Annali d'Italia, vol. 1 - 21
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di Ottone, alla cui difesa era accorsa quasi tutta la milizia
esistente in Cremona. Fecero delle maraviglie i soldati di Vespasiano
per superar quel sito: tanta era la lor gola di arrivar al sacco di
quella ricca città, che Antonio Primo avea loro benignamente
accordato: il che fatto, assalirono la città. Con tutto che questa
fosse cinta di forti mura e torri e piena di popolo, invilirono sì
fattamente i soldati vitelliani, che non tardarono a trattare di
rendersi. Scatenarono per questo _Alieno Cecina_, acciocchè
s'interponesse nel perdono, ed esposero bandiera bianca. Uscì Cecina
vestito da console co' suoi littori, cioè colle sue guardie, e passò
al campo dei vincitori, ma accolto da tutti con ischerni e rimproveri,
perchè la perfidia suol essere pagata coll'odio d'ognuno. D'uopo fu
che _Antonio Primo_ il facesse scortare, tanto che fosse in luogo
sicuro, da potersi portare a trovar Vespasiano.; Fu perdonato ai
soldati di Vitellio, ma non già all'infelicissima città allora celebre
per bellissime fabbriche, per gran popolo, per molte ricchezze[445].
Quarantamila soldati, e un numero maggior di famigli e bagaglioni,
come cani v'entrarono. Stragi e stupri senza numero; non si perdonò
neppure ai templi: tutto andò a sacco; e in fine si attaccò il fuoco
alle case. Gli stessi soldati di Vitellio, che prima difendeano quella
città, gareggiarono in tanta barbarie con gli altri; anzi fecero di
peggio, perchè più pratici de' luoghi. Che vi perissero cinquantamila
di quegli innocenti e miseri cittadini, lo scrive Dione. A me par
troppo. Gli abitanti rimasti in vita furono tenuti per ischiavi, e poi
riscattati. Per cura di Vespasiano venne poi riedificata e popolata di
nuovo quella città.
Vitellio intanto se ne stava in Roma agitato, e con isfoggiata tavola,
niuna apprensione mostrando di tanti romori. Ma quando cominciarono
sul fine di ottobre ad arrivare l'un dietro l'altro i funesti avvisi
di quanto era succeduto, allora gli corse il freddo per l'ossa. E
poscia udendo che Antonio Primo s'era messo in cammino per venire a
Roma, buffava, non sapea più dove si fosse, ora pensando a far ogni
sforzo per resistere, ora a dimettere l'imperio, ed a ritirarsi a vita
privata, ora facendo il bravo con la spada al fianco, ed ora il
coniglio, con far ridere il senato, e con trovare ormai poca
ubbidienza ne' pretoriani. Tuttavia spedì _Giulio Prisco_ ed _Alfeno
Varo_ con quattordici coorti pretoriane, e tutti i reggimenti, di
cavalleria, a prendere i passi dell'Apennino[446], e vi aggiunse la
legione dell'armata navale: esercito sufficiente a sostener con vigore
la guerra, se avesse avuto capitani migliori. Si postò a Bevagna
quest'armata, e colà ancora si portò poi lo stesso Vitellio, benchè
solennissimo poltrone, per le istanze dei soldati. Attediossi ben
presto di quel soggiorno, e venutagli poi nuova che _Claudio Faentino_
e _Claudio Apollinare_ aveano indotta alla ribellione l'armata navale
del Miseno, e le città circonvicine, se ne tornò a Roma, ed inviò
_Lucio Vitellio_ suo fratello ad occupar Terracina per opporsi da
quella banda ai ribelli. Ma _Antonio Primo_ colle milizie fedeli a
Vespasiano, alle quali egli permetteva il far quante insolenze ed
iniquità volevano nel viaggio, passò l'Apennino. Pervenuto che fu a
Narni, se gli arrenderono la legione e le coorti inviate contra di lui
da Vitellio. E pur Vitellio in sì duro frangente seguitava a starsene
con tal torpedine in Roma, che la gente sapea bensì esser egli il
principe, ma parea di non saperlo egli stesso. Ogni dì nuove, l'una
più dell'altra cattive. A _Fabio Valente_ suo generale, ch'era stato
preso nell'andar nelle Gallie, e rimandato ad Urbino, tagliata fu la
testa, per far conoscere ai Vitelliani falsa una voce, ch'egli avesse
messa in armi la Germania e Gallia contra di Vespasiano. Vero
all'incontro era che anche le Spagne, le Gallie e la Bretagna
riconobbero Vespasiano per imperadore. Poc'altro che Roma ormai non
restava a Vitellio; e però _Flavio Sabino_, fratello di Vespasiano,
che fin qui era stato prefetto della città, con fedeltà e buona
intelligenza di Vitellio, desiderando di salvar Roma da più gravi
disordini, avea proposto dei temperamenti a Vitellio stesso, per
salvargli la vita. Altrettanto aveano fatto con lettere _Muciano_ e
_Primo_; e già s'era in concerto che Vitellio, deponendo l'impero, ne
riceverebbe in contraccambio un milione di sesterzii e terre nella
Campania. In fatti egli nel dì 18 di dicembre, uscito di palazzo in
abito nero co' suoi domestici, e col figliuolo tuttavia fanciullo,
piangendo dichiarò al popolo che per bene dello Stato egli deponeva il
comando; ma nel voler consegnare la spada al console _Cecilio
Semplice_, nè questi nè gli altri la vollero accettare. A tale
spettacolo commosso il popolo protestò di non volerlo sofferire; ma
scioccamente, perchè tutto si rivolse poscia in danno della città e
rovina maggior di Vitellio. Trovavasi in questo mentre un'assemblea
de' primi senatori, cavalieri ed uffiziali militari presso _Flavio
Sabino_,[447] trattando del buono stato di Roma, colla persuasione che
veramente fosse seguita, o che seguirebbe la rinunzia di Vitellio.
