta era la di lei prudenza ne'
consigli, la fermezza nell'eseguir le prese risoluzioni, e la gravità
con cui parlava ai soldati, di modo che non meno i popoli dell'Oriente
e dell'Egitto, a lei divenuti sudditi, che gli Arabi, i Saraceni e gli
Armeni non osavano di disubbidirla, o di voltarsi contro di lei: tanta
era la paura che ne aveano. A lei anche in buona parte si attribuivano
le gloriose azioni del fu Odenato suo marito contro ai Persiani. Nè
già le mancava il pregio delle lingue e della letteratura. Oltre al
suo nativo linguaggio fenicio o saracenico, perfettamente possedeva
l'egiziano, il greco e il latino, ma non s'arrischiava a parlare
questo ultimo. Ebbe per maestro nel greco il celebre _Longino_
filosofo, di cui resta un bel trattato del Sublime, e la cui morte
vedremo fra poco. Fece imparare a' suoi figliuoli il latino sì
fattamente, che poche volte e con difficoltà parlavano il greco. Sì
pratica fu della storia dell'Oriente e dell'Egitto, che si crede che
ne formasse un compendio. Al suo marito Odenato ella avea partorito
tre figliuoli, cioè _Herenniano_, _Timolao_ e _Vaballato_, a' quali
dopo la morte del padre ella fece prendere la porpora imperiale e il
titolo d'_Augusti_; ma perchè erano di età non per anche capace di
governo, essa in nome loro governava gli Stati. Un altro figliuolo
ebbe Odenato da una sua prima moglie, chiamato _Erode_ o pure
_Erodiano_[2343], che si trova nelle medaglie (non so se tutte
legittime) col titolo di Augusto, a lui dato dal padre, come anche
afferma Trebellio Pollione[2344]. Per cagione dell'esaltazion di
questo suo figliastro, fama era che Zenobia avesse fatto morire lui e
il marito _Odenato_, siccome accennai di sopra. Una tal testa, benchè
di donna, signoreggiante dallo stretto di Costantinopoli fino a tutto
l'Egitto, ed assistita da molti dei suoi vicini, potea dar suggezione
ad ogni altro potentato, ma non già ad Aureliano imperadore, che pel
suo coraggio e saggio contegno, teneva sempre le vittorie in pugno.
S'inviò dunque Aureliano da Roma con possente esercito verso l'Oriente
per la strada solita di que' tempi, cioè per terra alla volta di
Bisanzio, pel cui stretto si passava in Asia. Ma prima di giugnervi,
egli nettò[2345] l'Illirico, e poi la Tracia da tutti i nemici del
romano imperio, ch'erano tornati ad infestar quelle provincie. Scrive
Aurelio Vittore[2346] che a' tempi d'esso Aureliano un certo
_Settimio_ nella Dalmazia prese il titolo d'_imperadore_, e da lì a
poco ne pagò la pena, ammazzato da' suoi proprii soldati. Quando ciò
avvenisse, nol sappiamo. Per attestato bensì di Vopisco, Aureliano,
perchè _Cannabaude_ re e duca dei Goti dovea aver commesso delle
insolenze nel paese romano, passato il Danubio, l'andò a ricercar
nelle terre di lui; e datagli battaglia, lo uccise insieme con cinque
mila di que' Barbari combattenti. Probabilmente fu in questa
congiuntura ch'egli prese la carretta di quel re, tirata da quattro
cervi, su cui poscia entrò a suo tempo trionfante in Roma, siccome
diremo. Furono trovate nel campo barbarico molte donne estinte vestite
da soldati, e prese dieci di esse vive. Molte altre nobili donne di
nazione gotica rimasero prigioniere[2347], che Aureliano mandò dipoi a
Perinto, acciocchè ivi fossero mantenute alle spese del pubblico, non
già cadauna in particolare, ma sette insieme, acciocchè costasse meno
alla repubblica. Sbrigato da questi affari, marciò Aureliano a
Bisanzio, e passato lo stretto, al solo suo comparire ricuperò
Calcedone e la Bitinia, che Zenobia avea sottomesso al suo imperio.
Zosimo[2348] nondimeno asserisce aver la Bitinia scosso il giogo de'
Palmireni, fin quando udì esaltato al trono Aureliano. Ancira nella
Galazia sembra aver fatta qualche resistenza: certo è nondimeno che
Aureliano se ne impadronì. Giunto poscia che egli fu a Tiana, città
della Cappadocia[2349], vi trovò le porte serrate e preparato quel
popolo alla difesa. Dicono che Aureliano in collera gridasse: _Non
lascerò un cane in questa città._ Vopisco, grande ammiratore del morto
_Apollonio_, filosofo celebre, anzi mago, nativo di quella città, di
cui tanto egli come altri antichi raccontano varie maraviglie, cioè
molte favole, e che era tenuto da que' popoli per un dio: Vopisco,
dico, racconta ch'esso Apollonio comparve in sogno ad Aureliano, e lo
esortò alla clemenza, se gli premeva di vincere: parole che bastarono
a disarmare il di lui sdegno. Venne poi a trovarlo al campo
_Eraclammone_, uno dei più ricchi cittadini di Tiana, sperando di
farsi gran merito, col tradire la patria, e gl'insegnò un sito per cui
si poteva entrare nella città. Fu essa, mercè di questo avviso, presa
con facilità; e quando ognun si aspettava di darle il sacco, e di
farne man bassa contro gli abitanti, Aureliano ordinò che fosse ucciso
il solo traditore Eraclammone, con dire _che non si potea sperar
fedeltà da chi era stato infedele alla sua patria_; ma lasciò godere
ai di lui figliuoli tutta la eredità paterna, affinchè non si credesse
che lo avesse fatto morire per cogliere le molte di lui ricchezze.
