Annali d'Italia, vol. 1 - 38
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nella Paflagonia _Alessandro_, famoso impostore, che in questi tempi
si spacciava profeta, ed ebbe poi Luciano[1128] scrittore della di lui
infame vita. Il furbo gli predisse delle vittorie. Con questo dolce in
bocca andò Severiano, menando seco più d'una legione, a portarsi in
Elegia città dell'Armenia. Ma eccoti comparire un nuvolo di Parti, che
per tre giorni tennero bloccata da ogni parte l'armata romana, e in
fine con una pioggia di strali la disfecero interamente, lasciandovi
la vita anche tutti i capitani. Se non falla Capitolino[1129], questa
sciagura arrivò ai Romani, fin quando Lucio Vero Augusto, postosi in
cammino verso l'Oriente, si dava bel tempo nella Puglia, andando a
caccia, e perdendo il tempo. Per conseguente dovrebbe tal fatto
appartenere all'anno precedente 162. Fiero per tal vittoria _Vologeso_
re dei Parti, rivolse le armi contro la Soria, dove era governatore
_Attidio Corneliano_. Quivi ancora venuto alle mani coll'esercito
romano, lo mise in rotta, spandendo con ciò il terrore e i saccheggi
per tutte quelle contrade. Nè andò esente da sì fatti danni la
provincia della Cappadocia. Sembra che tal disavventura accadesse nel
precedente anno. Giunto era ad Antiochia, come dicemmo, capitale della
Soria, _Lucio Vero Augusto_[1130]; e invece di attendere
all'importante affare, per cui s'era mosso, quivi tutto si diede in
preda ai piaceri, anche più infami, nel lusso, nei conviti e in ogni
sorta di libidine. Non avea più il maestro a lato che gli tenesse gli
occhi addosso, nè gli legasse le mani. Doveva andare in persona, come
desiderava l'Augusto suo fratello, a procacciarsi gloria nelle armi,
ed egli ad altro non pensava che ad appagare ogni sfrenata sua voglia.
Tutto quel che fece, fu spedire gran gente e dei bravi generali contra
dei Parti, e questi principalmente furono _Stazio Prisco_, _Avidio
Cassio_ (che vedremo a suo tempo ribello) e _Marzio Vero_, lodati
ancora da Dione[1131] pel loro valore. Sembra che si possa dedurre
dalle medaglie[1132], che in quest'anno i Romani riportassero qualche
vantaggio nell'Armenia, o ne ricuperassero una parte; ma non dovette
esser gran cosa. Avea già Marco Aurelio promessa in moglie a _Lucio
Vero_ la sua figliuola _Lucilla_. Secondo i conti del padre
Pagi[1133], in questo anno se ne effettuarono le nozze[1134]. Condotta
questa principessa dal padre sino a Brindisi, fu poi trasferita ad
Efeso, dove si portò Lucio Vero a prenderla. E vi si portò per
concerto fatto prima; imperciocchè Marco Aurelio avea detto in senato
di volerla egli stesso condurre fino in Soria; ma Lucio Vero si esibì
di venire a riceverla ad Efeso per timore che se il fratello arrivasse
ad Antiochia, non iscoprisse tutti i segreti della scandalosa sua
vita. Avea il buon imperadore Marco Aurelio, per esentare i popoli
dagli aggravi, spediti prima degli ordini alle provincie, che non si
facessero incontri alla figliuola. Ma più verosimile sembrerà che
nell'anno susseguente succedesse il viaggio di Lucilla, a cui fu
conferito il titolo di _Augusta_; perchè Marco Aurelio se ne tornò in
fretta da Brindisi a Roma, per ismentire le dicerie sparse, ch'egli
volesse passare in Soria affin di levare al fratello e genero la
gloria di terminar quella guerra. E pure finquì non abbiamo inteso
alcun tale prospero successo delle armi romane in quelle parti, onde
potesse Marco Aurelio portar invidia a Lucio Vero.
NOTE:
[1124] Thesaurus Novus Inscript., pag. 335.
[1125] Reinesius, Inscript., pag. 218.
[1126] Reland., Fast. Consular.
[1127] Dio, lib. 71.
[1128] Lucian., in Pseud.
[1129] Capitolin., in Lucio Vero.
[1130] Idem, ibid.
[1131] Dio, lib. 71.
[1132] Mediobarbus, in Numismat. Imp.
[1133] Pagius, Critic. Baron.
[1134] Capitolinus, in Marco Aurel. et in Lucio Vero.
Anno di CRISTO CLXIV. Indizione II.
SOTERO papa 3.
MARCO AURELIO imperad. 4.
LUCIO VERO imperad. 4.
_Consoli_
MARCO POMPEO MACRINO e PUBLIO JUVENZIO GELSO.
Cangiossi finalmente nel presente anno in ridente il volto finora
bieco della fortuna verso de' Romani. A _Stazio Prisco_ riuscì di
prendere Artasata città dell'Armenia[1135], di mettere guarnigione in
un luogo, appellato di poi Città-Nuova, perchè _Marzio Vero_, a cui fu
dato il governo di quella provincia, fece di quel luogo la prima città
dell'Armenia[1136]. Allorchè esso Marzio giunse colà, trovò ammutinate
quelle milizie, e colla sua prudenza le pacificò. Nelle medaglie[1137]
di quest'anno si fa menzione dell'_Armenia vinta_, dell'_Armenia
presa_. E più di una vittoria convien dire che riportassero i Romani
in quelle parti, perchè osserviamo che i due Augusti presero in
quest'anno _per due volte_ il titolo d'_Imperadore_, segno appunto di
vittoria. Quel che è più, tanto Marco Aurelio, che Lucio Vero, furono
proclamati _Armeniaci_, come consta dalle medesime loro medaglie, o,
vogliam dire, monete, inoltre dalle stesse apparisce ch'essi Augusti
diedero un re agli Armeni; e questo fu _Soemo_ della razza degli
Arsacidi, senza che si sappia s'egli ne fosse dianzi re, e cacciato da
Vologeso, o pure s'egli fosse re nuovo, dato dai due imperadori a quei
popoli; e Dione[1138], parlando della somma clemenza di Marco Aurelio,
scrive che in questa guerra fu fatto prigione Tiridate Satrapa, il
quale era stato cagione de' torbidi nati nell'Armenia, ed avea ucciso
il re degli Eniochi, e messa mano alla spada contra di _Marzio Vero_
generale de' Romani, perchè gli rimproverava cotesti suoi eccessi. E
pure il buon imperadore altro gastigo non gli diede, se non che il
mandò in esilio nella Bretagna. Intanto ridendosi Lucio Vero dei
rumori e pericoli della guerra, col pretesto di attendere a provveder
le armate romane di viveri e di nuove genti[1139], se ne stava godendo
le delizie di Antiochia, e lasciava che i generali romani sudassero ed
esponessero le lor vite per lui nelle imprese guerriere. Per quattro
anni, ma con soggiorno non fisso, si trattenne egli in quella città:
perchè nel verno abitava a Laodicea, nella state a Dafne, amenissimo
ed ombroso luogo in vicinanza di Antiochia. Per le tante istanze
nondimeno de' suoi consiglieri, si lasciò indurre, durante questa
guerra, a portarsi due volte sino all'Eufrate. Ma appena s'era
lasciato vedere all'esercito romano (non già a quel de' nemici), che
se tornava ai suoi prediletti ed obbrobriosi piaceri di Antiochia. E
non gliela perdonavano già que' commedianti, i quali nel pubblico
teatro più volte con arguti motti destramente mettevano in canzone ora
la di lui codardia, ora la sfrenata sua lussuria; nè v'era persona che
non gli ridesse dietro. Truovasi presso il Mezzabarba sotto quest'anno
una medaglia, in cui Marco Aurelio è intitolato _Germanico_, ed
espressa una _Vittoria d'Augusto_. Ma non può stare. Vedremo a suo
tempo quando a questo imperadore fu dato il titolo di Germanico. Per
ora egli solamente veniva chiamato _Armeniaco_.
