Annali d'Italia, vol. 1 - 23
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Anzi neppure osava di riprenderlo in faccia; ma solamente con qualche
comune amico talora sfogandosi, disapprovava la di lui maniera di
vivere, e diceva: _Son pur uomo anch'io:_ tutto acciocchè gli fosse
riferito, per desiderio che si emendasse[498]. Fu anche dagli amici
consigliato Vespasiano di guardarsi da _Melio Pomposiano_; perchè egli
fatto prendere il proprio oroscopo, si vantava che sarebbe un dì
imperadore. Lungi dal fargli male, Vespasiano il creò console (noi non
ne sappiamo l'anno) dicendo più probabilmente per burla che da senno;
_Costui si ricorderà un giorno del bene che gli ho fatto_. Dedicò esso
Augusto, cioè fece la solennità di aprire e consecrare il tempio della
Pace, da lui fabbricato in Roma in vicinanza della piazza pubblica,
per ringraziamento a Dio della tranquillità donata al romano imperio,
e particolarmente a Roma, dopo tanti torbidi tempi patiti sotto i
precedenti tiranni. Plinio[499] chiama questa tempio _una delle più
belle fabbriche che mai si fossero vedute_. Erodiano[500] anch'egli
scrive, ch'esso era _il più vasto, il più vago e il più ricco edifizio
che si avesse in Roma. Immensi erano ivi gli ornamenti d'oro e
d'argento;_ e fra gli altri vi furono messi il candelabro[501] insigne
e gli altri vasi portati da Gerusalemme dopo la distruzione di quel
ricchissimo tempio. Ma che? questa mirabil fabbrica circa cento anni
dipoi, regnante Commodo Augusto, per incendio, o casuale o sacrilego,
rimase affatto preda delle fiamme.
NOTE:
[496] Sueton., in Vespasiano, c. 23.
[497] Dio, in Excerptis Valesian.
[498] Sueton., in Vespasiano, c. 14. Dio, lib. 66.
[499] Plinius, lib. 36, cap. 15.
[500] Herodian., lib. 1, c. 14.
[501] Joseph., de Bello Judaic., lib. 7, c. 14.
Anno di CRISTO LXXVI. Indizione IV.
CLEMENTE papa 10.
VESPASIANO imperadore 8.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la settima volta e TITO CESARE per la
quinta.
Abbiamo sufficienti lumi per credere sostituito all'uno di questi
consoli nelle calende di luglio _Domiziano Cesare_, probabilmente per
la cessione di _Tito_ suo fratello. Secondo il Panvino[502],
succedette ancora all'altro console ordinario _Tito Plautio Silvano_
per la seconda volta. Ma non altro fondamento ebbe quel dotto uomo di
assegnare all'anno presente il secondo consolato di costui, se non il
sapere ch'egli due volte fu console. Che nel gennaio di quest'anno
nascesse _Adriano_, il qual poscia divenne imperadore, l'abbiamo da
Sparziano. Fiorì ancora in questi tempi, per attestato di
Eusebio[503], _Quinto Asconio Pediano_, storico di molto credito; di
cui restano tuttavia alcuni Commenti alle Orazioni di Cicerone. In età
di anni settantatrè divenne cieco questo letterato, e ne sopravvisse
dodici altri, tenuto sempre in grande stima da tutti. Era in questi
tempi governator della Bretagna _Giulio Frontino_, e gli riuscì di
sottomettere i popoli Siluri in quella grand'isola all'imperio romano.
Era venuto a _Roma Agrippa_[504] _re dell'Iturea_, figliuolo di
_Agrippa il grande_, stato già re della Giudea; avea condotto seco
_Berenice_ o sia _Beronice_ sua sorella, giovane di bellissimo
aspetto, già maritata con _Erode re di Calcide_ suo zio[505], e poscia
con _Polemone re di Cilicia_. Se n'invaghì Tito Cesare. Forse anche
era cominciata la tresca allorchè egli fu alla guerra contra de'
Giudei. Agrippa ottenne il grado di pretore. Berenice alloggiata nel
palazzo imperiale, dopo aver guadagnato Vespasiano a forza di regali,
sì fattamente s'insinuò nella grazia di Tito, che sperava ormai di
cangiar l'amicizia in matrimonio; e già godeva un tal trattamento e
autorità, come s'ella fosse stata vera moglie di lui. Ma perciocchè,
secondo le leggi romane, era vietato ai nobili romani di sposar donne
di nazion forestiera, o sia barbara (barbari erano allora appellati i
popoli tutti non sudditi al romano imperio) o pure perchè i re,
tuttochè sudditi di Roma, erano tenuti in concetto di tiranni; il
popolo romano altamente mormorava di questa sua amicizia, e molto più
della voce sparsa, che fosse per legarsi seco pienamente col vincolo
matrimoniale. Ebbe Tito cotal possesso sopra la sua passione, e sì a
cuore il proprio onore, che arrivò a liberarsene, con farla ritornare
al suo paese. Svetonio[506] attribuisce a Tito questa eroica azione,
dappoichè egli fu creato imperadore, laddove Dione[507] ne parla circa
questi tempi. Ma aggiugnendo esso Dione, che Berenice, dopo la morte
di Vespasiano, ritornò a Roma, sperando allora di fare il suo colpo, e
che, ciò non ostante, rimase delusa, si accorda facilmente
l'asserzione dell'uno e dell'altro storico.
NOTE:
[502] Panvin., in Fastis.
[503] Eusebius, in Chronic.
[504] Dio, lib. 66.
[505] Joseph., Antiq. Judaic., lib. 18.
[506] Sueton., in Tito, cap. 7.
[507] Dio, lib. 66.
Anno di CRISTO LXXVII. Indizione V.
CLETO papa 1.
VESPASIANO imperadore 9.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la ottava volta, e TITO FLAVIO CESARE
per la sesta.
Fu nelle calende di luglio conferito il consolato a DOMIZIANO CESARE
per la sesta volta ed a GNEO GIULIO AGRICOLA, cioè a quel medesimo, di
cui Cornelio Tacito suo genero ci ha lasciata la vita. Terminò in
quest'anno CAIO PLINIO SECONDO[508] veronese, i suoi libri della
Storia Naturale, e li dedicò a Tito Cesare, ch'egli nomina console per
la sesta volta, e dà a conoscere quanto amore quel buon principe
avesse per lui, e quanta stima per li suoi libri. S'è salvata dalle
ingiurie de' tempi quest'opera delle più insigni ed utili
dell'antichità, perchè tesoro di grande erudizione; ma è da dolersi
che sia pervenuta a noi alquanto difettosa, e che per la mancanza
d'antichi codici non sia possibile il renderne più sicuro ed emendato
il testo. Anche ai tempi di Simmaco camminava scorretta questa
istoria, siccome consta da una sua lettera ad Ausonio. Son periti
altri libri di Plinio, ma non di tanta importanza, come il suddetto.
Abbiamo dalla cronica di Eusebio[509], essere stata nell'anno
presente, o pure nel seguente, sommamente afflitta Roma da una
pestilenza così fiera, che per molti dì si contarono dieci mila
persone morte per giorno: se pur merita fede strage di tanto eccesso.
Ma questo flagello forse s'ha da riferire all'anno 80, regnando Tito.
Verso questi tempi[510] bensì capitarono a Roma segretamente due
filosofi cinici, che, secondo il loro costume, si faceano belli con
dir male d'ognuno. _Diogene_ si appellava l'un d'essi, nome
probabilmente da lui preso, per assomigliarsi in tutto all'altro
antico sì famoso che fu a' tempi di Alessandro Magno. Costui perchè
nel pubblico teatro, pieno di gran popolo, scaricò addosso ai Romani
una buona tempesta d'ingiurie e di motti satirici, ebbe per
ricompensa, d'ordine dei censori, un sonante regalo di sferzate.