Alla nuova dell'abortito trattato, fu creduto bene che _Sabino_
andasse al palazzo per esortare o forzar Vitellio a cedere. Andò egli
accompagnato da una buona truppa di soldati; ma per via essendosi
incontrato colla guardia de' Tedeschi, si venne ad un picciolo
combattimento. Salvossi Sabino nella rocca del Campidoglio con alcuni
senatori e cavalieri, e co' due suoi figliuoli _Sabino_ e _Clemente_,
e con _Domiziano_ figlio minore di Vespasiano. Quivi assediato fece
una meschina difesa; v'entrarono i Germani, ed appiccato il fuoco al
Campidoglio (non si sa da chi), si vide ridotto in cenere
quell'insigne luogo, con perir tante belle memorie che ivi erano:
accidente sommamente compianto dal popolo romano. Fuggirono di là
_Domiziano_, i figli di _Sabino;_ non già l'infelice _Sabino_, che,
preso dai Germani insieme con _Quinzio Attico_ console, fu condotto
carico di catene davanti a Vitellio. Si salvò _Attico;_ ma _Sabino_,
uomo di gran credito e di raro merito, e fratello maggiore di
_Vespasiano_, sotto le furiose spade di que' soldati perdè la vita:
del che più che d'altro s'afflisse dipoi _Vespasiano_, ma non già
_Muciano_ che il riguardava come ostacolo all'ascendente della sua
fortuna.
Antonio _Primo_, informato di queste lagrimevoli scene, mosse allora
il suo campo alla volta di Roma, dove si trovò all'incontro la milizia
di Vitellio, e lo stesso popolo in armi. Giacchè egli e _Petilio
Cereale_ non vollero dar orecchio alle proposizioni di qualche
accordo, varii combattimenti seguirono, favorevoli ora all'una ed ora
all'altra parte; ma finalmente rimasero superiori quei di Vespasiano.
Furono presi varii luoghi di Roma, e il quartiere de' pretoriani,
commessi molti saccheggi colle consuete appendici, e strage di tanta
gente, che Giuseppe[448] e Dione la fanno ascendere a cinquantamila
persone[449]. Veggendosi allora a mal partito Vitellio, dal palazzo
fuggì nell'Aventino, con pensiero di andarsene nel dì seguente a
trovar _Lucio_ suo fratello a Terracina. Ma sul falso avviso che non
erano disperate le cose, tornò al palazzo, e trovato poi che ognun se
n'era fuggito, preso un vile abito, con una cintura piena d'oro, andò
a nascondersi nella cameretta del portinaio, oppur nella stalla de'
cani, da più di uno de' quali fu anche morsicato. A nulla gli servì
questo nascondiglio. Scoperto da un tribuno, per nome _Giulio Placido
_, ne fu estratto, e con una corda al collo, colle mani legate al di
dietro, fu menato per le strade, dileggiato, e con picciole punture
trafitto in varie forme dai soldati, ed ingiuriato dal popolo,
senzachè alcuno compassion ne mostrasse; anzi correndo ognuno a
rovesciar le sue statue sotto gli occhi di lui. Credette di fargli
servigio un soldato tedesco, per levarlo da tanti obbrobrii, e gli
lasciò sulla testa un buon colpo: il che fatto, si ammazzò da sè
stesso, ovvero, come si ha da Tacito, fu ucciso dagli altri. Terminò
la sua vita _Vitellio_, coll'essere gittato giù per le scale gemonie;
il cadavero suo fu coll'uncino strascinato al Tevere, e la sua testa
portata per tutta la città. Era in età di cinquantasette anni; e
questo frutto riportò egli dalla sconsigliata sua ambizione, alzato da
chi nol conosceva a sì sublime grado, ed abborrito da chi sapea di sua
vita, riguardandolo per troppo indegno dell'imperio, e certamente
incapace di sostenerlo con tanto perversi costumi e sì grande
poltroneria. Restò bensì libera Roma dall'usurpatore Vitellio, ma non
già dalle atroci pensioni della guerra civile. Per lungo tempo
durarono i saccheggi e gli omicidii. Maltrattato era chiunque fu amico
di Vitellio, e sotto questo pretesto si estendeva ad altri la feroce
avidità dei vittoriosi e licenziosi soldati: in una parola, tutto era
lutto, confusione e lamenti in Roma ed altrove. Ancorchè _Domiziano_,
figlio di Vespasiano, fosse ornato immediatamente col nome di
_Cesare_, pure niun rimedio apportava, intento solo a sfogar le
passioni proprie della scapestrata gioventù. _Lucio Vitellio_,
fratello dell'estinto Augusto, venne ad arrendersi colle sue
soldatesche, sperando pure miglior trattamento; ma restò anch'egli
barbaramente ucciso. Fece lo stesso fine _Germanico_, piccolo
figliuolo del medesimo imperadore. Subito che si potè raunare il
senato, furono decretati a _Flavio Vespasiano_ tutti gli onori soliti
a godersi dagl'imperadori romani. E bisogno ben grande v'era di un sì
fatto imperadore, sì per rimettere in calma la sconcertata Roma ed
Italia, come ancora per dar sesto alla Germania e Gallia dove _Claudio
Civile_ avea mosso dei gravi torbidi che accenneremo fra poco. Guerra
eziandio era nella Giudea, guerra nella Mesia e nel Ponto.
Sovrastavano perciò danni e pericoli non pochi alla romana repubblica,
se non arrivava a reggerla un Augusto, che per senno e per valore
gareggiasse coi migliori.
NOTE:
[419] Tacitus, Historiar., lib. 1, cap. 7. Dio, lib. 64.
[420] Sueton., in Vitellio, cap. 7.
[421] Plutarc., in Galba. Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 55.
[422] Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 13.
[423] Sveton., in Othone, cap. 5.
[424] Tacitus, Historiar., lib. 1, c. 27. Plutarchus, in Galba.
[425] Tacitus, lib. 1, cap. 77.
[426] Plutarc., in Othone.
[427] Tacitus, Hist., lib. 1, cap. 1.
[428] Idem, ibid., cap. 61 et seq.
[429] Plutarchus, in Othone.
[430] Suetonius, in Othone, cap. 8. Dio, lib. 64. Tacitus, Histor.,
lib. 1, cap. 74.
[431] Tacitus, Histor., lib. 2, cap. 21.
[432] Plutarc., in Othone.
[433] Dio, lib. 64.
[434] Plutarc., in Othone.
[435] Sueton., in Othone, cap. 10.
[436] Tacitus, Histor., lib. 2, c. 48.
[437] Plutarcus, in Othone.
[438] Sueton., in Vitellio, cap. 24. Dio, lib. 64
[439] Tacitus, Histor., lib. 2, c. 97. Suetonius, in Vespasiano, c. 4.
