Annali d'Italia, vol. 1 - 05
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descritte da Dione, con averlo portato al rogo Druso figliuolo di
Tiberio e i senatori. Saltò poi fuori Numerio Attico senatore, il
quale, mentre la pira ardeva, giurò di aver veduta l'anima d'Augusto
volare al cielo[68], come si finse una volta succeduto anche a Romolo,
facendosi credere con tali imposture alla buona gente ch'egli fosse
divenuto un dio o semideo: vana pretensione, continuata ne' tempi
seguenti per altri imperadori. Ciò fatto, si trattò nel senato di
confermare, o, per dir meglio, di concedere a Tiberio Cesare, lasciato
erede da Augusto suo padrigno, tutta l'autorità e gli onori goduti in
addietro dal medesimo Augusto. Era allora Tiberio in età di
cinquantasei anni, volpe fina e impastato di diffidenza, d'umor nero e
di crudeltà; ma che sapeva nascondere il suo cuore meglio d'ogni
altro, ed avea saputo coprire i suoi vizii agli occhi, non già di
tutti, ma forse della maggior parte dei grandi e de' piccoli. Nel
senato non v'era più alcuna di quelle teste forti che potessero
rimettere in piedi la libertà romana; tutto tendeva all'adulazione e
al privato, non al pubblico bene. V'entrava anche la paura, perchè
Tiberio continuò a comandare alle coorti del pretorio e alle armate
romane per le precedenti concessioni; e però niuno osava di alzar un
dito, anzi ognuno gareggiò a conferir la signoria a Tiberio.
All'incontro l'astuto Tiberio, quanto più essi insistevano per
esaltarlo, tanto più facea vista di abborrir quegli onori, e di
desiderare non superiorità, ma uguaglianza co' suoi cittadini,
esagerando la gran difficoltà a reggere sì vasto corpo, e i pericoli
di soccombere sotto il peso. Tutto affine di scandagliar bene gli
animi di ciascun particolare, e far poi vendetta a suo tempo di chi
poco inclinato comparisse verso di lui[69]. Temeva ancora che
_Germanico_ suo nipote, già adottato da lui per figliuolo, tra per
essere allora alla testa dell'armata romana in Germania, e perchè
sommamente amato dal popolo romano e dai soldati, potesse torgli la
mano. Lasciossi dunque pregare gran tempo anche dagl'inginocchiati
senatori, e finalmente senza chiaramente accettar l'impiego[70], o pur
facendo credere di prenderlo, ma per deporlo fra qualche tempo,
cominciò francamente ad esercitare l'autorità imperiale. Qui Vellejo
Patercolo[71] lascia la briglia all'eloquenza sua, per tessere un
panegirico delle azioni di Tiberio sui principii del suo governo. La
pace fiorì da per tutto; andò l'ingiustizia, la prepotenza, la frode a
nascondersi fra i Barbari; si stese la di lui liberalità per le
provincie e città che aveano patito disgrazie. E veramente gran
moderazione mostrò a tutta prima Tiberio, e seguitò a governar da
saggio, finchè visse Germanico, perchè temeva di lui. Nè qui si ferma
Vellejo. Entra ancora a vele gonfie nelle lodi di Elio Sejano, scelto
da Tiberio per suo consigliere e primo ministro. S'egli sel meritasse,
l'andremo osservando nel progresso degli anni.
Certo che in Roma niun tumulto o sedizione accadde per questo
cambiamento di governo; ma non fu così nelle provincie[72]. Le milizie
romane che soggiornavano nella Pannonia, appena udita la morte di
Augusto, si rivoltarono contra di Giulio Bleso lor comandante, che
corse pericolo della vita, facendo esse istanza della lor giubilazione
e d'essere premiate, col minacciar anche di ribellar quella provincia,
e di venirsene a Roma. Fu dunque spedito colà da Tiberio il suo
figliuolo _Druso_ con una man di soldati pretoriani, ed accompagnato
da Sejano, allora prefetto del pretorio. Durò Sejano non poca fatica a
mettere in dovere i sollevati che l'assediarono, e ferirono alcuni
della di lui scorta. Ma finalmente essendosi ritirati e divisi costoro
pe' quartieri; e chiamati sotto altro pretesto ad uno ad uno i più
feroci nella tenda di Druso, dove lasciarono la testa, si quietarono
gli altri, ed ebbe fine quel romore. Più strepitosa e di maggior
pericolo fu la sollevazion de' soldati romani nella Germania, perchè
quivi dimorava il miglior nerbo delle legioni sotto il comando di
_Germanico Cesare_, che si trovava allora nella Gallia a fare il censo
o sia la descrizione dell'anime. Si ammutinò parte di questo esercito
per le stesse cagioni che poco fa accennai. Corse perciò colà
Germanico; e siccome egli era sommamente amato, perchè dotato di
assaissime lodevoli qualità, e il conoscevano per migliore di gran
lunga che Tiberio, vollero crearlo imperadore. Costantissimo egli nel
non volere mancar di fede a Tiberio suo zio che l'avea anche adottato
per figliuolo, allorchè vide di non potere in altra guisa liberarsi
dalle lor furiose istanze, cavò la spada per uccidersi. Quest'atto li
fermò. Finse poi lettere di Tiberio, quasi ch'egli ordinasse in
donativo ad essi soldati il doppio dello stabilito da Augusto; la
promessa di sì fatta liberalità, e l'aver eziandio accordato il ben
servito ai veterani, li placò. Ma il danaro non concorreva, e intanto
giunsero gli ambasciatori di Tiberio, all'arrivo de' quali di nuovo si
sollevarono, e furono vicini a privarli di vita, per timore che
fossero spediti ad annullar quanto avea promesso Germanico. Presero
anche _Agrippina_ di lui moglie, gravida allora, e il piccolo
figliuolo _Cajo_, soprannominato _Caligola_. La costanza di Germanico,
giacchè non poteano conseguire di più, feceli dipoi tornare al loro
dovere. Ed acciocchè stando in ozio non macchinassero altre sedizioni,
Germanico li condusse addosso alle terre nemiche dove impiegarono i
pensieri e le mani per far buon bottino. Certo è, che Germanico se
avesse voluto, sarebbe stato imperatore Augusto; tanto egli avea in
pugno l'affetto di quel potente esercito, e il cuore eziandio del
popolo romano. Ma superior fu all'ambizione la sua virtù.
Cordialissime lettere perciò scrisse a lui e ad Agrippina sua moglie,
Tiberio per ringraziarli[73]: fece anche un bell'encomio di loro nel
senato ed ottenne a Germanico la podestà proconsolare, che forse dovea
essere terminata la dianzi a lui accordata. Tuttavia internamente
continuò più che mai ad odiarli, paventando sempre che in danno
proprio si potesse convertire un dì l'amore professato dalle milizie a
Germanico[74]. Non finì quest'anno, che Giulia, figliuola di Augusto e
moglie di Tiberio, già per gli eccessi della sua impudicizia relegata
in Reggio di Calabria, fu lasciata ovvero fatta morire di stento, se
pur non fu in altra più spedita maniera. Sempronio Gracco bandito
anch'egli, già passava il quattordicesimo anno, da Augusto nell'isola
di Cersina presso l'Africa, in castigo della sua disonesta amicizia
colla suddetta Giulia, fu anch'egli tolto di vita.
NOTE:
[60] Gruter., Thesaur. Inscription., pag. 230.
[61] Euseb., in Chron.
[62] Sueton., in August., cap. ult.
[63] Dio, lib. 56.
[64] Sueton., Tacitus, Dio.
[65] Vellejus, lib. 2.
[66] Tacitus, Annal., lib. 1.
[67] Tacitus, ibidem. Dio, lib. 51. Sueton., in August., c. 59. Philo,
in Legation. ad Cajum.
[68] Sueton., in August., cap. 101. Dio, lib. 56.
[69] Dio, lib. 57.