Ricordata ad Aureliano la parola detta di non lasciare un cane in
Tiana: _Oh_, rispose, _ammazzino tutti i cani, che ne son contento_:
risposta applaudita fin dai medesimi soldati, benchè contraria alla
lor brama e speranza del sacco.
Se crediamo a Vopisco[2350], Aureliano, continuato il cammino, arrivò
ad Antiochia, capitale della Soria, e dopo una leggiera zuffa al luogo
di Dafne, entrò vittorioso in quella gran città; e ricordevole
dell'avvertimento datogli in sogno da Apollonio Tianeo, usò di sua
clemenza anche verso di que' cittadini. Passando dipoi ad Emesa, città
della Mesopotamia, quivi con una fiera battaglia decise le sue liti
con Zenobia. Ma Zosimo[2351] diversamente scrive. Zenobia con grandi
forze lo aspettò di piè fermo in Antiochia, e mandò incontro a lui la
poderosa armata sua sino ad Imma, città molte miglia distante di là.
Gran copia di arcieri si contava nello esercito di lei, e di questi
penuriava quel de' Romani. Avea inoltre Zenobia la sua numerosa
cavalleria armata tutta da capo a' piedi, laddove la romana non era
composta se non di cavalli leggieri. Aureliano, mastro di guerra,
osservato lo svantaggio, ordinò alla sua cavalleria di mostrar di
fuggire, tantochè la nemica in seguitarli si trovasse assai stanca pel
peso dell'armi, e che poi voltassero faccia, e menassero le mani. Così
fu fatto, e seguì un'orribile strage dei Palmireni. Eusebio[2352]
scrive che si segnalò in quella gran battaglia un generale de' Romani,
appellato _Pompeiano_ e cognominato _il Franco_, la cui famiglia
durava in Antiochia anche a' suoi dì. Non osavano i fuggitivi di
portarsi ad Antiochia[2353], per timore di non essere ammessi, o pur
di essere tagliati a pezzi da' cittadini, se si accorgevano della
rotta lor data; ma Zabda, o sia Zaba, lor generale, preso un uomo che
si rassomigliava ad Aureliano, e fatta precorrer voce che conduceva
prigioniere lo imperadore stesso, trovò aperte le porte, e quietò il
popolo. La notte seguente poi con Zenobia s'incamminò alla volta di
Emessa. Entrò il vincitore Aureliano in Antiochia, ricevuto con alte
acclamazioni da quegli abitanti, e perchè parecchi de' più facoltosi
si erano ritirati per paura dello sdegno imperiale, Aureliano pubblicò
tosto un bando di perdono a tutti; e questa sua benignità fece
ripatriar di buon grado ciascuno. Dopo aver dato buon ordine agli
affari di Antiochia, ripigliò Aureliano il suo viaggio verso Emesa,
dove s'era ridotta Zenobia. Trovato presso Dafne un corpo di Palmireni
che voleano disputargli il passo, ne uccise un gran numero. Apamea,
Larissa ed Aretusa nel viaggio vennero alla sua ubbidienza[2354].
Consisteva tuttavia l'armata di Zenobia in settanta mila combattenti
sotto il comando di Zabda. Si venne dunque ad una altra campale
giornata, che sulle prime fu o parve svantaggiosa ai Romani, perchè
parte della lor cavalleria o per forza o consigliatamente piegò. Ma
mentre la inseguivano i Palmireni, la fanteria romana di fianco gli
assalì, e ne fece gran macello, non giovando loro l'essere tutti
armati di ferro, perchè i Romani colle mazze li tempestavano e
rovesciavano a terra. Piena di cadaveri restò quella campagna. Zenobia
con gran fretta se ne fuggì, ritirandosi a Palmira; ed Aureliano fu
ricevuto con plauso giulivo in Emesa, dove rendè grazie al dio
Elagabalo, creduto autore di quella vittoria; e dopo aver presi e
vagheggiati con piacere i tesori che Zenobia non avea avuto tempo di
asportare, marciò con diligenza alla volta di Palmira, città
fabbricata da Salomone ne' deserti della Soria, o sia della Fenicia,
ed assai ricca pel commercio che faceva co' Romani e Persiani. Nel
cammino fu più volte in pericolo, e riportò gravi danni l'armata sua
dagli assassini soriani. Pur, giunto a Palmira, la strinse d'assedio.
S'egli in questo o pur nel seguente anno riducesse a fine sì grande
impresa, per mancanza di lumi non si può ora decidere. Sia lecito a me
il differirne il racconto al seguente.
NOTE:
[2338] Spanhemius, de Usu et Praestant. Numismat. Patinus, Num.
Mediob., Numismat. Imp.
[2339] Trebellius Pollio, in Trig. Tyrann., c. 29.
[2340] Athanasius, in Histor.
[2341] Johannes Malala, in Chronogr.
[2342] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.
[2343] Goltzius. Tristanus. Mediob., in Numism. Imper.
[2344] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.
[2345] Vopiscus, in Aurel.
[2346] Aurelius Victor, in Epitome.
[2347] Vopiscus, in Bonoso.
[2348] Zosimus, lib. 1, cap. 50.
[2349] Vopiscus, in Bonoso.
[2350] Vopiscus, in Aurelian.
[2351] Zosimus, lib. 1, cap. 50.