L'altro fu _Eras_, che pensando di aggiustar la partita con sì
tollerabil pagamento, più sconciamente sfogò la sua rabbia ed
eloquenza canina contra de' Romani, fors'anche non la perdonando ai
principi. Gli fu mozzato il capo. Riferisce Dione[511] come un
prodigio, che in una osteria in una botte piena il vino tanto si
gonfiò, che uscendo fuori, scorreva per la strada. Erano ben facili
allora i Romani a spacciare de' fatti falsi per veri, o a credere
degli avvenimenti naturali per prodigiosi. Molti di tal fatta se ne
raccontano di Vespasiano, ch'io tralascio, perchè o imposture o
semplicità di quei tempi. E non ne mancano nella storia stessa di Tito
Livio. A san Clemente martire si crede che in quest'anno succedesse
Cleto nel pontificato romano.
NOTE:
[508] Plinius Senior, in Praefatione.
[509] Euseb., in Chron.
[510] Dio, lib. 66.
[511] Dio, lib. 66.
Anno di CRISTO LXXVIII. Indizione VI.
CLETO papa 2.
VESPASIANO imperadore 10.
_Consoli_
LUCIO CEJONIO COMMODO e DECIMO NOVIO PRISCO.
Son di parere alcuni, che questo _Lucio Cejonio_ Console fosse avolo
(se pur non fu padre) di _Lucio Vero_, che noi vedremo a suo tempo
adottato da Adriano imperadore, ciò risultando da Giulio
Capitolino[512]. Abbiamo da Tacito[513], che _Gneo Giulio Agricola_,
stato console nell'anno precedente, fu inviato governatore della
Bretagna in luogo di Giulio Frontino. Era Agricola uomo di rara
prudenza ed onoratezza. Giunto che fu là, non lasciò indietro
diligenza veruna per rimettere la buona disciplina fra le milizie, e
per levare gli abusi dei tempi addietro, per gli quali erano
malcontenti que' popoli, moderando le imposte, e compartendole con
ordine: con che cessarono le avanie de' ministri del fisco, e tornò la
pace in quelle contrade. Eransi negli anni precedenti sottratti
all'ubbidienza de' Romani gli Ordovici nell'isola di Mona, creduta
oggidì l'Anglesei. Agricola v'andò colle armi, e guadagnata una
vittoria, ridusse quelle genti alla primiera divozione. Forse fu in
questi tempi[514], che si scoprì vivo _Giulio Sabino_, nobile della
Gallia, che nell'anno 70 dell'Era Cristiana avea nel suo paese di
Langres impugnate le armi contra de' Romani, e fatto ribellare quel
popolo[515]. Sconfitto egli in una battaglia, ancorchè potesse
ricoverarsi fra i Barbari, pure pel singolare amore ch'egli portava a
_Peponilla_ sua moglie, chiamala da Tacito[516] _Epponina_, e da
Plutarco _Empona_, determinò di nascondersi in certe camere
sotterranee di una sua casa in villa, con far correre voce di non
esser più vivo. Licenziati pertanto i suoi servi e liberti, con dire
di voler prendere il veleno, ne ritenne solamente due de' più fidati.
E perciocchè gli premeva forte, che fosse ben creduta da ognuno la
propria morte, mandò ad accertarne la moglie stessa, la quale a tal
nuova svenne, e stette tre dì senza voler prender cibo. Ma per timore,
che ella in fatti fosse dietro ad accompagnare colla vera sua morte la
finta del marito, fece poi avvisarla del nascondiglio in cui si
trovava, pregandola nondimeno a continuare a piagnerlo, come già
estinto. Andò ella dipoi a trovarlo la notte di tanto in tanto, e gli
partorì anche due figliuoli (l'uno dei quali Plutarco dice d'aver
conosciuto), coprendo sì saggiamente la sua gravidanza e il suo parto,
che niuno mai s'avvide del loro commercio. Portò la disgrazia, che
dopo vari anni fu scoperto l'infelice Sabino, e condotto con la moglie
a Roma. Per muovere Vespasiano a pietà, gli presentò Epponina i due
suoi piccioli figliuoli, dicendo, _che gli avea partoriti in un
sepolcro per aver molti che il supplicassero di grazia_, ed
aggiugnendo tali parole, che mossero le lagrime a tutti, e fino allo
stesso Vespasiano. Contuttociò Vespasiano li fece condannare amendue
alla morte. Allora Epponina, saltando nelle furie, gli parlò
arditamente, dicendogli fra l'altre cose, _che più volentieri avea
sofferto di vivere in un sepolcro, che di mirar lui imperadore_. Non
si sa perchè Vespasiano, che pur era la stessa bontà, e tanti esempli
avea dato finora di clemenza, procedesse qui con tanto rigore, se
forse non l'irritò sì fattamente l'indiscreto parlare dell'irata
donna, che dimenticò di essere quel ch'egli era. Attesta Plutarco, che
per questo rigor di giustizia, tuttochè l'unico di tutto l'imperio di
Vespasiano, venne un grande sfregio al di lui buon nome; ed egli
attribuisce a sì odioso fatto l'essersi dipoi in breve tempo estinta
tutta la di lui casa. Non saprei dire, se i poeti di questi ultimi
tempi abbiano condotta mai sul teatro questa tragica avventura: ben
so, che un tale argomento vi farebbe bella comparsa, siccome
stravagante e capace di muovere le lagrime oggidì, come pur fece
allora.
NOTE:
[512] Capitolinus, in Vita Lucii Veri.
[513] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 9.
[514] Dio, lib. 66.
[515] Plutarch., in Amatorio.
[516] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 67.
Anno di CRISTO LXXIX. Indizione VII.
CLETO papa 3.
TITO FLAVIO imperadore 1.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la nona volta, e TITO FLAVIO CESARE per
la settima.
Essendo in quest'anno, siccome dirò, mancato di vita Vespasiano
Augusto, potrebbe darsi, secondo le congetture da me recate
altrove[517], che nelle calende di luglio il consolato fosse conferito
a _Marco Tizio Frugi_ e a _Vito Vinio_ o _Vinicio Giuliano_.
Pacificamente avea fin qui Vespasiano amministrato l'imperio, e
meritava ben il saggio e dolce suo governo, ch'egli non trovasse de'
nemici in casa. Tuttavia, o sia perchè la morte sola di Sabino,
compianta da tutti, rendesse odioso questo principe, oppure perchè
Tito destinato suo successore fosse, per quanto vedremo, poco amato,
ovvero, come è più probabile, perchè non mancano, nè mancheranno mai
al mondo dei pazzi e degli scellerati: certo è che in quest'anno due
de' principali tramarono una congiura contra di Vespasiano[518].
Questi furono _Alieno Cecina_, già stato console, ed _Eprio Marcello_,
potenti in Roma, amati e beneficati da esso Augusto. Si credeva egli
d'aver in essi due buoni amici, e non avea che due ingrati: vizio
corrispondente ad altre loro pessime qualità. Venne scoperta la
congiura: si trovò avervi mano molti soldati, e Tito Cesare ne fu
assicurato da lettere scritte di lor pugno. Non volle esso Tito
perdere tempo, perchè temeva che nella notte stessa scoppiasse la
mina, e però fatto invitar _Cecina_ seco a cena, dopo essa il fece
trucidar dai pretoriani senza altro processo. _Marcello_, citato e
convinto, allorchè udì proferita contra di lui la sentenza di morte,
colle proprie mani si tagliò con un rasoio la gola. Non potea negarsi
che la risoluzion presa da Tito contra Cecina non fosse giusta, o
almeno scusabile: contuttociò per cagion d'essa egli incorse nell'odio
di molti. Dopo questa esecuzione sentendosi Vespasiano[519] alquanto
incomodato nella salute per alcune febbrette, si fece portare alla sua
villa paterna nel territorio di Rieti, siccome era solito nella state.