[70] Sueton., in Tiber., cap. 24.
[71] Vellejus, lib. 2.
[72] Dio, lib. 57. Tacit., lib. 1 Annal., cap. 16 et seq.
[73] Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, c. 56.
[74] Tacito, Annal., lib. 1, c. 57.
Anno di CRISTO XV. Indizione III.
TIBERIO imperadore 2.
_Consoli_
DRUSO CESARE figliuolo di TIBERIO e CAIO NORBANO FLACCO.
Fu massimamente in quest'anno un bel vedere, con che attenzione,
moderazione e modestia si applicasse Tiberio al governo[75]. Non volle
che si premettesse al suo nome il titolo d'imperadore. Si adirava con
chi osasse chiamarlo _signore_; e a' soldati permetteva il nominarlo
per _imperadore_: giacchè tal nome, siccome dissi, solamente allora
significava generale d'armata. Il glorioso nome di _Padre della
Patria_ non permise mai che il senato glielo desse, forse perchè
abborriva l'adulazione, ed egli in sua coscienza dovea forse sapere di
non poterlo meritare giammai. E certamente scrivendo una volta al
senato[76] che vilmente pregava di ricevere questo titolo, disse: «Se
per mia disavventura un qualche dì accadesse, che voi dubitaste della
mia buona intenzione e della sincerità dell'affetto che a voi professo
(il che se dovesse avvenire, desidero piuttosto che la morte mia
prevenga la mutazion della vostra opinione), questo titolo di Padre
della patria niente d'onore recherebbe a me, e servirebbe solo di
rimprovero a voi per aver fallato il giudicare di me, e per avere
spropositatamente dato a me un cognome che non mi conveniva.» Benchè
passasse in lui per eredità il titolo d'_Augusto_, pure non l'usava se
non talvolta in iscrivendo ai re; e solamente leggendolo o
ascoltandolo a sè dato, non l'avea a male; e però sovente si trova
nelle iscrizioni e medaglie d'allora. Il nome di _Cesare_ era a lui
famigliare; e talora usò il cognome di _Germanico_, per le vittorie
riportate in Germania, siccome ancor quello di _Principe del Senato_,
cioè di primo fra i senatori. Soleva perciò dire ch'egli era: «Signore
de' propri schiavi, imperadore (cioè generale) dei soldati, e primo
fra gli altri cittadini di Roma.» Per la stessa ragione vietò sulle
prime ad ognuno il fabbricargli dei templi come s'era fatto ad
Augusto; nè volle sacerdoti flamini. Col tempo permise ciò alle città
dell'Asia, ma nol volle permettere a quelle della Spagna e d'altri
paesi. Che se talun desiderava d'innalzargli statue, o di esporre
l'immagine sua, nol potea fare senza di lui licenza; e questa si
concedea, sempre colla condizione che non si mettessero fra i
simulacri degl'iddii, ma solamente per ornamento delle case. Altre
simili distinzioni d'onore rifiutò egli, e soprattutto amava di
comparire popolare; camminando per la città con poco seguito, e senza
voler corteggio servile di gente nobile; onorando non solo i grandi,
ma anche la bassa gente, e tenendo al suo servigio un discreto numero
di schiavi. Nel senato poi e nei giudizii del foro, non si piccava
punto di preminenza, dicendo e lasciando che ogni altro liberamente
dicesse il suo parere: nè si sdegnava se si risolveva in contrario al
suo. Niuna risoluzione prendeva egli mai senza sentire i senatori
consiglieri eletti da lui. Era sollecito in impedire gli aggravi de'
popoli e le estorsioni de' ministri; e ad alcuni governatori che
l'esortavano ad accrescere i tributi, o pure a quel dell'Egitto, che
mandò più danaro di quel che si solea ricavare, rispose: «Che le
pecore s'han da tosare, e non già da levar loro la pelle.» In somma
Tiberio avea testa per esser un ottimo principe e glorioso imperatore;
e pur pessimo riuscì, perchè all'intendimento prevalse di troppo,
siccome vedremo, la maligna sua inclinazione[77]. All'incontro _Livia
Augusta_ sua madre, donna gonfia più d'ogni altra di fasto e di
vanità, facea gran figura in Roma. Nulla avea omesso, fatte avea anche
delle enormità affinchè il figliuolo arrivasse a dominare per
isperanza di continuare a dominar come prima sotto l'ombra di lui. Ma
era ben diverso da quello d'Augusto l'amor di Tiberio. La tenne egli,
per quanto potè, sempre bassa, senza permettere che l'adulatore senato
le desse certi titoli d'onore che maggiormente l'avrebbono
insuperbita; talvolta diceva a lei stessa, «non esser conveniente alle
donne il mischiarsi negli affari di Stato.» Quantunque talvolta si
regolasse secondo i di lei consigli, pure il men che potea l'onorava
di sue visite; ed anche visitandola, poco vi si tratteneva, affinchè
non paresse ch'egli si lasciasse governare da lei. Fece anche di più
col tempo, siccome vedremo.
Comandava intanto le armate di Germania il giovane _Germanico Cesare_.
Ancorchè fosse lontano da Roma, per cura di Tiberio gli fu conceduto
il trionfo, celebrato poi nell'anno seguente, in ricompensa di quanto
egli avea finora operato in quella guerra[78]. Durava questa in
Germania, ed erano tuttavia in armi Arminio e Segeste, due primari
capitani di quelle contrade; ma fra loro discordi, perchè Arminio,
rapita una figliuola di esso Segeste, promessa ad un altro, la avea
presa per moglie a dispetto del padre. Con due corpi d'armata assai
poderosi, l'uno comandato da Germanico, l'altro da Aulo Cecina, legato
dello esercito, fu portata la guerra addosso ai popoli Catti (oggidì
creduti gli Assiani) e preso il loro paese. Mosse in questi tempi
Arminio una sedizione contra del suocero Segeste, il quale, trovandosi
assediato, spedì il figliuolo Segimondo a Germanico per aiuto.
Accorsero i Romani; furon messi in rotta gli assedianti, liberato
Segeste, e presa con altre nobili donne la di lui figliuola, gravida
allora del marito Arminio. Questo fatto e le tante grida d'Arminio
cagion furono che presero l'armi per lui i Cherusci ed Ingujomero di
lui zio paterno. Seguirono poi due combattimenti. Nel primo toccò la
peggio ad Arminio; nell'altro ebbe Cecina colle sue brigate non poca
fatica a ridursi in salvo, ma dopo averne riportate molte ferite. Fu
allora che _Agrippina_, moglie di Germanico, fece comparire l'animo
suo virile. Per la suddetta disgrazia era corsa voce che i Germani
venivano per passare ostilmente nella Gallia. Impedì la valorosa donna
che non si guastasse il ponte sul Reno, come volevano que' cittadini.
Messasi ella stessa alla testa del medesimo, graziosamente accolse le
legioni che malconce ritornavano dal suddetto fatto d'armi, con far
medicare i feriti, e donar vesti a chi avea perdute le sue. Riferita a
Tiberio questa gloriosa azione d'Agrippina, siccome egli odiava la
stirpe d'Agrippa, e il suo pascolo era la diffidenza, ne fece
doglianze nel senato, con esporre l'indecenza che una donna si
usurpasse lo ufficio de' generali e dei legati, ed accusandola di mire
più alte, per esaltare il marito e il figliuolo Caligola. Nè mancò il
favorito Sejano di maggiormente fomentar in Tiberio sì fatte gelosie.