NOTE:
[1135] Capitol., in Marco Aurelio.
[1136] Dio, lib. 71.
[1137] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.
[1138] Dio, in excerpt. Valesian.
[1139] Capitol., in Lucio Vero.
Anno di CRISTO CLXV. Indizione III.
SOTERO papa 4.
MARCO AURELIO imperad. 5.
LUCIO VERO imperad. 5.
_Consoli_
LUCIO ARRIO PUDENTE e MARCO GAVIO ORFITO.
Più strepitosi ancora furono i fatti de' Romani in quest'anno nella
guerra contra de' Parti[1140]. _Avidio Cassio_, che comandava la
grande armata romana in faccia ai Parti, gittò un ponte sull'Eufrate,
come già fece Trajano, e, ad onta loro, passò coll'esercito nella
Mesopotamia, inseguì i fuggitivi, e mise quelle contrade sotto
l'ubbidienza de' romani Augusti. Fra le sue conquiste massimamente
famosa divenne quella di Seleucia, città popolatissima e ricca sul
Tigri, tale che, se non abbiam difficultà a credere ad Eutropio[1141]
e a Paolo Orosio[1142], era abitata da quattrocento e più mila
persone. Si rendè amichevolmente quel popolo a Cassio, senza voler
aspettare la forza, ma l'iniquo generale che voleva pur rallegrare
l'armata col sacco di sì doviziosa città, trovò de' pretesti ed
inventò delle querele, tanto che si effettuò lo scellerato suo disegno
colla rovina di quel popolo, e coll'incendio dell'intera città, in
cui, anche a' tempi di Ammiano Marcellino[1143], si miravano le
vestigia di così crudele azione. Nulladimeno attesta Capitolino[1144],
che _Asinio Quadrato_, scrittore di questa guerra, discolpa _Cassio_,
e rigetta sopra i Seleuciani, come primi a romper la fede, l'origine
della loro sciagura. In dubbii tali la presunzione corre contra chi ha
l'armi in mano, e facendo quel mestiere per arricchire, ed anche per
altri fini obbrobriosi, facilmente dimentica tutte le leggi
dell'umanità, per ottenere l'intento. Qui non si fermò la vittoria di
Cassio. Passato il fiume Tigri, entrò ancora in Ctesifonte, capitale
del regno de' Parti, e in Babilonia, città famosa di quei tempi.
Rimasero spianati tutti i palazzi che _Vologeso_ avea in Ctesifonte,
acciocchè anch'egli imparasse, al pari di suo padre, a rispettare la
maestà del romano imperio. Scrive Luciano[1145], autore di questi
tempi, una gran battaglia succeduta a Zaugma presso l'Eufrate fra i
Romani e i Parti, colla totale disfatta degli ultimi; e poi per
deridere gli storici adulatori, aggiugne che vi morirono trecento
settantamila Parti, e de' Romani solamente tre furono i morti, e nove
i feriti. Secondo il medesimo Luciano, anche Edessa fu assediata dai
Romani. Per tal vittoria i due fratelli Augusti presero il titolo
d'_imperadori per la terza volta_, siccome ancora il cognome di
Partici. Fu di parere il padre Pagi[1146] che si terminasse in
quest'anno essa guerra partica, e che Lucio Vero Augusto si
restituisse a Roma, fondato sopra la credenza, che nell'anno 161
avesse principio quella guerra: il che non è certo. Alcuni pensano che
all'anno seguente s'abbia da riferire tanto il fine d'essa guerra,
quanto il ritorno di Lucio Vero, e questa giudico io più probabil
opinione.
NOTE:
[1140] Dio, lib. 71.
[1141] Eutrop., in Breviar.
[1142] Orosius, in Histor.
[1143] Ammianus Marcellinus, Histor., lib. 23.
[1144] Capitolin., in Lucio Vero.
[1145] Lucian., de Conscribenda Hist.
[1146] Pagius, in Critic. Baron.
Anno di CRISTO CLXVI. Indizione IV.
SOTERO papa 5.
MARCO AURELIO imperad. 6.
LUCIO VERO imperadore 6.
_Consoli_
QUINTO SERVILIO PUDENTE e LUCIO FUFIDIO POLLIONE.
Dissi parere a me più probabile, che durasse ancora per molti mesi di
questo anno la guerra dei Romani coi Parti. Ci assicurano le
medaglie[1147], che nell'anno presente Marco Aurelio e Lucio Vero
furono proclamati _per la quarta volta Imperadori_. Adunque l'armi
loro riportarono qualche vittoria, e questa non potè essere se non
contro ai Parti, perchè quella de' Marcomanni fu più tardi. Oltre di
che in esse monete si truova espressa la _Vittoria Partica_. Giusto
motivo dunque ci è di credere, che _Avidio Cassio_ generale de' Romani
continuasse le conquiste e i saccheggi contra de' Parti nell'anno
presente, e fosse allora appunto, ch'egli arrivò sino alla Media, onde
poi ai titoli d'_Armeniaco_ e _Partico_ aggiunse Lucio Vero[1148]
quello di _Medico_, del quale nondimeno non si ha vestigio nelle
medaglie. Dovette Cassio internarsi cotanto in que' paesi, che corse
voce aver egli infin passato il fiume Indo, benchè si possa ciò
credere finto da Luciano[1149], per mettere in ridicolo gli storici
che scrivevano allora cose spropositate per esaltare i loro eroi.
Abbiamo poi da Dione[1150], che Cassio, nel tornare indietro, perdè
gran copia de' suoi soldati, parte per mancanza di viveri, e parte per
malattie; e che con quei che gli restarono, si ridusse in Soria, la
qual vasta provincia a lui fu poscia data in governo. Come finisse
l'impresa suddetta, non ne parla la storia. Verisimilmente si venne
fra i Romani e Vologeso a qualche trattato di pace; ed apparenza c'è,
che della Mesopotamia, o almeno di una parte di essa rimanessero
padroni i Romani. _Lucio Vero Augusto_, che tuttavia dimorava in
Antiochia, si gonfiò forte per così prosperosi successi. Avea spedito
l'imperador Marco Aurelio in quelle parti[1151] _Annio Libone_ suo
cugino germano, con titolo di legato, o sia di luogotenente, cioè con
molta autorità. Questi non istette molto ad ammalarsi e a morire in
fretta. Perchè egli con insolenza avea cominciato ad esercitar la sua
carica, e mostrava poca stima di _Lucio Vero_, con dire nelle cose
dubbiose, che ne scriverebbe a Marco Aurelio; vi fu chi credette per
ordine d'esso Vero Augusto abbreviata a lui la vita col veleno. Ma o
nol credette, o fece finta di non crederlo Marco Aurelio; anzi venuto
il fratello a Roma, e volendo dar per moglie ad Agaclito suo liberto
la vedova d'esso Libone, Marco Aurelio, benchè se l'avesse a male,
pure intervenne al convito di quelle nozze. Sbrigato dunque dalla
guerra de' Parti, dopo cinque anni, come dice Capitolino[1152], Lucio
Vero se ne tornò, prima che terminasse quest'anno, a Roma; menando
seco, non già dei re vinti, ma un gregge di commedianti, buffoni,
giocolieri, ballerini, sonatori ed altra simil sorta di gentaglia, di
cui specialmente si dilettavano i popoli dell'Egitto e della Soria,
troppo dediti ai divertimenti; di modo che pareva, ch'egli fosse
ritornato non da una vera guerra, ma da un serraglio di persone da
lusso e sollazzo. Questi erano i trofei di un tale Augusto, tutto il
rovescio del savissimo imperador suo fratello, dimorante in Roma, e
solamente intento al pubblico bene.
NOTE:
[1147] Mediobarbus, in Numismat. Imp.
[1148] Capitolin., in Lucio Vero.
[1149] Lucian., de Conscribenda Histor.
[1150] Dio, Lib. 71.
[1151] Capitolinus, in Lucio Vero.
