Annali d'Italia, vol. 1 - 16
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Dione[345] con dire, che si fecero vari spettacoli in Roma. Uno di
tori, che furono uccisi da uomini a cavallo, correnti a briglia
sciolta contra di essi. Un altro, in cui quattrocento orsi e trecento
lioni caddero al suolo trafitti dalle lance delle guardie a cavallo di
Nerone. Anche trenta uomini dell'ordine de' cavalieri romani
combatterono nell'anfiteatro alla foggia de' gladiatori, cioè di gente
infame. Cresceva intanto lo sregolamento di Nerone ascoltando egli
unicamente i consigli di chi adulava le di lui passioni, tutte rivolte
ai piaceri anche più abbominevoli. Quei di _Burro_ e di _Seneca_
l'infastidivano, e in fine cominciò a metterseli sotto i piedi.
_Ottone_, che fu poi imperadore, e in tutto simile era a Nerone nelle
inclinazioni e nei vizii, siccome ancora gli altri collegati
negl'infami di lui divertimenti, gli andavano di tanto in tanto
dicendo: «Come mai soffrite che vi facciano i pedanti in questa età? E
voi ve ne mettete suggezione, senza ricordarvi che siete l'imperadore,
e che non essi, ma voi sopra d'essi avete potere!» Così imparò egli a
sprezzare i consigli de' buoni, e, voltata strada, si diede ad imitar
Caligola, anzi a superarlo; parendogli cosa degna di un imperadore il
non esser da meno d'alcuno neppur nelle cose mal fatte. Tuttavia in
questi primi anni si andò ritenendo. I suoi erano finora vizii
privati, e nocevano a lui solo, e a pochi altri, senza che ne patisse
la repubblica. Si videro anche in lui alcuni atti di clemenza, intorno
alla qual virtù gli avea Seneca composto e dedicato nell'anno
precedente un trattato che ci resta. Ma fin dove il portasse la sua
perversa natura, e questo abbandonamento di sè stesso, poco staremo a
vederlo.
NOTE:
[344] Tacit., lib. 13, cap.
[345] Dio, lib. 61.
Anno di CRISTO LVIII. Indizione I.
PIETRO APOSTOLO papa 30.
NERONE CLAUDIO imper. 5.
_Consoli_
NERONE CLAUDIO AUGUSTO per la terza volta e VALERIO MESSALLA.
V'ha chi dà al secondo console il nome di _Marco Valerio Messalla
Corvino._ Ed abbiamo bensì da Svetonio che il terzo consolato di
_Nerone_ durò solamente quattro mesi; ma non sappiamo chi a lui
succedesse nelle calende di maggio. Potentissimo avvocato, ed insieme
terribile e venale accusatore sotto l'imperador Claudio era stato
Marco Suilio[346], odiato perciò da molti, i quali, mutato il governo,
si studiarono d'abbatterlo. Perchè egli credea suo nemico _Seneca_, ne
sparlava a tutto potere, tassandolo di aver avuto disonesto commercio
con _Giulia_ figliuola di Germanico Cesare, per cui giustamente avesse
patito l'esilio, e ch'egli fosse filosofo bensì di nome, ma ne' fatti
un solennissimo ipocrita, mentre scriveva sì dei precetti di
filosofia, ed altro poi non facea che ammassar de' milioni, e andar a
caccia di testamenti, e di far usure innumerabili per l'Italia e per
le provincie. Nel senato comparvero delle gravi accuse contro di
Suilio; ma Nerone si contentò di confiscargli una parte de' suoi beni
e di relegarlo in Majorica e Minorica. Anche _Cornelio Silla_,
verisimilmente quello stesso ch'era stato console nell'anno 52 ed
aveva avuta in moglie _Antonia_ figliuola di Claudio Augusto, fu
relegato a Marsilia. Benchè pel suo genio timido e vile non fosse
capace d'imprese grandi, pure gli emuli suoi fecero credere a Nerone,
ch'egli, sotto una finta stupidità, covasse dei veri disegni di
novità; e gli tesero anche tante trappole, che fu condannato, come
dissi, all'esilio ed anche nell'anno 62 tolto dal mondo. Fu parimente
accusato _Pomponio Silvano_ d'aver fatto delle estorsioni durante il
suo governo nell'Africa. Ebbe de' buoni protettori, perchè lor fece
sperar le molte sue ricchezze per eredità, giacchè privo era di
figliuoli ed inoltrato molto nell'età. In questa maniera si salvò, con
deludere poscia l'espettazione di chiunque facea i conti sulla sua
roba, per essere sopravvivuto a tutti. Potrebb'essere un d'essi
_Ottone_, che fu poi imperadore, e forse anche il buon _Seneca_, da
noi veduto in concetto d'attendere a simili prede. Era in questi tempi
andato all'eccesso l'orgoglio e l'insolenza dei pubblicani, cioè de'
gabellieri di Roma, e ne mormorava forte il popolo. Saltò in capo a
Nerone di levar via, tutt'i dazii e le gabelle, per aver la gloria di
fare un bellissimo regalo al genere umano; e se ne lasciò intendere in
senato. Lodarono i senatori assaissimo la grandezza dell'animo suo; ma
appresso gli fecero toccar con mano che senza il nerbo delle rendite
pubbliche non potea sussistere l'imperio romano, tanto ch'egli smontò.
Furono nondimeno fatti dei buonissimi regolamenti in questo proposito
per benefizio dei popoli con reprimere le avanie di quelle
sanguisughe: regolamenti nondimeno ch'ebbero corta durata, con
ripullulare gli abusi. Tuttavia confessa Tacito, che molti se ne
levarono, nè al suo tempo si pagavano più non so quante esazioni
introdotte al passaggio de' ponti, e per le navi.
Ebbe principio in quest'anno l'amoreggiamento di Nerone con _Poppea
Sabina_, donna di gran nobiltà, di pari bellezza e ricchezza. Graziosa
nel parlare, vivace d'ingegno, e modesta in apparenza, di rado si
lasciava vedere per Roma, e sempre col volto mezzo coperto, per non
saziare affatto la curiosità di chi la riguardava. Le mancava solo il
più bello, cioè l'onestà. Bastava essere liberale per guadagnarsi i di
lei favori. Era stata moglie di Rufo Crispino cavaliere romano, a cui
partorì un figliuolo; ma innamoratosene _Ottone_, che fu poscia
imperadore, non gli fu difficile colla bizzarria delle comparse,
colla gioventù e col credito d'essere uno dei più confidenti
dell'imperadore, di distorla dal marito, e di prenderla egli in
moglie: chè di questi bei tiri abbondava Roma pagana. Ma il
vanaglorioso scioccone non potea ritenersi presso Nerone dal far elogi
incessanti della nobiltà e dell'avvenenza della nuova moglie,
chiamando sè stesso il più felice degli uomini, per trovarsi in
possesso di tal donna. Tanto andò ripetendo questa canzone, che Nerone
invogliossi di vederla, e il vederla fu lo stesso che innamorarsene
perdutamente. Mostrossi anch'ella sul principio presa della di lui
bellezza; poi colla ritrosia, e col fingersi troppo contenta del
marito Ottone, e di non apprezzar molto chi era di spirito sì basso da
compiacersi dell'amore di una vil serva, cioè di Atte liberta, tal
corda gli diede, che sempre più andò crescendo la fiamma. Ne provò ben
presto gli effetti lo stesso Ottone con restar privo della confidenza
di Nerone, e col non essere ammesso alla di lui udienza, nè al
corteggio. Di peggio potevagli avvenire, se Seneca, amico suo, non
avesse impetrato, che Nerone l'inviasse per presidente della
Lusitania, parte di cui era il Portogallo d'oggidì, dove con buone
operazioni per dieci anni risarcì l'onore ch'egli avea perduto in
Roma. Da lì innanzi Poppea trionfò nel cuor di Nerone. Dione[347]
pretende, che per qualche tempo Ottone e Nerone andassero d'accordo
nel possedere costei; ma molto non sogliono durare sì fatte amicizie.