[440] Joseph., de Bello Judaic., lib. 4.
[441] Tacitus, Historiar., lib. 2, cap. 82.
[442] Sueton., in Vitellio, cap. 18.
[443] Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 13.
[444] Joseph., de Bello Judaico, lib. 5, cap. 13.
[445] Tacitus, Historiar., lib. 3, c. 33. Dio, lib. 65.
[446] Tacitus, Historiar., lib. 3, cap. 55.
[447] Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 69.
[448] Joseph., de Bel. Jud., lib. 4, cap. 42. Dio, lib. 65.
[449] Sueton., in Vitellio, cap. 16.
Anno di CRISTO LXX. Indizione XIII.
CLEMENTE papa 4.
VESPASIANO imperadore 2.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO imperad. per la seconda volta, e TITO FLAVIO
CESARE suo figliuolo.
Ancorchè fossero lontani da Roma _Vespasiano_ Augusto e _Tito_ suo
figlio, dichiarato anch'esso _Cesare_ dal senato, pure, per onorare i
principii di questo nuovo imperadore, furono amendue promossi al
consolato, in cui procederono per tutto giugno. In essa dignità ebbero
per successori nelle calende di luglio _Marco Licinio Muciano_ e
_Publio Valerio Asiatico:_ e poscia a questi nelle calende di novembre
succederono _Lucio Annio Basso_ e _Caio Cecina Peto._ Dacchè[450]
nell'anno precedente giunse a Roma _Muciano_, prese egli il governo,
facendo quel che gli parea sotto nome di Vespasiano. V'interveniva
anche _Domiziano Cesare_, figliolo dell'imperadore, per dar colore
agli affari; ma quantunque egli prendesse molte risoluzioni per le
istigazioni degli amici, pure l'autorità era principalmente presso
Muciano, uomo di smoderata ambizione, che s'andava vantando d'aver
donato l'imperio a Vespasiano, e di essere come fratello di lui, e
facendo perciò alto e basso, come s'egli stesso fosse l'imperadore.
Certo la sua prima cura fu quella di metter fine all'insolenza dei
soldati, e di ridurre la quiete primiera nella città. Ma un'altra
maggiormente n'ebbe per adunar danaro il più che si potea, per
rinforzare il pubblico fallito erario, dicendo sempre _che la pecunia
era il nerbo del Principato_; nè rincresceva di tirar sopra di sè
l'odiosità delle esazioni, e di risparmiarla a Vespasiano, perchè ne
profittava non poco anch'egli per sè stesso. Recavano a lui gelosia
_Antonio Primo_, divenuto in gran credito, per aver egli abbassato
Vitellio; ed _Arrio Varo_, perchè alzato alla potente carica di
prefetto del pretorio. Quanto a _Primo_, il caricò di lodi nel senato,
gli mostrò gran confidenza, gli fece sperare il governo della Spagna
Taraconense, promosse agli onori varii di lui amici; ma nello stesso
tempo mandò lungi da Roma le legioni che aveano dell'amore per lui, e
fece restar lui in secco. Andò Primo a trovar Vespasiano, che il
ricevè con molte carezze; ma Muciano, con rappresentarlo uomo
pericoloso a ragion della sua arditezza, e con rilevar gli
abbominevoli disordini da lui permessi in Cremona, Roma ed altrove,
per guadagnarsi l'affetto de' soldati, gli tagliò in fine le
gambe[451]. Per conto di _Varo_, gli tolse la prefettura del pretorio,
dandogli quella dell'annona, e sostituì nella prima carica _Clemente
Aretino_, parente di Vespasiano.
Allorchè si compiè la tragedia di Vitellio, si trovava _Vespasiano_ in
Egitto, _Tito_ suo figliuolo nella Giudea. Non sì tosto ebbe
Vespasiano avviso di quanto era avvenuto, che spedì da Alessandria a
Roma una copiosa flotta di navi cariche di grano, perchè le soprastava
una terribil carestia, e l'Egitto da gran tempo era il granaio de'
Romani, affinchè quel gran popolo abbondasse di vettovaglia. Se
vogliam credere a Filostrato[452], Vespasiano fece di gran bene
all'Egitto, con dare un saggio regolamento a quel paese, esausto in
addietro per le soverchie imposte, Dione[453] all'incontro attesta che
gli Alessandrini, i quali si aspettavano delle notabili ricompense,
per essere stati i primi ad acclamarlo imperadore, si trovarono
delusi, perchè egli volle da loro buone somme di danaro, esigendo gli
aggravii vecchi non pagati, senza esentarne nè meno i poveri, ed
imponendone di nuovi. Questo era il solo difetto o vizio (se pure,
come diremo, tal nome gli competeva) che s'avesse Vespasiano. Perciò
il popolo di Alessandria, popolo per altro avvezzo a dir quasi sempre
male de' suoi padroni, se ne vendicò con delle satire, e con caricarlo
d'ingiurie e di nomi molto oltraggiosi. Perciò vi mancò poco che
Vespasiano, quantunque principe savio ed amorevole, non li gastigasse
a dovere; e l'avrebbe fatto, se Tito suo figliuolo non si fosse
interposto, per ottener loro la grazia, con rappresentare al padre,
«che i saggi principi fanno quel che debbono, o credono ben fatto, e
poi lasciano dire.» Nella state venne Vespasiano Augusto alla volta di
Roma. Arrivato a Brindisi, vi trovò Muciano, ch'era ito ad incontrarlo
colla primaria nobiltà di Roma. Trovò a Benevento il figliuolo
_Domiziano_, che già aveva cominciato a dar pruove del perverso suo
naturale, con varie azioni ridicole, o con prepotenze. Perchè egli
nella lontananza del padre si era arrogata più autorità che non
conveniva, e trascorreva anche in ogni sorta di vizii: Vespasiano in
collera parea disposto a de' gravi risentimenti contra di questo
scapestrato figliuolo[454]. Il buon Tito suo fratello fu quegli che
perorò per lui, e disarmò l'ira del padre. Non lasciò per questo
Vespasiano di mortificar la superbia di esso Domiziano. Accolse poi
gli altri tutti con gravità condita di cordiale amorevolezza,
trattando non da imperadore, ma come persona privata con cadauno.