[1152] Capitolinus, in Lucio Vero.
Anno di CRISTO CLXVII. Indizione V.
SOTERO papa 6.
MARCO AURELIO imperad. 7.
LUCIO VERO imperadore 7.
_Consoli_
LUCIO ELIO AURELIO VERO AUGUSTO per la terza volta e QUADRATO.
Secondo i conti del padre Pagi[1153], _Marco Aurelio_ e _Lucio Vero_
Augusti fecero nell'anno precedente la lor solenne entrata in Roma da
trionfanti per la guerra compiuta contro i Parti e gli Armeni. Secondo
quei di Mezzabarba[1154], che sembrano meglio fondati, il trionfo loro
succedette nell'anno presente; per la qual suntuosa funzione _Lucio
Vero_ prese anche il consolato. Abbiamo memoria di ciò in una medaglia
di Marco Aurelio colla di lui _Podestà Tribunizia XXI_ corrente in
questo anno, dove si mirano i due imperadori, in cocchio tirato da
quattro cavalli, e preceduto dalla pompa trionfale. Per sua modestia
non voleva il buon Marco Aurelio[1155] partecipare di questo trionfo,
dicendolo dovuto al suo Lucio Vero, le cui grandi fatiche per domar
que' barbari, già le abbiamo vedute. Ma Lucio Vero fece istanza al
senato, che anche il fratello Augusto trionfasse con lui; e inoltre,
che i di lui figliuoli _Commodo_ e Vero fossero creati Cesari; il che
fu eseguito. Vidersi poscia essi suoi figli, tanto maschi che femmine,
andare in carrozza con loro nel trionfo. In tal occasione decretò ad
amendue il senato la corona civica, e il titolo di _Padri della
Patria_, ricusato finora da Marco Aurelio, per esser lontano il
fratello. Nelle medaglie non s'incontra questo loro glorioso titolo.
Si truova bensì nelle iscrizioni legittime, fatte in quest'anno e ne'
seguenti, in onore dell'altro imperadore: il che può anche servire ad
indicar l'anno preciso del trionfo, da me creduto il presente, e per
conoscere ancora se sieno o scorrette o adulterine quelle iscrizioni
che prima di questi tempi attribuissero loro un sì fatto titolo. In
occasione del suddetto trionfo eziandio fu decretato che fossero fatti
pubblici giuochi, a' quali assisterono tutti e due gli Augusti in
abito trionfale. Parlano finalmente le medaglie[1156] del _quarto
Congiario_ dato al popolo romano da essi Augusti nell'anno presente,
probabilmente per solennizzare con maggior contento d'esso popolo la
pubblica allegrezza. Trovaronsi dunque in Roma i due Augusti in
quest'anno, e si vide come un prodigio, la bella concordia de' loro
animi, tuttochè fossero sì diversi i loro costumi. Quanto a Marco
Aurelio, principe per natural saviezza, per inclinazione alle azioni
lodevoli, e specialmente per l'aiuto della filosofia pieno di belle
massime, egli era tutto rivolto a procurare il ben della repubblica,
non meno di quel che sia un saggio padre di famiglia in ben regolare
la propria casa[1157]. Ammiravasi in lui l'indefessa applicazione ad
amministrar la giustizia, obbligo primario dei regnanti. Voleva
ascoltar tutto con pazienza, interrogava egli le parti, esaminava le
ragioni, lasciando agli avvocati il convenevol tempo per dedurle: di
maniera che talvolta intorno ad un solo affare impiegava più giorni,
laonde coloro poi che erano condannati, si persuadevano che giuste
fossero le di lui sentenze. Nè in ciò procedeva egli mai senza il
consiglio e l'assistenza di valenti giurisconsulti, fra i quali
principalmente si contò _Scevola_, lodatissimo anche oggidì nella
scuola de' Legisti. La sua bontà il portava sempre alla clemenza e
alla dolcezza, sminuendo per lo più nelle cause criminali il rigor
delle pene, se non quando si trattava di atroci delitti, nei quali
compariva inesorabile. Teneva gli occhi sopra i giudici, affinchè non
si abusassero o per negligenza o per malizia, della loro autorità. Ad
un pretore, che non avea ben esaminato un processo, comandò di
rileggerlo da capo a piedi. Ad un altro, che peggio operava, non levò
già il posto per sua bontà, ma gli sospese la giurisdizione,
delegandola al di lui compagno. Lo studio suo maggiore consisteva in
distornar dolcemente gli uomini dal male, ed invitarli al bene,
ricompensando i buoni colla liberalità e con vari premii, e cercando
di guadagnare il cuore de' cattivi con perdonar loro i falli, che si
potessero scusare: il che servì a rendere buoni molti, e a far
divenire migliori i già buoni.
Nelle liti suo costume fu di non favorire quasi mai il fisco.
Piuttosto che far delle leggi nuove, procurava di rimettere in piedi
le vecchie. E ben molte ne rinnovò intorno al ristringere il soverchio
numero delle ferie; in assegnar tutori e curatori; in ben regolare
l'annona, e levarne gli abusi; in tener selciate le vie di Roma e
delle provincie, e nette dai malviventi; e in punire chi nelle gabelle
avesse esatto più delle tasse; in moderar le spese degli spettacoli e
delle commedie; in gastigare i calunniatori, e in simili altri utili.
Proibì sopra tutto l'accusar chicchessia, che avesse sparlato della
maestà imperiale, sofferendo egli senza punto alterarsi le dicerie de'
maligni, fin le insolenze dette in faccia a lui stesso. Un certo
Veterano, malamente screditato presso il pubblico, gli faceva premura
per ottenere un posto. Rispose il savio imperadore, che studiasse
prima di riacquistare il buon nome. Al che colui replicò: _Quasi che
io non abbia veduto molti nel posto di Pretore, che meco hanno
combattuto nell'anfiteatro._ Pazientemente sopportò il buon Augusto
l'insolente risposta. Il rispetto suo verso il senato incredibile fu.
V'interveniva sempre, essendo in Roma, non impedito, ancorchè nulla
avesse da riferire. E quando pure, essendo a villeggiar nella
Campania, gli occorreva di dover proporre qualche cosa, in vece di
scrivere, veniva egli in persona a parlarne. Non aggiugneva a
quell'insigne ordine, se non chi egli ben sapeva meritarlo per le sue
virtù, con promuovere dipoi alle cariche lucrose i senatori poveri, ma
dabbene, per aitarli. Che se talun dei senatori veniva accusato di
delitti capitali, ne facea prima prendere segrete informazioni, per
non iscreditare alcuno senza un sicuro fondamento. Interveniva anche
ai pubblici Comizi, standovi finchè arrivasse la notte; nè mai si
partiva dalla Curia, se prima il console non licenziava l'assemblea.
Tal era il vivere dell'ottimo imperadore. Qual fosse quello di Lucio
Vero Augusto, mi riserbo di accennarlo fra poco. Ma non si vuol qui
lasciar di dire che questo giovinetto imperadore tornando dalla
Soria[1158], un brutto regalo fece alla patria, con condur seco la
peste. Era essa insorta, chi dicea nell'Etiopia, chi nell'Egitto e chi
nel paese dei Parti. Attaccatasi poi alle milizie romane, ed entrata
nella corte di Lucio Vero, dappertutto, dov'egli passava, lasciava la
micidial infezione secondo il suo costume, di modo che cominciò a
sentirsi terribilmente anche in Roma. Si andò poi a poco a poco
dilatando per l'Italia, e per la Gallia sino al Reno, facendo
incredibile strage per tutti i paesi, durando anche più anni. Paolo
Orosio[1159] scrive, che rimasero prive di agricoltori le campagne,
spopolate le città e castella, e crebbero i boschi e le spine in varie
contrade, perchè prive di abitatori. Così feroce si provò essa in
Roma[1160], che i cadaveri de' poveri si mandavano fuori in carrette a
seppellire, e mancarono di vita molti illustri personaggi, ai più
degni de' quali Marco Aurelio fece innalzar delle statue.