Risvegliossi in quest'anno[348] la guerra fra i Romani e i Parti, per
cagion dell'Armenia. _Vologeso re_ d'essi Parti pretendea di mettervi
per re _Tiridate_ suo fratello; i Romani voleano disporne a lor
piacimento, come s'era fatto in addietro. _Domizio Corbulone_, che già
dicemmo il più valente generale di Roma in questi tempi, comandava in
quelle parti l'armi romane. Ma, più che i Parti, recava a lui pena la
scaduta disciplina delle soldatesche sue, per lunga pace impigrite e
dimentiche degli ordini della vecchia milizia. La prima sua cura
adunque fu quella di cassare gl'inutili, di far nuove leve, e di ben
disciplinar la sua gente, usando del rigore ch'era a lui naturale.
S'impadronì egli poi di Artasata capitale dell'Armenia e di
Tigranocerta; ed avendo voluto Tiridate rientrare nell'Armenia, il
ripulsò, divenendo in fine padrone affatto di quella contrada.
Probabilmente non succederono tutte queste imprese nell'anno presente.
L'Occone e il Mezzabarba[349], che riferiscono a quest'anno la pace
universale, e il tempio di Giano chiuso in Roma, come apparisce da
molte medaglie, andarono a tastoni in questo punto di storia. Tacito
racconta in un fiato varii avvenimenti tanto dell'Armenia che della
Germania, ma non succeduti tutti in un sol anno.
NOTE:
[346] Tacitus, lib. 13, cap. 42.
[347] Dio, lib. 90.
[348] Tacitus, lib. 13, cap. 34.
[349] Mediobarbus, in Numism. Imperat.
Anno di CRISTO LIX. Indizione II.
PIETRO APOSTOLO papa 31.
NERONE CLAUDIO imper. 6.
_Consoli_
LUCIO VIPSTANO APRONIANO e FONTEJO CAPITONE.
Comunemente da chi ha illustrato i Fasti consolari, il primo di questi
consoli è chiamato _Vipsanio._ Ma, secondo le osservazioni del
cardinal Noris[350], il suo vero nome fu _Vipstano_; e ciò può ancora
dedursi da un'iscrizione pubblicata anche da me[351]. In essa
s'incontra _Cajo Fontejo._ Se ivi è disegnato il console di questi
tempi, _Cajo_ e non _Lucio_ sarà stato il suo prenome. Giunse in
quest'anno ad un orrido eccesso la più che maligna natura di Nerone.
Erasi rimessa in qualche credito Agrippina sua madre, dappoichè le
riuscì di superar le calunnie di _Giunia Silana;_ ma dacchè entrò in
corte _Poppea Sabina_, cominciò una nuova e più fiera guerra contro di
lei. Aspirava questa ambiziosa ed adultera donna alle nozze del
regnante, al che, vivente Agrippina, le parea troppo difficile di
poter giungere, sì perchè Agrippina amava forte la saggia e paziente
sua nuora _Ottavia_, e sì perchè non avrebbe potuto soffrire presso il
figliuolo chi a lei fosse superiore negli onori e nel comando.
Cominciò dunque Poppea a stimolar Nerone con dei motti pungenti,
deridendolo, «perchè tuttavia fosse sotto la tutela; ed oh che bel
padrone del mondo, che nè pure è padrone di sè stesso!» Passò poi in
varie guise, e coll'aiuto dei cortigiani nemici di Agrippina, a fargli
credere che la madre nudrisse de' cattivi disegni contra di lui.
Ingegnavasi all'incontro anche Agrippina di guadagnarsi l'affetto del
figliuolo contra di questa rivale; e fanno orrore le dicerie che
corsero allora, delle quali Dione Cassio[352] e Tacito[353] fanno
menzione, contraddicendo quegli autori anche in parlar di _Seneca_,
che alcuni vogliono concorde coll'iniquo Nerone alla rovina della
madre, ed altri parziale della medesima, anzi macchiato di un infame
commercio con lei. La stessa battaglia fra quegli scrittori si
osserva, rappresentando alcuni[354], ch'ella con carezze nefande, ed
altri colla fierezza e colle minacce procurava di rompere
l'abbominevole attaccamento del figliuolo a Poppea. Se nulla è da
credersi, è l'ultimo. Perciò Nerone annoiato cominciò a sfuggirla, e
ad aver caro ch'ella se ne stesse ritirata nelle deliziose sue ville,
benchè quivi ancora l'inquietasse, con inviar persone, le quali, in
passando, le diceano delle villanie o delle parole irrisorie.
Finalmente si lasciò precipitar nella risoluzione di torle la vita.
Non si arrischiò al veleno, perchè non apparisse troppo sfacciato il
colpo, siccome era avvenuto in Britannico; e perchè ella andava ben
guernita di antidoti. Nulladimeno Svetonio scrive, che per tre volte
tentò questa via, ma indarno. Pensò anche a farle cadere addosso il
vôlto della camera, dov'ella dormiva, e vi si provò. Ne fu avvertita
per tempo Agrippina, e vi provvide.
Ora _Aniceto_ liberto di Nerone, presidente dell'armata navale, che si
tenea sempre allestita nel porto di Miseno, siccome nemico di
Agrippina, si esibì a Nerone di fare il colpo con una invenzione che
parrebbe fortuita; e risparmierebbe a lui l'odiosità del fatto.
Consisteva questa in fabbricare una galea congegnata in maniera, che
una parte si scioglierebbe, tirando seco in mare chi v'era disopra,
esempio preso da una simil nave già fabbricata nel teatro. Piacque la
proposizione; fu preparato nella Campania l'insidiatore legno; e
Nerone per celebrar i giuochi d'allegria in onor di Minerva, chiamati
Quinquatrui, si portò al palazzo di Bauli, situato fra Baia, e Miseno,
conducendo seco la madre sino ad Anzo, giacchè era qualche tempo che
le mostrava un finto affetto, ed usavale delle finezze. Quivi stando
Nerone si udiva dire: che toccava ai figliuoli il sopportare gli
sdegni di chi avea lor data la vita, e che a tutti i patti volea far
buona pace colla madre; acciocchè tutto le fosse riferito, ed ella,
secondo l'uso delle donne facili a credere ciò che bramano, si
lasciasse meglio attrappolare. Invitolla dipoi a venire ad un suo
convito ad Anzo; ed ella v'andò, accolta dal figliuolo sul lido con
cari abbracciamenti, e tenuta poi a tavola nel primo posto: il che
maggiormente la assicurò. O sia, come vuol Tacito, ch'ella quivi si
fermasse quella sola giornata, o che, al dire di Dione, si trattenesse
quivi per alcuni giorni, volle ella infine ritornarsene alla sua
villa. Nerone, dopo il lungo e magnifico convito, la tenne fino alla
notte in ragionamenti ora allegri, ora serii, baciandola di tanto in
tanto, ed animandola a chiedere tutto quel che voleva, con altre
parole le più dolci del mondo. Accompagnata da lui sino al lido,
s'imbarcò nella nave traditrice, superbamente addobbata, e andò
servendola Aniceto. Era quietissimo il mare, e parve quella calma
venuta apposta, per far conoscere ad ognuno, che non dalla forza de'
venti, ma dal tradimento procedea lo sfasciarsi della nave. Alla
divisata ora cadde, secondo Tacito[355], il tavolato di sopra, che
soffocò Creperio Gallo cortigiano d'Agrippina; ma essa con Acerronia
Polla sua dama d'onore si attaccò alle sponde, nè cadde. In quella
confusione i marinai credendo che Acerronia fosse Agrippina, coi remi
la uccisero. Ad Agrippina toccò solamente una ferita sulla spalla. Fu
voltata in un lato la nave, perchè si affondasse; ed Agrippina
cadutavi pian piano dentro, parte nuotando, e parte soccorsa dalle
barchette che venivano dietro, si salvò, e fu condotta al suo palazzo
nel lago Lucrino. Dione in poche parole dice, che, sfasciatasi la
nave, Agrippina cadde in mare, nè si annegò. Più minuta, ma
imbrogliata, è la descrizione che fa di questo fatto Tacito; ma,
comunque succedesse, per consenso di tutti, Agrippina scampò la vita.