Meno è da credere che non facesse Livia Augusta, solita a mirar di mal
occhio Germanico, e più la di lui moglie secondo lo stil delle
femmine. Corsero dipoi gran pericolo di restar affogate nell'acque due
legioni comandate da Publio Vitellio. Segimero, fratello di Segeste,
col figliuolo si rendè ai Romani; e con questi, poco per altro
fortunati avvenimenti, ebbe fine la campagna dell'anno presente. Pagò
appunto in quest'anno Tiberio il pingue legato lasciato da Augusto al
popolo romano. A ciò fare fu spinto da una pungente burla[79]. Nel
passare la piazza un cadavero, portato alla sepoltura, accostatosi
alle orecchie del morto un buffone, in bassa voce gli disse o pur
finse di dire alcune parole. Interrogato poi dagli amici, rispose di
avergli ordinato d'avvertire Augusto della non per anche eseguita
testamentaria volontà. Le spie ne rapportarono tosto l'avviso a
Tiberio, il quale non tardò a pagare il legato, con far poco appresso
morir l'autore della burla, dicendo ch'egli stesso porterebbe più
presto ad Augusto le nuove di questo mondo[80]. Prese Tiberio in
quest'anno nel dì 10 marzo il titolo di _Pontefice Massimo_.
NOTE:
[75] Dio, lib. 57. Suetonius, in Tiber., cap. 26.
[76] Sueton., ibid., cap. 67.
[77] Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 16. Sueton., in
Tiber., cap. 50.
[78] Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 9.
[79] Dio, lib. 56.
[80] Panvin., in Fast. Blanchin., in Anast.
Anno di CRISTO XVI. Indizione IV.
TIBERIO imperadore 3.
_Consoli_
TITO STATILIO SISENNA TAURO e LUCIO SCRIBONIO LIBONE.
Al primo d'essi consoli, cioè a _Statilio_, ho aggiunto il prenome di
_Tito_, ricavandosi ciò da un'iscrizione riferita dal Fabretti[81].
Così ancora avea scritto il Panvinio. Al secondo, cioè a _Libone_, fu
sostituito nelle calende di luglio _Publio Pomponio Grecino_, come
consta dalla iscrizione suddetta e dal poeta Ovidio[82]. In
Germania[83] al fiume Weser due fatti d'armi seguirono fra i Romani
sotto il comando di Germanico, e i Germani regolati da Arminio. In
amendue la vittoria si dichiarò per li Romani. Avea Germanico fatto
preparar mille legni tra grandi e piccoli nell'isola di Batavia
(oggidì Olanda) per assalire dalla parte dell'Oceano i nemici. Sul
fine della state, imbarcata che fu la copiosa fanteria, con alquanto
di cavalleria, a forza di remi e di vele si mosse la flotta per entrar
nel paese nemico. V'era in persona lo stesso Germanico. Per una
tempesta insorta ebbe a perir tutta quella gente, e gran perdita si
fece d'armi, cavalli e bagaglio. Ma quando i Germani per questo
sinistro caso de' Romani si credeano in istato di vincere, Germanico
spedì Cajo Silio con trentamila fanti e tremila cavalli contra di
loro; il che tal riputazione acquistò ai Romani, tal terrore diede ai
Germani che cominciarono ad inclinar alla pace. Avrebbe potuto
Germanico dar l'ultima mano a quella guerra, se Tiberio con replicate
lettere ed istanze non l'avesse richiamato a Roma con esibirgli il
consolato e il trionfo già a lui accordato. Al geloso e diffidente
Tiberio premeva forte di staccar Germanico da quelle legioni,
paventando egli sempre delle novità a sè pregiudiziali, pel sommo
amore che quei soldati professavano a sì grazioso generale. Ancorchè
Germanico s'accorgesse delle torte mire d'esso suo zio, pure si
accomodò ai di lui voleri, ed impreso il viaggio d'Italia, forse
arrivò in Roma sul fine dell'anno. Fece[84] Tiberio nel presente
accusare in senato Lucio Scribonio Libone, giovane, diverso dal
console, quasichè macchinasse delle novità. Prevenne questi la
sentenza della morte con uccidersi da sè stesso. Avea già cominciato
Tiberio a permettere i processi contra delle persone anche più
illustri per sole parole indicanti mal animo o sedizione contra del
governo e della sua persona: laddove prima di salire sul trono avea
sempre sostenuto[85], «che in una città libera dovea ciascuno goder la
libertà di dire e pensare ciò che gli piacesse.» Questa bella massima,
divenuto che fu principe, perdè presso lui di grazia. Siccome ancora
quell'altra ch'egli proferì un dì nel senato con dire, «che se si
cominciasse ad ammettere accuse di chi parlasse contra del principe o
del senato, andrebbe in eccesso il processar persone; perchè chiunque
ha dei nemici, correrebbe a denunziarli come rei di questo delitto.»
Questi disordini appunto accaddero da lì innanzi sotto il tirannico di
lui governo.
Era in gran voga per questi tempi in Roma la strologia giudiciaria ed
anche la magia[86]. Della prima si dilettava lo stesso Tiberio,
tenendo in sua casa uno di questi venditori di fumo, chiamato
Trasillo, e volendo ogni dì udire da lui quel che dovea succedere in
quella giornata. Trovandosi beffato da costui, se ne sbrigò col farlo
uccidere; poi perseguitò tutti gli altri fabbricatori di pronostici. E
perchè non erano eseguiti gli editti intorno a questi impostori,
chiunque de' cittadini romani fu per tal cagione denunziato dipoi,
n'ebbe per castigo lo esilio. Solennemente ancora fu vietato a
chicchessia il portar vesti di seta, perchè di spesa grave, non
facendosi allora seta in Europa; siccome fu parimente proibito il
tener vasi d'oro, se non per valersene ne' sagrifizii; e nè pur furono
permessi vasi d'argento con ornamenti d'oro. Affettava Tiberio la
purità della lingua latina, e soprattutto usava i vocaboli antichi
d'Ennio e di Plauto. Essendogli in un editto scappata una parola non
latina, n'ebbe scrupolo, e volle ascoltare il parere de' più dotti
grammatici, i quali quasi tutti la dichiararono buona, dacchè era
stata usata da sì gran dottore e principe, qual era Tiberio. Con tutto
ciò saltò su un certo Marcello, dicendo, «che potea ben Cesare dar la
cittadinanza di Roma agli uomini, ma non già alle parole;» bolzonata
che ferì non poco Tiberio, e nondimeno seppe egli, secondo il suo
costume, ben dissimularla. Proibì ancora ad un centurione il fare
testimonianza nel senato con parole greche, tuttochè egli in quello
stesso luogo avesse udito molte cause trattate in greco, ed egli
medesimo talvolta si fosse servito dello stesso linguaggio per
interrogare.
NOTE:
[81] Fabrettus, Inscript., pag. 701.
[82] Ovidius, lib. 4, Ep. 9 Trist.
[83] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 9 et seq.
[84] Dio, lib. 57.
[85] Sueton., in Tiber., cap. 27.
[86] Dio, ibidem.
Anno di CRISTO XVII. Indizione V.
TIBERIO imperadore 4.
_Consoli_
CAIO CECILIO RUFO e LUCIO POMPONIO FLACCO GRECINO.
Il primo de' consoli negli Annali stampati di Tacito è chiamato
_Celio_; _Cecilio_ in quei di Dione. E così appunto si dee appellare.
S'è disputato fra gli eruditi intorno a questo nome. Credo io decisa
la lite da un marmo da me dato alla luce[87], che si dice posto C.
CAECILIO RVFO, L. POMPONIO FLACCO COSS. Erano insorte nell'anno
precedente varie turbolenze fra i re d'Oriente, che dipendevano in
qualche guisa da Roma[88]. Avea Augusto, siccome accennammo, dato ai
Parti _Vonone_ per re. Col tempo cominciarono que' barbari a
sprezzarlo, poscia ad abborrirlo, e finalmente a congiurare per
detronizzarlo. Chiamato alla corona _Artabano_ del sangue degli
antichi Arsacidi, questi, sconfitto sulle prime, sconfisse in fine
Vonone. Si rifugiò il vinto nell'Armenia, e fatto re da que' popoli
non andò molto, che prevalendo presso gli Armeni il partito favorevole
ad Artabano, Vonone si ritirò ad Antiochia con un gran tesoro. Ivi
risedeva proconsole della Soria Cretico Silano, che adocchiato
quell'oro, l'accolse ben volentieri, e permise ch'egli si trattasse da
re, ma nel medesimo tempo il facea custodire sotto buona guardia.