NOTE:
[1153] Pagius, Crit. Baron.
[1154] Mediobarbus, in Numism. Imperat.
[1155] Capitolin., in Marco Aurelio.
[1156] Mediob., in Numism. Imperat.
[1157] Capitolinus, in Marco Aurelio.
[1158] Capitolin., in Lucio Vero. Lucian., de Conscrib. Histor.
Ammianus, lib. 23.
[1159] Orosius, Histor. lib. 8.
[1160] Capitol., in Marco Aurelio.
Anno di CRISTO CLXVIII. Indizione VI.
SOTERO papa 7.
MARCO AURELIO imperad. 8.
LUCIO VERO imperadore 8.
_Consoli_
APRONIANO e LUCIO VETTIO PAOLO.
Tutti gli antichi fasti ci danno consoli sotto quest'anno _Aproniano_
e _Paolo_. Par ben difficile che tutti si sieno ingannati. Una sola
iscrizione riferita dal Panvinio[1161] e dal Grutero, ci dà consoli
_Lucio Vettio Paolo_ e _Tito Giunio Montano_. Ma verisimilmente un
_Aproniano_ sarà stato console ordinario con _Paolo_, ed a lui, o per
morte o per sostituzione, sarà succeduto _Montano_, parendo poco
probabile che _Montano_ fosse lo stesso che _Aproniano_. Già inclinato
al lusso e a tutti gli sfoghi della sensualità Lucio Vero
Augusto[1162], maggiormente dacchè si fu allontanato dagli occhi del
fratello imperadore, si era abbandonato, siccome di sopra accennammo,
ad ogni sorta di piaceri, anche più abbominevoli, deludendo
l'intenzion del fratello stesso che l'aveva inviato là, per isperanza
che le fatiche militari il guarirebbono: speranza vana, come si
conobbe dagli effetti. Ritornato che fu l'Augusto giovane a Roma,
andava egli bensì alquanto ritenuto, per nascondere i suoi vizii al
saggio imperadore Marco Aurelio, ma in secreto faceva alla peggio.
Volle una cucina a parte nel suo appartamento; e, dopo essere stato
alla parca cena di Marco Aurelio, passava colà a soddisfare la sua
ghiottoneria, con farsi servire a tavola da persone infami, e con
volere dei combattimenti di gladiatori a quelle private cene, le quali
andavano sì a lungo, che talvolta egli abborracchiato si addormentava
sopra i cuscini o letti, sui quali si adagiavano gli antichi stando
alla mensa, e conveniva portarlo di peso alla sua stanza. In uso era
allora di non far tavola, dove fossero più di sette persone; e diverse
tavole verisimilmente si mettevano nelle grandi occasioni, perchè
passavano per proverbio: _Sette fanno un convito, nove fanno una
lite._ Lucio Vero fu il primo a voler dodici convitati alla medesima
mensa, e con una profusione spropositata di regali; perchè ai paggi,
agli scalchi ed ai commensali si donavano piatti, bicchieri d'oro,
d'argento e gioiellati, vari animali, vasi d'oro con unguenti, e
carrozze con mule guernite di ricchi finimenti. Costava cadauno di
questi conviti una tal somma, che nè pure mi arrischio a nominarla:
tanto è grande nel testo di Capitolino. Il resto poi della notte si
soleva per lo più spendere in giuoco, vizio, oltre a tanti altri,
imparato in Soria. Fecesi anche fabbricare una suntuosa villa nella
via Clodia, dove se la passava in gozzoviglie co' suoi liberti, e con
quegli amici che godeano beni in quelle parti. Marco Aurelio sapea
tutti questi disordini, e quantunque se ne rammaricasse non poco, pure
fingeva ignorarli, per non romperla col fratello; anzi invitato da lui
alla suddetta villa, non ebbe difficultà di andarvi, per insegnargli
coll'esempio suo, come si dovea far la villeggiatura. E vi si fermò
cinque giorni, attendendo anche allora alla spedizion delle cause,
mentre Lucio Vero si perdeva ne' conviti, o era affaccendato per
prepararli. Dicono di più, che questo sregolato imperadore passò ad
imitare i vergognosi costumi di Caligola, di Nerone e di Vitellio,
coll'andar di notte travestito e incappucciato per le bettole e nei
bordelli, cenando con dei mascalzoni, attaccando delle risse, dalle
quali tornò talvolta colla faccia maltrattata da pugni, e rompendo i
bicchieri delle taverne col gittar in aria delle grosse monete di
rame. Sopra tutto era egli spasimato dietro alle corse de' cavalli nel
Circo, mostrandosi a spada tratta parziale in que' giuochi della
fazione Prasina, che portava la divisa verde; di maniera che anche
mentr'egli col fratello Augusto assisteva a quegli spettacoli, più
volte gli furono dette delle villanie dall'emula fazione Veneta,
vestita d'azzurro. Innamorato specialmente di un suo cavallo,
appellato Volucre, o sia Uccello, fece fare la statua di esso d'oro, e
seco la portava. Invece d'orzo voleva che gli si desse uva passa con
pinocchi; e per cagion di esso s'introdusse il dimandare per premio
de' vincitori nel corso un cavallo d'oro. Morto questo cavallo, gli
fece alzare un sepolcro nel Vaticano. E tali erano i costumi e le
capricciose azioni di _Lucio Vero Augusto_.
Fin quando si facea la guerra de' Parti, se ne preparò un'altra al
settentrione contra de' Romani[1163]. Avevano cominciato i Marcomanni,
creduti oggidì abitatori della Boemia, ad infestare il paese romano;
ma i generali che custodivano quelle parti, per non esporre l'imperio
a questa pericolosa guerra, nel tempo che si facea l'altra più
importante coi Parti, andarono sempre temporeggiando e pazientando,
finchè venisse un tempo più opportuno da fiaccar loro le corna.
Terminata con felicità l'impresa dell'Oriente, maggiormente crebbe
l'insolenza di essi Marcomanni; anzi si venne a scorgere che quasi
tutte le nazioni barbare abitanti di là dal Rene e dal Danubio,
cominciando dall'Oceano, fin quasi al mar Nero, erano in armi ai danni
dei Romani, sia che fosse qualche lega fra loro, o pure che l'una
imparasse dall'esempio dell'altra a disprezzar le forze della
repubblica romana. Fra que' popoli, tutti gente bellicosa e fiera, e
che parea congiurata alla rovina de' Romani, oltre ai Marcomanni
principali fra essi, si contavano i Narisci, gli Ermonduri, i Quadi, i
Suevi, i Sarmati, i Vandali, i Vittovali, i Rossolani, i Basterni, i
Costobochi, gli Alani, i Jazigi ed altri, de' quali non si sa il nome.