[2352] Eusebius, in Chronic.
[2353] Zosimus, lib. 1, cap. 50.
[2354] Vopiscus, in Aurel. Zosim., lib. 1, cap. 52.
Anno di CRISTO CCLXXIII. Indizione VI.
FELICE papa 5.
AURELIANO imperadore 4.
_Consoli_
MARCO CLAUDIO TACITO e PLACIDIANO.
A _Tacito_ primo console in quest'anno, perchè vien comunemente
creduto lo stesso che vedremo poi imperadore, gl'illustratori de'
Fasti danno il nome di _Marco Claudio_. Benchè vi possa restar qualche
dubbio, pure io mi son lasciato condurre dalla corrente. L'assedio di
Palmira, siccome dicemmo, fu impreso da Aureliano con gran calore; ma
_Consoli_
LUCIO DOMIZIO AURELIANO AUGUSTO e BASSO per la seconda volta.
Il padre Pagi, il Relando ed altri ci danno _Aureliano_ imperadore
_console per la seconda volta_, ma con fondamenti poco stabili, a mio
credere. Si suppone che Aureliano nell'anno 259 fosse console
sostituito; e di questo niuna certezza apparisce. Sono citate due
iscrizioni; l'una ligoriana, pubblicata dal Reinesio[2310], e l'altra
data alla luce dal Relando[2311], e presa dal Gudio; cioè due
monumenti che patiscono varie eccezioni, e vengono da fonti che non
possono servire a darci limpida e sicura la verità. All'incontro tutti
i Fasti consolari antichi ci presentano sotto l'anno corrente
_Aureliano console_, ma senza la nota del consolato secondo.
Altrettanto troviamo nelle iscrizioni di questo o de' seguenti anni,
tutte conformi in mettere questo pel primo consolato di Aureliano. Una
anch'io ne ho prodotta[2312] non diversa dalle altre. _Pomponio Basso_
fu creduto dal Panvinio[2313] il secondo console, perchè sotto Claudio
si truova un riguardevol senatore di questo nome: conghiettura troppo
debole. Dai susseguenti illustratori de' Fasti vien egli chiamato
_Numerio_ o pur _Marco Ceionio Virio Basso_; ma con aver succiato nomi
tali dalle due suddette non affatto sicure iscrizioni. Per altro si
truova un _Ceionio Basso_[2314], a cui Aureliano scrisse una lettera,
ma senza segno ch'egli fosse stato console. Il perchè a maggior
precauzione non l'ho io appellato se non col solo cognome di _Basso_.
L'imperador novello Aureliano nelle monete[2315] parlanti di lui vien
chiamato _Lucio Domizio Aureliano_. Si può dubitare che sia un fallo
in alcune l'esser chiamato _Claudio Domizio Aureliano_, e che in vece
d'IMP. CL. DOM., ec., s'abbia a leggere IMP. C. L. DOM., cioè _Cesare
Lucio_, ec., come nell'altre. Il cardinal Noris e il padre Pagi
credettero che la vera sua famiglia fosse la _Valeria_, perchè,
scrivendogli una lettera Claudio imperadore, il chiama _Valerio
Aureliano_, e nell'iscrizione ligoriana, che dissi pubblicata dal
Reinesio, egli porta il medesimo nome. Ma se fosse guasto il testo di
Vopisco[2316]? Poichè quanto a quella iscrizione, torno a dire ch'essa
non è atta a decidere le controversie. Tanto nelle medaglie che nelle
antiche iscrizioni, altro nome, siccome dissi, non vien dato a questo
imperadore, che quello di _Lucio Domizio Aureliano_, e a questo
conviene attenersi. E se altri[2317] il chiama Flavio Claudio Valerio,
non v'è obbligazione di seguitarlo. Non ebbe difficoltà Vopisco di
confessare che _Aureliano_ sortì nascita bassa ed oscura nella città
di Sirmio, ovvero nella Dacia Ripense. Ma si fece egli largo colla sua
prudenza e valore nella milizia, e di grado in grado salendo, sempre
più guadagnò di plauso e di credito. Bello era il suo aspetto, alta la
statura, non ordinaria la robustezza. Nel bere, mangiare e in altri
piaceri del corpo, in lui si osservava una gran moderazione[2318]. La
sua severità e il rigore nella militar disciplina, quasi andava
all'eccesso. Denunziato a lui un soldato che avea commesso adulterio
colla moglie del suo albergatore, ordinò che si piegassero due forte
rami d'un albero, all'un de' quali fosse legato l'un piede del
delinquente, e l'altro all'altro, e che poi si lasciassero andare i
rami. Lo spettacolo di quel misero spaccato in due parti gran terrore
infuse negli altri. Ebbe principio la fortuna sua sotto Valeriano
Augusto; Gallieno ne mostrò altissima stima; e più di lui Claudio. In
varie cariche militari riportò vittorie contra de' Franchi, de'
Sarmati, de' Goti. Teneva mirabilmente in briglia le sue soldatesche,
e, ciò non ostante, sapea farsi amare dalle medesime. Merita d'essere
qui rammentata una lettera di lui, scritta ad un suo luogotenente, ove
dice: _Se vuoi essere tribuno, anzi, se t'è caro di vivere, tieni in
dovere le mani de' soldati. Niun d'essi rapisca i polli altrui, niuno
tocchi le altrui pecore. Sia proibito il rubar le uve, il far danno ai
seminati, e l'esigere dalla gente olio, sale e legna, dovendo ognuno
contentarsi della provvisione del principe. Si hanno i soldati a
rallegrar del bottino fatto sopra i nemici, e non già delle lagrime
de' sudditi romani. Cadauno abbia l'armi sue ben terse, le spade ben
aguzze ed affilate, e le scarpe ben cucite. Alle vesti fruste
succedono le nuove. Mettano la paga nella tasca, e non già
nell'osteria. Ognun porti la sua collana, il suo anello, il suo
bracciale, e nol venda o giuochi. Si governi e freghi il cavallo, ed
il giumento per le bagaglie; e così ancora il mulo comune della
compagnia; e non si venda la biada lor destinata. L'uno all'altro
presti aiuto, come se fosse un servo. Non han da pagare il medico. Non
gettino il danaro in consultar indovini. Vivano costantemente negli
alloggi, e se attaccheran lite, loro non manchi un regalo di buone
bastonate._ Bene sarebbe che alcun generale od uffiziale de' nostri
tempi studiasse questa sì lodevol lezione, saputa dai gentili, e
talvolta ignorata dai cristiani. Moglie di Aureliano imperadore fu
_Ulpia Severina_, la quale non si sa che procreasse altro che una
figliuola, i cui discendenti viveano a' tempi di Vopisco.