In quelle parti v'erano l'acque cutilie, sommamente fredde da Strabone
e da Plinio chiamate utili a curar varii mali. Riuscirono queste
perniciose non poco o per la lor natura, o pel troppo berne, a
Vespasiano, di maniera che gl'indebolirono forte lo stomaco, e gli
suscitarono una molesta diarrea. Era egli principe faceto, e dacchè
cominciò a sentir quelle febbri, ridendo e burlandosi del
superstizioso ed empio rito de' suoi tempi, nei quali si deificavano
dopo morte gl'imperadori, disse: _Pare ch'io incominci a diventar
dio_. Erasi anche veduta poco innanzi una cometa, e parlandone in sua
presenza alcuni: _Oh_, disse, _questa non parla per me. Quella sua
chioma minaccia il re de' Parti che porta la capigliatura. Quanto a me
son calvo_. E perciocchè, non ostante l'infermità sua egli seguitava
ad operar come prima, attendendo agli affari dell'imperio, e dando
udienza ai deputati delle città (del che era ripreso dai familiari)
rispose: _Un imperadore ha da morire stando in piedi_. Morì egli in
fatti, conservando sempre il medesimo coraggio, nel dì 23 o 24 di
giugno, in età di settant'anni, e non già per male di podagra, come
alcuni pensarono: molto meno per veleno, che taluno falsamente[520], e
fra gli altri Adriano imperadore, disse a lui dato in un convito da
Tito suo figliuolo, principe, in cui non potè mai cadere un sì nero
sospetto. Si fecero poscia i suoi funerali colla pompa consueta, e gli
fu dato il titolo di _Divo_. Da Svetonio[521] si raccoglie che a tali
esequie intervenivano anche i mimi, o sia i buffoni, ballando,
atteggiando ed imitando i gesti, la figura e il parlare del defunto
imperadore. Il capo de' mimi, che in questa occasione rappresentava la
persona di Vespasiano, probabilmente colla maschera simile al di lui
volto, volendo esprimere l'avarizia a lui attribuita, dimandò ai
ministri dell'erario, quanto costava quel funerale. Dissero: _Ducento
cinquantamila scudi_. Ed egli _Datemene solo dugento cinquanta, e
gittatemi nel fiume_. Gran disavventura si credeva allora il restar
senza sepoltura: ma per un poco di guadagno, secondo costui, si
sarebbe contentato Vespasiano di restarne privo.
Era già suo collega nell'imperio, cioè nel comando dell'armi, e nella
tribunizia podestà, _Tito Flavio Sabino Vespasiano Cesare_, suo
primogenito; e però bisogno non ebbe di maneggi per acquistare una
dignità, di cui egli già buona parte godeva, e di cui anche il padre
l'avea dichiarato erede nel suo testamento. Prese bensì il titolo
d'_Augusto_, indicante la suprema potestà, e quella di _Pontefice
Massimo_; e dal senato gli fu conferito il glorioso nome di _Padre
della Patria_, come apparisce dalle sue medaglie. Per testimonianza di
Svetonio[522], egli era nato in Roma nell'anno 41 dell'epoca nostra,
in cui Caligola imperadore fu ucciso. Siccome suo padre in quei tempi
si trovava in molto bassa fortuna, così Tito nacque vicino al
Settizionio vecchio entro una brutta casuccia in camera stretta e
scura, che si mostrava anche ai tempi del suddetto Svetonio, per una
rarità. Fanciullo fu messo alla corte, probabilmente per paggio, al
servigio di Britannico, figliuolo di Claudio imperatore, e con esso
lui allevato, studiando seco e sotto i medesimi maestri, le lettere e
le arti cavalleresche. Tanta era la famigliarità d'esso lui con
Britannico, che in occasion del veleno dato a quell'infelice principe,
ne toccò anche a lui non poco, per cui soffrì una grave malattia.
Divenuto poi imperadore, mostrò la sua riconoscenza ad esso
Britannico, con fargli ergere due statue, l'una dorata, e l'altra
equestre d'avorio. Giovanetto di alta statura, di gran robustezza, di
volto avvenente ed insieme maestoso, con facilità imparò l'arti della
guerra e della pace, peritissimo soprattutto in maneggiar armi e
cavalli. Egregiamente parlava il latino e il greco linguaggio, sapea
far delle belle orazioni, sapea di musica, e tal possesso avea in far
versi, che anche fra gl'improvvisatori facea bella figura. L'imitare
gli altrui caratteri gli era facilissimo, e scherzando dicea: _Ch'egli
avrebbe potuto essere un gran falsario_. Fece dipoi col padre varie
campagne nelle guerre della Germania, e Bretagna, e poscia nella
Giudea, siccome di sopra fu detto, lasciando segni di prudenza e di
valore in ogni occasione, e comperandosi dappertutto l'affetto delle
milizie. Mirabile specialmente era in lui l'arte di farsi amare, parte
a lui venuta dalla natura, e parte acquistata colla saggia sua
accortezza, perchè in lui si trovava unita un'aria dolce e una rara
bontà verso tutti, con affabilità popolare ed insieme con gravità, che
guadagnava i cuori, e nello stesso tempo esigeva il rispetto di
ognuno. Ebbe per prima sua moglie _Arricidia Tertulla_, figliuola d'un
prefetto del pretorio. Morta questa, sposò _Marcia Furnilla_ di
nobilissimo casato, ma dopo averne avuto una figliuola, nomata _Giulia
Sabina_, di cui parleremo a suo luogo, la ripudiò. In tale stato era
Tito, allorchè succedette al padre Augusto nel governo della
repubblica romana, ma non senza difetti, la menzion de' quali io
riserbo all'anno seguente. Nel presente si crede[523] che avvenisse la
morte di _Plinio il vecchio_, celebre scrittore di questi tempi,
intorno alla cui patria hanno disputato Verona e Como. Nel primo dì di
novembre cominciò spaventosamente il monte Vesuvio a fumare[524], a
gittar fiamme, pietre e ceneri, che empievano tutti i luoghi
circonvicini. Plinio seniore, che si trovava allora a Miseno,
comandante di quella flotta, portato dal suo incessante studio delle
cose naturali, sopra una galea si fece condurre sino a Castell'-a-mare
di Stabia, per essere più vicino a contemplare il terribile sfogo di
quel monte; ed ancorchè vedesse le genti scappare dalla parte del
mare, per non esser colte dal torrente del fuoco, o dai sassi, pure si
fermò quivi la notte. Allorchè volle anch'egli fuggire, non gli fu
permesso dal mare, ch'era in fortuna. Sicchè soffocato dall'odore
dello zolfo, e dall'aria ingrossata da quelle esalazioni, lasciò ivi
la vita. _Plinio secondo_, il giovane, comasco, suo nipote, e da lui
adottato per figliuolo, uomo non men dello zio dotato di meraviglioso
ingegno, che soggiornava allora a Miseno, corse anch'egli pericolo
della vita in quel brutto frangente, ma ebbe tempo da ridursi in
salvo.
NOTE:
[517] Thesaurus Novus. Inscript., pag. 111.
[518] Dio, lib. 66. Suetonius, in Tito, cap. 6.
[519] Idem, in Vespasiano, cap. 24.
[520] Dio, lib. 66.
[521] Sueton., in Vespasiano, cap. 19.