Se dice il vero Dione, i Germani Transrenani vennero fino in Italia, e
recarono de' gravissimi danni: il che par difficile a credere. Fra i
cadaveri di costoro uccisi, furono ritrovate molte femmine guernite di
tutte armi. Così gli altri barbari saccheggiarono varie provincie,
presero città, e sembra che s'impadronissero di tutta la Pannonia, o
almeno di una parte di essa. Per attestato di Pausania[1164], i
Costobochi fecero delle scorrerie fino in Grecia. Portate così funeste
nuove a Roma, riempirono tutta la città di spavento; e tanto più,
perchè la peste avea fatto e facea tuttavia un fier macello anche
delle milizie romane. Marco Aurelio[1165], che con tutto il suo bel
genio alla virtù, e con tutti i suoi studi, non giunse mai a conoscere
la falsità della sua religione pagana, nè la verità della cristiana,
di cui piuttosto fu persecutore, ricorse allora per aiuto agl'idoli,
facendo venir da tutte le parti de' sacerdoti, anche di religioni
straniere, moltiplicando i sagrifizii e le preghiere in così gran
bisogno alle sorde sue deità. Fece ancora quanti preparamenti potè,
per ammassar genti, e per reclutare le quasi disfatte legioni. Restò
si spacciava profeta, ed ebbe poi Luciano[1128] scrittore della di lui
infame vita. Il furbo gli predisse delle vittorie. Con questo dolce in
bocca andò Severiano, menando seco più d'una legione, a portarsi in
Elegia città dell'Armenia. Ma eccoti comparire un nuvolo di Parti, che
per tre giorni tennero bloccata da ogni parte l'armata romana, e in
fine con una pioggia di strali la disfecero interamente, lasciandovi
la vita anche tutti i capitani. Se non falla Capitolino[1129], questa
sciagura arrivò ai Romani, fin quando Lucio Vero Augusto, postosi in
cammino verso l'Oriente, si dava bel tempo nella Puglia, andando a
caccia, e perdendo il tempo. Per conseguente dovrebbe tal fatto
appartenere all'anno precedente 162. Fiero per tal vittoria _Vologeso_
re dei Parti, rivolse le armi contro la Soria, dove era governatore
_Attidio Corneliano_. Quivi ancora venuto alle mani coll'esercito
romano, lo mise in rotta, spandendo con ciò il terrore e i saccheggi
per tutte quelle contrade. Nè andò esente da sì fatti danni la
provincia della Cappadocia. Sembra che tal disavventura accadesse nel
precedente anno. Giunto era ad Antiochia, come dicemmo, capitale della
Soria, _Lucio Vero Augusto_[1130]; e invece di attendere
all'importante affare, per cui s'era mosso, quivi tutto si diede in
preda ai piaceri, anche più infami, nel lusso, nei conviti e in ogni
sorta di libidine. Non avea più il maestro a lato che gli tenesse gli
occhi addosso, nè gli legasse le mani. Doveva andare in persona, come
desiderava l'Augusto suo fratello, a procacciarsi gloria nelle armi,
ed egli ad altro non pensava che ad appagare ogni sfrenata sua voglia.
Tutto quel che fece, fu spedire gran gente e dei bravi generali contra
dei Parti, e questi principalmente furono _Stazio Prisco_, _Avidio
Cassio_ (che vedremo a suo tempo ribello) e _Marzio Vero_, lodati
ancora da Dione[1131] pel loro valore. Sembra che si possa dedurre
dalle medaglie[1132], che in quest'anno i Romani riportassero qualche
vantaggio nell'Armenia, o ne ricuperassero una parte; ma non dovette
esser gran cosa. Avea già Marco Aurelio promessa in moglie a _Lucio
Vero_ la sua figliuola _Lucilla_. Secondo i conti del padre
Pagi[1133], in questo anno se ne effettuarono le nozze[1134]. Condotta
questa principessa dal padre sino a Brindisi, fu poi trasferita ad
Efeso, dove si portò Lucio Vero a prenderla. E vi si portò per
concerto fatto prima; imperciocchè Marco Aurelio avea detto in senato
di volerla egli stesso condurre fino in Soria; ma Lucio Vero si esibì
di venire a riceverla ad Efeso per timore che se il fratello arrivasse
ad Antiochia, non iscoprisse tutti i segreti della scandalosa sua
vita. Avea il buon imperadore Marco Aurelio, per esentare i popoli
dagli aggravi, spediti prima degli ordini alle provincie, che non si
facessero incontri alla figliuola. Ma più verosimile sembrerà che
nell'anno susseguente succedesse il viaggio di Lucilla, a cui fu
conferito il titolo di _Augusta_; perchè Marco Aurelio se ne tornò in
fretta da Brindisi a Roma, per ismentire le dicerie sparse, ch'egli
volesse passare in Soria affin di levare al fratello e genero la
gloria di terminar quella guerra. E pure finquì non abbiamo inteso
alcun tale prospero successo delle armi romane in quelle parti, onde
potesse Marco Aurelio portar invidia a Lucio Vero.
NOTE:
[1124] Thesaurus Novus Inscript., pag. 335.
[1125] Reinesius, Inscript., pag. 218.
[1126] Reland., Fast. Consular.
[1127] Dio, lib. 71.
[1128] Lucian., in Pseud.
[1129] Capitolin., in Lucio Vero.
[1130] Idem, ibid.
[1131] Dio, lib. 71.
[1132] Mediobarbus, in Numismat. Imp.
[1133] Pagius, Critic. Baron.
[1134] Capitolinus, in Marco Aurel. et in Lucio Vero.
Anno di CRISTO CLXIV. Indizione II.
SOTERO papa 3.
MARCO AURELIO imperad. 4.
LUCIO VERO imperad. 4.
_Consoli_
MARCO POMPEO MACRINO e PUBLIO JUVENZIO GELSO.
Cangiossi finalmente nel presente anno in ridente il volto finora
bieco della fortuna verso de' Romani. A _Stazio Prisco_ riuscì di
prendere Artasata città dell'Armenia[1135], di mettere guarnigione in
un luogo, appellato di poi Città-Nuova, perchè _Marzio Vero_, a cui fu
dato il governo di quella provincia, fece di quel luogo la prima città
dell'Armenia[1136]. Allorchè esso Marzio giunse colà, trovò ammutinate
quelle milizie, e colla sua prudenza le pacificò. Nelle medaglie[1137]
di quest'anno si fa menzione dell'_Armenia vinta_, dell'_Armenia
presa_. E più di una vittoria convien dire che riportassero i Romani
in quelle parti, perchè osserviamo che i due Augusti presero in
quest'anno _per due volte_ il titolo d'_Imperadore_, segno appunto di
vittoria. Quel che è più, tanto Marco Aurelio, che Lucio Vero, furono
proclamati _Armeniaci_, come consta dalle medesime loro medaglie, o,
vogliam dire, monete, inoltre dalle stesse apparisce ch'essi Augusti
diedero un re agli Armeni; e questo fu _Soemo_ della razza degli
Arsacidi, senza che si sappia s'egli ne fosse dianzi re, e cacciato da
Vologeso, o pure s'egli fosse re nuovo, dato dai due imperadori a quei
popoli; e Dione[1138], parlando della somma clemenza di Marco Aurelio,
scrive che in questa guerra fu fatto prigione Tiridate Satrapa, il
quale era stato cagione de' torbidi nati nell'Armenia, ed avea ucciso
il re degli Eniochi, e messa mano alla spada contra di _Marzio Vero_
generale de' Romani, perchè gli rimproverava cotesti suoi eccessi. E
pure il buon imperadore altro gastigo non gli diede, se non che il
mandò in esilio nella Bretagna. Intanto ridendosi Lucio Vero dei
rumori e pericoli della guerra, col pretesto di attendere a provveder
le armate romane di viveri e di nuove genti[1139], se ne stava godendo
le delizie di Antiochia, e lasciava che i generali romani sudassero ed
esponessero le lor vite per lui nelle imprese guerriere. Per quattro
anni, ma con soggiorno non fisso, si trattenne egli in quella città:
perchè nel verno abitava a Laodicea, nella state a Dafne, amenissimo
ed ombroso luogo in vicinanza di Antiochia. Per le tante istanze
nondimeno de' suoi consiglieri, si lasciò indurre, durante questa
guerra, a portarsi due volte sino all'Eufrate. Ma appena s'era
lasciato vedere all'esercito romano (non già a quel de' nemici), che
se tornava ai suoi prediletti ed obbrobriosi piaceri di Antiochia. E
non gliela perdonavano già que' commedianti, i quali nel pubblico
teatro più volte con arguti motti destramente mettevano in canzone ora
la di lui codardia, ora la sfrenata sua lussuria; nè v'era persona che
non gli ridesse dietro. Truovasi presso il Mezzabarba sotto quest'anno
una medaglia, in cui Marco Aurelio è intitolato _Germanico_, ed
espressa una _Vittoria d'Augusto_. Ma non può stare. Vedremo a suo
tempo quando a questo imperadore fu dato il titolo di Germanico. Per
ora egli solamente veniva chiamato _Armeniaco_.