Ora da che fu creato imperadore _Aureliano_, se dice il vero
Zosimo[2319], egli sen venne a Roma, e, dopo aver quivi bene
assicurata la sua autorità, di colà mosse, e per la via d'Aquileia
passò nella Pannonia, che era gravemente infestata dagli Sciti, o sia
dai Goti. Mandò innanzi ordine che si ritirassero nelle città e ne'
luoghi i viveri e i foraggi, affinchè la fame fosse la prima a far
guerra ai nemici. Comparvero, ciò non ostante, di qua dal Danubio i
Barbari, e bisognò venire ad un fatto d'armi. Senza sapersi chi
restasse vincitore, la sera separò le armate, e fatta notte, i nemici
si ritirarono di là dal fiume. La seguente mattina ecco i loro
ambasciatori ad Aureliano per trattar di pace. Se la concludessero,
nol dice Zosimo: e sembra che no, perchè partito Aureliano, e lasciato
un buon corpo di gente in quelle parti, furono alcune migliaia di que'
Barbari tagliate a pezzi. Il motivo per cui si mise in viaggio
Aureliano, fu la minaccia de' popoli, che Vopisco[2320] chiama
Marcomanni, e Desippo[2321] storico Giutunghi, di calare in Italia; se
pur de' medesimi fatti e popoli parlano i suddetti due scrittori.
Secondo Desippo, Aureliano, portatosi al Danubio contro ai Giutunghi
Sciti, diede loro una sanguinosa rotta; e, passato anche il Danubio,
fu loro addosso, e ne fece un buon macello, talmente che i restanti
mandarono deputati ad Aureliano per chieder pace. Fece Aureliano
metter in armi e in ordinanza il suo esercito, e per dare a quei
Barbari una idea della grandezza romana, vestito di porpora andò a
sedere in un alto trono in mezzo del campo, con tutti gli uffiziali a
cavallo, divisi in più schiere intorno a lui, e colle bandiere ed
insegne, portanti l'aquile d'oro e le immagini del principe poste in
fila dietro al suo trono. Parlarono que' deputati con gran fermezza,
chiedendo la pace, ma non da vinti; rammentando allo imperadore
ch'erano giornaliere le fortune e sfortune nelle guerre; ed esaltando
la loro bravura, giunsero a dire d'aver quaranta mila cavalieri della
sola nazion de' Giutunghi, ed anche maggior numero di fanti, e d'esser
nondimeno disposti alla pace, purchè loro si dessero i regali
consueti, e quell'oro ed argento che si praticava prima d'aver rotta
la pace. Aureliano con gravità loro rispose, che dopo aver eglino col
muover guerra mancato ai trattati, non conveniva loro il dimandar
grazie e presenti; e toccare a lui, e non a loro, il dar le condizioni
della pace; che pensassero a quanto era avvenuto ai trecento mila
Sciti, o Goti, che ultimamente aveano osato molestar le contrade
dell'Europa e dell'Asia; e che i Romani non sarebbono mai soddisfatti,
se non passavano il Danubio, per punirli nel loro paese. Con questa
disgustosa risposta furono rimandati quegli ambasciatori. Per
attestato del medesimo Desippo[2322], autore poco lontano da questi
tempi, anche i Vandali mossero guerra al romano imperio, gente anche
essi della Tartaria; ma una gran rotta loro data dall'esercito fece
ben tosto smontare il loro orgoglio, ed inviar ambasciatori ad
Aureliano per far pace e lega. Volle Aureliano udire intorno a ciò il
parere dell'armata; e la risposta generale fu, che avendo que' Barbari
esibite condizioni onorevoli, ben era il finir quella guerra. Così fu
fatto. Diedero i Vandali gli ostaggi all'imperadore, e due mila
cavalli ausiliarii all'armata romana; gli altri se ne tornarono alle
loro case con quiete. E perchè cinquecento d'essi vennero dipoi a
bottinar nelle terre romane, il re loro, per mantenere i patti, li
fece tutti mettere a fil di spada.