Ridotta nel suo palazzo, e in letto, per farsi curare, ricorrendo col
pensiero tutta la serie di quel fatto, non durò fatica ad intendere
chi le avesse tramata la morte. Prese la saggia determinazione di
tutto dissimulare, ed immediatamente spedì Agerino suo liberto al
figliuolo, per dargli avviso d'avere per benignità degli dii sfuggito
un bravissimo pericolo, e per pregarlo di non farle visita per ora,
avendo ella bisogno di quiete per farsi medicare. Nerone ch'era stato
sulle spine la notte, aspettando nuova dell'esito degli esecrandi suoi
disegni, allorchè intese come era passata la cosa, ed esserne uscita
netta la madre, fu sorpreso da immensa paura, immaginandosi ch'ella
potesse spedirgli contro tutta la sua servitù in armi, o muovere i
pretoriani contra di lui, o comparire ad accusarlo in Roma al senato e
al popolo. Sbalordito non sapeva allora in qual mondo si fosse. Fece
svegliar Burro e Seneca, chiamandogli a consiglio, essendo ignoto
s'eglino sì o no fossero prima consapevoli del delitto. Restarono un
pezzo ambedue senza parlare, o perchè non osassero di dissuaderlo, o
perchè credessero ridotte le cose ad un punto che Nerone fosse
perduto, se non preveniva la madre. Nerone in fatti propose di levarla
dal mondo; e Seneca, imputato da Dione d'aver dianzi dato questo
medesimo consiglio, voltò gli occhi a Burro, come per domandargli che
ne comandasse ai suoi pretoriani l'esecuzione. Ma Burro, non
dimenticando che da Agrippina era proceduta la propria fortuna,
prontamente rispose, che essendo obbligate le guardie del corpo a
tutta la casa cesarea, e ricordandosi del nome di Germanico, non si
potea promettere in ciò della loro ubbidienza; e che toccava ad
Aniceto il compiere ciò ch'egli aveva incominciato. Chiamato Aniceto,
non vi pose alcuna difficoltà, cosicchè Nerone protestò che in quel
giorno egli riceveva dalle sue mani l'imperio; e quindi gli ordinò di
prendere quegli armati che occorressero dalla guarnigione delle sue
galee. Intanto arriva per parte di Agrippina Agerino. Sovvenne allora
a Nerone un ripiego degno del suo capo sventato. Allorchè l'ebbe
ammesso all'udienza, gli gittò a' piedi un pugnale, e chiamò tosto
aiuto, con fingere costui mandato dalla madre per ucciderlo, e il fece
tosto imprigionare, e poi spargere voce, ch'egli s'era ucciso da sè
stesso per la vergogna della scoperta sua mala intenzione. Intanto
Agrippina, ch'era negli spasimi per non veder venire Agerino, nè altra
persona per parte del figlio, in vece di essi mira entrar nella sua
camera Aniceto, accompagnato da due suoi uffiziali, senza sapere se in
bene o in male. Poco stette in avvedersene: un colpo di bastone la
colse nella testa; e vedendo sguainata la spada da un di essi,
saltando su gridò: «Ferisci questo,» mostrandogli il ventre. Fu di poi
morta con più ferite; e portatane la nuova a Nerone, non mancò chi
disse di averla voluta vedere estinta e nuda, non fidandosi di chi gli
riferì il fatto, e d'aver detto: «io non sapea d'avere una madre sì
bella.» Tacito lascia in forse questa circostanza. Fu in quella stessa
notte bruciato, secondo il costume d'allora, il suo corpo e vilmente
seppellito. Ed ecco dove andò a terminare la sbrigliata ambizione di
questa donna, figliuola di Germanico, nipote del grande Agrippa,
pronipote d'Augusto, moglie e madre d'imperadori. Le iniquità da lei
commesse per far salire il figlio al trono riportarono questa
ricompensa dallo stesso suo figlio, mostro d'ingratitudine e di
crudeltà.
Fece susseguentemente Nerone una bella scena, mostrandosi
inconsolabile per la morte della madre, e dolendosi d'aver salvata la
vita propria colla perdita della sua; giacchè voleva che si credesse
aver ella inviato Agerino per ucciderlo, e ch'ella dipoi si fosse
uccisa da sè stessa. Lo stesso ancora scrisse al senato con aggiungere
una filza d'altre accuse contro la madre per giustificar sè medesimo,
e con dire fra l'altre cose[356]: _Ch'io sia salvo, appena lo credo, e
non ne godo._ Perchè quella lettera o era scritta da Seneca, o si
riconobbe per sua dettatura, fu mormorato non poco di questo adulator
filosofo, il quale compariva approvatore di sì nero delitto. Mostrò il
senato[357] di credere tutto: decretò ringraziamenti agli dii, e
giuochi per la salvata vita del principe; e dichiarò il dì natalizio
di Agrippina per giorno abbominevole. Il solo _Publio Peto Trasea_,
senatore onoratissimo, dappoichè, fu letta quella lettera, uscì dal
senato, per non approvare nè disapprovare, il che poi gli costò caro.
Ma Nerone dopo il misfatto[358] si sentì gran tempo rodere il cuore
dalla coscienza; sempre avea davanti agli occhi l'immagine
dell'estinta madre e gli parea di veder le furie che il
perseguitassero colle fiaccole accese. Nè il mutar di luogo e l'andare
a Napoli ed altrove, servì a liberarlo dall'interno strazio. Neppure
s'attentava di ritornar più a Roma, temendo d'essere in orrore a
tutti. Ma gl'ispiravano del coraggio i bravi cortigiani, facendogli
anzi sperare cresciuto l'amore del popolo per aver liberata Roma dalla
più ambiziosa e odiata donna del mondo. In fatti, restituitosi alla
città, trovò anche più di quel che sperava, movendosi e grandi e
piccoli per paura di un sì spietato principe a fargli onore. Andò
dunque come trionfante al Campidoglio, persuaso ch'egli potea far
tutto a man salva, dacchè tutti, o perchè l'amavano, o perchè
avviliti, non sapeano se non adorare i di lui supremi voleri. Affettò
ancora la clemenza con richiamare a Roma _Giunia Calvina, Calpurnia,
Valerio Capitone_ e _Licinio Gabalo_, esiliati già dalla madre. Ma in
questo medesimo anno col veleno abbreviò la vita a _Domizia_ sua zia
paterna, con occupar tutti i suoi beni posti in quel di Baja e di
Ravenna, prima ancora ch'ella spirasse. Quivi alzò de' magnifici
trofei, che duravano anche ai tempi di Dione[359]. Mirabil cosa
nondimeno fu, che parlando molti liberamente di tali eccessi, ed
uscendo non poche pasquinate, pure, egli, benchè dalle sue spie
informato di quanto succedea, ebbe tal prudenza da dissimular tutto, e
da non gastigar alcuno per questo, paventando di accrescere,
altrimente facendo, il romore nel popolo.
NOTE:
[350] Noris, Ep. Consul.
[351] Thes. Nov. Veter. Inscr., p. 305, n. 3.
[352] Dio, lib. 90.
[353] Tac., lib. 14, cap. 2.
[354] Sueton., in Nerone.
[355] Tacitus, lib. 14, cap. 3.
[356] Quintilianus, lib. 8 Instit.
[357] Tacitus, lib. 14, c. 12.
[358] Sueton., in Neron., c. 34.
[359] Dio, lib. 61.
Anno di CRISTO LX. Indizione III.
PIETRO APOSTOLO papa 32.
NERONE CLAUDIO imper. 7.
_Consoli_
NERONE CLAUDIO AUGUSTO e COSSO CORNELIO LENTULO.
Dicendo Svetonio, che Nerone tenne questo consolato per soli sei mesi
nelle calende di luglio dovettero succedere a lui e al collega due
altri consoli. Il nome loro ci è ignoto. Alcuni han sospettato che
fossero _Tito Ampio Flaviano_ e _Marco Aponio Saturnino_, perchè da
Tacito son chiamati uomini consolari, ed ebbero poscia de' governi.