Vonone intanto implorava con frequenti lettere aiuto da Tiberio; ma
non avea Tiberio voglia di romperla coi Parti, gente che non si
lasciava far paura dai Romani, e gli avea anche più volte fatti
sospirare. Oltre a ciò avvenne[89] che Tiberio fece citar a Roma
_Archelao re della Cappadocia_ tributario de' Romani, col pretesto
ch'egli meditasse delle rebellioni. L'odiava Tiberio, perchè, allorchè
egli dimorava a guisa di relegato in Rodi, Archelao passando per colà
non l'avea onorato di una visita, e grande onore all'incontro avea
fatto a Cajo Cesare emulo suo. Venne Archelao a Roma vecchio e
malconcio di sanità, dopo aver per cinquant'anni governato i suoi
popoli; e fu accusato innanzi al senato. Si mise egli in tal affanno
per questa persecuzione, che da lì a qualche tempo, non si sa se
naturalmente, o pure per aiuto altrui, terminò la sua vita. Allora la
Cappadocia fu ridotta in provincia, e spedito colà un governatore. In
que' medesimi tempi vennero a morte _Antioco re della Comagene_ e
_Filopatore re di Cilicia_ con gran turbazione di que' popoli, parte
dei quali volea un re, ed un'altra desiderava il governo de' Romani.
Anche la Soria e la Giudea, lagnandosi de' troppo gravi tributi, ne
dimandavano la diminuzione.
Fu questa una bella occasione a Tiberio per allontanar l'odiato nipote
_Germanico Cesare_ da Roma, e cacciarlo in paesi pericolosi sotto
specie d'onore. Propose dunque in senato, che non v'era persona più a
proposito di lui per dar sesto agl'imbrogli dell'Oriente. Già avea
esso Germanico conseguito il trionfo nel dì 26 di maggio; e a lui per
questa spedizione fu conceduta un'ampia autorità in tutte le provincie
di là del mare. Ma Tiberio, per mettere a lui un contrapposto in
quelle contrade, richiamato Cretico Silano dalla Soria[90], spedì a
quel governo Gneo Calpurnio Pisone, uomo violento e poco amico di
Germanico. Con costui andò anche Plancina sua moglie, addottrinata,
per quanto fu creduto, da Livia Augusta, acciocchè facesse testa ad
_Agrippina_ moglie di Germanico. Volle inoltre Tiberio, che _Druso
Cesare_ suo figliuolo, lasciato l'ozio e il lusso di Roma, andasse
nell'Illirico ad apprendere il mestiere della guerra. Andò egli; ma
giunto colà fu forzato a passare in Germania, per cagion delle guerre
civili nate fra i Germani non sudditi di Roma. Aspra lite quivi era
fra Arminio promotore della libertà, e Maroboduo, che avea preso il
titolo di re. Ad una campale battaglia vennero questi due emuli. Fu
creduto vincitore Arminio, perchè l'altro per la soverchia diserzione
dei suoi si ritirò fra i Marcomanni[91]. Druso colà si portò con
apparenza di voler trattar la pace fra essi. Devastò in quest'anno un
fiero tremuoto dodici città dell'Asia, alcune delle quali assai
celebri, come Efeso, Sardi, Filadelfia. Tiberio dedicò in Roma varii
templi, ma edificati da altri; perchè egli non si dilettò di
fabbriche, nè di lasciar magnifiche memorie, per non iscomodar la sua
borsa. In Africa si sollevarono i Numidi e i Mori per istigazione di
Tacfarinate. Furio Camillo, proconsole di quelle provincie, benchè non
avesse al suo comando se non una sola legione e poche truppe
ausiliarie, marciò contro quella gran moltitudine di gente, e le mise
in fuga. Per tal vittoria si meritò dal senato gli ornamenti
trionfali[92]. Negli ultimi sei mesi dell'anno presente diede fine
alla sua vita il poeta _Ovidio_ in Tomi, città posta alle rive del mar
Nero, dov'era stato relegato da Augusto. Credesi ancora, che questo
fosse l'ultimo anno di vita del celebre storico romano _Tito Livio_
padovano.
NOTE:
[87] Thesaur. Novus Inscription., pag. 301, n. 1.
[88] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 1. Joseph., Antiq. Judaic., lib.
16, cap. 3.
[89] Dio, lib. 57.
[90] Tacit., Annal., lib. 2, cap. 43.
[91] Dio, Strabo, Eusebius, in Chron.
[92] Hieron., in Chron.
Anno di CRISTO XVIII. Indizione VI.
TIBERIO imperadore 5.
_Consoli_
CLAUDIO TIBERIO NERONE imperatore per la terza volta, e GERMANICO
CESARE per la seconda.
Pochi giorni tenne Tiberio il consolato. A lui succedette _Lucio Sejo
Tuberone_; e poscia nelle calende di luglio in luogo di Germanico, fu
creato console _Cajo Rubellio Blando_. Ho aggiunto il prenome di
_Cajo_ a Rubellio, secondo la testimonianza di un marmo[93] da me dato
alla luce. Ma si può dubitare, se il consolato di lui appartenga
all'anno presente. _Germanico_ si trovava in Nicopoli, città
dell'Epiro, allorchè vestì la trabea consolare[94]. Visitò egli le
città greche, e massimamente Atene, ricevendo dappertutto distinti
onori. Passò a Bisanzio e al mar Nero; e finalmente entrato nell'Asia,
arrivò a Lesbo, dove _Agrippina_ sua moglie partorì _Giulia Livilla_.
Intanto Gneo Pisone, inviato da Tiberio per proconsole della Soria,
raggiunse Germanico a Rodi. Non era ignoto a Germanico il mal animo di
costui; pure avendo inteso ch'egli correa pericolo della vita per una
fiera tempesta insorta, spedì alcune galee per salvarlo. Neppur giovò
questo per ammansarlo. Appena Pisone fu dimorato un giorno in Rodi,
che passò in Soria, dove usando carezze e regali si procacciò
l'affetto di quelle legioni, lasciando a' soldati specialmente la
libertà di far tutto ciò che loro piacea. Meno non si adoperava
Plancina sua moglie, che intanto non si guardava di sparlar
dappertutto di Germanico e di Agrippina. Andossene in Armenia
Germanico, ed ivi pose per re _Zenone_ figliuolo di Polemone re di
Ponto, dopo aver deposto _Orode_ figliuolo di Artabano. Diede dei
governatori alle provincie della Cappadocia e della Comagene, con
isminuire i tributi di quelle provincie; e poscia continuò il viaggio
fino in Soria. Più che mai cresceva la boria e la petulanza di Pisone
proconsole; e sforzavasi bensì Germanico di pazientare gl'insulti e i
mancamenti di rispetto di costui; ma niuno v'era, che non conoscesse
l'aperta nimicizia che passava fra loro. Vennero a trovar Germanico
gli ambasciadori di _Artabano_ re de' Parti, per rinnovar l'amicizia e
lega, esibendosi quel re di venire alle rive dell'Eufrate per fargli
una visita. Una delle loro dimande fu che non permettesse al già
deposto re dei Parti Vonone di soggiornar nella Soria. Germanico il
mandò a Pompejopoli, città della Cilicia, non tanto per far cosa grata
ad Artabano, quanto per far dispetto a Pisone, che il proteggeva non
poco a cagion de' regali e della servitù che ne ricavava Plancina sua
moglie. Qui ci vien meno la storia di Dione, e però nulla di più
sappiamo de' fatti de' Romani nell'anno presente.
NOTE:
[93] Thes. Novus Inscript., pag. 301, num. 2.
[94] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 54.