Aveva egli molto prima inviato ordine a Roma, che si rifabbricasse il
bruciato Campidoglio, dando tal incombenza a _Lucio Vestino_,
cavaliere di molto credito. Nel dì 21 di giugno s'era dato principio a
sì importante lavoro con tutto il superstizioso rituale e le cerimonie
di Roma pagana, con essersi gittate ne' fondamenti assai monete nuove
e non usate, perchè così aveano decretato gli aruspici. Giunto da lì a
non molto Vespasiano a Roma, per meglio autenticar la sua premura per
quella fabbrica, e per alzar quivi un sontuoso tempio[455], fu dei
primi a portar sulle sue spalle alquanti di que' rottami; e volle che
gli altri nobili facessero altrettanto, affinchè dal suo e loro
esempio si animasse maggiormente il popolo all'impresa. E perciocchè
nell'incendio d'esso Campidoglio erano perite circa tremila tavole di
rame, o sia di bronzo, cioè le più preziose antichità di Roma, perchè
in simili tavole erano intagliate le leggi, i decreti, le leghe, le
paci e gli altri atti più insigni del senato e del popolo romano fin
dalla fondazione di Roma, comandò che se ne ricercassero
diligentemente quelle copie che si potessero ritrovare, e di nuovo
s'incidessero in altre tavole. Parimente ordinò Vespasiano che fosse
restituita la buona fama a tutti i condannati al tempo di Nerone[456],
e sotto i tre susseguenti Augusti, e la libertà a tutti gli esiliati
che si trovassero vivi; e che si cassassero tutte le accuse de' tempi
addietro. Cacciò eziandio di Roma tutti gli strologhi, gente
perniciosa alle repubbliche, quantunque egli non disprezzasse
quest'arte vana, e tenesse in sua corte uno di tali pescatori
dell'avvenire, stimandolo il più perito degli altri. E si sa ch'egli,
a requisizione di un certo Barbillo strologo, concedette al popol di
Efeso di poter fare il combattimento appellato sacro: grazia da lui
non accordata ad altre città.
Due guerre di somma importanza ebbero in questi tempi i Romani, l'una
in Giudea, l'altra nella Gallia e Germania. Diffusamente è narrata la
prima da Giuseppe Ebreo; l'una e l'altra da Cornelio Tacito. Io me ne
sbrigherò in poche parole. Famosissima è la guerra. Avea quel popolo,
ingrato e cieco, ricompensato il Messia, cioè il divino Salvator
nostro, di tanti suoi benefizii, con dargli una morte ignominiosa;
avea perseguitata a tutto potere fin qui la nata santissima religione
di Cristo. Venne il tempo, in cui la giustizia di Dio volle lasciar
piombare sopra quella sconoscente nazione il gastigo, già a lei
predetto dallo stesso Signor nostro[457]. S'erano ribellati i Giudei
all'imperio romano, e per una vittoria da loro riportata contro
_Cestio_, parea che si ridessero delle forze romane[458]. Vespasiano,
irritato forte contra di loro, spedì _Tito_ suo figliuolo nella
primavera dell'anno presente per domarli. Gerusalemme era in quei
tempi una delle più belle; forti e ricche città dell'universo, perchè
i Giudei, sparsi in gran copia per l'Asia e per l'Europa, faceano gara
di divozione per mandar colà doni al tempio e limosine di danari. Per
dar anche a conoscere Iddio più visibilmente che dalla sua mano veniva
il gastigo, Tito andò ad assediarla in tempo che un'infinità di Giudei
era, secondo il costume, concorsa colà per celebrarvi la Pasqua: nel
qual tempo appunto aveano crocifisso l'umanato figliuol di Dio. Che
sterminato numero di essi per giusto giudizio di Dio si trovasse
ristretto in quella città, come in prigione, si può raccogliere dal
medesimo loro storico Giuseppe, il quale asserisce che, durante
quell'assedio, vi perì un milione e centomila Giudei, per fame e per
la peste. Sanguinosi combattimenti seguirono; ostinato quel popolo mai
non volle ascoltar proposizioni di pace e di arrendersi. Avvegnachè
riuscisse al copiosissimo esercito romano di superar le due prime
cinte di muro di quella città, la terza nondimeno, più forte
dell'altre, fu sì bravamente difesa dagli assediati, che Tito perdè la
speranza di espugnar la città colla forza, e si rivolse al partito di
vincerla con la fame. Un prodigioso muro con fosse e bastioni di
circonvallazione fatto intorno a Gerusalemme tolse ad ognuno la via a
fuggirsene. Però una orribil fame, e la peste sua compagna, entrate in
Gerusalemme, vi faceano un orrido macello di quegli abitanti; i quali
anche discordi fra loro e sediziosi, piuttosto amavano di vedere e
sofferire ogni più orribile scempio, che di suggettarsi di nuovo al
popolo romano. Non si può leggere senza orrore la descrizione che fa
Giuseppe di quella deplorabil miseria, a cui difficilmente si troverà
una simile nelle storie. Immense furono le ruberie e le crudeltà di
quei che più poteano in quella città; le centinaia di migliaia di
cadaveri accrescevano il fetore e le miserie di coloro che restavano
in vita; faceano i falsi profeti e i tiranni interni più male al
popolo che gli stessi Romani. Ma nel dì 22 di luglio il tempio di
Gerusalemme, fu preso, e con tutta la cura di Tito Cesare, perchè si
conservasse quell'insigne e ricchissimo edificio, Dio permise che gli
stessi Giudei vi attaccassero il fuoco, e si riducesse in un monte di
sassi e di cenere. S'impadronì poi Tito della città alta e bassa nel
mese di settembre colla strage e schiavitù di quanti si ritrovarono
vivi. Non solo il tempio, ma anche la città, parte dalle mani de'
vincitori, parte dal fuoco furono disfatti ed atterrati; e quella gran
città rimase per molto tempo un orrido testimonio dell'ira di Dio,
siccome la dispersion di quel popolo senza tempio, senza sacerdoti,
che noi tuttavia miriamo, fa fede, quello non essere più il popolo di
Dio, siccome aveano predetto i profeti.