Andossi poi sempre abbandonando Nerone[360] ai divertimenti e piaceri,
dappoichè non vivea più la madre, che il tenea pure in qualche
suggezione. Sin da fanciullo si dilettava egli di andare in carretta e
di condurre i cavalli. Avea anche imparato a sonar di cetra e a
cantare. Diedesi ora in preda a questi sollazzi, sì sconvenevoli ad un
imperadore. Seneca e Burro gli permisero il primo, per distorlo dagli
altri, purchè corresse co' cavalli nel circo vaticano chiuso per non
lasciarsi vedere dal popolo. Ma non si potè contenere il vanissimo
giovane; volle degli spettatori, e il lor plauso l'invogliò ad
invitarvi anche del popolo, il quale godendo di veder fare i principi
ciò ch'esso fa, e perciò gonfiandolo con alte lodi, maggiormente
l'incitò a quel plebeo mestiere[361]. Tuttavia ben conoscendo, che i
saggi erano d'altro sentimento, credette di schivar il disonore, con
cercare de' compagni nobili che imitasser lui ne' pubblici
divertimenti. Perciò venutogli in capo di far de' giuochi di somma
magnificenza in onor della madre, che durarono più giorni, si videro
nobili dell'uno e dell'altro sesso, non solo dell'ordine equestre, ma
anche del senatorio, comparir ne' teatri, ne' circhi e negli
anfiteatri, con esercitar pubblicamente le arti riserbate in addietro
alle sole persone vili e plebee, con sonar nelle orchestre,
rappresentar commedie e tragedie, ballar ne' teatri, far da gladiatori
e da carrettieri: alcuni di propria elezione, ed altri per non
disubbidir Nerone che gl'invitava. Mirava il popolo, ed anche i
forestieri riconoscevano, che quegli attori, dimentichi della lor
nascita, erano chi un Furio, chi un Fabio, chi un Valerio, un Porcio,
un Appio, ed altri simili della nobiltà primaria. Al veder cotali
novità e stravaganze, ne gemevano forte i saggi, sì pel disonor delle
famiglie, come ancora perchè veniva con ciò a crescere troppo
smisuratamente la corruttela de' costumi. Rammaricavansi inoltre
osservando le incredibili spese che facea Nerone, non solamente in
questi sì sfoggiati divertimenti, ma anche negl'immensi regali alla
plebe con gittar dei segni, ne' quali era scritto quella sorta di dono
che dovea darsi a chi avea la fortuna d'aggraffarli come cavalli,
schiavi, vesti, danari. Ben prevedevano che tanto scialacquamento
andrebbe a finire in nuovi aggravi ed estorsioni sopra il pubblico,
siccome in fatti avvenne. Instituì eziandio Nerone altri giuochi,
appellati Giovenali in onore della prima volta ch'egli si fece far la
barba: rito festivo presso i Romani. Que' preziosi peli in una scatola
d'oro furono consecrati a Giove. In que' giuochi danzarono i più
nobili fra i Romani, e bella figura fra l'altre dame fece Elia Catula,
giovinetta di ottanta anni, che ballò un minoetto. Chi de' nobili non
potea ballare, cantava; ed eranvi scuole apposta, dove concorrevano ad
imparare uomini e donne di prima sfera, fanciulle, giovanetti, vecchi,
per far poscia con leggiadria il loro mestiere ne' pubblici teatri.
Che se alcuno, non potendo di meno, per vergogna vi compariva
mascherato. Nerone gli cavava la maschera, e si venivano a conoscere
persone impiegate ne' più riguardevoli magistrati.
Nè lo stesso Nerone volle in fine essere da meno degli altri. Uscì
anche egli nella scena in abito da suonator di cetra, ed oltre al
suonare, fece sentir la sua da lui creduta melodiosa voce, la qual
nondimeno si trovò sì somigliante a quella de' capponi cantanti, che
niun potea ritener le risa, e molti piangeano per rabbia. Se crediamo
a Dione, Burro e Seneca assistenti servivano a lui di suggeritori, e
andavangli poi facendo plauso colle mani e coi panni, per invitare
allo stesso l'udienza. Tacito[362] anch'egli lo attesta di Burro, ma
con aggiungere che internamente se ne affliggeva. Nè già era
permesso[363], allorchè cantava questo insigne maestro, ad alcuno
l'uscir di teatro, per qualsivoglia bisogno che occorresse. Quella era
la voce d'Apollo; niun v'era che potesse uguagliarsi a lui nella
melodia del canto. Così gli adulatori. Volle egli ancora che si
tenesse una gara di poesia e d'eloquenza, e vi entrò anch'egli
coll'invito de' giovani nobili. Non è difficile l'immaginarsi a chi
toccasse la palma e il premio. Furono similmente richiamati a Roma i
pantomimi, perchè divertissero il popolo nei teatri, ma non già ne'
giuochi sacri. Apparve in quest'anno una cometa. Il volgo, imbevuto
dell'opinione, che questo predica la morte de' principi, cominciò a
fare i conti su la vita di Nerone, e a predire chi a lui succederebbe.
Concorrevano molti in _Rubellio Plauto_, discendente per via di donne
dalla famiglia di Giulio Cesare, personaggio ritirato e dabbene. Ne fu
avvertito Nerone. Si aggiunse, che trovandosi a desinare il medesimo
imperadore in Subbiaco, un fulmine gli rovesciò le vivande e la
tavola. Perchè quel luogo era vicino a Tivoli, patria dei maggiori
d'esso Plauto, la pazza gente perduta nelle superstizioni maggiormente
si confermò nella predizione suddetta. Fece dunque Nerone intendere a
Rubellio Plauto, che miglior aria sarebbe per lui l'Asia, dov'egli
possedeva dei beni. Gli convenne andar là colla sua famiglia, ma per
poco tempo, perchè da lì a due anni Nerone mandò ad ucciderlo. Venne
in questi tempi a morte _Quadrato_, governatore della Siria, e quel
governo fu dato a _Corbulone_, da cui dicemmo ch'era stata acquistata
l'Armenia. Trovavasi da gran tempo in Roma _Tigrane_, nipote
d'_Archelao_, che già fu re della Cappadocia, avvezzato ad una servile
pazienza. Ottenne egli da Nerone di poter governare l'Armenia con
titolo di re; e andato colà, fu assistito da Corbulone con un corpo di
soldatesche tali, che, al dispetto di molti, più inclinati al dominio
de' Parti, n'ebbe il pacifico possesso, benchè poi non vi potesse
lungo tempo sussistere[364]. Pozzuolo in questo anno acquistò il
diritto di colonia, e il cognome di Nerone; intorno a che disputano
gli eruditi, perchè da Livio e da Vellejo abbiamo, che tanti anni
prima Pozzuolo fu colonia, e Frontino fa autore Augusto di una nuova
colonia in quella città. In questi tempi Laodicea, illustre città
della Frigia restò rovinata da un tremuoto; ma quel popolo la rimise
in piedi colle proprie ricchezze senza aiuto de' Romani.
NOTE:
[360] Tacitus, Annal., lib. 14, cap. 14.
[361] Dio, lib. 61.
[362] Tacitus, lib. 14, cap. 15.
[363] Sueton., in Nerone, cap. 23.
[364] Tacitus, lib. 14, cap. 27.
Anno di CRISTO LXI. Indizione IV.
PIETRO APOSTOLO papa 33.
NERONE CLAUDIO imper. 8.
_Consoli_
CAJO CESONIO PETO e CAJO PETRONIO TURPILIANO.
Non è certo il prenome di _Cajo_ pel secondo di questi consoli, nè
sappiamo chi nelle calende di luglio loro succedesse nella dignità.
Motivo[365] ai pubblici ragionamenti diedero in quest'anno due
iniquità, commesse in Roma, l'una da un nobile, l'altra da un servo.