Anno di CRISTO XIX. Indizione VII.
Tiberio e i senatori. Saltò poi fuori Numerio Attico senatore, il
quale, mentre la pira ardeva, giurò di aver veduta l'anima d'Augusto
volare al cielo[68], come si finse una volta succeduto anche a Romolo,
facendosi credere con tali imposture alla buona gente ch'egli fosse
divenuto un dio o semideo: vana pretensione, continuata ne' tempi
seguenti per altri imperadori. Ciò fatto, si trattò nel senato di
confermare, o, per dir meglio, di concedere a Tiberio Cesare, lasciato
erede da Augusto suo padrigno, tutta l'autorità e gli onori goduti in
addietro dal medesimo Augusto. Era allora Tiberio in età di
cinquantasei anni, volpe fina e impastato di diffidenza, d'umor nero e
di crudeltà; ma che sapeva nascondere il suo cuore meglio d'ogni
altro, ed avea saputo coprire i suoi vizii agli occhi, non già di
tutti, ma forse della maggior parte dei grandi e de' piccoli. Nel
senato non v'era più alcuna di quelle teste forti che potessero
rimettere in piedi la libertà romana; tutto tendeva all'adulazione e
al privato, non al pubblico bene. V'entrava anche la paura, perchè
Tiberio continuò a comandare alle coorti del pretorio e alle armate
romane per le precedenti concessioni; e però niuno osava di alzar un
dito, anzi ognuno gareggiò a conferir la signoria a Tiberio.
All'incontro l'astuto Tiberio, quanto più essi insistevano per
esaltarlo, tanto più facea vista di abborrir quegli onori, e di
desiderare non superiorità, ma uguaglianza co' suoi cittadini,
esagerando la gran difficoltà a reggere sì vasto corpo, e i pericoli
di soccombere sotto il peso. Tutto affine di scandagliar bene gli
animi di ciascun particolare, e far poi vendetta a suo tempo di chi
poco inclinato comparisse verso di lui[69]. Temeva ancora che
_Germanico_ suo nipote, già adottato da lui per figliuolo, tra per
essere allora alla testa dell'armata romana in Germania, e perchè
sommamente amato dal popolo romano e dai soldati, potesse torgli la
mano. Lasciossi dunque pregare gran tempo anche dagl'inginocchiati
senatori, e finalmente senza chiaramente accettar l'impiego[70], o pur
facendo credere di prenderlo, ma per deporlo fra qualche tempo,
cominciò francamente ad esercitare l'autorità imperiale. Qui Vellejo
Patercolo[71] lascia la briglia all'eloquenza sua, per tessere un
panegirico delle azioni di Tiberio sui principii del suo governo. La
pace fiorì da per tutto; andò l'ingiustizia, la prepotenza, la frode a
nascondersi fra i Barbari; si stese la di lui liberalità per le
provincie e città che aveano patito disgrazie. E veramente gran
moderazione mostrò a tutta prima Tiberio, e seguitò a governar da
saggio, finchè visse Germanico, perchè temeva di lui. Nè qui si ferma
Vellejo. Entra ancora a vele gonfie nelle lodi di Elio Sejano, scelto
da Tiberio per suo consigliere e primo ministro. S'egli sel meritasse,
l'andremo osservando nel progresso degli anni.
Certo che in Roma niun tumulto o sedizione accadde per questo
cambiamento di governo; ma non fu così nelle provincie[72]. Le milizie
romane che soggiornavano nella Pannonia, appena udita la morte di
Augusto, si rivoltarono contra di Giulio Bleso lor comandante, che
corse pericolo della vita, facendo esse istanza della lor giubilazione
e d'essere premiate, col minacciar anche di ribellar quella provincia,
e di venirsene a Roma. Fu dunque spedito colà da Tiberio il suo
figliuolo _Druso_ con una man di soldati pretoriani, ed accompagnato
da Sejano, allora prefetto del pretorio. Durò Sejano non poca fatica a
mettere in dovere i sollevati che l'assediarono, e ferirono alcuni
della di lui scorta. Ma finalmente essendosi ritirati e divisi costoro
pe' quartieri; e chiamati sotto altro pretesto ad uno ad uno i più
feroci nella tenda di Druso, dove lasciarono la testa, si quietarono
gli altri, ed ebbe fine quel romore. Più strepitosa e di maggior
pericolo fu la sollevazion de' soldati romani nella Germania, perchè
quivi dimorava il miglior nerbo delle legioni sotto il comando di
_Germanico Cesare_, che si trovava allora nella Gallia a fare il censo
o sia la descrizione dell'anime. Si ammutinò parte di questo esercito
per le stesse cagioni che poco fa accennai. Corse perciò colà
Germanico; e siccome egli era sommamente amato, perchè dotato di
assaissime lodevoli qualità, e il conoscevano per migliore di gran
lunga che Tiberio, vollero crearlo imperadore. Costantissimo egli nel
non volere mancar di fede a Tiberio suo zio che l'avea anche adottato
per figliuolo, allorchè vide di non potere in altra guisa liberarsi
dalle lor furiose istanze, cavò la spada per uccidersi. Quest'atto li
fermò. Finse poi lettere di Tiberio, quasi ch'egli ordinasse in
donativo ad essi soldati il doppio dello stabilito da Augusto; la
promessa di sì fatta liberalità, e l'aver eziandio accordato il ben
servito ai veterani, li placò. Ma il danaro non concorreva, e intanto
giunsero gli ambasciatori di Tiberio, all'arrivo de' quali di nuovo si
sollevarono, e furono vicini a privarli di vita, per timore che
fossero spediti ad annullar quanto avea promesso Germanico. Presero
anche _Agrippina_ di lui moglie, gravida allora, e il piccolo
figliuolo _Cajo_, soprannominato _Caligola_. La costanza di Germanico,
giacchè non poteano conseguire di più, feceli dipoi tornare al loro
dovere. Ed acciocchè stando in ozio non macchinassero altre sedizioni,
Germanico li condusse addosso alle terre nemiche dove impiegarono i
pensieri e le mani per far buon bottino. Certo è, che Germanico se
avesse voluto, sarebbe stato imperatore Augusto; tanto egli avea in
pugno l'affetto di quel potente esercito, e il cuore eziandio del
popolo romano. Ma superior fu all'ambizione la sua virtù.
Cordialissime lettere perciò scrisse a lui e ad Agrippina sua moglie,
Tiberio per ringraziarli[73]: fece anche un bell'encomio di loro nel
senato ed ottenne a Germanico la podestà proconsolare, che forse dovea
essere terminata la dianzi a lui accordata. Tuttavia internamente
continuò più che mai ad odiarli, paventando sempre che in danno
proprio si potesse convertire un dì l'amore professato dalle milizie a
Germanico[74]. Non finì quest'anno, che Giulia, figliuola di Augusto e
moglie di Tiberio, già per gli eccessi della sua impudicizia relegata
in Reggio di Calabria, fu lasciata ovvero fatta morire di stento, se
pur non fu in altra più spedita maniera. Sempronio Gracco bandito
anch'egli, già passava il quattordicesimo anno, da Augusto nell'isola
di Cersina presso l'Africa, in castigo della sua disonesta amicizia
colla suddetta Giulia, fu anch'egli tolto di vita.
NOTE:
[60] Gruter., Thesaur. Inscription., pag. 230.
[61] Euseb., in Chron.
[62] Sueton., in August., cap. ult.
[63] Dio, lib. 56.
[64] Sueton., Tacitus, Dio.
[65] Vellejus, lib. 2.
[66] Tacitus, Annal., lib. 1.
[67] Tacitus, ibidem. Dio, lib. 51. Sueton., in August., c. 59. Philo,
in Legation. ad Cajum.
[68] Sueton., in August., cap. 101. Dio, lib. 56.
[69] Dio, lib. 57.
[70] Sueton., in Tiber., cap. 24.