Mentre si trovava Aureliano impegnato contra d'essi Vandali, ecco
giugnergli nuova che una nuova armata di Giutunghi era in moto verso
l'Italia. Mandò egli innanzi la maggior parte dell'esercito suo, e
poscia col resto frettolosamente anch'egli marciò per impedire la lor
calata; ma non fu a tempo. Costoro più presti di lui penetrarono in
Italia, e recarono infiniti mali al distretto di Milano. Vopisco[2323]
li chiama Svevi, Sarmati, Marcomanni, e si può temere che sieno
confuse le azioni, e replicate le già dette di sopra. Comunque sia,
per le cose che succederono, convien dire che non fossero lievi le
forze e il numero di costoro. E si sa che, avendo voluto Aureliano con
tutto il suo sforzo assalire que' Barbari verso Piacenza, costoro si
appiattarono nei boschi, e poi verso la sera si scagliarono addosso ai
Romani con tal furia, che li misero in rotta e ne fecero sì copiosa
strage, che si temè perduto l'imperio. In oltre si sa che questi loro
pregressi tal terrore e costernazione svegliarono in Roma, che ne
seguirono varie sedizioni, le quali, aggiunte agli altri guai, diedero
molta apprensione e sdegno ad Aureliano. Scrisse egli allora al
senato, riprendendolo perchè tanti riguardi, timori e dubbii avesse a
consultar i libri sibillini in occasione di tanta calamità e bisogno,
_quasi che_ (son parole della sua lettera) _essi fossero in una chiesa
di cristiani, e non già nel tempio di tutti gli dii_. Il decreto di
visitare i libri d'esse Sibille fu steso nel dì 11 di gennaio, cioè,
secondo il padre Pagi[2324], nel gennaio dell'anno presente. Ma non
può mai stare che Aureliano, come pensa il medesimo Pagi, fosse creato
imperadore in Sirmio sul principio di novembre dell'anno prossimo
passato, e che egli venisse a Roma, tornasse in Pannonia, riportasse
vittorie in più luoghi al Danubio, e dopo aver seguitato gli Alamanni,
o vogliam dire i Marcomanni e Giutunghi, mandasse gli ordini suddetti
a Roma: il tutto in due soli mesi. Chi sa come gl'imperadori non
marciavano per le poste, ma con gran corte, guardie e milizie, conosce
tosto che di più mesi abbisognarono tante imprese. Però convien dire
che Aureliano, siccome immaginò il Tillemont[2325], fu creato
imperadore nello aprile dell'anno precedente, in cui fece più guerre;
o pure che la calata in Italia dei Barbari appartiene all'anno
presente, per la qual poi nel dì 11 di gennaio dell'anno susseguente
vennero consultati in Roma i libri creduti delle Sibille, nei quali si
trovò che conveniva far molti sacrifizii crudeli, processioni ed altre
cerimonie praticate dalla superstizion de' pagani. A noi basterà,
giacchè non possiamo accertare i tempi di questi sì strepitosi
avvenimenti, che si rapporti il poco che sappiamo della continuazione
e del fine di tal guerra, tutto di seguito. Abbiamo da Aurelio
Vittore[2326] (perchè Vopisco qui ci abbandona) che Aureliano in tre
battaglie fu vincitore dei Barbari. L'una fu a Piacenza, che dee
essere diversa dalla raccontata da Vopisco: altrimenti l'un d'essi ha
fallato. La seconda fu data in vicinanza di Fano e del fiume Metauro,
segno che la giornata di Piacenza era stata favorevole ai Barbari, per
essersi eglino inoltrati cotanto verso Roma. La terza nelle campagne
di Pavia, che dovette sterminar affatto questi Barbari turbatori della
pace d'Italia: con che ebbe felice fine questa guerra. Allora
Aureliano mosse alla volta di Roma i suoi passi, non per portarvi
l'allegrezza d'un trionfo, ma per farvi sentire la sua severità, anzi
crudeltà. Imperocchè[2327], pien di furore per le sedizioni che nate
ivi dicemmo, con voce che fossero state tese insidie[2328] a lui
stesso e al governo, condannò a morte gli autori di quelle turbolenze.
Vopisco, tuttochè suo panegirista, confessa che egli troppo aspra e
rigorosa giustizia fece. E tanto più ne fu biasimato, perchè non
perdonò nè pure ad alcuni nobili senatori, fra' quali _Epitimio_,
_Urbano_ e _Domiziano_; ancorchè di poco momento fossero, e
meritassero perdono alcuni loro reati, e questi anche fondati nella
accusa di un sol testimonio. Prima era forse amato Aureliano; da lì
innanzi cominciò ad essere solamente temuto; e la gente dicea, non
altro essere da desiderare a lui che la morte, e _ch'egli era un buon
medico, ma che con mal garbo curava i malati_. Anche Giuliano
Augusto[2329] Apostata l'accusa di una barbarica crudeltà, ed Aurelio
Vittore[2330] con Eutropio[2331] cel rappresenta come uomo privo di
umanità e sanguinario, avendo egli levato di vita fino un figliuolo di
sua sorella. Tal sua barbarie pretende Ammiano[2332] che si stendesse
sotto varii pretesti, spezialmente sopra i ricchi, affine d'impinguar
l'erario, restato troppo esausto per le pazzie di Gallieno; e in tal
opinione concorre anche Vopisco[2333]. Fu in questi tempi che
Aureliano, considerata l'avidità dei Barbari, già scatenati contra
dell'imperio romano[2334], col consiglio del senato prese la
risoluzione di rifabbricar le mura rovinate di Roma, per poterla
difendere in ogni evento di pericoli e guerre. Idacio[2335] ne fa
menzione sotto questo anno. Ma Eusebio[2336], Cassiodoro[2337] ed
altri mettono ciò più tardi. Nella Cronica Alessandrina solamente se
ne parla all'anno seguente. Con questa occasione certo è che Aureliano
ampliò il circuito di Roma, scrivendo Vopisco che il giro d'essa città
arrivò allora a cinquanta miglia; opera sì grande nondimeno, secondo
Zosimo, fu solamente terminata sotto _Probo Augusto_.