L'altra guerra, che i Romani sostennero in questi tempi, ebbe
principio nella Batavia, oggidì Olanda, sotto Vitellio[459]. _Claudio
Civile_, persona di sangue reale, di gran coraggio, avendo prese
l'armi, stuzzicò quei popoli, e i circonvicini ancora, a rivoltarsi
contra de' Romani e di Vitellio, con apparenza nondimeno di sostenere
il partito di Vespasiano. Diede sul Reno una rotta ad _Aquilio_
generale de' Romani, e al suo fiacco esercito. Questa vittoria fece
voltar casacca a molte delle soldatesche, le quali ausiliarie
militavano per l'imperio, e commosse a ribellione altri popoli della
Germania e della Gallia; e però cresciute le forze a Claudio Civile,
non riuscì a lui difficile il riportare altri vantaggi. Ma dopo la
morte di Vitellio, i ministri di Vespasiano inviarono gran copia di
gente per ismorzar quell'incendio. _Annio Fallo_ e _Petilio Cereale_
furono scelti per capitani di tale impresa. Andò innanzi il terrore di
quest'armata, e cagion fu che la parte rivoltata della Gallia tornasse
all'ubbidienza. Furono ripigliate alcune città colla forza, date più
sconfitte a Civile e a' suoi seguaci, tanto che tutti a poco a poco si
ridussero a piegare il collo, e a ricorrere alla clemenza romana.
_Domiziano Cesare_ in questa occasione, bramoso di non essere da meno
di Tito suo fratello, volle andare alla guerra; e _Muciano_, per paura
che questo sfrenato ed impetuoso giovane non commettesse qualche
bestialità in danno dell'armi romane, giudicò meglio, di
accompagnarlo. Seppe poi con destrezza fermarlo a Lione sotto varii
pretesti, tanto che si mise fine a quella guerra, senzachè egli vi
avesse mano; e poscia; il ricondusse in Italia, acciocchè andasse ad
incontrar il padre Augusto, il quale; siccome già dicemmo, venne a
Roma nell'anno, presente, e fu ricevuto con gran magnificenza
dappertutto.
NOTE:
[450] Tacit., Histor., lib. 4. Dio, lib. 66.
[451] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 69.
[452] Philostratus, in Apollon. Tyan.
[453] Dio, lib. 66.
[454] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 52.
[455] Sueton., in Vespasiano, c. 8.
[456] Dio, in Excerptis Valesianis.
[457] Joseph., lib. 5 de bello Judaico.
[458] Tacitus, Histor., lib. 5.
[459] Tacitus, Histor., lib. 4.
Anno di CRISTO LXXI. Indizione XIV.
CLEMENTE papa 5.
FLAVIO VESPASIANO imperadore 3.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la terza volta, e MARCO COCCEIO NERVA.
Nerva, collega dell'imperadore nel consolato, divenne anch'egli col
tempo imperadore. Non tennero essi consoli se non per tutto febbraio
quella dignità, e ad essi succederono, nelle calende di marzo, _Flavio
Domiziano Cesare_, figliuolo di Vespasiano, e _Gneo Pedio Casto_.
Merito grande s'era acquistato _Tito Cesare_ presso il padre per la
guerra gloriosamente terminata nella Giudea. Maggior anche era il
merito de' suoi dolci costumi[460]. Cotanto si faceva egli amar dai
soldati, che, dopo la presa di Gerusalemme, l'armata romana, gli diede
il titolo militare d'imperadore; e volendo egli venire a Roma,
cominciarono tutti con preghiere, e poi con minacce, a gridare o che
restasse egli, o che tutti li conducesse seco. Per questo e per
qualche altro barlume insorse sospetto presso della gente maliziosa
ch'egli nudrisse dei disegni di rivoltarsi contra del padre: il che
giammai a lui non cadde in pensiero. Ne fu anche informato Vespasiano;
ma siccome egli avea troppe prove dell'onoratezza del figliuolo, così
non ne fece caso; anzi udito che già egli era in viaggio, il fece
dichiarar suo collega nell'imperio, e compagno anche nella podestà
tribunizia, ma senza conferirgli i titoli di _Augusto_ e _Padre della
Patria._ Questi onori equivalevano allora alla dignità dei re de'
Romani de' nostri giorni, ed erano un sicuro grado per succedere al
padre Augusto nella piena dignità ed autorità imperiale[461]. Passando
per la Città di Argos, volle Tito abboccarsi con _Apollonio Tianeo_,
filosofo di gran grido in questi tempi, e di cui molte favole hanno
spacciato i Gentili. Il pregò di dargli alcune regole per saper ben
governare. Altro non gli diss'egli, se non d'imitar Vespasiano suo
padre, e di ascoltar con pazienza Demetrio filosofo cinico, che facea
professione di dir liberamente, e senz'adulazione o rispetto di
alcuno, la verità; e che non s'inquietasse, se l'avesse ripreso di
qualche fallo. Tito promise di farlo. Sarebbe da desiderare un
filosofo sì fatto, e con tale autorità in ogni corte; e fors'anche in
ogni paese si troverebbe volendolo. Ma è da temere che non si
trovassero poi tanti Titi. Ebbe Tito sentore per istrada delle
relazioni maligne portate di lui al padre (e forse n'era stato sotto
mano autore l'invidioso Domiziano) con fargli anche sospettare che
Tito non verrebbe, perchè macchinava cose più grandi. Allora egli
s'affrettò, e in una nave da carico, quando men s'aspettava, arrivò in
corte; e quasi rimproverando il padre ch'era uscito in fretta ad
incontrarlo, un po' agramente gli disse: _Son venuto, Signor e Padre,
son venuto._
Fu decretato il trionfo dal senato tanto a Vespasiano, quanto al
figliuolo, e separatamente per la vittoria giudaica. Ma Vespasiano che
amava il risparmio in tutte le occorrenze, nè potea sofferir tanta
spesa, si contentò d'un solo che servisse ad amendue. Non s'era mai
veduto in addietro un padre trionfar con un figlio: si vide questa
volta. Memoria di questo trionfo tuttavia abbiamo nell'arco di Tito in
Roma, dato anche alle stampe dal Bellorio, e vi si mira portato
l'aureo candelabro del tempio di Gerusalemme. L'essersi felicemente
terminate le guerre della Giudea e Germania, diede campo a Vespasiano
di fabbricar il tempio della Pace, e di chiudere quello di Giano;
giacchè per tutto l'imperio romano si godeva un'invidiabil calma.