Mancò di vita _Domizio Balbo_, ricco, e della prima nobiltà, senza
figliuoli. _Valerio Fabiano_, senatore, con un falso testamento, a cui
tori, che furono uccisi da uomini a cavallo, correnti a briglia
sciolta contra di essi. Un altro, in cui quattrocento orsi e trecento
lioni caddero al suolo trafitti dalle lance delle guardie a cavallo di
Nerone. Anche trenta uomini dell'ordine de' cavalieri romani
combatterono nell'anfiteatro alla foggia de' gladiatori, cioè di gente
infame. Cresceva intanto lo sregolamento di Nerone ascoltando egli
unicamente i consigli di chi adulava le di lui passioni, tutte rivolte
ai piaceri anche più abbominevoli. Quei di _Burro_ e di _Seneca_
l'infastidivano, e in fine cominciò a metterseli sotto i piedi.
_Ottone_, che fu poi imperadore, e in tutto simile era a Nerone nelle
inclinazioni e nei vizii, siccome ancora gli altri collegati
negl'infami di lui divertimenti, gli andavano di tanto in tanto
dicendo: «Come mai soffrite che vi facciano i pedanti in questa età? E
voi ve ne mettete suggezione, senza ricordarvi che siete l'imperadore,
e che non essi, ma voi sopra d'essi avete potere!» Così imparò egli a
sprezzare i consigli de' buoni, e, voltata strada, si diede ad imitar
Caligola, anzi a superarlo; parendogli cosa degna di un imperadore il
non esser da meno d'alcuno neppur nelle cose mal fatte. Tuttavia in
questi primi anni si andò ritenendo. I suoi erano finora vizii
privati, e nocevano a lui solo, e a pochi altri, senza che ne patisse
la repubblica. Si videro anche in lui alcuni atti di clemenza, intorno
alla qual virtù gli avea Seneca composto e dedicato nell'anno
precedente un trattato che ci resta. Ma fin dove il portasse la sua
perversa natura, e questo abbandonamento di sè stesso, poco staremo a
vederlo.
NOTE:
[344] Tacit., lib. 13, cap.
[345] Dio, lib. 61.
Anno di CRISTO LVIII. Indizione I.
PIETRO APOSTOLO papa 30.
NERONE CLAUDIO imper. 5.
_Consoli_
NERONE CLAUDIO AUGUSTO per la terza volta e VALERIO MESSALLA.
V'ha chi dà al secondo console il nome di _Marco Valerio Messalla
Corvino._ Ed abbiamo bensì da Svetonio che il terzo consolato di
_Nerone_ durò solamente quattro mesi; ma non sappiamo chi a lui
succedesse nelle calende di maggio. Potentissimo avvocato, ed insieme
terribile e venale accusatore sotto l'imperador Claudio era stato
Marco Suilio[346], odiato perciò da molti, i quali, mutato il governo,
si studiarono d'abbatterlo. Perchè egli credea suo nemico _Seneca_, ne
sparlava a tutto potere, tassandolo di aver avuto disonesto commercio
con _Giulia_ figliuola di Germanico Cesare, per cui giustamente avesse
patito l'esilio, e ch'egli fosse filosofo bensì di nome, ma ne' fatti
un solennissimo ipocrita, mentre scriveva sì dei precetti di
filosofia, ed altro poi non facea che ammassar de' milioni, e andar a
caccia di testamenti, e di far usure innumerabili per l'Italia e per
le provincie. Nel senato comparvero delle gravi accuse contro di
Suilio; ma Nerone si contentò di confiscargli una parte de' suoi beni
e di relegarlo in Majorica e Minorica. Anche _Cornelio Silla_,
verisimilmente quello stesso ch'era stato console nell'anno 52 ed
aveva avuta in moglie _Antonia_ figliuola di Claudio Augusto, fu
relegato a Marsilia. Benchè pel suo genio timido e vile non fosse
capace d'imprese grandi, pure gli emuli suoi fecero credere a Nerone,
ch'egli, sotto una finta stupidità, covasse dei veri disegni di
novità; e gli tesero anche tante trappole, che fu condannato, come
dissi, all'esilio ed anche nell'anno 62 tolto dal mondo. Fu parimente
accusato _Pomponio Silvano_ d'aver fatto delle estorsioni durante il
suo governo nell'Africa. Ebbe de' buoni protettori, perchè lor fece
sperar le molte sue ricchezze per eredità, giacchè privo era di
figliuoli ed inoltrato molto nell'età. In questa maniera si salvò, con
deludere poscia l'espettazione di chiunque facea i conti sulla sua
roba, per essere sopravvivuto a tutti. Potrebb'essere un d'essi
_Ottone_, che fu poi imperadore, e forse anche il buon _Seneca_, da
noi veduto in concetto d'attendere a simili prede. Era in questi tempi
andato all'eccesso l'orgoglio e l'insolenza dei pubblicani, cioè de'
gabellieri di Roma, e ne mormorava forte il popolo. Saltò in capo a
Nerone di levar via, tutt'i dazii e le gabelle, per aver la gloria di
fare un bellissimo regalo al genere umano; e se ne lasciò intendere in
senato. Lodarono i senatori assaissimo la grandezza dell'animo suo; ma
appresso gli fecero toccar con mano che senza il nerbo delle rendite
pubbliche non potea sussistere l'imperio romano, tanto ch'egli smontò.
Furono nondimeno fatti dei buonissimi regolamenti in questo proposito
per benefizio dei popoli con reprimere le avanie di quelle
sanguisughe: regolamenti nondimeno ch'ebbero corta durata, con
ripullulare gli abusi. Tuttavia confessa Tacito, che molti se ne
levarono, nè al suo tempo si pagavano più non so quante esazioni
introdotte al passaggio de' ponti, e per le navi.
Ebbe principio in quest'anno l'amoreggiamento di Nerone con _Poppea
Sabina_, donna di gran nobiltà, di pari bellezza e ricchezza. Graziosa
nel parlare, vivace d'ingegno, e modesta in apparenza, di rado si
lasciava vedere per Roma, e sempre col volto mezzo coperto, per non
saziare affatto la curiosità di chi la riguardava. Le mancava solo il
più bello, cioè l'onestà. Bastava essere liberale per guadagnarsi i di
lei favori. Era stata moglie di Rufo Crispino cavaliere romano, a cui
partorì un figliuolo; ma innamoratosene _Ottone_, che fu poscia
imperadore, non gli fu difficile colla bizzarria delle comparse,
colla gioventù e col credito d'essere uno dei più confidenti
dell'imperadore, di distorla dal marito, e di prenderla egli in
moglie: chè di questi bei tiri abbondava Roma pagana. Ma il
vanaglorioso scioccone non potea ritenersi presso Nerone dal far elogi
incessanti della nobiltà e dell'avvenenza della nuova moglie,
chiamando sè stesso il più felice degli uomini, per trovarsi in
possesso di tal donna. Tanto andò ripetendo questa canzone, che Nerone
invogliossi di vederla, e il vederla fu lo stesso che innamorarsene
perdutamente. Mostrossi anch'ella sul principio presa della di lui
bellezza; poi colla ritrosia, e col fingersi troppo contenta del
marito Ottone, e di non apprezzar molto chi era di spirito sì basso da
compiacersi dell'amore di una vil serva, cioè di Atte liberta, tal
corda gli diede, che sempre più andò crescendo la fiamma. Ne provò ben
presto gli effetti lo stesso Ottone con restar privo della confidenza
di Nerone, e col non essere ammesso alla di lui udienza, nè al
corteggio. Di peggio potevagli avvenire, se Seneca, amico suo, non
avesse impetrato, che Nerone l'inviasse per presidente della
Lusitania, parte di cui era il Portogallo d'oggidì, dove con buone
operazioni per dieci anni risarcì l'onore ch'egli avea perduto in
Roma. Da lì innanzi Poppea trionfò nel cuor di Nerone. Dione[347]
pretende, che per qualche tempo Ottone e Nerone andassero d'accordo
nel possedere costei; ma molto non sogliono durare sì fatte amicizie.