NOTE:
[2310] Reinesius, Inscription., pag. 387.
[2311] Reland., in Fast. Consul.
[2312] Thesaurus Novus Inscript., pag. 367, n. 1.
[2313] Panvin., in Fast. Consul.
[2314] Vopiscus, in Aurelian.
[2315] Mediobarb., in Numismat. Imper.
[2316] Vopiscus, in Aurelian.
[2317] Stampa, ad Fast. Consul.
[2318] Vopiscus, in Aurelian.
[2319] Zosimus, lib. 1, cap. 48.
[2320] Vopiscus, in Aurelian.
[2321] Dexippus, de Legat., tom. I Hist. Byzantin.
[2322] Dexippus, de Legat., tom. I Hist. Byzantin.
[2323] Vopiscus, in Aurelian.
[2324] Pagius, in Critic. Baron.
[2325] Tillemont, Mémoires des Empereurs.
[2326] Aurelius Victor, in Epitome.
[2327] Vopiscus, in Aurel.
[2328] Zosimus, lib. 1, cap. 49.
[2329] Julianus, de Caesarib.
[2330] Aurelius Victor, in Epitome.
[2331] Eutrop., in Breviar.
[2332] Ammianus Marcellinus, lib. 30 Histor.
[2333] Vopiscus, in Aurelian.
[2334] Idem, ibidem.
[2335] Idacius, in Chronic.
[2336] Euseb., in Chronic.
[2337] Cassiodorus, in Chronico.
Anno di CRISTO CCLXXII. Indizione V.
FELICE papa 4.
AURELIANO imperadore 3.
_Consoli_
QUINTO e VELDUMIANO o sia VELDUMNIANO.
Domati i Barbari, e restituita la tranquillità all'Italia, due altre
importantissime imprese restavano da fare allo Augusto Aureliano.
_Tetrico_ occupava le Gallie e le Spagne. _Zenobia_ regina dei
Palmireni quasi tutte o tutte le provincie dell'Oriente occupava, ed
anche l'Egitto. Per varii motivi antepose Aureliano all'altra la
spedizion militare contro a Zenobia. Questa principessa, che
s'intitolava regina dell'Oriente, una delle più rinomate donne
dell'antichità, si trova chiamata in alcune medaglie[2338], che si
suppongono vere, _Settimia Zenobia Augusta_, quasichè ella discendesse
dalla famiglia di Settimio Severo Augusto; quando essa, secondo
Trebellio Pollione[2339], vantava di discendere dalla casa di
Cleopatra e dei re Tolomei. Santo Atanasio[2340] pretese ch'ella
seguitasse la religion de' Giudei, e favorisse per questo l'empio
Paolo Samosateno; e da Malala[2341] vien detta regina de' Saraceni.
Scrive il suddetto storico Pollione che in lei si ammirava una
bellezza incredibile, un spirito divino. Neri e vivacissimi i suoi
occhi, il colore fosco; non denti, ma perle pareano ornarle la bocca;
la voce soave e chiara, ma virile. Al bisogno uguagliava i tiranni
nella severità: superava nel resto la clemenza de' migliori principi.
Contro il costume delle donne sapeva conservare i tesori, ma non
lasciava di far risplendere la sua liberalità, ove lo richiedesse il
dovere. Nel portamento e ne' costumi non cedeva agli uomini, rade
volte uscendo in carrozza, spesso a cavallo, e più spesso facendo le
tre o quattro miglia a piedi, siccome persona allevata sempre nelle
caccie. Da _Odenato_ suo marito, che già dicemmo ucciso, non riceveva
le leggi, ma a lui le dava. Prese bensì da lui il titolo di _Augusta_,
dacchè egli fu dichiarato Augusto, e portava l'abito imperiale, a cui
aggiunse anche il diadema. Non sì tosto s'accorgeva essa d'esser
gravida, che non volea più commercio col marito. Il suo vivere era
alla persiana, cioè con singolar magnificenza, e volea essere
inchinata secondo lo stile praticato coi re persiani. A parlare al
popolo iva armata di corazza; pranzava sempre coi primi uffiziali
della sua armata, usando piatti d'oro e gemmati. Poche fanciulle,
molti eunuchi teneva al suo servigio; e l'impareggiabil sua castità,
tanto da maritata che da vedova, veniva decantata dappertutto.