Questa specialmente tornò a fiorire in Roma insieme colla giustizia,
per tanti anni in addietro bandita da essa, e vi risorse la quiete
degli animi e l'allegria: tutti effetti del saggio e dolce governo di
Vespasiano. Buon concetto si avea nei tempi andati di questo
personaggio; ma, divenuto imperadore; superò di lunga mano
esistente in Cremona. Fecero delle maraviglie i soldati di Vespasiano
per superar quel sito: tanta era la lor gola di arrivar al sacco di
quella ricca città, che Antonio Primo avea loro benignamente
accordato: il che fatto, assalirono la città. Con tutto che questa
fosse cinta di forti mura e torri e piena di popolo, invilirono sì
fattamente i soldati vitelliani, che non tardarono a trattare di
rendersi. Scatenarono per questo _Alieno Cecina_, acciocchè
s'interponesse nel perdono, ed esposero bandiera bianca. Uscì Cecina
vestito da console co' suoi littori, cioè colle sue guardie, e passò
al campo dei vincitori, ma accolto da tutti con ischerni e rimproveri,
perchè la perfidia suol essere pagata coll'odio d'ognuno. D'uopo fu
che _Antonio Primo_ il facesse scortare, tanto che fosse in luogo
sicuro, da potersi portare a trovar Vespasiano.; Fu perdonato ai
soldati di Vitellio, ma non già all'infelicissima città allora celebre
per bellissime fabbriche, per gran popolo, per molte ricchezze[445].
Quarantamila soldati, e un numero maggior di famigli e bagaglioni,
come cani v'entrarono. Stragi e stupri senza numero; non si perdonò
neppure ai templi: tutto andò a sacco; e in fine si attaccò il fuoco
alle case. Gli stessi soldati di Vitellio, che prima difendeano quella
città, gareggiarono in tanta barbarie con gli altri; anzi fecero di
peggio, perchè più pratici de' luoghi. Che vi perissero cinquantamila
di quegli innocenti e miseri cittadini, lo scrive Dione. A me par
troppo. Gli abitanti rimasti in vita furono tenuti per ischiavi, e poi
riscattati. Per cura di Vespasiano venne poi riedificata e popolata di
nuovo quella città.
Vitellio intanto se ne stava in Roma agitato, e con isfoggiata tavola,
niuna apprensione mostrando di tanti romori. Ma quando cominciarono
sul fine di ottobre ad arrivare l'un dietro l'altro i funesti avvisi
di quanto era succeduto, allora gli corse il freddo per l'ossa. E
poscia udendo che Antonio Primo s'era messo in cammino per venire a
Roma, buffava, non sapea più dove si fosse, ora pensando a far ogni
sforzo per resistere, ora a dimettere l'imperio, ed a ritirarsi a vita
privata, ora facendo il bravo con la spada al fianco, ed ora il
coniglio, con far ridere il senato, e con trovare ormai poca
ubbidienza ne' pretoriani. Tuttavia spedì _Giulio Prisco_ ed _Alfeno
Varo_ con quattordici coorti pretoriane, e tutti i reggimenti, di
cavalleria, a prendere i passi dell'Apennino[446], e vi aggiunse la
legione dell'armata navale: esercito sufficiente a sostener con vigore
la guerra, se avesse avuto capitani migliori. Si postò a Bevagna
quest'armata, e colà ancora si portò poi lo stesso Vitellio, benchè
solennissimo poltrone, per le istanze dei soldati. Attediossi ben
presto di quel soggiorno, e venutagli poi nuova che _Claudio Faentino_
e _Claudio Apollinare_ aveano indotta alla ribellione l'armata navale
del Miseno, e le città circonvicine, se ne tornò a Roma, ed inviò
_Lucio Vitellio_ suo fratello ad occupar Terracina per opporsi da
quella banda ai ribelli. Ma _Antonio Primo_ colle milizie fedeli a
Vespasiano, alle quali egli permetteva il far quante insolenze ed
iniquità volevano nel viaggio, passò l'Apennino. Pervenuto che fu a
Narni, se gli arrenderono la legione e le coorti inviate contra di lui
da Vitellio. E pur Vitellio in sì duro frangente seguitava a starsene
con tal torpedine in Roma, che la gente sapea bensì esser egli il
principe, ma parea di non saperlo egli stesso. Ogni dì nuove, l'una
più dell'altra cattive. A _Fabio Valente_ suo generale, ch'era stato
preso nell'andar nelle Gallie, e rimandato ad Urbino, tagliata fu la
testa, per far conoscere ai Vitelliani falsa una voce, ch'egli avesse
messa in armi la Germania e Gallia contra di Vespasiano. Vero
all'incontro era che anche le Spagne, le Gallie e la Bretagna
riconobbero Vespasiano per imperadore. Poc'altro che Roma ormai non
restava a Vitellio; e però _Flavio Sabino_, fratello di Vespasiano,
che fin qui era stato prefetto della città, con fedeltà e buona
intelligenza di Vitellio, desiderando di salvar Roma da più gravi
disordini, avea proposto dei temperamenti a Vitellio stesso, per
salvargli la vita. Altrettanto aveano fatto con lettere _Muciano_ e
_Primo_; e già s'era in concerto che Vitellio, deponendo l'impero, ne
riceverebbe in contraccambio un milione di sesterzii e terre nella
Campania. In fatti egli nel dì 18 di dicembre, uscito di palazzo in
abito nero co' suoi domestici, e col figliuolo tuttavia fanciullo,
piangendo dichiarò al popolo che per bene dello Stato egli deponeva il
comando; ma nel voler consegnare la spada al console _Cecilio
Semplice_, nè questi nè gli altri la vollero accettare. A tale
spettacolo commosso il popolo protestò di non volerlo sofferire; ma
scioccamente, perchè tutto si rivolse poscia in danno della città e
rovina maggior di Vitellio. Trovavasi in questo mentre un'assemblea
de' primi senatori, cavalieri ed uffiziali militari presso _Flavio
Sabino_,[447] trattando del buono stato di Roma, colla persuasione che
veramente fosse seguita, o che seguirebbe la rinunzia di Vitellio.