Risvegliossi in quest'anno[348] la guerra fra i Romani e i Parti, per
cagion dell'Armenia. _Vologeso re_ d'essi Parti pretendea di mettervi
per re _Tiridate_ suo fratello; i Romani voleano disporne a lor
piacimento, come s'era fatto in addietro. _Domizio Corbulone_, che già
dicemmo il più valente generale di Roma in questi tempi, comandava in
quelle parti l'armi romane. Ma, più che i Parti, recava a lui pena la
scaduta disciplina delle soldatesche sue, per lunga pace impigrite e
dimentiche degli ordini della vecchia milizia. La prima sua cura
adunque fu quella di cassare gl'inutili, di far nuove leve, e di ben
disciplinar la sua gente, usando del rigore ch'era a lui naturale.
S'impadronì egli poi di Artasata capitale dell'Armenia e di
Tigranocerta; ed avendo voluto Tiridate rientrare nell'Armenia, il
ripulsò, divenendo in fine padrone affatto di quella contrada.
Probabilmente non succederono tutte queste imprese nell'anno presente.
L'Occone e il Mezzabarba[349], che riferiscono a quest'anno la pace
universale, e il tempio di Giano chiuso in Roma, come apparisce da
molte medaglie, andarono a tastoni in questo punto di storia. Tacito
racconta in un fiato varii avvenimenti tanto dell'Armenia che della
Germania, ma non succeduti tutti in un sol anno.
NOTE:
[346] Tacitus, lib. 13, cap. 42.
[347] Dio, lib. 90.
[348] Tacitus, lib. 13, cap. 34.
[349] Mediobarbus, in Numism. Imperat.
Anno di CRISTO LIX. Indizione II.
PIETRO APOSTOLO papa 31.
NERONE CLAUDIO imper. 6.
_Consoli_
LUCIO VIPSTANO APRONIANO e FONTEJO CAPITONE.
Comunemente da chi ha illustrato i Fasti consolari, il primo di questi
consoli è chiamato _Vipsanio._ Ma, secondo le osservazioni del
cardinal Noris[350], il suo vero nome fu _Vipstano_; e ciò può ancora
dedursi da un'iscrizione pubblicata anche da me[351]. In essa
s'incontra _Cajo Fontejo._ Se ivi è disegnato il console di questi
tempi, _Cajo_ e non _Lucio_ sarà stato il suo prenome. Giunse in
quest'anno ad un orrido eccesso la più che maligna natura di Nerone.
Erasi rimessa in qualche credito Agrippina sua madre, dappoichè le
riuscì di superar le calunnie di _Giunia Silana;_ ma dacchè entrò in
corte _Poppea Sabina_, cominciò una nuova e più fiera guerra contro di
lei. Aspirava questa ambiziosa ed adultera donna alle nozze del
regnante, al che, vivente Agrippina, le parea troppo difficile di
poter giungere, sì perchè Agrippina amava forte la saggia e paziente
sua nuora _Ottavia_, e sì perchè non avrebbe potuto soffrire presso il
figliuolo chi a lei fosse superiore negli onori e nel comando.
Cominciò dunque Poppea a stimolar Nerone con dei motti pungenti,
deridendolo, «perchè tuttavia fosse sotto la tutela; ed oh che bel
padrone del mondo, che nè pure è padrone di sè stesso!» Passò poi in
varie guise, e coll'aiuto dei cortigiani nemici di Agrippina, a fargli
credere che la madre nudrisse de' cattivi disegni contra di lui.
Ingegnavasi all'incontro anche Agrippina di guadagnarsi l'affetto del
figliuolo contra di questa rivale; e fanno orrore le dicerie che
corsero allora, delle quali Dione Cassio[352] e Tacito[353] fanno
menzione, contraddicendo quegli autori anche in parlar di _Seneca_,
che alcuni vogliono concorde coll'iniquo Nerone alla rovina della
madre, ed altri parziale della medesima, anzi macchiato di un infame
commercio con lei. La stessa battaglia fra quegli scrittori si
osserva, rappresentando alcuni[354], ch'ella con carezze nefande, ed
altri colla fierezza e colle minacce procurava di rompere
l'abbominevole attaccamento del figliuolo a Poppea. Se nulla è da
credersi, è l'ultimo. Perciò Nerone annoiato cominciò a sfuggirla, e
ad aver caro ch'ella se ne stesse ritirata nelle deliziose sue ville,
benchè quivi ancora l'inquietasse, con inviar persone, le quali, in
passando, le diceano delle villanie o delle parole irrisorie.
Finalmente si lasciò precipitar nella risoluzione di torle la vita.
Non si arrischiò al veleno, perchè non apparisse troppo sfacciato il
colpo, siccome era avvenuto in Britannico; e perchè ella andava ben
guernita di antidoti. Nulladimeno Svetonio scrive, che per tre volte
tentò questa via, ma indarno. Pensò anche a farle cadere addosso il
vôlto della camera, dov'ella dormiva, e vi si provò. Ne fu avvertita
per tempo Agrippina, e vi provvide.
Ora _Aniceto_ liberto di Nerone, presidente dell'armata navale, che si
tenea sempre allestita nel porto di Miseno, siccome nemico di
Agrippina, si esibì a Nerone di fare il colpo con una invenzione che
parrebbe fortuita; e risparmierebbe a lui l'odiosità del fatto.
Consisteva questa in fabbricare una galea congegnata in maniera, che
una parte si scioglierebbe, tirando seco in mare chi v'era disopra,
esempio preso da una simil nave già fabbricata nel teatro. Piacque la
proposizione; fu preparato nella Campania l'insidiatore legno; e
Nerone per celebrar i giuochi d'allegria in onor di Minerva, chiamati
Quinquatrui, si portò al palazzo di Bauli, situato fra Baia, e Miseno,
conducendo seco la madre sino ad Anzo, giacchè era qualche tempo che
le mostrava un finto affetto, ed usavale delle finezze. Quivi stando
Nerone si udiva dire: che toccava ai figliuoli il sopportare gli
sdegni di chi avea lor data la vita, e che a tutti i patti volea far
buona pace colla madre; acciocchè tutto le fosse riferito, ed ella,
secondo l'uso delle donne facili a credere ciò che bramano, si
lasciasse meglio attrappolare. Invitolla dipoi a venire ad un suo
convito ad Anzo; ed ella v'andò, accolta dal figliuolo sul lido con
cari abbracciamenti, e tenuta poi a tavola nel primo posto: il che
maggiormente la assicurò. O sia, come vuol Tacito, ch'ella quivi si
fermasse quella sola giornata, o che, al dire di Dione, si trattenesse
quivi per alcuni giorni, volle ella infine ritornarsene alla sua
villa. Nerone, dopo il lungo e magnifico convito, la tenne fino alla
notte in ragionamenti ora allegri, ora serii, baciandola di tanto in
tanto, ed animandola a chiedere tutto quel che voleva, con altre
parole le più dolci del mondo. Accompagnata da lui sino al lido,
s'imbarcò nella nave traditrice, superbamente addobbata, e andò
servendola Aniceto. Era quietissimo il mare, e parve quella calma
venuta apposta, per far conoscere ad ognuno, che non dalla forza de'
venti, ma dal tradimento procedea lo sfasciarsi della nave. Alla
divisata ora cadde, secondo Tacito[355], il tavolato di sopra, che
soffocò Creperio Gallo cortigiano d'Agrippina; ma essa con Acerronia
Polla sua dama d'onore si attaccò alle sponde, nè cadde. In quella
confusione i marinai credendo che Acerronia fosse Agrippina, coi remi
la uccisero. Ad Agrippina toccò solamente una ferita sulla spalla. Fu
voltata in un lato la nave, perchè si affondasse; ed Agrippina
cadutavi pian piano dentro, parte nuotando, e parte soccorsa dalle
barchette che venivano dietro, si salvò, e fu condotta al suo palazzo
nel lago Lucrino. Dione in poche parole dice, che, sfasciatasi la
nave, Agrippina cadde in mare, nè si annegò. Più minuta, ma
imbrogliata, è la descrizione che fa di questo fatto Tacito; ma,
comunque succedesse, per consenso di tutti, Agrippina scampò la vita.