[522] Sveton., in Tito, cap. 1.
[523] Plinius Junior, lib. 6, epist. 16 e 20.
[524] Dio, lib. 66.
Anno di CRISTO LXXX. Indizione XIII.
CLETO papa 4.
TITO FLAVIO imperadore 2.
}
_Consoli_
TITO FLAVIO AUGUSTO per l'ottava volta,
e DOMIZIANO CESARE per la settima.
Con tutte le belle e plausibili prerogative,
colle quali Tito arrivò al trono
imperiale, non si vuol dissimulare ciò
che scrive di lui Svetonio[525], cioè aver
egli somministrata occasione a molti del
popolo romano di credere ch'egli nel
governo avesse da riuscire un cattivo
principe, anzi un altro Nerone. Si perdeva
egli talvolta nelle gozzoviglie coi
suoi amici dal buon tempo, stando a tavola
sino a mezza notte: dal che si guardavano
allora i saggi Romani. Recava
loro pena il parere, ch'egli fosse immerso
nella libidine anche più abbominevole,
stante le qualità delle persone
della sua corte, e l'esser egli stato sì
sconciamente invaghito della regina Berenice.
Temevasi inoltre di trovare in
lui un principe, a cui più del dovere
piacesse la roba altrui, sapendosi che
prendeva regali anche nell'amministrazion
della giustizia. Ma dopo la morte
del padre cessarono tutti questi sospetti.
Tito con istupore e piacer d'ognuno
comparve tutt'altro, scoprendosi esente
da ogni vizio, e solamente fornito di eccellenti
virtù, di maniera che si convertirono
in lode sua tutt'i conceputi timori
di lui. Licenziò tosto dalla sua corte
qualunque persona che dar potesse scandalo,
ed elesse amici di gran senno e
proprietà, tali che anche i susseguenti
principi se ne servirono, come di strumenti
utili o necessari al buon governo.
Tornò a Roma la _regina Berenice_, figurandosi,
che potendo ora Tito far tutto,
molto anch'ella potrebbe sopra di lui.
Se ne sbrigò egli e rimandolla alle sue
contrade. I conviti, ai quali invitava or
l'uno or l'altro de' senatori e de' nobili,
erano allegri, ma senza profusione od
eccesso. Più non si osservò in lui ruggine
d'avarizia; mai non tolse ad alcuno
il suo e neppur ammetteva i regali soliti
a darsi dalle provincie, città ed università
agli Augusti. Eppur niuno d'essi imperadori
gli andò innanzi nella munificenza
e magnificenza. Imperciocchè in
quest'anno egli dedicò l'anfiteatro[526],
appellato oggi il Colosseo, stupenda mole,
incominciata, per quanto si crede, da
Vespasiano suo padre, e da lui perfezionata.
Nulla più fa intendere qual fosse
la potenza e splendidezza degli antichi
Augusti, quanto i pezzi che restano tuttavia
di quel superbo edifizio. Fabbricò
eziandio le Terme, o sia i bagni pubblici,
presso al medesimo anfiteatro, le cui
vestigia pur ora si mirano circa la chiesa
di san Pietro in Vincula, per attestato
del Nardino, del Donato e d'altri. Ed
allorchè si fece la dedicazion di tali fabbriche,
cioè quando si misero all'uso
pubblico, Tito solennizzò la funzione
con maravigliosi e magnifici spettacoli,
descritti da Dione[527]. Si fecero combattimenti
navali, giuochi di gladiatori, caccie
di fiere, cinquemila delle quali furono
uccise nell'anfiteatro in un sol dì, e
quattro altre migliaia ne' susseguenti
giorni. Nè vi mancarono i giuochi circensi,
e una gran profusione di doni al
popolo. Durarono cento dì così allegre
e dispendiose feste.
L'incendio del Vesuvio, di sopra da
me accennato, che fu de' più terribili
che mai si sieno provati, avea portata la
rovina o notabili danni alle città e terre
della Campania. Tito inviò colà due senatori,
già stati consoli con buone somme
di danaro, acciocchè si rimettessero
in piedi le fabbriche. Per tali spese assegnò
ancora i beni di tutti coloro che
erano morti senza eredi, benchè, secondo
le leggi, que' beni appartenessero al suo
fisco. Ed egli stesso colà si portò, non
tanto per mirar la desolazion de' luoghi,
quanto per affrettarne il sollievo. Ma a
questa disgrazia ne tenne dietro un'altra
non meno spaventosa e lagrimevole. Attaccatosi
il fuoco in Roma, vi consumò
il Campidoglio, il tempio di Giove Capitolino,
il Pantheon, i templi di Serapide
e d'Iside, siccome quel di Nettuno ed
altri; il teatro di Balbo e di Pompeo,
il palazzo d'Augusto colla biblioteca, e
molti altri pubblici edifizii. Sì ampia fu
la strage delle fabbriche, che fu creduto
quell'incendio non operazion degli uomini,
ma gastigo mandato da Dio. Se ne
afflisse sommamente Tito, protestando
nondimeno, che a lui come principe apparteneva
il risarcimento di tante fabbriche
del pubblico. In fatti a questo fine
alienò tutt'i più preziosi mobili de' suoi
palazzi; e quantunque molti particolari,
e varie città, e alcuni dei re sudditi, gli
offrissero o promettessero di molto danaro
per quel bisogno, non volle che
alcuno si scomodasse, riserbando tutte
quelle spese alla propria borsa. Dopo sì
fiero incendio succedette in Roma una
atrocissima peste, di cui parlano Svetonio
e Dione, e che, secondo[528] Aurelio
Vittore, fu delle più micidiali che mai si
provassero in quella città, e se ne diede
la colpa alle esalazioni del Vesuvio. Dubito
io, questa essere la medesima, che
di sopra all'anno 77 fu riferita da Eusebio,
e però collocata fuor di sito, cioè
sotto l'imperio di Vespasiano. La fece
Tito da padre in sì funeste circostanze,
consolando il popolo con frequenti editti,
ed aiutandolo in quante maniere gli
fu mai possibile. Certo inesplicabile fu
l'amore ch'egli portava ad ognuno, e la
bontà sua e la premura di far del bene
a tutti. Era lecito ad ognuno l'andare
all'udienza sua, ed ognuno ne riportava
o consolazione o speranza. E perchè i
suoi dimestici non approvavano ch'egli
promettesse sempre perchè non sempre
poi poteva mantener la parola: rispondeva,
_non doversi permettere che alcuno
mai si parta malcontento dall'udienza
del principe suo_. Tanta era in somma
l'inclinazione sua a far dei benefizii, che
sovvenendogli una notte, mentre cenava,
di non averne fatto veruno in quel
dì, sospirando disse quelle sì celebri e
decantate parole[529]: _Amici io ho perduta
questa giornata_. Giunse a tanto
questa benignità e amorevolezza, che
nel poco tempo ch'egli regnò, a niuno
per impulso o per ordine suo tolta fu
la vita.