NOTE:
[1135] Capitol., in Marco Aurelio.
[1136] Dio, lib. 71.
[1137] Mediobarbus, in Numismat. Imperat.
[1138] Dio, in excerpt. Valesian.
[1139] Capitol., in Lucio Vero.
Anno di CRISTO CLXV. Indizione III.
SOTERO papa 4.
MARCO AURELIO imperad. 5.
LUCIO VERO imperad. 5.
_Consoli_
LUCIO ARRIO PUDENTE e MARCO GAVIO ORFITO.
Più strepitosi ancora furono i fatti de' Romani in quest'anno nella
guerra contra de' Parti[1140]. _Avidio Cassio_, che comandava la
grande armata romana in faccia ai Parti, gittò un ponte sull'Eufrate,
come già fece Trajano, e, ad onta loro, passò coll'esercito nella
Mesopotamia, inseguì i fuggitivi, e mise quelle contrade sotto
l'ubbidienza de' romani Augusti. Fra le sue conquiste massimamente
famosa divenne quella di Seleucia, città popolatissima e ricca sul
Tigri, tale che, se non abbiam difficultà a credere ad Eutropio[1141]
e a Paolo Orosio[1142], era abitata da quattrocento e più mila
persone. Si rendè amichevolmente quel popolo a Cassio, senza voler
aspettare la forza, ma l'iniquo generale che voleva pur rallegrare
l'armata col sacco di sì doviziosa città, trovò de' pretesti ed
inventò delle querele, tanto che si effettuò lo scellerato suo disegno
colla rovina di quel popolo, e coll'incendio dell'intera città, in
cui, anche a' tempi di Ammiano Marcellino[1143], si miravano le
vestigia di così crudele azione. Nulladimeno attesta Capitolino[1144],
che _Asinio Quadrato_, scrittore di questa guerra, discolpa _Cassio_,
e rigetta sopra i Seleuciani, come primi a romper la fede, l'origine
della loro sciagura. In dubbii tali la presunzione corre contra chi ha
l'armi in mano, e facendo quel mestiere per arricchire, ed anche per
altri fini obbrobriosi, facilmente dimentica tutte le leggi
dell'umanità, per ottenere l'intento. Qui non si fermò la vittoria di
Cassio. Passato il fiume Tigri, entrò ancora in Ctesifonte, capitale
del regno de' Parti, e in Babilonia, città famosa di quei tempi.
Rimasero spianati tutti i palazzi che _Vologeso_ avea in Ctesifonte,
acciocchè anch'egli imparasse, al pari di suo padre, a rispettare la
maestà del romano imperio. Scrive Luciano[1145], autore di questi
tempi, una gran battaglia succeduta a Zaugma presso l'Eufrate fra i
Romani e i Parti, colla totale disfatta degli ultimi; e poi per
deridere gli storici adulatori, aggiugne che vi morirono trecento
settantamila Parti, e de' Romani solamente tre furono i morti, e nove
i feriti. Secondo il medesimo Luciano, anche Edessa fu assediata dai
Romani. Per tal vittoria i due fratelli Augusti presero il titolo
d'_imperadori per la terza volta_, siccome ancora il cognome di
Partici. Fu di parere il padre Pagi[1146] che si terminasse in
quest'anno essa guerra partica, e che Lucio Vero Augusto si
restituisse a Roma, fondato sopra la credenza, che nell'anno 161
avesse principio quella guerra: il che non è certo. Alcuni pensano che
all'anno seguente s'abbia da riferire tanto il fine d'essa guerra,
quanto il ritorno di Lucio Vero, e questa giudico io più probabil
opinione.
NOTE:
[1140] Dio, lib. 71.
[1141] Eutrop., in Breviar.
[1142] Orosius, in Histor.
[1143] Ammianus Marcellinus, Histor., lib. 23.
[1144] Capitolin., in Lucio Vero.
[1145] Lucian., de Conscribenda Hist.
[1146] Pagius, in Critic. Baron.
Anno di CRISTO CLXVI. Indizione IV.
SOTERO papa 5.
MARCO AURELIO imperad. 6.
LUCIO VERO imperadore 6.
_Consoli_
QUINTO SERVILIO PUDENTE e LUCIO FUFIDIO POLLIONE.
Dissi parere a me più probabile, che durasse ancora per molti mesi di
questo anno la guerra dei Romani coi Parti. Ci assicurano le
medaglie[1147], che nell'anno presente Marco Aurelio e Lucio Vero
furono proclamati _per la quarta volta Imperadori_. Adunque l'armi
loro riportarono qualche vittoria, e questa non potè essere se non
contro ai Parti, perchè quella de' Marcomanni fu più tardi. Oltre di
che in esse monete si truova espressa la _Vittoria Partica_. Giusto
motivo dunque ci è di credere, che _Avidio Cassio_ generale de' Romani
continuasse le conquiste e i saccheggi contra de' Parti nell'anno
presente, e fosse allora appunto, ch'egli arrivò sino alla Media, onde
poi ai titoli d'_Armeniaco_ e _Partico_ aggiunse Lucio Vero[1148]
quello di _Medico_, del quale nondimeno non si ha vestigio nelle
medaglie. Dovette Cassio internarsi cotanto in que' paesi, che corse
voce aver egli infin passato il fiume Indo, benchè si possa ciò
credere finto da Luciano[1149], per mettere in ridicolo gli storici
che scrivevano allora cose spropositate per esaltare i loro eroi.
Abbiamo poi da Dione[1150], che Cassio, nel tornare indietro, perdè
gran copia de' suoi soldati, parte per mancanza di viveri, e parte per
malattie; e che con quei che gli restarono, si ridusse in Soria, la
qual vasta provincia a lui fu poscia data in governo. Come finisse
l'impresa suddetta, non ne parla la storia. Verisimilmente si venne
fra i Romani e Vologeso a qualche trattato di pace; ed apparenza c'è,
che della Mesopotamia, o almeno di una parte di essa rimanessero
padroni i Romani. _Lucio Vero Augusto_, che tuttavia dimorava in
Antiochia, si gonfiò forte per così prosperosi successi. Avea spedito
l'imperador Marco Aurelio in quelle parti[1151] _Annio Libone_ suo
cugino germano, con titolo di legato, o sia di luogotenente, cioè con
molta autorità. Questi non istette molto ad ammalarsi e a morire in
fretta. Perchè egli con insolenza avea cominciato ad esercitar la sua
carica, e mostrava poca stima di _Lucio Vero_, con dire nelle cose
dubbiose, che ne scriverebbe a Marco Aurelio; vi fu chi credette per
ordine d'esso Vero Augusto abbreviata a lui la vita col veleno. Ma o
nol credette, o fece finta di non crederlo Marco Aurelio; anzi venuto
il fratello a Roma, e volendo dar per moglie ad Agaclito suo liberto
la vedova d'esso Libone, Marco Aurelio, benchè se l'avesse a male,
pure intervenne al convito di quelle nozze. Sbrigato dunque dalla
guerra de' Parti, dopo cinque anni, come dice Capitolino[1152], Lucio
Vero se ne tornò, prima che terminasse quest'anno, a Roma; menando
seco, non già dei re vinti, ma un gregge di commedianti, buffoni,
giocolieri, ballerini, sonatori ed altra simil sorta di gentaglia, di
cui specialmente si dilettavano i popoli dell'Egitto e della Soria,
troppo dediti ai divertimenti; di modo che pareva, ch'egli fosse
ritornato non da una vera guerra, ma da un serraglio di persone da
lusso e sollazzo. Questi erano i trofei di un tale Augusto, tutto il
rovescio del savissimo imperador suo fratello, dimorante in Roma, e
solamente intento al pubblico bene.
NOTE:
[1147] Mediobarbus, in Numismat. Imp.
[1148] Capitolin., in Lucio Vero.
[1149] Lucian., de Conscribenda Histor.
[1150] Dio, Lib. 71.
[1151] Capitolinus, in Lucio Vero.