[71] Vellejus, lib. 2.
[72] Dio, lib. 57. Tacit., lib. 1 Annal., cap. 16 et seq.
[73] Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, c. 56.
[74] Tacito, Annal., lib. 1, c. 57.
Anno di CRISTO XV. Indizione III.
TIBERIO imperadore 2.
_Consoli_
DRUSO CESARE figliuolo di TIBERIO e CAIO NORBANO FLACCO.
Fu massimamente in quest'anno un bel vedere, con che attenzione,
moderazione e modestia si applicasse Tiberio al governo[75]. Non volle
che si premettesse al suo nome il titolo d'imperadore. Si adirava con
chi osasse chiamarlo _signore_; e a' soldati permetteva il nominarlo
per _imperadore_: giacchè tal nome, siccome dissi, solamente allora
significava generale d'armata. Il glorioso nome di _Padre della
Patria_ non permise mai che il senato glielo desse, forse perchè
abborriva l'adulazione, ed egli in sua coscienza dovea forse sapere di
non poterlo meritare giammai. E certamente scrivendo una volta al
senato[76] che vilmente pregava di ricevere questo titolo, disse: «Se
per mia disavventura un qualche dì accadesse, che voi dubitaste della
mia buona intenzione e della sincerità dell'affetto che a voi professo
(il che se dovesse avvenire, desidero piuttosto che la morte mia
prevenga la mutazion della vostra opinione), questo titolo di Padre
della patria niente d'onore recherebbe a me, e servirebbe solo di
rimprovero a voi per aver fallato il giudicare di me, e per avere
spropositatamente dato a me un cognome che non mi conveniva.» Benchè
passasse in lui per eredità il titolo d'_Augusto_, pure non l'usava se
non talvolta in iscrivendo ai re; e solamente leggendolo o
ascoltandolo a sè dato, non l'avea a male; e però sovente si trova
nelle iscrizioni e medaglie d'allora. Il nome di _Cesare_ era a lui
famigliare; e talora usò il cognome di _Germanico_, per le vittorie
riportate in Germania, siccome ancor quello di _Principe del Senato_,
cioè di primo fra i senatori. Soleva perciò dire ch'egli era: «Signore
de' propri schiavi, imperadore (cioè generale) dei soldati, e primo
fra gli altri cittadini di Roma.» Per la stessa ragione vietò sulle
prime ad ognuno il fabbricargli dei templi come s'era fatto ad
Augusto; nè volle sacerdoti flamini. Col tempo permise ciò alle città
dell'Asia, ma nol volle permettere a quelle della Spagna e d'altri
paesi. Che se talun desiderava d'innalzargli statue, o di esporre
l'immagine sua, nol potea fare senza di lui licenza; e questa si
concedea, sempre colla condizione che non si mettessero fra i
simulacri degl'iddii, ma solamente per ornamento delle case. Altre
simili distinzioni d'onore rifiutò egli, e soprattutto amava di
comparire popolare; camminando per la città con poco seguito, e senza
voler corteggio servile di gente nobile; onorando non solo i grandi,
ma anche la bassa gente, e tenendo al suo servigio un discreto numero
di schiavi. Nel senato poi e nei giudizii del foro, non si piccava
punto di preminenza, dicendo e lasciando che ogni altro liberamente
dicesse il suo parere: nè si sdegnava se si risolveva in contrario al
suo. Niuna risoluzione prendeva egli mai senza sentire i senatori
consiglieri eletti da lui. Era sollecito in impedire gli aggravi de'
popoli e le estorsioni de' ministri; e ad alcuni governatori che
l'esortavano ad accrescere i tributi, o pure a quel dell'Egitto, che
mandò più danaro di quel che si solea ricavare, rispose: «Che le
pecore s'han da tosare, e non già da levar loro la pelle.» In somma
Tiberio avea testa per esser un ottimo principe e glorioso imperatore;
e pur pessimo riuscì, perchè all'intendimento prevalse di troppo,
siccome vedremo, la maligna sua inclinazione[77]. All'incontro _Livia
Augusta_ sua madre, donna gonfia più d'ogni altra di fasto e di
vanità, facea gran figura in Roma. Nulla avea omesso, fatte avea anche
delle enormità affinchè il figliuolo arrivasse a dominare per
isperanza di continuare a dominar come prima sotto l'ombra di lui. Ma
era ben diverso da quello d'Augusto l'amor di Tiberio. La tenne egli,
per quanto potè, sempre bassa, senza permettere che l'adulatore senato
le desse certi titoli d'onore che maggiormente l'avrebbono
insuperbita; talvolta diceva a lei stessa, «non esser conveniente alle
donne il mischiarsi negli affari di Stato.» Quantunque talvolta si
regolasse secondo i di lei consigli, pure il men che potea l'onorava
di sue visite; ed anche visitandola, poco vi si tratteneva, affinchè
non paresse ch'egli si lasciasse governare da lei. Fece anche di più
col tempo, siccome vedremo.
Comandava intanto le armate di Germania il giovane _Germanico Cesare_.
Ancorchè fosse lontano da Roma, per cura di Tiberio gli fu conceduto
il trionfo, celebrato poi nell'anno seguente, in ricompensa di quanto
egli avea finora operato in quella guerra[78]. Durava questa in
Germania, ed erano tuttavia in armi Arminio e Segeste, due primari
capitani di quelle contrade; ma fra loro discordi, perchè Arminio,
rapita una figliuola di esso Segeste, promessa ad un altro, la avea
presa per moglie a dispetto del padre. Con due corpi d'armata assai
poderosi, l'uno comandato da Germanico, l'altro da Aulo Cecina, legato
dello esercito, fu portata la guerra addosso ai popoli Catti (oggidì
creduti gli Assiani) e preso il loro paese. Mosse in questi tempi
Arminio una sedizione contra del suocero Segeste, il quale, trovandosi
assediato, spedì il figliuolo Segimondo a Germanico per aiuto.
Accorsero i Romani; furon messi in rotta gli assedianti, liberato
Segeste, e presa con altre nobili donne la di lui figliuola, gravida
allora del marito Arminio. Questo fatto e le tante grida d'Arminio
cagion furono che presero l'armi per lui i Cherusci ed Ingujomero di
lui zio paterno. Seguirono poi due combattimenti. Nel primo toccò la
peggio ad Arminio; nell'altro ebbe Cecina colle sue brigate non poca
fatica a ridursi in salvo, ma dopo averne riportate molte ferite. Fu
allora che _Agrippina_, moglie di Germanico, fece comparire l'animo
suo virile. Per la suddetta disgrazia era corsa voce che i Germani
venivano per passare ostilmente nella Gallia. Impedì la valorosa donna
che non si guastasse il ponte sul Reno, come volevano que' cittadini.
Messasi ella stessa alla testa del medesimo, graziosamente accolse le
legioni che malconce ritornavano dal suddetto fatto d'armi, con far
medicare i feriti, e donar vesti a chi avea perdute le sue. Riferita a
Tiberio questa gloriosa azione d'Agrippina, siccome egli odiava la
stirpe d'Agrippa, e il suo pascolo era la diffidenza, ne fece
doglianze nel senato, con esporre l'indecenza che una donna si
usurpasse lo ufficio de' generali e dei legati, ed accusandola di mire
più alte, per esaltare il marito e il figliuolo Caligola. Nè mancò il
favorito Sejano di maggiormente fomentar in Tiberio sì fatte gelosie.