Diceva di amar piuttosto di perir egli,
che di far perire altrui. In effetto,
ancorchè si venisse a sapere che due
de' principali romani faceano brighe e
congiure per arrivar all'imperio, e ne
fossero essi anche convinti, pure non
altro egli fece, se non esortarli a desistere,
dicendo che _il principato vien da
Dio, nè si acquista colle scelleraggini; e
che se desideravano qualche bene da lui,
prometteva di farlo_[530]. Dopo di che, per
timore che la madre d'uno di questi senatori
si trovasse in grandi affanni, le
spedì dei corrieri, acciocchè l'assicurassero
che suo figliuolo era salvo. Inoltre
la notte stessa tenne seco a cena questi
due personaggi, e nel dì seguente li volle
allo spettacolo de' gladiatori a' suoi fianchi.
comune amico talora sfogandosi, disapprovava la di lui maniera di
vivere, e diceva: _Son pur uomo anch'io:_ tutto acciocchè gli fosse
riferito, per desiderio che si emendasse[498]. Fu anche dagli amici
consigliato Vespasiano di guardarsi da _Melio Pomposiano_; perchè egli
fatto prendere il proprio oroscopo, si vantava che sarebbe un dì
imperadore. Lungi dal fargli male, Vespasiano il creò console (noi non
ne sappiamo l'anno) dicendo più probabilmente per burla che da senno;
_Costui si ricorderà un giorno del bene che gli ho fatto_. Dedicò esso
Augusto, cioè fece la solennità di aprire e consecrare il tempio della
Pace, da lui fabbricato in Roma in vicinanza della piazza pubblica,
per ringraziamento a Dio della tranquillità donata al romano imperio,
e particolarmente a Roma, dopo tanti torbidi tempi patiti sotto i
precedenti tiranni. Plinio[499] chiama questa tempio _una delle più
belle fabbriche che mai si fossero vedute_. Erodiano[500] anch'egli
scrive, ch'esso era _il più vasto, il più vago e il più ricco edifizio
che si avesse in Roma. Immensi erano ivi gli ornamenti d'oro e
d'argento;_ e fra gli altri vi furono messi il candelabro[501] insigne
e gli altri vasi portati da Gerusalemme dopo la distruzione di quel
ricchissimo tempio. Ma che? questa mirabil fabbrica circa cento anni
dipoi, regnante Commodo Augusto, per incendio, o casuale o sacrilego,
rimase affatto preda delle fiamme.
NOTE:
[496] Sueton., in Vespasiano, c. 23.
[497] Dio, in Excerptis Valesian.
[498] Sueton., in Vespasiano, c. 14. Dio, lib. 66.
[499] Plinius, lib. 36, cap. 15.
[500] Herodian., lib. 1, c. 14.
[501] Joseph., de Bello Judaic., lib. 7, c. 14.
Anno di CRISTO LXXVI. Indizione IV.
CLEMENTE papa 10.
VESPASIANO imperadore 8.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la settima volta e TITO CESARE per la
quinta.
Abbiamo sufficienti lumi per credere sostituito all'uno di questi
consoli nelle calende di luglio _Domiziano Cesare_, probabilmente per
la cessione di _Tito_ suo fratello. Secondo il Panvino[502],
succedette ancora all'altro console ordinario _Tito Plautio Silvano_
per la seconda volta. Ma non altro fondamento ebbe quel dotto uomo di
assegnare all'anno presente il secondo consolato di costui, se non il
sapere ch'egli due volte fu console. Che nel gennaio di quest'anno
nascesse _Adriano_, il qual poscia divenne imperadore, l'abbiamo da
Sparziano. Fiorì ancora in questi tempi, per attestato di
Eusebio[503], _Quinto Asconio Pediano_, storico di molto credito; di
cui restano tuttavia alcuni Commenti alle Orazioni di Cicerone. In età
di anni settantatrè divenne cieco questo letterato, e ne sopravvisse
dodici altri, tenuto sempre in grande stima da tutti. Era in questi
tempi governator della Bretagna _Giulio Frontino_, e gli riuscì di
sottomettere i popoli Siluri in quella grand'isola all'imperio romano.
Era venuto a _Roma Agrippa_[504] _re dell'Iturea_, figliuolo di
_Agrippa il grande_, stato già re della Giudea; avea condotto seco
_Berenice_ o sia _Beronice_ sua sorella, giovane di bellissimo
aspetto, già maritata con _Erode re di Calcide_ suo zio[505], e poscia
con _Polemone re di Cilicia_. Se n'invaghì Tito Cesare. Forse anche
era cominciata la tresca allorchè egli fu alla guerra contra de'
Giudei. Agrippa ottenne il grado di pretore. Berenice alloggiata nel
palazzo imperiale, dopo aver guadagnato Vespasiano a forza di regali,
sì fattamente s'insinuò nella grazia di Tito, che sperava ormai di
cangiar l'amicizia in matrimonio; e già godeva un tal trattamento e
autorità, come s'ella fosse stata vera moglie di lui. Ma perciocchè,
secondo le leggi romane, era vietato ai nobili romani di sposar donne
di nazion forestiera, o sia barbara (barbari erano allora appellati i
popoli tutti non sudditi al romano imperio) o pure perchè i re,
tuttochè sudditi di Roma, erano tenuti in concetto di tiranni; il
popolo romano altamente mormorava di questa sua amicizia, e molto più
della voce sparsa, che fosse per legarsi seco pienamente col vincolo
matrimoniale. Ebbe Tito cotal possesso sopra la sua passione, e sì a
cuore il proprio onore, che arrivò a liberarsene, con farla ritornare
al suo paese. Svetonio[506] attribuisce a Tito questa eroica azione,
dappoichè egli fu creato imperadore, laddove Dione[507] ne parla circa
questi tempi. Ma aggiugnendo esso Dione, che Berenice, dopo la morte
di Vespasiano, ritornò a Roma, sperando allora di fare il suo colpo, e
che, ciò non ostante, rimase delusa, si accorda facilmente
l'asserzione dell'uno e dell'altro storico.
NOTE:
[502] Panvin., in Fastis.
[503] Eusebius, in Chronic.
[504] Dio, lib. 66.
[505] Joseph., Antiq. Judaic., lib. 18.
[506] Sueton., in Tito, cap. 7.
[507] Dio, lib. 66.
Anno di CRISTO LXXVII. Indizione V.
CLETO papa 1.
VESPASIANO imperadore 9.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la ottava volta, e TITO FLAVIO CESARE
per la sesta.
Fu nelle calende di luglio conferito il consolato a DOMIZIANO CESARE
per la sesta volta ed a GNEO GIULIO AGRICOLA, cioè a quel medesimo, di
cui Cornelio Tacito suo genero ci ha lasciata la vita. Terminò in
quest'anno CAIO PLINIO SECONDO[508] veronese, i suoi libri della
Storia Naturale, e li dedicò a Tito Cesare, ch'egli nomina console per
la sesta volta, e dà a conoscere quanto amore quel buon principe
avesse per lui, e quanta stima per li suoi libri. S'è salvata dalle
ingiurie de' tempi quest'opera delle più insigni ed utili
dell'antichità, perchè tesoro di grande erudizione; ma è da dolersi
che sia pervenuta a noi alquanto difettosa, e che per la mancanza
d'antichi codici non sia possibile il renderne più sicuro ed emendato
il testo. Anche ai tempi di Simmaco camminava scorretta questa
istoria, siccome consta da una sua lettera ad Ausonio. Son periti
altri libri di Plinio, ma non di tanta importanza, come il suddetto.
Abbiamo dalla cronica di Eusebio[509], essere stata nell'anno
presente, o pure nel seguente, sommamente afflitta Roma da una
pestilenza così fiera, che per molti dì si contarono dieci mila
persone morte per giorno: se pur merita fede strage di tanto eccesso.
Ma questo flagello forse s'ha da riferire all'anno 80, regnando Tito.
Verso questi tempi[510] bensì capitarono a Roma segretamente due
filosofi cinici, che, secondo il loro costume, si faceano belli con
dir male d'ognuno. _Diogene_ si appellava l'un d'essi, nome
probabilmente da lui preso, per assomigliarsi in tutto all'altro
antico sì famoso che fu a' tempi di Alessandro Magno. Costui perchè
nel pubblico teatro, pieno di gran popolo, scaricò addosso ai Romani
una buona tempesta d'ingiurie e di motti satirici, ebbe per
ricompensa, d'ordine dei censori, un sonante regalo di sferzate.