Ridotta nel suo palazzo, e in letto, per farsi curare, ricorrendo col
pensiero tutta la serie di quel fatto, non durò fatica ad intendere
chi le avesse tramata la morte. Prese la saggia determinazione di
tutto dissimulare, ed immediatamente spedì Agerino suo liberto al
figliuolo, per dargli avviso d'avere per benignità degli dii sfuggito
un bravissimo pericolo, e per pregarlo di non farle visita per ora,
avendo ella bisogno di quiete per farsi medicare. Nerone ch'era stato
sulle spine la notte, aspettando nuova dell'esito degli esecrandi suoi
disegni, allorchè intese come era passata la cosa, ed esserne uscita
netta la madre, fu sorpreso da immensa paura, immaginandosi ch'ella
potesse spedirgli contro tutta la sua servitù in armi, o muovere i
pretoriani contra di lui, o comparire ad accusarlo in Roma al senato e
al popolo. Sbalordito non sapeva allora in qual mondo si fosse. Fece
svegliar Burro e Seneca, chiamandogli a consiglio, essendo ignoto
s'eglino sì o no fossero prima consapevoli del delitto. Restarono un
pezzo ambedue senza parlare, o perchè non osassero di dissuaderlo, o
perchè credessero ridotte le cose ad un punto che Nerone fosse
perduto, se non preveniva la madre. Nerone in fatti propose di levarla
dal mondo; e Seneca, imputato da Dione d'aver dianzi dato questo
medesimo consiglio, voltò gli occhi a Burro, come per domandargli che
ne comandasse ai suoi pretoriani l'esecuzione. Ma Burro, non
dimenticando che da Agrippina era proceduta la propria fortuna,
prontamente rispose, che essendo obbligate le guardie del corpo a
tutta la casa cesarea, e ricordandosi del nome di Germanico, non si
potea promettere in ciò della loro ubbidienza; e che toccava ad
Aniceto il compiere ciò ch'egli aveva incominciato. Chiamato Aniceto,
non vi pose alcuna difficoltà, cosicchè Nerone protestò che in quel
giorno egli riceveva dalle sue mani l'imperio; e quindi gli ordinò di
prendere quegli armati che occorressero dalla guarnigione delle sue
galee. Intanto arriva per parte di Agrippina Agerino. Sovvenne allora
a Nerone un ripiego degno del suo capo sventato. Allorchè l'ebbe
ammesso all'udienza, gli gittò a' piedi un pugnale, e chiamò tosto
aiuto, con fingere costui mandato dalla madre per ucciderlo, e il fece
tosto imprigionare, e poi spargere voce, ch'egli s'era ucciso da sè
stesso per la vergogna della scoperta sua mala intenzione. Intanto
Agrippina, ch'era negli spasimi per non veder venire Agerino, nè altra
persona per parte del figlio, in vece di essi mira entrar nella sua
camera Aniceto, accompagnato da due suoi uffiziali, senza sapere se in
bene o in male. Poco stette in avvedersene: un colpo di bastone la
colse nella testa; e vedendo sguainata la spada da un di essi,
saltando su gridò: «Ferisci questo,» mostrandogli il ventre. Fu di poi
morta con più ferite; e portatane la nuova a Nerone, non mancò chi
disse di averla voluta vedere estinta e nuda, non fidandosi di chi gli
riferì il fatto, e d'aver detto: «io non sapea d'avere una madre sì
bella.» Tacito lascia in forse questa circostanza. Fu in quella stessa
notte bruciato, secondo il costume d'allora, il suo corpo e vilmente
seppellito. Ed ecco dove andò a terminare la sbrigliata ambizione di
questa donna, figliuola di Germanico, nipote del grande Agrippa,
pronipote d'Augusto, moglie e madre d'imperadori. Le iniquità da lei
commesse per far salire il figlio al trono riportarono questa
ricompensa dallo stesso suo figlio, mostro d'ingratitudine e di
crudeltà.
Fece susseguentemente Nerone una bella scena, mostrandosi
inconsolabile per la morte della madre, e dolendosi d'aver salvata la
vita propria colla perdita della sua; giacchè voleva che si credesse
aver ella inviato Agerino per ucciderlo, e ch'ella dipoi si fosse
uccisa da sè stessa. Lo stesso ancora scrisse al senato con aggiungere
una filza d'altre accuse contro la madre per giustificar sè medesimo,
e con dire fra l'altre cose[356]: _Ch'io sia salvo, appena lo credo, e
non ne godo._ Perchè quella lettera o era scritta da Seneca, o si
riconobbe per sua dettatura, fu mormorato non poco di questo adulator
filosofo, il quale compariva approvatore di sì nero delitto. Mostrò il
senato[357] di credere tutto: decretò ringraziamenti agli dii, e
giuochi per la salvata vita del principe; e dichiarò il dì natalizio
di Agrippina per giorno abbominevole. Il solo _Publio Peto Trasea_,
senatore onoratissimo, dappoichè, fu letta quella lettera, uscì dal
senato, per non approvare nè disapprovare, il che poi gli costò caro.
Ma Nerone dopo il misfatto[358] si sentì gran tempo rodere il cuore
dalla coscienza; sempre avea davanti agli occhi l'immagine
dell'estinta madre e gli parea di veder le furie che il
perseguitassero colle fiaccole accese. Nè il mutar di luogo e l'andare
a Napoli ed altrove, servì a liberarlo dall'interno strazio. Neppure
s'attentava di ritornar più a Roma, temendo d'essere in orrore a
tutti. Ma gl'ispiravano del coraggio i bravi cortigiani, facendogli
anzi sperare cresciuto l'amore del popolo per aver liberata Roma dalla
più ambiziosa e odiata donna del mondo. In fatti, restituitosi alla
città, trovò anche più di quel che sperava, movendosi e grandi e
piccoli per paura di un sì spietato principe a fargli onore. Andò
dunque come trionfante al Campidoglio, persuaso ch'egli potea far
tutto a man salva, dacchè tutti, o perchè l'amavano, o perchè
avviliti, non sapeano se non adorare i di lui supremi voleri. Affettò
ancora la clemenza con richiamare a Roma _Giunia Calvina, Calpurnia,
Valerio Capitone_ e _Licinio Gabalo_, esiliati già dalla madre. Ma in
questo medesimo anno col veleno abbreviò la vita a _Domizia_ sua zia
paterna, con occupar tutti i suoi beni posti in quel di Baja e di
Ravenna, prima ancora ch'ella spirasse. Quivi alzò de' magnifici
trofei, che duravano anche ai tempi di Dione[359]. Mirabil cosa
nondimeno fu, che parlando molti liberamente di tali eccessi, ed
uscendo non poche pasquinate, pure, egli, benchè dalle sue spie
informato di quanto succedea, ebbe tal prudenza da dissimular tutto, e
da non gastigar alcuno per questo, paventando di accrescere,
altrimente facendo, il romore nel popolo.
NOTE:
[350] Noris, Ep. Consul.
[351] Thes. Nov. Veter. Inscr., p. 305, n. 3.
[352] Dio, lib. 90.
[353] Tac., lib. 14, cap. 2.
[354] Sueton., in Nerone.
[355] Tacitus, lib. 14, cap. 3.
[356] Quintilianus, lib. 8 Instit.
[357] Tacitus, lib. 14, c. 12.
[358] Sueton., in Neron., c. 34.
[359] Dio, lib. 61.
Anno di CRISTO LX. Indizione III.
PIETRO APOSTOLO papa 32.
NERONE CLAUDIO imper. 7.
_Consoli_
NERONE CLAUDIO AUGUSTO e COSSO CORNELIO LENTULO.
Dicendo Svetonio, che Nerone tenne questo consolato per soli sei mesi
nelle calende di luglio dovettero succedere a lui e al collega due
altri consoli. Il nome loro ci è ignoto. Alcuni han sospettato che
fossero _Tito Ampio Flaviano_ e _Marco Aponio Saturnino_, perchè da
Tacito son chiamati uomini consolari, ed ebbero poscia de' governi.