Meno è da credere che non facesse Livia Augusta, solita a mirar di mal
occhio Germanico, e più la di lui moglie secondo lo stil delle
femmine. Corsero dipoi gran pericolo di restar affogate nell'acque due
legioni comandate da Publio Vitellio. Segimero, fratello di Segeste,
col figliuolo si rendè ai Romani; e con questi, poco per altro
fortunati avvenimenti, ebbe fine la campagna dell'anno presente. Pagò
appunto in quest'anno Tiberio il pingue legato lasciato da Augusto al
popolo romano. A ciò fare fu spinto da una pungente burla[79]. Nel
passare la piazza un cadavero, portato alla sepoltura, accostatosi
alle orecchie del morto un buffone, in bassa voce gli disse o pur
finse di dire alcune parole. Interrogato poi dagli amici, rispose di
avergli ordinato d'avvertire Augusto della non per anche eseguita
testamentaria volontà. Le spie ne rapportarono tosto l'avviso a
Tiberio, il quale non tardò a pagare il legato, con far poco appresso
morir l'autore della burla, dicendo ch'egli stesso porterebbe più
presto ad Augusto le nuove di questo mondo[80]. Prese Tiberio in
quest'anno nel dì 10 marzo il titolo di _Pontefice Massimo_.
NOTE:
[75] Dio, lib. 57. Suetonius, in Tiber., cap. 26.
[76] Sueton., ibid., cap. 67.
[77] Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 16. Sueton., in
Tiber., cap. 50.
[78] Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 9.
[79] Dio, lib. 56.
[80] Panvin., in Fast. Blanchin., in Anast.
Anno di CRISTO XVI. Indizione IV.
TIBERIO imperadore 3.
_Consoli_
TITO STATILIO SISENNA TAURO e LUCIO SCRIBONIO LIBONE.
Al primo d'essi consoli, cioè a _Statilio_, ho aggiunto il prenome di
_Tito_, ricavandosi ciò da un'iscrizione riferita dal Fabretti[81].
Così ancora avea scritto il Panvinio. Al secondo, cioè a _Libone_, fu
sostituito nelle calende di luglio _Publio Pomponio Grecino_, come
consta dalla iscrizione suddetta e dal poeta Ovidio[82]. In
Germania[83] al fiume Weser due fatti d'armi seguirono fra i Romani
sotto il comando di Germanico, e i Germani regolati da Arminio. In
amendue la vittoria si dichiarò per li Romani. Avea Germanico fatto
preparar mille legni tra grandi e piccoli nell'isola di Batavia
(oggidì Olanda) per assalire dalla parte dell'Oceano i nemici. Sul
fine della state, imbarcata che fu la copiosa fanteria, con alquanto
di cavalleria, a forza di remi e di vele si mosse la flotta per entrar
nel paese nemico. V'era in persona lo stesso Germanico. Per una
tempesta insorta ebbe a perir tutta quella gente, e gran perdita si
fece d'armi, cavalli e bagaglio. Ma quando i Germani per questo
sinistro caso de' Romani si credeano in istato di vincere, Germanico
spedì Cajo Silio con trentamila fanti e tremila cavalli contra di
loro; il che tal riputazione acquistò ai Romani, tal terrore diede ai
Germani che cominciarono ad inclinar alla pace. Avrebbe potuto
Germanico dar l'ultima mano a quella guerra, se Tiberio con replicate
lettere ed istanze non l'avesse richiamato a Roma con esibirgli il
consolato e il trionfo già a lui accordato. Al geloso e diffidente
Tiberio premeva forte di staccar Germanico da quelle legioni,
paventando egli sempre delle novità a sè pregiudiziali, pel sommo
amore che quei soldati professavano a sì grazioso generale. Ancorchè
Germanico s'accorgesse delle torte mire d'esso suo zio, pure si
accomodò ai di lui voleri, ed impreso il viaggio d'Italia, forse
arrivò in Roma sul fine dell'anno. Fece[84] Tiberio nel presente
accusare in senato Lucio Scribonio Libone, giovane, diverso dal
console, quasichè macchinasse delle novità. Prevenne questi la
sentenza della morte con uccidersi da sè stesso. Avea già cominciato
Tiberio a permettere i processi contra delle persone anche più
illustri per sole parole indicanti mal animo o sedizione contra del
governo e della sua persona: laddove prima di salire sul trono avea
sempre sostenuto[85], «che in una città libera dovea ciascuno goder la
libertà di dire e pensare ciò che gli piacesse.» Questa bella massima,
divenuto che fu principe, perdè presso lui di grazia. Siccome ancora
quell'altra ch'egli proferì un dì nel senato con dire, «che se si
cominciasse ad ammettere accuse di chi parlasse contra del principe o
del senato, andrebbe in eccesso il processar persone; perchè chiunque
ha dei nemici, correrebbe a denunziarli come rei di questo delitto.»
Questi disordini appunto accaddero da lì innanzi sotto il tirannico di
lui governo.
Era in gran voga per questi tempi in Roma la strologia giudiciaria ed
anche la magia[86]. Della prima si dilettava lo stesso Tiberio,
tenendo in sua casa uno di questi venditori di fumo, chiamato
Trasillo, e volendo ogni dì udire da lui quel che dovea succedere in
quella giornata. Trovandosi beffato da costui, se ne sbrigò col farlo
uccidere; poi perseguitò tutti gli altri fabbricatori di pronostici. E
perchè non erano eseguiti gli editti intorno a questi impostori,
chiunque de' cittadini romani fu per tal cagione denunziato dipoi,
n'ebbe per castigo lo esilio. Solennemente ancora fu vietato a
chicchessia il portar vesti di seta, perchè di spesa grave, non
facendosi allora seta in Europa; siccome fu parimente proibito il
tener vasi d'oro, se non per valersene ne' sagrifizii; e nè pur furono
permessi vasi d'argento con ornamenti d'oro. Affettava Tiberio la
purità della lingua latina, e soprattutto usava i vocaboli antichi
d'Ennio e di Plauto. Essendogli in un editto scappata una parola non
latina, n'ebbe scrupolo, e volle ascoltare il parere de' più dotti
grammatici, i quali quasi tutti la dichiararono buona, dacchè era
stata usata da sì gran dottore e principe, qual era Tiberio. Con tutto
ciò saltò su un certo Marcello, dicendo, «che potea ben Cesare dar la
cittadinanza di Roma agli uomini, ma non già alle parole;» bolzonata
che ferì non poco Tiberio, e nondimeno seppe egli, secondo il suo
costume, ben dissimularla. Proibì ancora ad un centurione il fare
testimonianza nel senato con parole greche, tuttochè egli in quello
stesso luogo avesse udito molte cause trattate in greco, ed egli
medesimo talvolta si fosse servito dello stesso linguaggio per
interrogare.
NOTE:
[81] Fabrettus, Inscript., pag. 701.
[82] Ovidius, lib. 4, Ep. 9 Trist.
[83] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 9 et seq.
[84] Dio, lib. 57.
[85] Sueton., in Tiber., cap. 27.
[86] Dio, ibidem.
Anno di CRISTO XVII. Indizione V.
TIBERIO imperadore 4.
_Consoli_
CAIO CECILIO RUFO e LUCIO POMPONIO FLACCO GRECINO.
Il primo de' consoli negli Annali stampati di Tacito è chiamato
_Celio_; _Cecilio_ in quei di Dione. E così appunto si dee appellare.
S'è disputato fra gli eruditi intorno a questo nome. Credo io decisa
la lite da un marmo da me dato alla luce[87], che si dice posto C.
CAECILIO RVFO, L. POMPONIO FLACCO COSS. Erano insorte nell'anno
precedente varie turbolenze fra i re d'Oriente, che dipendevano in
qualche guisa da Roma[88]. Avea Augusto, siccome accennammo, dato ai
Parti _Vonone_ per re. Col tempo cominciarono que' barbari a
sprezzarlo, poscia ad abborrirlo, e finalmente a congiurare per
detronizzarlo. Chiamato alla corona _Artabano_ del sangue degli
antichi Arsacidi, questi, sconfitto sulle prime, sconfisse in fine
Vonone. Si rifugiò il vinto nell'Armenia, e fatto re da que' popoli
non andò molto, che prevalendo presso gli Armeni il partito favorevole
ad Artabano, Vonone si ritirò ad Antiochia con un gran tesoro. Ivi
risedeva proconsole della Soria Cretico Silano, che adocchiato
quell'oro, l'accolse ben volentieri, e permise ch'egli si trattasse da
re, ma nel medesimo tempo il facea custodire sotto buona guardia.