L'altro fu _Eras_, che pensando di aggiustar la partita con sì
tollerabil pagamento, più sconciamente sfogò la sua rabbia ed
eloquenza canina contra de' Romani, fors'anche non la perdonando ai
principi. Gli fu mozzato il capo. Riferisce Dione[511] come un
prodigio, che in una osteria in una botte piena il vino tanto si
gonfiò, che uscendo fuori, scorreva per la strada. Erano ben facili
allora i Romani a spacciare de' fatti falsi per veri, o a credere
degli avvenimenti naturali per prodigiosi. Molti di tal fatta se ne
raccontano di Vespasiano, ch'io tralascio, perchè o imposture o
semplicità di quei tempi. E non ne mancano nella storia stessa di Tito
Livio. A san Clemente martire si crede che in quest'anno succedesse
Cleto nel pontificato romano.
NOTE:
[508] Plinius Senior, in Praefatione.
[509] Euseb., in Chron.
[510] Dio, lib. 66.
[511] Dio, lib. 66.
Anno di CRISTO LXXVIII. Indizione VI.
CLETO papa 2.
VESPASIANO imperadore 10.
_Consoli_
LUCIO CEJONIO COMMODO e DECIMO NOVIO PRISCO.
Son di parere alcuni, che questo _Lucio Cejonio_ Console fosse avolo
(se pur non fu padre) di _Lucio Vero_, che noi vedremo a suo tempo
adottato da Adriano imperadore, ciò risultando da Giulio
Capitolino[512]. Abbiamo da Tacito[513], che _Gneo Giulio Agricola_,
stato console nell'anno precedente, fu inviato governatore della
Bretagna in luogo di Giulio Frontino. Era Agricola uomo di rara
prudenza ed onoratezza. Giunto che fu là, non lasciò indietro
diligenza veruna per rimettere la buona disciplina fra le milizie, e
per levare gli abusi dei tempi addietro, per gli quali erano
malcontenti que' popoli, moderando le imposte, e compartendole con
ordine: con che cessarono le avanie de' ministri del fisco, e tornò la
pace in quelle contrade. Eransi negli anni precedenti sottratti
all'ubbidienza de' Romani gli Ordovici nell'isola di Mona, creduta
oggidì l'Anglesei. Agricola v'andò colle armi, e guadagnata una
vittoria, ridusse quelle genti alla primiera divozione. Forse fu in
questi tempi[514], che si scoprì vivo _Giulio Sabino_, nobile della
Gallia, che nell'anno 70 dell'Era Cristiana avea nel suo paese di
Langres impugnate le armi contra de' Romani, e fatto ribellare quel
popolo[515]. Sconfitto egli in una battaglia, ancorchè potesse
ricoverarsi fra i Barbari, pure pel singolare amore ch'egli portava a
_Peponilla_ sua moglie, chiamala da Tacito[516] _Epponina_, e da
Plutarco _Empona_, determinò di nascondersi in certe camere
sotterranee di una sua casa in villa, con far correre voce di non
esser più vivo. Licenziati pertanto i suoi servi e liberti, con dire
di voler prendere il veleno, ne ritenne solamente due de' più fidati.
E perciocchè gli premeva forte, che fosse ben creduta da ognuno la
propria morte, mandò ad accertarne la moglie stessa, la quale a tal
nuova svenne, e stette tre dì senza voler prender cibo. Ma per timore,
che ella in fatti fosse dietro ad accompagnare colla vera sua morte la
finta del marito, fece poi avvisarla del nascondiglio in cui si
trovava, pregandola nondimeno a continuare a piagnerlo, come già
estinto. Andò ella dipoi a trovarlo la notte di tanto in tanto, e gli
partorì anche due figliuoli (l'uno dei quali Plutarco dice d'aver
conosciuto), coprendo sì saggiamente la sua gravidanza e il suo parto,
che niuno mai s'avvide del loro commercio. Portò la disgrazia, che
dopo vari anni fu scoperto l'infelice Sabino, e condotto con la moglie
a Roma. Per muovere Vespasiano a pietà, gli presentò Epponina i due
suoi piccioli figliuoli, dicendo, _che gli avea partoriti in un
sepolcro per aver molti che il supplicassero di grazia_, ed
aggiugnendo tali parole, che mossero le lagrime a tutti, e fino allo
stesso Vespasiano. Contuttociò Vespasiano li fece condannare amendue
alla morte. Allora Epponina, saltando nelle furie, gli parlò
arditamente, dicendogli fra l'altre cose, _che più volentieri avea
sofferto di vivere in un sepolcro, che di mirar lui imperadore_. Non
si sa perchè Vespasiano, che pur era la stessa bontà, e tanti esempli
avea dato finora di clemenza, procedesse qui con tanto rigore, se
forse non l'irritò sì fattamente l'indiscreto parlare dell'irata
donna, che dimenticò di essere quel ch'egli era. Attesta Plutarco, che
per questo rigor di giustizia, tuttochè l'unico di tutto l'imperio di
Vespasiano, venne un grande sfregio al di lui buon nome; ed egli
attribuisce a sì odioso fatto l'essersi dipoi in breve tempo estinta
tutta la di lui casa. Non saprei dire, se i poeti di questi ultimi
tempi abbiano condotta mai sul teatro questa tragica avventura: ben
so, che un tale argomento vi farebbe bella comparsa, siccome
stravagante e capace di muovere le lagrime oggidì, come pur fece
allora.
NOTE:
[512] Capitolinus, in Vita Lucii Veri.
[513] Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 9.
[514] Dio, lib. 66.
[515] Plutarch., in Amatorio.
[516] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 67.
Anno di CRISTO LXXIX. Indizione VII.
CLETO papa 3.
TITO FLAVIO imperadore 1.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la nona volta, e TITO FLAVIO CESARE per
la settima.
Essendo in quest'anno, siccome dirò, mancato di vita Vespasiano
Augusto, potrebbe darsi, secondo le congetture da me recate
altrove[517], che nelle calende di luglio il consolato fosse conferito
a _Marco Tizio Frugi_ e a _Vito Vinio_ o _Vinicio Giuliano_.
Pacificamente avea fin qui Vespasiano amministrato l'imperio, e
meritava ben il saggio e dolce suo governo, ch'egli non trovasse de'
nemici in casa. Tuttavia, o sia perchè la morte sola di Sabino,
compianta da tutti, rendesse odioso questo principe, oppure perchè
Tito destinato suo successore fosse, per quanto vedremo, poco amato,
ovvero, come è più probabile, perchè non mancano, nè mancheranno mai
al mondo dei pazzi e degli scellerati: certo è che in quest'anno due
de' principali tramarono una congiura contra di Vespasiano[518].
Questi furono _Alieno Cecina_, già stato console, ed _Eprio Marcello_,
potenti in Roma, amati e beneficati da esso Augusto. Si credeva egli
d'aver in essi due buoni amici, e non avea che due ingrati: vizio
corrispondente ad altre loro pessime qualità. Venne scoperta la
congiura: si trovò avervi mano molti soldati, e Tito Cesare ne fu
assicurato da lettere scritte di lor pugno. Non volle esso Tito
perdere tempo, perchè temeva che nella notte stessa scoppiasse la
mina, e però fatto invitar _Cecina_ seco a cena, dopo essa il fece
trucidar dai pretoriani senza altro processo. _Marcello_, citato e
convinto, allorchè udì proferita contra di lui la sentenza di morte,
colle proprie mani si tagliò con un rasoio la gola. Non potea negarsi
che la risoluzion presa da Tito contra Cecina non fosse giusta, o
almeno scusabile: contuttociò per cagion d'essa egli incorse nell'odio
di molti. Dopo questa esecuzione sentendosi Vespasiano[519] alquanto
incomodato nella salute per alcune febbrette, si fece portare alla sua
villa paterna nel territorio di Rieti, siccome era solito nella state.