Andossi poi sempre abbandonando Nerone[360] ai divertimenti e piaceri,
dappoichè non vivea più la madre, che il tenea pure in qualche
suggezione. Sin da fanciullo si dilettava egli di andare in carretta e
di condurre i cavalli. Avea anche imparato a sonar di cetra e a
cantare. Diedesi ora in preda a questi sollazzi, sì sconvenevoli ad un
imperadore. Seneca e Burro gli permisero il primo, per distorlo dagli
altri, purchè corresse co' cavalli nel circo vaticano chiuso per non
lasciarsi vedere dal popolo. Ma non si potè contenere il vanissimo
giovane; volle degli spettatori, e il lor plauso l'invogliò ad
invitarvi anche del popolo, il quale godendo di veder fare i principi
ciò ch'esso fa, e perciò gonfiandolo con alte lodi, maggiormente
l'incitò a quel plebeo mestiere[361]. Tuttavia ben conoscendo, che i
saggi erano d'altro sentimento, credette di schivar il disonore, con
cercare de' compagni nobili che imitasser lui ne' pubblici
divertimenti. Perciò venutogli in capo di far de' giuochi di somma
magnificenza in onor della madre, che durarono più giorni, si videro
nobili dell'uno e dell'altro sesso, non solo dell'ordine equestre, ma
anche del senatorio, comparir ne' teatri, ne' circhi e negli
anfiteatri, con esercitar pubblicamente le arti riserbate in addietro
alle sole persone vili e plebee, con sonar nelle orchestre,
rappresentar commedie e tragedie, ballar ne' teatri, far da gladiatori
e da carrettieri: alcuni di propria elezione, ed altri per non
disubbidir Nerone che gl'invitava. Mirava il popolo, ed anche i
forestieri riconoscevano, che quegli attori, dimentichi della lor
nascita, erano chi un Furio, chi un Fabio, chi un Valerio, un Porcio,
un Appio, ed altri simili della nobiltà primaria. Al veder cotali
novità e stravaganze, ne gemevano forte i saggi, sì pel disonor delle
famiglie, come ancora perchè veniva con ciò a crescere troppo
smisuratamente la corruttela de' costumi. Rammaricavansi inoltre
osservando le incredibili spese che facea Nerone, non solamente in
questi sì sfoggiati divertimenti, ma anche negl'immensi regali alla
plebe con gittar dei segni, ne' quali era scritto quella sorta di dono
che dovea darsi a chi avea la fortuna d'aggraffarli come cavalli,
schiavi, vesti, danari. Ben prevedevano che tanto scialacquamento
andrebbe a finire in nuovi aggravi ed estorsioni sopra il pubblico,
siccome in fatti avvenne. Instituì eziandio Nerone altri giuochi,
appellati Giovenali in onore della prima volta ch'egli si fece far la
barba: rito festivo presso i Romani. Que' preziosi peli in una scatola
d'oro furono consecrati a Giove. In que' giuochi danzarono i più
nobili fra i Romani, e bella figura fra l'altre dame fece Elia Catula,
giovinetta di ottanta anni, che ballò un minoetto. Chi de' nobili non
potea ballare, cantava; ed eranvi scuole apposta, dove concorrevano ad
imparare uomini e donne di prima sfera, fanciulle, giovanetti, vecchi,
per far poscia con leggiadria il loro mestiere ne' pubblici teatri.
Che se alcuno, non potendo di meno, per vergogna vi compariva
mascherato. Nerone gli cavava la maschera, e si venivano a conoscere
persone impiegate ne' più riguardevoli magistrati.
Nè lo stesso Nerone volle in fine essere da meno degli altri. Uscì
anche egli nella scena in abito da suonator di cetra, ed oltre al
suonare, fece sentir la sua da lui creduta melodiosa voce, la qual
nondimeno si trovò sì somigliante a quella de' capponi cantanti, che
niun potea ritener le risa, e molti piangeano per rabbia. Se crediamo
a Dione, Burro e Seneca assistenti servivano a lui di suggeritori, e
andavangli poi facendo plauso colle mani e coi panni, per invitare
allo stesso l'udienza. Tacito[362] anch'egli lo attesta di Burro, ma
con aggiungere che internamente se ne affliggeva. Nè già era
permesso[363], allorchè cantava questo insigne maestro, ad alcuno
l'uscir di teatro, per qualsivoglia bisogno che occorresse. Quella era
la voce d'Apollo; niun v'era che potesse uguagliarsi a lui nella
melodia del canto. Così gli adulatori. Volle egli ancora che si
tenesse una gara di poesia e d'eloquenza, e vi entrò anch'egli
coll'invito de' giovani nobili. Non è difficile l'immaginarsi a chi
toccasse la palma e il premio. Furono similmente richiamati a Roma i
pantomimi, perchè divertissero il popolo nei teatri, ma non già ne'
giuochi sacri. Apparve in quest'anno una cometa. Il volgo, imbevuto
dell'opinione, che questo predica la morte de' principi, cominciò a
fare i conti su la vita di Nerone, e a predire chi a lui succederebbe.
Concorrevano molti in _Rubellio Plauto_, discendente per via di donne
dalla famiglia di Giulio Cesare, personaggio ritirato e dabbene. Ne fu
avvertito Nerone. Si aggiunse, che trovandosi a desinare il medesimo
imperadore in Subbiaco, un fulmine gli rovesciò le vivande e la
tavola. Perchè quel luogo era vicino a Tivoli, patria dei maggiori
d'esso Plauto, la pazza gente perduta nelle superstizioni maggiormente
si confermò nella predizione suddetta. Fece dunque Nerone intendere a
Rubellio Plauto, che miglior aria sarebbe per lui l'Asia, dov'egli
possedeva dei beni. Gli convenne andar là colla sua famiglia, ma per
poco tempo, perchè da lì a due anni Nerone mandò ad ucciderlo. Venne
in questi tempi a morte _Quadrato_, governatore della Siria, e quel
governo fu dato a _Corbulone_, da cui dicemmo ch'era stata acquistata
l'Armenia. Trovavasi da gran tempo in Roma _Tigrane_, nipote
d'_Archelao_, che già fu re della Cappadocia, avvezzato ad una servile
pazienza. Ottenne egli da Nerone di poter governare l'Armenia con
titolo di re; e andato colà, fu assistito da Corbulone con un corpo di
soldatesche tali, che, al dispetto di molti, più inclinati al dominio
de' Parti, n'ebbe il pacifico possesso, benchè poi non vi potesse
lungo tempo sussistere[364]. Pozzuolo in questo anno acquistò il
diritto di colonia, e il cognome di Nerone; intorno a che disputano
gli eruditi, perchè da Livio e da Vellejo abbiamo, che tanti anni
prima Pozzuolo fu colonia, e Frontino fa autore Augusto di una nuova
colonia in quella città. In questi tempi Laodicea, illustre città
della Frigia restò rovinata da un tremuoto; ma quel popolo la rimise
in piedi colle proprie ricchezze senza aiuto de' Romani.
NOTE:
[360] Tacitus, Annal., lib. 14, cap. 14.
[361] Dio, lib. 61.
[362] Tacitus, lib. 14, cap. 15.
[363] Sueton., in Nerone, cap. 23.
[364] Tacitus, lib. 14, cap. 27.
Anno di CRISTO LXI. Indizione IV.
PIETRO APOSTOLO papa 33.
NERONE CLAUDIO imper. 8.
_Consoli_
CAJO CESONIO PETO e CAJO PETRONIO TURPILIANO.
Non è certo il prenome di _Cajo_ pel secondo di questi consoli, nè
sappiamo chi nelle calende di luglio loro succedesse nella dignità.
Motivo[365] ai pubblici ragionamenti diedero in quest'anno due
iniquità, commesse in Roma, l'una da un nobile, l'altra da un servo.
Mancò di vita _Domizio Balbo_, ricco, e della prima nobiltà, senza
figliuoli. _Valerio Fabiano_, senatore, con un falso testamento, a cui
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