_Aureliano_ stesso in una lettera al senato[2342] ne parla con elogio,
dicendo ch'essa non parea donna: tanta era la di lei prudenza ne'
consigli, la fermezza nell'eseguir le prese risoluzioni, e la gravità
con cui parlava ai soldati, di modo che non meno i popoli dell'Oriente
e dell'Egitto, a lei divenuti sudditi, che gli Arabi, i Saraceni e gli
Armeni non osavano di disubbidirla, o di voltarsi contro di lei: tanta
era la paura che ne aveano. A lei anche in buona parte si attribuivano
le gloriose azioni del fu Odenato suo marito contro ai Persiani. Nè
già le mancava il pregio delle lingue e della letteratura. Oltre al
suo nativo linguaggio fenicio o saracenico, perfettamente possedeva
l'egiziano, il greco e il latino, ma non s'arrischiava a parlare
questo ultimo. Ebbe per maestro nel greco il celebre _Longino_
filosofo, di cui resta un bel trattato del Sublime, e la cui morte
vedremo fra poco. Fece imparare a' suoi figliuoli il latino sì
fattamente, che poche volte e con difficoltà parlavano il greco. Sì
pratica fu della storia dell'Oriente e dell'Egitto, che si crede che
ne formasse un compendio. Al suo marito Odenato ella avea partorito
tre figliuoli, cioè _Herenniano_, _Timolao_ e _Vaballato_, a' quali
dopo la morte del padre ella fece prendere la porpora imperiale e il
titolo d'_Augusti_; ma perchè erano di età non per anche capace di
governo, essa in nome loro governava gli Stati. Un altro figliuolo
ebbe Odenato da una sua prima moglie, chiamato _Erode_ o pure
_Erodiano_[2343], che si trova nelle medaglie (non so se tutte
legittime) col titolo di Augusto, a lui dato dal padre, come anche
afferma Trebellio Pollione[2344]. Per cagione dell'esaltazion di
questo suo figliastro, fama era che Zenobia avesse fatto morire lui e
il marito _Odenato_, siccome accennai di sopra. Una tal testa, benchè
di donna, signoreggiante dallo stretto di Costantinopoli fino a tutto
l'Egitto, ed assistita da molti dei suoi vicini, potea dar suggezione
ad ogni altro potentato, ma non già ad Aureliano imperadore, che pel
suo coraggio e saggio contegno, teneva sempre le vittorie in pugno.
S'inviò dunque Aureliano da Roma con possente esercito verso l'Oriente
per la strada solita di que' tempi, cioè per terra alla volta di
Bisanzio, pel cui stretto si passava in Asia. Ma prima di giugnervi,
egli nettò[2345] l'Illirico, e poi la Tracia da tutti i nemici del
romano imperio, ch'erano tornati ad infestar quelle provincie. Scrive
Aurelio Vittore[2346] che a' tempi d'esso Aureliano un certo
_Settimio_ nella Dalmazia prese il titolo d'_imperadore_, e da lì a
poco ne pagò la pena, ammazzato da' suoi proprii soldati. Quando ciò
avvenisse, nol sappiamo. Per attestato bensì di Vopisco, Aureliano,
perchè _Cannabaude_ re e duca dei Goti dovea aver commesso delle
insolenze nel paese romano, passato il Danubio, l'andò a ricercar
nelle terre di lui; e datagli battaglia, lo uccise insieme con cinque
mila di que' Barbari combattenti. Probabilmente fu in questa
congiuntura ch'egli prese la carretta di quel re, tirata da quattro
cervi, su cui poscia entrò a suo tempo trionfante in Roma, siccome
diremo. Furono trovate nel campo barbarico molte donne estinte vestite
da soldati, e prese dieci di esse vive. Molte altre nobili donne di
nazione gotica rimasero prigioniere[2347], che Aureliano mandò dipoi a
Perinto, acciocchè ivi fossero mantenute alle spese del pubblico, non
già cadauna in particolare, ma sette insieme, acciocchè costasse meno
alla repubblica. Sbrigato da questi affari, marciò Aureliano a
Bisanzio, e passato lo stretto, al solo suo comparire ricuperò
Calcedone e la Bitinia, che Zenobia avea sottomesso al suo imperio.
Zosimo[2348] nondimeno asserisce aver la Bitinia scosso il giogo de'
Palmireni, fin quando udì esaltato al trono Aureliano. Ancira nella
Galazia sembra aver fatta qualche resistenza: certo è nondimeno che
Aureliano se ne impadronì. Giunto poscia che egli fu a Tiana, città
della Cappadocia[2349], vi trovò le porte serrate e preparato quel
popolo alla difesa. Dicono che Aureliano in collera gridasse: _Non
lascerò un cane in questa città._ Vopisco, grande ammiratore del morto
_Apollonio_, filosofo celebre, anzi mago, nativo di quella città, di
cui tanto egli come altri antichi raccontano varie maraviglie, cioè
molte favole, e che era tenuto da que' popoli per un dio: Vopisco,
dico, racconta ch'esso Apollonio comparve in sogno ad Aureliano, e lo
esortò alla clemenza, se gli premeva di vincere: parole che bastarono
a disarmare il di lui sdegno. Venne poi a trovarlo al campo
_Eraclammone_, uno dei più ricchi cittadini di Tiana, sperando di
farsi gran merito, col tradire la patria, e gl'insegnò un sito per cui
si poteva entrare nella città. Fu essa, mercè di questo avviso, presa
con facilità; e quando ognun si aspettava di darle il sacco, e di
farne man bassa contro gli abitanti, Aureliano ordinò che fosse ucciso
il solo traditore Eraclammone, con dire _che non si potea sperar
fedeltà da chi era stato infedele alla sua patria_; ma lasciò godere
ai di lui figliuoli tutta la eredità paterna, affinchè non si credesse
che lo avesse fatto morire per cogliere le molte di lui ricchezze.
Ricordata ad Aureliano la parola detta di non lasciare un cane in
Tiana: _Oh_, rispose, _ammazzino tutti i cani, che ne son contento_:
risposta applaudita fin dai medesimi soldati, benchè contraria alla
lor brama e speranza del sacco.