In quelle parti v'erano l'acque cutilie, sommamente fredde da Strabone
e da Plinio chiamate utili a curar varii mali. Riuscirono queste
perniciose non poco o per la lor natura, o pel troppo berne, a
Vespasiano, di maniera che gl'indebolirono forte lo stomaco, e gli
suscitarono una molesta diarrea. Era egli principe faceto, e dacchè
cominciò a sentir quelle febbri, ridendo e burlandosi del
superstizioso ed empio rito de' suoi tempi, nei quali si deificavano
dopo morte gl'imperadori, disse: _Pare ch'io incominci a diventar
dio_. Erasi anche veduta poco innanzi una cometa, e parlandone in sua
presenza alcuni: _Oh_, disse, _questa non parla per me. Quella sua
chioma minaccia il re de' Parti che porta la capigliatura. Quanto a me
son calvo_. E perciocchè, non ostante l'infermità sua egli seguitava
ad operar come prima, attendendo agli affari dell'imperio, e dando
udienza ai deputati delle città (del che era ripreso dai familiari)
rispose: _Un imperadore ha da morire stando in piedi_. Morì egli in
fatti, conservando sempre il medesimo coraggio, nel dì 23 o 24 di
giugno, in età di settant'anni, e non già per male di podagra, come
alcuni pensarono: molto meno per veleno, che taluno falsamente[520], e
fra gli altri Adriano imperadore, disse a lui dato in un convito da
Tito suo figliuolo, principe, in cui non potè mai cadere un sì nero
sospetto. Si fecero poscia i suoi funerali colla pompa consueta, e gli
fu dato il titolo di _Divo_. Da Svetonio[521] si raccoglie che a tali
esequie intervenivano anche i mimi, o sia i buffoni, ballando,
atteggiando ed imitando i gesti, la figura e il parlare del defunto
imperadore. Il capo de' mimi, che in questa occasione rappresentava la
persona di Vespasiano, probabilmente colla maschera simile al di lui
volto, volendo esprimere l'avarizia a lui attribuita, dimandò ai
ministri dell'erario, quanto costava quel funerale. Dissero: _Ducento
cinquantamila scudi_. Ed egli _Datemene solo dugento cinquanta, e
gittatemi nel fiume_. Gran disavventura si credeva allora il restar
senza sepoltura: ma per un poco di guadagno, secondo costui, si
sarebbe contentato Vespasiano di restarne privo.
Era già suo collega nell'imperio, cioè nel comando dell'armi, e nella
tribunizia podestà, _Tito Flavio Sabino Vespasiano Cesare_, suo
primogenito; e però bisogno non ebbe di maneggi per acquistare una
dignità, di cui egli già buona parte godeva, e di cui anche il padre
l'avea dichiarato erede nel suo testamento. Prese bensì il titolo
d'_Augusto_, indicante la suprema potestà, e quella di _Pontefice
Massimo_; e dal senato gli fu conferito il glorioso nome di _Padre
della Patria_, come apparisce dalle sue medaglie. Per testimonianza di
Svetonio[522], egli era nato in Roma nell'anno 41 dell'epoca nostra,
in cui Caligola imperadore fu ucciso. Siccome suo padre in quei tempi
si trovava in molto bassa fortuna, così Tito nacque vicino al
Settizionio vecchio entro una brutta casuccia in camera stretta e
scura, che si mostrava anche ai tempi del suddetto Svetonio, per una
rarità. Fanciullo fu messo alla corte, probabilmente per paggio, al
servigio di Britannico, figliuolo di Claudio imperatore, e con esso
lui allevato, studiando seco e sotto i medesimi maestri, le lettere e
le arti cavalleresche. Tanta era la famigliarità d'esso lui con
Britannico, che in occasion del veleno dato a quell'infelice principe,
ne toccò anche a lui non poco, per cui soffrì una grave malattia.
Divenuto poi imperadore, mostrò la sua riconoscenza ad esso
Britannico, con fargli ergere due statue, l'una dorata, e l'altra
equestre d'avorio. Giovanetto di alta statura, di gran robustezza, di
volto avvenente ed insieme maestoso, con facilità imparò l'arti della
guerra e della pace, peritissimo soprattutto in maneggiar armi e
cavalli. Egregiamente parlava il latino e il greco linguaggio, sapea
far delle belle orazioni, sapea di musica, e tal possesso avea in far
versi, che anche fra gl'improvvisatori facea bella figura. L'imitare
gli altrui caratteri gli era facilissimo, e scherzando dicea: _Ch'egli
avrebbe potuto essere un gran falsario_. Fece dipoi col padre varie
campagne nelle guerre della Germania, e Bretagna, e poscia nella
Giudea, siccome di sopra fu detto, lasciando segni di prudenza e di
valore in ogni occasione, e comperandosi dappertutto l'affetto delle
milizie. Mirabile specialmente era in lui l'arte di farsi amare, parte
a lui venuta dalla natura, e parte acquistata colla saggia sua
accortezza, perchè in lui si trovava unita un'aria dolce e una rara
bontà verso tutti, con affabilità popolare ed insieme con gravità, che
guadagnava i cuori, e nello stesso tempo esigeva il rispetto di
ognuno. Ebbe per prima sua moglie _Arricidia Tertulla_, figliuola d'un
prefetto del pretorio. Morta questa, sposò _Marcia Furnilla_ di
nobilissimo casato, ma dopo averne avuto una figliuola, nomata _Giulia
Sabina_, di cui parleremo a suo luogo, la ripudiò. In tale stato era
Tito, allorchè succedette al padre Augusto nel governo della
repubblica romana, ma non senza difetti, la menzion de' quali io
riserbo all'anno seguente. Nel presente si crede[523] che avvenisse la
morte di _Plinio il vecchio_, celebre scrittore di questi tempi,
intorno alla cui patria hanno disputato Verona e Como. Nel primo dì di
novembre cominciò spaventosamente il monte Vesuvio a fumare[524], a
gittar fiamme, pietre e ceneri, che empievano tutti i luoghi
circonvicini. Plinio seniore, che si trovava allora a Miseno,
comandante di quella flotta, portato dal suo incessante studio delle
cose naturali, sopra una galea si fece condurre sino a Castell'-a-mare
di Stabia, per essere più vicino a contemplare il terribile sfogo di
quel monte; ed ancorchè vedesse le genti scappare dalla parte del
mare, per non esser colte dal torrente del fuoco, o dai sassi, pure si
fermò quivi la notte. Allorchè volle anch'egli fuggire, non gli fu
permesso dal mare, ch'era in fortuna. Sicchè soffocato dall'odore
dello zolfo, e dall'aria ingrossata da quelle esalazioni, lasciò ivi
la vita. _Plinio secondo_, il giovane, comasco, suo nipote, e da lui
adottato per figliuolo, uomo non men dello zio dotato di meraviglioso
ingegno, che soggiornava allora a Miseno, corse anch'egli pericolo
della vita in quel brutto frangente, ma ebbe tempo da ridursi in
salvo.
NOTE:
[517] Thesaurus Novus. Inscript., pag. 111.
[518] Dio, lib. 66. Suetonius, in Tito, cap. 6.
[519] Idem, in Vespasiano, cap. 24.
[520] Dio, lib. 66.
[521] Sueton., in Vespasiano, cap. 19.
[522] Sveton., in Tito, cap. 1.