[1152] Capitolinus, in Lucio Vero.
Anno di CRISTO CLXVII. Indizione V.
SOTERO papa 6.
MARCO AURELIO imperad. 7.
LUCIO VERO imperadore 7.
_Consoli_
LUCIO ELIO AURELIO VERO AUGUSTO per la terza volta e QUADRATO.
Secondo i conti del padre Pagi[1153], _Marco Aurelio_ e _Lucio Vero_
Augusti fecero nell'anno precedente la lor solenne entrata in Roma da
trionfanti per la guerra compiuta contro i Parti e gli Armeni. Secondo
quei di Mezzabarba[1154], che sembrano meglio fondati, il trionfo loro
succedette nell'anno presente; per la qual suntuosa funzione _Lucio
Vero_ prese anche il consolato. Abbiamo memoria di ciò in una medaglia
di Marco Aurelio colla di lui _Podestà Tribunizia XXI_ corrente in
questo anno, dove si mirano i due imperadori, in cocchio tirato da
quattro cavalli, e preceduto dalla pompa trionfale. Per sua modestia
non voleva il buon Marco Aurelio[1155] partecipare di questo trionfo,
dicendolo dovuto al suo Lucio Vero, le cui grandi fatiche per domar
que' barbari, già le abbiamo vedute. Ma Lucio Vero fece istanza al
senato, che anche il fratello Augusto trionfasse con lui; e inoltre,
che i di lui figliuoli _Commodo_ e Vero fossero creati Cesari; il che
fu eseguito. Vidersi poscia essi suoi figli, tanto maschi che femmine,
andare in carrozza con loro nel trionfo. In tal occasione decretò ad
amendue il senato la corona civica, e il titolo di _Padri della
Patria_, ricusato finora da Marco Aurelio, per esser lontano il
fratello. Nelle medaglie non s'incontra questo loro glorioso titolo.
Si truova bensì nelle iscrizioni legittime, fatte in quest'anno e ne'
seguenti, in onore dell'altro imperadore: il che può anche servire ad
indicar l'anno preciso del trionfo, da me creduto il presente, e per
conoscere ancora se sieno o scorrette o adulterine quelle iscrizioni
che prima di questi tempi attribuissero loro un sì fatto titolo. In
occasione del suddetto trionfo eziandio fu decretato che fossero fatti
pubblici giuochi, a' quali assisterono tutti e due gli Augusti in
abito trionfale. Parlano finalmente le medaglie[1156] del _quarto
Congiario_ dato al popolo romano da essi Augusti nell'anno presente,
probabilmente per solennizzare con maggior contento d'esso popolo la
pubblica allegrezza. Trovaronsi dunque in Roma i due Augusti in
quest'anno, e si vide come un prodigio, la bella concordia de' loro
animi, tuttochè fossero sì diversi i loro costumi. Quanto a Marco
Aurelio, principe per natural saviezza, per inclinazione alle azioni
lodevoli, e specialmente per l'aiuto della filosofia pieno di belle
massime, egli era tutto rivolto a procurare il ben della repubblica,
non meno di quel che sia un saggio padre di famiglia in ben regolare
la propria casa[1157]. Ammiravasi in lui l'indefessa applicazione ad
amministrar la giustizia, obbligo primario dei regnanti. Voleva
ascoltar tutto con pazienza, interrogava egli le parti, esaminava le
ragioni, lasciando agli avvocati il convenevol tempo per dedurle: di
maniera che talvolta intorno ad un solo affare impiegava più giorni,
laonde coloro poi che erano condannati, si persuadevano che giuste
fossero le di lui sentenze. Nè in ciò procedeva egli mai senza il
consiglio e l'assistenza di valenti giurisconsulti, fra i quali
principalmente si contò _Scevola_, lodatissimo anche oggidì nella
scuola de' Legisti. La sua bontà il portava sempre alla clemenza e
alla dolcezza, sminuendo per lo più nelle cause criminali il rigor
delle pene, se non quando si trattava di atroci delitti, nei quali
compariva inesorabile. Teneva gli occhi sopra i giudici, affinchè non
si abusassero o per negligenza o per malizia, della loro autorità. Ad
un pretore, che non avea ben esaminato un processo, comandò di
rileggerlo da capo a piedi. Ad un altro, che peggio operava, non levò
già il posto per sua bontà, ma gli sospese la giurisdizione,
delegandola al di lui compagno. Lo studio suo maggiore consisteva in
distornar dolcemente gli uomini dal male, ed invitarli al bene,
ricompensando i buoni colla liberalità e con vari premii, e cercando
di guadagnare il cuore de' cattivi con perdonar loro i falli, che si
potessero scusare: il che servì a rendere buoni molti, e a far
divenire migliori i già buoni.
Nelle liti suo costume fu di non favorire quasi mai il fisco.
Piuttosto che far delle leggi nuove, procurava di rimettere in piedi
le vecchie. E ben molte ne rinnovò intorno al ristringere il soverchio
numero delle ferie; in assegnar tutori e curatori; in ben regolare
l'annona, e levarne gli abusi; in tener selciate le vie di Roma e
delle provincie, e nette dai malviventi; e in punire chi nelle gabelle
avesse esatto più delle tasse; in moderar le spese degli spettacoli e
delle commedie; in gastigare i calunniatori, e in simili altri utili.
Proibì sopra tutto l'accusar chicchessia, che avesse sparlato della
maestà imperiale, sofferendo egli senza punto alterarsi le dicerie de'
maligni, fin le insolenze dette in faccia a lui stesso. Un certo
Veterano, malamente screditato presso il pubblico, gli faceva premura
per ottenere un posto. Rispose il savio imperadore, che studiasse
prima di riacquistare il buon nome. Al che colui replicò: _Quasi che
io non abbia veduto molti nel posto di Pretore, che meco hanno
combattuto nell'anfiteatro._ Pazientemente sopportò il buon Augusto
l'insolente risposta. Il rispetto suo verso il senato incredibile fu.
V'interveniva sempre, essendo in Roma, non impedito, ancorchè nulla
avesse da riferire. E quando pure, essendo a villeggiar nella
Campania, gli occorreva di dover proporre qualche cosa, in vece di
scrivere, veniva egli in persona a parlarne. Non aggiugneva a
quell'insigne ordine, se non chi egli ben sapeva meritarlo per le sue
virtù, con promuovere dipoi alle cariche lucrose i senatori poveri, ma
dabbene, per aitarli. Che se talun dei senatori veniva accusato di
delitti capitali, ne facea prima prendere segrete informazioni, per
non iscreditare alcuno senza un sicuro fondamento. Interveniva anche
ai pubblici Comizi, standovi finchè arrivasse la notte; nè mai si
partiva dalla Curia, se prima il console non licenziava l'assemblea.
Tal era il vivere dell'ottimo imperadore. Qual fosse quello di Lucio
Vero Augusto, mi riserbo di accennarlo fra poco. Ma non si vuol qui
lasciar di dire che questo giovinetto imperadore tornando dalla
Soria[1158], un brutto regalo fece alla patria, con condur seco la
peste. Era essa insorta, chi dicea nell'Etiopia, chi nell'Egitto e chi
nel paese dei Parti. Attaccatasi poi alle milizie romane, ed entrata
nella corte di Lucio Vero, dappertutto, dov'egli passava, lasciava la
micidial infezione secondo il suo costume, di modo che cominciò a
sentirsi terribilmente anche in Roma. Si andò poi a poco a poco
dilatando per l'Italia, e per la Gallia sino al Reno, facendo
incredibile strage per tutti i paesi, durando anche più anni. Paolo
Orosio[1159] scrive, che rimasero prive di agricoltori le campagne,
spopolate le città e castella, e crebbero i boschi e le spine in varie
contrade, perchè prive di abitatori. Così feroce si provò essa in
Roma[1160], che i cadaveri de' poveri si mandavano fuori in carrette a
seppellire, e mancarono di vita molti illustri personaggi, ai più
degni de' quali Marco Aurelio fece innalzar delle statue.