Se crediamo a Vopisco[2350], Aureliano, continuato il cammino, arrivò
ad Antiochia, capitale della Soria, e dopo una leggiera zuffa al luogo
di Dafne, entrò vittorioso in quella gran città; e ricordevole
dell'avvertimento datogli in sogno da Apollonio Tianeo, usò di sua
clemenza anche verso di que' cittadini. Passando dipoi ad Emesa, città
della Mesopotamia, quivi con una fiera battaglia decise le sue liti
con Zenobia. Ma Zosimo[2351] diversamente scrive. Zenobia con grandi
forze lo aspettò di piè fermo in Antiochia, e mandò incontro a lui la
poderosa armata sua sino ad Imma, città molte miglia distante di là.
Gran copia di arcieri si contava nello esercito di lei, e di questi
penuriava quel de' Romani. Avea inoltre Zenobia la sua numerosa
cavalleria armata tutta da capo a' piedi, laddove la romana non era
composta se non di cavalli leggieri. Aureliano, mastro di guerra,
osservato lo svantaggio, ordinò alla sua cavalleria di mostrar di
fuggire, tantochè la nemica in seguitarli si trovasse assai stanca pel
peso dell'armi, e che poi voltassero faccia, e menassero le mani. Così
fu fatto, e seguì un'orribile strage dei Palmireni. Eusebio[2352]
scrive che si segnalò in quella gran battaglia un generale de' Romani,
appellato _Pompeiano_ e cognominato _il Franco_, la cui famiglia
durava in Antiochia anche a' suoi dì. Non osavano i fuggitivi di
portarsi ad Antiochia[2353], per timore di non essere ammessi, o pur
di essere tagliati a pezzi da' cittadini, se si accorgevano della
rotta lor data; ma Zabda, o sia Zaba, lor generale, preso un uomo che
si rassomigliava ad Aureliano, e fatta precorrer voce che conduceva
prigioniere lo imperadore stesso, trovò aperte le porte, e quietò il
popolo. La notte seguente poi con Zenobia s'incamminò alla volta di
Emessa. Entrò il vincitore Aureliano in Antiochia, ricevuto con alte
acclamazioni da quegli abitanti, e perchè parecchi de' più facoltosi
si erano ritirati per paura dello sdegno imperiale, Aureliano pubblicò
tosto un bando di perdono a tutti; e questa sua benignità fece
ripatriar di buon grado ciascuno. Dopo aver dato buon ordine agli
affari di Antiochia, ripigliò Aureliano il suo viaggio verso Emesa,
dove s'era ridotta Zenobia. Trovato presso Dafne un corpo di Palmireni
che voleano disputargli il passo, ne uccise un gran numero. Apamea,
Larissa ed Aretusa nel viaggio vennero alla sua ubbidienza[2354].
Consisteva tuttavia l'armata di Zenobia in settanta mila combattenti
sotto il comando di Zabda. Si venne dunque ad una altra campale
giornata, che sulle prime fu o parve svantaggiosa ai Romani, perchè
parte della lor cavalleria o per forza o consigliatamente piegò. Ma
mentre la inseguivano i Palmireni, la fanteria romana di fianco gli
assalì, e ne fece gran macello, non giovando loro l'essere tutti
armati di ferro, perchè i Romani colle mazze li tempestavano e
rovesciavano a terra. Piena di cadaveri restò quella campagna. Zenobia
con gran fretta se ne fuggì, ritirandosi a Palmira; ed Aureliano fu
ricevuto con plauso giulivo in Emesa, dove rendè grazie al dio
Elagabalo, creduto autore di quella vittoria; e dopo aver presi e
vagheggiati con piacere i tesori che Zenobia non avea avuto tempo di
asportare, marciò con diligenza alla volta di Palmira, città
fabbricata da Salomone ne' deserti della Soria, o sia della Fenicia,
ed assai ricca pel commercio che faceva co' Romani e Persiani. Nel
cammino fu più volte in pericolo, e riportò gravi danni l'armata sua
dagli assassini soriani. Pur, giunto a Palmira, la strinse d'assedio.
S'egli in questo o pur nel seguente anno riducesse a fine sì grande
impresa, per mancanza di lumi non si può ora decidere. Sia lecito a me
il differirne il racconto al seguente.
NOTE:
[2338] Spanhemius, de Usu et Praestant. Numismat. Patinus, Num.
Mediob., Numismat. Imp.
[2339] Trebellius Pollio, in Trig. Tyrann., c. 29.
[2340] Athanasius, in Histor.
[2341] Johannes Malala, in Chronogr.
[2342] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.
[2343] Goltzius. Tristanus. Mediob., in Numism. Imper.
[2344] Trebellius Pollio, in Triginta Tyran., c. 29.
[2345] Vopiscus, in Aurel.
[2346] Aurelius Victor, in Epitome.
[2347] Vopiscus, in Bonoso.
[2348] Zosimus, lib. 1, cap. 50.
[2349] Vopiscus, in Bonoso.
[2350] Vopiscus, in Aurelian.
[2351] Zosimus, lib. 1, cap. 50.
[2352] Eusebius, in Chronic.
[2353] Zosimus, lib. 1, cap. 50.
[2354] Vopiscus, in Aurel. Zosim., lib. 1, cap. 52.
Anno di CRISTO CCLXXIII. Indizione VI.
FELICE papa 5.
AURELIANO imperadore 4.
_Consoli_
MARCO CLAUDIO TACITO e PLACIDIANO.
A _Tacito_ primo console in quest'anno, perchè vien comunemente
creduto lo stesso che vedremo poi imperadore, gl'illustratori de'
Fasti danno il nome di _Marco Claudio_. Benchè vi possa restar qualche
dubbio, pure io mi son lasciato condurre dalla corrente. L'assedio di
Palmira, siccome dicemmo, fu impreso da Aureliano con gran calore; ma
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