Alla nuova dell'abortito trattato, fu creduto bene che _Sabino_
andasse al palazzo per esortare o forzar Vitellio a cedere. Andò egli
accompagnato da una buona truppa di soldati; ma per via essendosi
incontrato colla guardia de' Tedeschi, si venne ad un picciolo
combattimento. Salvossi Sabino nella rocca del Campidoglio con alcuni
senatori e cavalieri, e co' due suoi figliuoli _Sabino_ e _Clemente_,
e con _Domiziano_ figlio minore di Vespasiano. Quivi assediato fece
una meschina difesa; v'entrarono i Germani, ed appiccato il fuoco al
Campidoglio (non si sa da chi), si vide ridotto in cenere
quell'insigne luogo, con perir tante belle memorie che ivi erano:
accidente sommamente compianto dal popolo romano. Fuggirono di là
_Domiziano_, i figli di _Sabino;_ non già l'infelice _Sabino_, che,
preso dai Germani insieme con _Quinzio Attico_ console, fu condotto
carico di catene davanti a Vitellio. Si salvò _Attico;_ ma _Sabino_,
uomo di gran credito e di raro merito, e fratello maggiore di
_Vespasiano_, sotto le furiose spade di que' soldati perdè la vita:
del che più che d'altro s'afflisse dipoi _Vespasiano_, ma non già
_Muciano_ che il riguardava come ostacolo all'ascendente della sua
fortuna.
Antonio _Primo_, informato di queste lagrimevoli scene, mosse allora
il suo campo alla volta di Roma, dove si trovò all'incontro la milizia
di Vitellio, e lo stesso popolo in armi. Giacchè egli e _Petilio
Cereale_ non vollero dar orecchio alle proposizioni di qualche
accordo, varii combattimenti seguirono, favorevoli ora all'una ed ora
all'altra parte; ma finalmente rimasero superiori quei di Vespasiano.
Furono presi varii luoghi di Roma, e il quartiere de' pretoriani,
commessi molti saccheggi colle consuete appendici, e strage di tanta
gente, che Giuseppe[448] e Dione la fanno ascendere a cinquantamila
persone[449]. Veggendosi allora a mal partito Vitellio, dal palazzo
fuggì nell'Aventino, con pensiero di andarsene nel dì seguente a
trovar _Lucio_ suo fratello a Terracina. Ma sul falso avviso che non
erano disperate le cose, tornò al palazzo, e trovato poi che ognun se
n'era fuggito, preso un vile abito, con una cintura piena d'oro, andò
a nascondersi nella cameretta del portinaio, oppur nella stalla de'
cani, da più di uno de' quali fu anche morsicato. A nulla gli servì
questo nascondiglio. Scoperto da un tribuno, per nome _Giulio Placido
_, ne fu estratto, e con una corda al collo, colle mani legate al di
dietro, fu menato per le strade, dileggiato, e con picciole punture
trafitto in varie forme dai soldati, ed ingiuriato dal popolo,
senzachè alcuno compassion ne mostrasse; anzi correndo ognuno a
rovesciar le sue statue sotto gli occhi di lui. Credette di fargli
servigio un soldato tedesco, per levarlo da tanti obbrobrii, e gli
lasciò sulla testa un buon colpo: il che fatto, si ammazzò da sè
stesso, ovvero, come si ha da Tacito, fu ucciso dagli altri. Terminò
la sua vita _Vitellio_, coll'essere gittato giù per le scale gemonie;
il cadavero suo fu coll'uncino strascinato al Tevere, e la sua testa
portata per tutta la città. Era in età di cinquantasette anni; e
questo frutto riportò egli dalla sconsigliata sua ambizione, alzato da
chi nol conosceva a sì sublime grado, ed abborrito da chi sapea di sua
vita, riguardandolo per troppo indegno dell'imperio, e certamente
incapace di sostenerlo con tanto perversi costumi e sì grande
poltroneria. Restò bensì libera Roma dall'usurpatore Vitellio, ma non
già dalle atroci pensioni della guerra civile. Per lungo tempo
durarono i saccheggi e gli omicidii. Maltrattato era chiunque fu amico
di Vitellio, e sotto questo pretesto si estendeva ad altri la feroce
avidità dei vittoriosi e licenziosi soldati: in una parola, tutto era
lutto, confusione e lamenti in Roma ed altrove. Ancorchè _Domiziano_,
figlio di Vespasiano, fosse ornato immediatamente col nome di
_Cesare_, pure niun rimedio apportava, intento solo a sfogar le
passioni proprie della scapestrata gioventù. _Lucio Vitellio_,
fratello dell'estinto Augusto, venne ad arrendersi colle sue
soldatesche, sperando pure miglior trattamento; ma restò anch'egli
barbaramente ucciso. Fece lo stesso fine _Germanico_, piccolo
figliuolo del medesimo imperadore. Subito che si potè raunare il
senato, furono decretati a _Flavio Vespasiano_ tutti gli onori soliti
a godersi dagl'imperadori romani. E bisogno ben grande v'era di un sì
fatto imperadore, sì per rimettere in calma la sconcertata Roma ed
Italia, come ancora per dar sesto alla Germania e Gallia dove _Claudio
Civile_ avea mosso dei gravi torbidi che accenneremo fra poco. Guerra
eziandio era nella Giudea, guerra nella Mesia e nel Ponto.
Sovrastavano perciò danni e pericoli non pochi alla romana repubblica,
se non arrivava a reggerla un Augusto, che per senno e per valore
gareggiasse coi migliori.
NOTE:
[419] Tacitus, Historiar., lib. 1, cap. 7. Dio, lib. 64.
[420] Sueton., in Vitellio, cap. 7.
[421] Plutarc., in Galba. Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 55.
[422] Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 13.
[423] Sveton., in Othone, cap. 5.
[424] Tacitus, Historiar., lib. 1, c. 27. Plutarchus, in Galba.
[425] Tacitus, lib. 1, cap. 77.
[426] Plutarc., in Othone.
[427] Tacitus, Hist., lib. 1, cap. 1.
[428] Idem, ibid., cap. 61 et seq.
[429] Plutarchus, in Othone.
[430] Suetonius, in Othone, cap. 8. Dio, lib. 64. Tacitus, Histor.,
lib. 1, cap. 74.
[431] Tacitus, Histor., lib. 2, cap. 21.
[432] Plutarc., in Othone.
[433] Dio, lib. 64.
[434] Plutarc., in Othone.
[435] Sueton., in Othone, cap. 10.
[436] Tacitus, Histor., lib. 2, c. 48.
[437] Plutarcus, in Othone.
[438] Sueton., in Vitellio, cap. 24. Dio, lib. 64
[439] Tacitus, Histor., lib. 2, c. 97. Suetonius, in Vespasiano, c. 4.