NOTE:
[1153] Pagius, Crit. Baron.
[1154] Mediobarbus, in Numism. Imperat.
[1155] Capitolin., in Marco Aurelio.
[1156] Mediob., in Numism. Imperat.
[1157] Capitolinus, in Marco Aurelio.
[1158] Capitolin., in Lucio Vero. Lucian., de Conscrib. Histor.
Ammianus, lib. 23.
[1159] Orosius, Histor. lib. 8.
[1160] Capitol., in Marco Aurelio.
Anno di CRISTO CLXVIII. Indizione VI.
SOTERO papa 7.
MARCO AURELIO imperad. 8.
LUCIO VERO imperadore 8.
_Consoli_
APRONIANO e LUCIO VETTIO PAOLO.
Tutti gli antichi fasti ci danno consoli sotto quest'anno _Aproniano_
e _Paolo_. Par ben difficile che tutti si sieno ingannati. Una sola
iscrizione riferita dal Panvinio[1161] e dal Grutero, ci dà consoli
_Lucio Vettio Paolo_ e _Tito Giunio Montano_. Ma verisimilmente un
_Aproniano_ sarà stato console ordinario con _Paolo_, ed a lui, o per
morte o per sostituzione, sarà succeduto _Montano_, parendo poco
probabile che _Montano_ fosse lo stesso che _Aproniano_. Già inclinato
al lusso e a tutti gli sfoghi della sensualità Lucio Vero
Augusto[1162], maggiormente dacchè si fu allontanato dagli occhi del
fratello imperadore, si era abbandonato, siccome di sopra accennammo,
ad ogni sorta di piaceri, anche più abbominevoli, deludendo
l'intenzion del fratello stesso che l'aveva inviato là, per isperanza
che le fatiche militari il guarirebbono: speranza vana, come si
conobbe dagli effetti. Ritornato che fu l'Augusto giovane a Roma,
andava egli bensì alquanto ritenuto, per nascondere i suoi vizii al
saggio imperadore Marco Aurelio, ma in secreto faceva alla peggio.
Volle una cucina a parte nel suo appartamento; e, dopo essere stato
alla parca cena di Marco Aurelio, passava colà a soddisfare la sua
ghiottoneria, con farsi servire a tavola da persone infami, e con
volere dei combattimenti di gladiatori a quelle private cene, le quali
andavano sì a lungo, che talvolta egli abborracchiato si addormentava
sopra i cuscini o letti, sui quali si adagiavano gli antichi stando
alla mensa, e conveniva portarlo di peso alla sua stanza. In uso era
allora di non far tavola, dove fossero più di sette persone; e diverse
tavole verisimilmente si mettevano nelle grandi occasioni, perchè
passavano per proverbio: _Sette fanno un convito, nove fanno una
lite._ Lucio Vero fu il primo a voler dodici convitati alla medesima
mensa, e con una profusione spropositata di regali; perchè ai paggi,
agli scalchi ed ai commensali si donavano piatti, bicchieri d'oro,
d'argento e gioiellati, vari animali, vasi d'oro con unguenti, e
carrozze con mule guernite di ricchi finimenti. Costava cadauno di
questi conviti una tal somma, che nè pure mi arrischio a nominarla:
tanto è grande nel testo di Capitolino. Il resto poi della notte si
soleva per lo più spendere in giuoco, vizio, oltre a tanti altri,
imparato in Soria. Fecesi anche fabbricare una suntuosa villa nella
via Clodia, dove se la passava in gozzoviglie co' suoi liberti, e con
quegli amici che godeano beni in quelle parti. Marco Aurelio sapea
tutti questi disordini, e quantunque se ne rammaricasse non poco, pure
fingeva ignorarli, per non romperla col fratello; anzi invitato da lui
alla suddetta villa, non ebbe difficultà di andarvi, per insegnargli
coll'esempio suo, come si dovea far la villeggiatura. E vi si fermò
cinque giorni, attendendo anche allora alla spedizion delle cause,
mentre Lucio Vero si perdeva ne' conviti, o era affaccendato per
prepararli. Dicono di più, che questo sregolato imperadore passò ad
imitare i vergognosi costumi di Caligola, di Nerone e di Vitellio,
coll'andar di notte travestito e incappucciato per le bettole e nei
bordelli, cenando con dei mascalzoni, attaccando delle risse, dalle
quali tornò talvolta colla faccia maltrattata da pugni, e rompendo i
bicchieri delle taverne col gittar in aria delle grosse monete di
rame. Sopra tutto era egli spasimato dietro alle corse de' cavalli nel
Circo, mostrandosi a spada tratta parziale in que' giuochi della
fazione Prasina, che portava la divisa verde; di maniera che anche
mentr'egli col fratello Augusto assisteva a quegli spettacoli, più
volte gli furono dette delle villanie dall'emula fazione Veneta,
vestita d'azzurro. Innamorato specialmente di un suo cavallo,
appellato Volucre, o sia Uccello, fece fare la statua di esso d'oro, e
seco la portava. Invece d'orzo voleva che gli si desse uva passa con
pinocchi; e per cagion di esso s'introdusse il dimandare per premio
de' vincitori nel corso un cavallo d'oro. Morto questo cavallo, gli
fece alzare un sepolcro nel Vaticano. E tali erano i costumi e le
capricciose azioni di _Lucio Vero Augusto_.
Fin quando si facea la guerra de' Parti, se ne preparò un'altra al
settentrione contra de' Romani[1163]. Avevano cominciato i Marcomanni,
creduti oggidì abitatori della Boemia, ad infestare il paese romano;
ma i generali che custodivano quelle parti, per non esporre l'imperio
a questa pericolosa guerra, nel tempo che si facea l'altra più
importante coi Parti, andarono sempre temporeggiando e pazientando,
finchè venisse un tempo più opportuno da fiaccar loro le corna.
Terminata con felicità l'impresa dell'Oriente, maggiormente crebbe
l'insolenza di essi Marcomanni; anzi si venne a scorgere che quasi
tutte le nazioni barbare abitanti di là dal Rene e dal Danubio,
cominciando dall'Oceano, fin quasi al mar Nero, erano in armi ai danni
dei Romani, sia che fosse qualche lega fra loro, o pure che l'una
imparasse dall'esempio dell'altra a disprezzar le forze della
repubblica romana. Fra que' popoli, tutti gente bellicosa e fiera, e
che parea congiurata alla rovina de' Romani, oltre ai Marcomanni
principali fra essi, si contavano i Narisci, gli Ermonduri, i Quadi, i
Suevi, i Sarmati, i Vandali, i Vittovali, i Rossolani, i Basterni, i
Costobochi, gli Alani, i Jazigi ed altri, de' quali non si sa il nome.
Se dice il vero Dione, i Germani Transrenani vennero fino in Italia, e
recarono de' gravissimi danni: il che par difficile a credere. Fra i
cadaveri di costoro uccisi, furono ritrovate molte femmine guernite di
tutte armi. Così gli altri barbari saccheggiarono varie provincie,
presero città, e sembra che s'impadronissero di tutta la Pannonia, o
almeno di una parte di essa. Per attestato di Pausania[1164], i
Costobochi fecero delle scorrerie fino in Grecia. Portate così funeste
nuove a Roma, riempirono tutta la città di spavento; e tanto più,
perchè la peste avea fatto e facea tuttavia un fier macello anche
delle milizie romane. Marco Aurelio[1165], che con tutto il suo bel
genio alla virtù, e con tutti i suoi studi, non giunse mai a conoscere
la falsità della sua religione pagana, nè la verità della cristiana,
di cui piuttosto fu persecutore, ricorse allora per aiuto agl'idoli,
facendo venir da tutte le parti de' sacerdoti, anche di religioni
straniere, moltiplicando i sagrifizii e le preghiere in così gran
bisogno alle sorde sue deità. Fece ancora quanti preparamenti potè,
per ammassar genti, e per reclutare le quasi disfatte legioni. Restò
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