Vonone intanto implorava con frequenti lettere aiuto da Tiberio; ma
non avea Tiberio voglia di romperla coi Parti, gente che non si
lasciava far paura dai Romani, e gli avea anche più volte fatti
sospirare. Oltre a ciò avvenne[89] che Tiberio fece citar a Roma
_Archelao re della Cappadocia_ tributario de' Romani, col pretesto
ch'egli meditasse delle rebellioni. L'odiava Tiberio, perchè, allorchè
egli dimorava a guisa di relegato in Rodi, Archelao passando per colà
non l'avea onorato di una visita, e grande onore all'incontro avea
fatto a Cajo Cesare emulo suo. Venne Archelao a Roma vecchio e
malconcio di sanità, dopo aver per cinquant'anni governato i suoi
popoli; e fu accusato innanzi al senato. Si mise egli in tal affanno
per questa persecuzione, che da lì a qualche tempo, non si sa se
naturalmente, o pure per aiuto altrui, terminò la sua vita. Allora la
Cappadocia fu ridotta in provincia, e spedito colà un governatore. In
que' medesimi tempi vennero a morte _Antioco re della Comagene_ e
_Filopatore re di Cilicia_ con gran turbazione di que' popoli, parte
dei quali volea un re, ed un'altra desiderava il governo de' Romani.
Anche la Soria e la Giudea, lagnandosi de' troppo gravi tributi, ne
dimandavano la diminuzione.
Fu questa una bella occasione a Tiberio per allontanar l'odiato nipote
_Germanico Cesare_ da Roma, e cacciarlo in paesi pericolosi sotto
specie d'onore. Propose dunque in senato, che non v'era persona più a
proposito di lui per dar sesto agl'imbrogli dell'Oriente. Già avea
esso Germanico conseguito il trionfo nel dì 26 di maggio; e a lui per
questa spedizione fu conceduta un'ampia autorità in tutte le provincie
di là del mare. Ma Tiberio, per mettere a lui un contrapposto in
quelle contrade, richiamato Cretico Silano dalla Soria[90], spedì a
quel governo Gneo Calpurnio Pisone, uomo violento e poco amico di
Germanico. Con costui andò anche Plancina sua moglie, addottrinata,
per quanto fu creduto, da Livia Augusta, acciocchè facesse testa ad
_Agrippina_ moglie di Germanico. Volle inoltre Tiberio, che _Druso
Cesare_ suo figliuolo, lasciato l'ozio e il lusso di Roma, andasse
nell'Illirico ad apprendere il mestiere della guerra. Andò egli; ma
giunto colà fu forzato a passare in Germania, per cagion delle guerre
civili nate fra i Germani non sudditi di Roma. Aspra lite quivi era
fra Arminio promotore della libertà, e Maroboduo, che avea preso il
titolo di re. Ad una campale battaglia vennero questi due emuli. Fu
creduto vincitore Arminio, perchè l'altro per la soverchia diserzione
dei suoi si ritirò fra i Marcomanni[91]. Druso colà si portò con
apparenza di voler trattar la pace fra essi. Devastò in quest'anno un
fiero tremuoto dodici città dell'Asia, alcune delle quali assai
celebri, come Efeso, Sardi, Filadelfia. Tiberio dedicò in Roma varii
templi, ma edificati da altri; perchè egli non si dilettò di
fabbriche, nè di lasciar magnifiche memorie, per non iscomodar la sua
borsa. In Africa si sollevarono i Numidi e i Mori per istigazione di
Tacfarinate. Furio Camillo, proconsole di quelle provincie, benchè non
avesse al suo comando se non una sola legione e poche truppe
ausiliarie, marciò contro quella gran moltitudine di gente, e le mise
in fuga. Per tal vittoria si meritò dal senato gli ornamenti
trionfali[92]. Negli ultimi sei mesi dell'anno presente diede fine
alla sua vita il poeta _Ovidio_ in Tomi, città posta alle rive del mar
Nero, dov'era stato relegato da Augusto. Credesi ancora, che questo
fosse l'ultimo anno di vita del celebre storico romano _Tito Livio_
padovano.
NOTE:
[87] Thesaur. Novus Inscription., pag. 301, n. 1.
[88] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 1. Joseph., Antiq. Judaic., lib.
16, cap. 3.
[89] Dio, lib. 57.
[90] Tacit., Annal., lib. 2, cap. 43.
[91] Dio, Strabo, Eusebius, in Chron.
[92] Hieron., in Chron.
Anno di CRISTO XVIII. Indizione VI.
TIBERIO imperadore 5.
_Consoli_
CLAUDIO TIBERIO NERONE imperatore per la terza volta, e GERMANICO
CESARE per la seconda.
Pochi giorni tenne Tiberio il consolato. A lui succedette _Lucio Sejo
Tuberone_; e poscia nelle calende di luglio in luogo di Germanico, fu
creato console _Cajo Rubellio Blando_. Ho aggiunto il prenome di
_Cajo_ a Rubellio, secondo la testimonianza di un marmo[93] da me dato
alla luce. Ma si può dubitare, se il consolato di lui appartenga
all'anno presente. _Germanico_ si trovava in Nicopoli, città
dell'Epiro, allorchè vestì la trabea consolare[94]. Visitò egli le
città greche, e massimamente Atene, ricevendo dappertutto distinti
onori. Passò a Bisanzio e al mar Nero; e finalmente entrato nell'Asia,
arrivò a Lesbo, dove _Agrippina_ sua moglie partorì _Giulia Livilla_.
Intanto Gneo Pisone, inviato da Tiberio per proconsole della Soria,
raggiunse Germanico a Rodi. Non era ignoto a Germanico il mal animo di
costui; pure avendo inteso ch'egli correa pericolo della vita per una
fiera tempesta insorta, spedì alcune galee per salvarlo. Neppur giovò
questo per ammansarlo. Appena Pisone fu dimorato un giorno in Rodi,
che passò in Soria, dove usando carezze e regali si procacciò
l'affetto di quelle legioni, lasciando a' soldati specialmente la
libertà di far tutto ciò che loro piacea. Meno non si adoperava
Plancina sua moglie, che intanto non si guardava di sparlar
dappertutto di Germanico e di Agrippina. Andossene in Armenia
Germanico, ed ivi pose per re _Zenone_ figliuolo di Polemone re di
Ponto, dopo aver deposto _Orode_ figliuolo di Artabano. Diede dei
governatori alle provincie della Cappadocia e della Comagene, con
isminuire i tributi di quelle provincie; e poscia continuò il viaggio
fino in Soria. Più che mai cresceva la boria e la petulanza di Pisone
proconsole; e sforzavasi bensì Germanico di pazientare gl'insulti e i
mancamenti di rispetto di costui; ma niuno v'era, che non conoscesse
l'aperta nimicizia che passava fra loro. Vennero a trovar Germanico
gli ambasciadori di _Artabano_ re de' Parti, per rinnovar l'amicizia e
lega, esibendosi quel re di venire alle rive dell'Eufrate per fargli
una visita. Una delle loro dimande fu che non permettesse al già
deposto re dei Parti Vonone di soggiornar nella Soria. Germanico il
mandò a Pompejopoli, città della Cilicia, non tanto per far cosa grata
ad Artabano, quanto per far dispetto a Pisone, che il proteggeva non
poco a cagion de' regali e della servitù che ne ricavava Plancina sua
moglie. Qui ci vien meno la storia di Dione, e però nulla di più
sappiamo de' fatti de' Romani nell'anno presente.
NOTE:
[93] Thes. Novus Inscript., pag. 301, num. 2.
[94] Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 54.
Anno di CRISTO XIX. Indizione VII.
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