[523] Plinius Junior, lib. 6, epist. 16 e 20.
[524] Dio, lib. 66.
Anno di CRISTO LXXX. Indizione XIII.
CLETO papa 4.
TITO FLAVIO imperadore 2.
}
_Consoli_
TITO FLAVIO AUGUSTO per l'ottava volta,
e DOMIZIANO CESARE per la settima.
Con tutte le belle e plausibili prerogative,
colle quali Tito arrivò al trono
imperiale, non si vuol dissimulare ciò
che scrive di lui Svetonio[525], cioè aver
egli somministrata occasione a molti del
popolo romano di credere ch'egli nel
governo avesse da riuscire un cattivo
principe, anzi un altro Nerone. Si perdeva
egli talvolta nelle gozzoviglie coi
suoi amici dal buon tempo, stando a tavola
sino a mezza notte: dal che si guardavano
allora i saggi Romani. Recava
loro pena il parere, ch'egli fosse immerso
nella libidine anche più abbominevole,
stante le qualità delle persone
della sua corte, e l'esser egli stato sì
sconciamente invaghito della regina Berenice.
Temevasi inoltre di trovare in
lui un principe, a cui più del dovere
piacesse la roba altrui, sapendosi che
prendeva regali anche nell'amministrazion
della giustizia. Ma dopo la morte
del padre cessarono tutti questi sospetti.
Tito con istupore e piacer d'ognuno
comparve tutt'altro, scoprendosi esente
da ogni vizio, e solamente fornito di eccellenti
virtù, di maniera che si convertirono
in lode sua tutt'i conceputi timori
di lui. Licenziò tosto dalla sua corte
qualunque persona che dar potesse scandalo,
ed elesse amici di gran senno e
proprietà, tali che anche i susseguenti
principi se ne servirono, come di strumenti
utili o necessari al buon governo.
Tornò a Roma la _regina Berenice_, figurandosi,
che potendo ora Tito far tutto,
molto anch'ella potrebbe sopra di lui.
Se ne sbrigò egli e rimandolla alle sue
contrade. I conviti, ai quali invitava or
l'uno or l'altro de' senatori e de' nobili,
erano allegri, ma senza profusione od
eccesso. Più non si osservò in lui ruggine
d'avarizia; mai non tolse ad alcuno
il suo e neppur ammetteva i regali soliti
a darsi dalle provincie, città ed università
agli Augusti. Eppur niuno d'essi imperadori
gli andò innanzi nella munificenza
e magnificenza. Imperciocchè in
quest'anno egli dedicò l'anfiteatro[526],
appellato oggi il Colosseo, stupenda mole,
incominciata, per quanto si crede, da
Vespasiano suo padre, e da lui perfezionata.
Nulla più fa intendere qual fosse
la potenza e splendidezza degli antichi
Augusti, quanto i pezzi che restano tuttavia
di quel superbo edifizio. Fabbricò
eziandio le Terme, o sia i bagni pubblici,
presso al medesimo anfiteatro, le cui
vestigia pur ora si mirano circa la chiesa
di san Pietro in Vincula, per attestato
del Nardino, del Donato e d'altri. Ed
allorchè si fece la dedicazion di tali fabbriche,
cioè quando si misero all'uso
pubblico, Tito solennizzò la funzione
con maravigliosi e magnifici spettacoli,
descritti da Dione[527]. Si fecero combattimenti
navali, giuochi di gladiatori, caccie
di fiere, cinquemila delle quali furono
uccise nell'anfiteatro in un sol dì, e
quattro altre migliaia ne' susseguenti
giorni. Nè vi mancarono i giuochi circensi,
e una gran profusione di doni al
popolo. Durarono cento dì così allegre
e dispendiose feste.
L'incendio del Vesuvio, di sopra da
me accennato, che fu de' più terribili
che mai si sieno provati, avea portata la
rovina o notabili danni alle città e terre
della Campania. Tito inviò colà due senatori,
già stati consoli con buone somme
di danaro, acciocchè si rimettessero
in piedi le fabbriche. Per tali spese assegnò
ancora i beni di tutti coloro che
erano morti senza eredi, benchè, secondo
le leggi, que' beni appartenessero al suo
fisco. Ed egli stesso colà si portò, non
tanto per mirar la desolazion de' luoghi,
quanto per affrettarne il sollievo. Ma a
questa disgrazia ne tenne dietro un'altra
non meno spaventosa e lagrimevole. Attaccatosi
il fuoco in Roma, vi consumò
il Campidoglio, il tempio di Giove Capitolino,
il Pantheon, i templi di Serapide
e d'Iside, siccome quel di Nettuno ed
altri; il teatro di Balbo e di Pompeo,
il palazzo d'Augusto colla biblioteca, e
molti altri pubblici edifizii. Sì ampia fu
la strage delle fabbriche, che fu creduto
quell'incendio non operazion degli uomini,
ma gastigo mandato da Dio. Se ne
afflisse sommamente Tito, protestando
nondimeno, che a lui come principe apparteneva
il risarcimento di tante fabbriche
del pubblico. In fatti a questo fine
alienò tutt'i più preziosi mobili de' suoi
palazzi; e quantunque molti particolari,
e varie città, e alcuni dei re sudditi, gli
offrissero o promettessero di molto danaro
per quel bisogno, non volle che
alcuno si scomodasse, riserbando tutte
quelle spese alla propria borsa. Dopo sì
fiero incendio succedette in Roma una
atrocissima peste, di cui parlano Svetonio
e Dione, e che, secondo[528] Aurelio
Vittore, fu delle più micidiali che mai si
provassero in quella città, e se ne diede
la colpa alle esalazioni del Vesuvio. Dubito
io, questa essere la medesima, che
di sopra all'anno 77 fu riferita da Eusebio,
e però collocata fuor di sito, cioè
sotto l'imperio di Vespasiano. La fece
Tito da padre in sì funeste circostanze,
consolando il popolo con frequenti editti,
ed aiutandolo in quante maniere gli
fu mai possibile. Certo inesplicabile fu
l'amore ch'egli portava ad ognuno, e la
bontà sua e la premura di far del bene
a tutti. Era lecito ad ognuno l'andare
all'udienza sua, ed ognuno ne riportava
o consolazione o speranza. E perchè i
suoi dimestici non approvavano ch'egli
promettesse sempre perchè non sempre
poi poteva mantener la parola: rispondeva,
_non doversi permettere che alcuno
mai si parta malcontento dall'udienza
del principe suo_. Tanta era in somma
l'inclinazione sua a far dei benefizii, che
sovvenendogli una notte, mentre cenava,
di non averne fatto veruno in quel
dì, sospirando disse quelle sì celebri e
decantate parole[529]: _Amici io ho perduta
questa giornata_. Giunse a tanto
questa benignità e amorevolezza, che
nel poco tempo ch'egli regnò, a niuno
per impulso o per ordine suo tolta fu
la vita.
Diceva di amar piuttosto di perir egli,
che di far perire altrui. In effetto,
ancorchè si venisse a sapere che due
de' principali romani faceano brighe e
congiure per arrivar all'imperio, e ne
fossero essi anche convinti, pure non
altro egli fece, se non esortarli a desistere,
dicendo che _il principato vien da
Dio, nè si acquista colle scelleraggini; e
che se desideravano qualche bene da lui,
prometteva di farlo_[530]. Dopo di che, per
timore che la madre d'uno di questi senatori
si trovasse in grandi affanni, le
spedì dei corrieri, acciocchè l'assicurassero
che suo figliuolo era salvo. Inoltre
la notte stessa tenne seco a cena questi
due personaggi, e nel dì seguente li volle
allo spettacolo de' gladiatori a' suoi fianchi.
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