[440] Joseph., de Bello Judaic., lib. 4.
[441] Tacitus, Historiar., lib. 2, cap. 82.
[442] Sueton., in Vitellio, cap. 18.
[443] Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 13.
[444] Joseph., de Bello Judaico, lib. 5, cap. 13.
[445] Tacitus, Historiar., lib. 3, c. 33. Dio, lib. 65.
[446] Tacitus, Historiar., lib. 3, cap. 55.
[447] Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 69.
[448] Joseph., de Bel. Jud., lib. 4, cap. 42. Dio, lib. 65.
[449] Sueton., in Vitellio, cap. 16.
Anno di CRISTO LXX. Indizione XIII.
CLEMENTE papa 4.
VESPASIANO imperadore 2.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO imperad. per la seconda volta, e TITO FLAVIO
CESARE suo figliuolo.
Ancorchè fossero lontani da Roma _Vespasiano_ Augusto e _Tito_ suo
figlio, dichiarato anch'esso _Cesare_ dal senato, pure, per onorare i
principii di questo nuovo imperadore, furono amendue promossi al
consolato, in cui procederono per tutto giugno. In essa dignità ebbero
per successori nelle calende di luglio _Marco Licinio Muciano_ e
_Publio Valerio Asiatico:_ e poscia a questi nelle calende di novembre
succederono _Lucio Annio Basso_ e _Caio Cecina Peto._ Dacchè[450]
nell'anno precedente giunse a Roma _Muciano_, prese egli il governo,
facendo quel che gli parea sotto nome di Vespasiano. V'interveniva
anche _Domiziano Cesare_, figliolo dell'imperadore, per dar colore
agli affari; ma quantunque egli prendesse molte risoluzioni per le
istigazioni degli amici, pure l'autorità era principalmente presso
Muciano, uomo di smoderata ambizione, che s'andava vantando d'aver
donato l'imperio a Vespasiano, e di essere come fratello di lui, e
facendo perciò alto e basso, come s'egli stesso fosse l'imperadore.
Certo la sua prima cura fu quella di metter fine all'insolenza dei
soldati, e di ridurre la quiete primiera nella città. Ma un'altra
maggiormente n'ebbe per adunar danaro il più che si potea, per
rinforzare il pubblico fallito erario, dicendo sempre _che la pecunia
era il nerbo del Principato_; nè rincresceva di tirar sopra di sè
l'odiosità delle esazioni, e di risparmiarla a Vespasiano, perchè ne
profittava non poco anch'egli per sè stesso. Recavano a lui gelosia
_Antonio Primo_, divenuto in gran credito, per aver egli abbassato
Vitellio; ed _Arrio Varo_, perchè alzato alla potente carica di
prefetto del pretorio. Quanto a _Primo_, il caricò di lodi nel senato,
gli mostrò gran confidenza, gli fece sperare il governo della Spagna
Taraconense, promosse agli onori varii di lui amici; ma nello stesso
tempo mandò lungi da Roma le legioni che aveano dell'amore per lui, e
fece restar lui in secco. Andò Primo a trovar Vespasiano, che il
ricevè con molte carezze; ma Muciano, con rappresentarlo uomo
pericoloso a ragion della sua arditezza, e con rilevar gli
abbominevoli disordini da lui permessi in Cremona, Roma ed altrove,
per guadagnarsi l'affetto de' soldati, gli tagliò in fine le
gambe[451]. Per conto di _Varo_, gli tolse la prefettura del pretorio,
dandogli quella dell'annona, e sostituì nella prima carica _Clemente
Aretino_, parente di Vespasiano.
Allorchè si compiè la tragedia di Vitellio, si trovava _Vespasiano_ in
Egitto, _Tito_ suo figliuolo nella Giudea. Non sì tosto ebbe
Vespasiano avviso di quanto era avvenuto, che spedì da Alessandria a
Roma una copiosa flotta di navi cariche di grano, perchè le soprastava
una terribil carestia, e l'Egitto da gran tempo era il granaio de'
Romani, affinchè quel gran popolo abbondasse di vettovaglia. Se
vogliam credere a Filostrato[452], Vespasiano fece di gran bene
all'Egitto, con dare un saggio regolamento a quel paese, esausto in
addietro per le soverchie imposte, Dione[453] all'incontro attesta che
gli Alessandrini, i quali si aspettavano delle notabili ricompense,
per essere stati i primi ad acclamarlo imperadore, si trovarono
delusi, perchè egli volle da loro buone somme di danaro, esigendo gli
aggravii vecchi non pagati, senza esentarne nè meno i poveri, ed
imponendone di nuovi. Questo era il solo difetto o vizio (se pure,
come diremo, tal nome gli competeva) che s'avesse Vespasiano. Perciò
il popolo di Alessandria, popolo per altro avvezzo a dir quasi sempre
male de' suoi padroni, se ne vendicò con delle satire, e con caricarlo
d'ingiurie e di nomi molto oltraggiosi. Perciò vi mancò poco che
Vespasiano, quantunque principe savio ed amorevole, non li gastigasse
a dovere; e l'avrebbe fatto, se Tito suo figliuolo non si fosse
interposto, per ottener loro la grazia, con rappresentare al padre,
«che i saggi principi fanno quel che debbono, o credono ben fatto, e
poi lasciano dire.» Nella state venne Vespasiano Augusto alla volta di
Roma. Arrivato a Brindisi, vi trovò Muciano, ch'era ito ad incontrarlo
colla primaria nobiltà di Roma. Trovò a Benevento il figliuolo
_Domiziano_, che già aveva cominciato a dar pruove del perverso suo
naturale, con varie azioni ridicole, o con prepotenze. Perchè egli
nella lontananza del padre si era arrogata più autorità che non
conveniva, e trascorreva anche in ogni sorta di vizii: Vespasiano in
collera parea disposto a de' gravi risentimenti contra di questo
scapestrato figliuolo[454]. Il buon Tito suo fratello fu quegli che
perorò per lui, e disarmò l'ira del padre. Non lasciò per questo
Vespasiano di mortificar la superbia di esso Domiziano. Accolse poi
gli altri tutti con gravità condita di cordiale amorevolezza,
trattando non da imperadore, ma come persona privata con cadauno.
Aveva egli molto prima inviato ordine a Roma, che si rifabbricasse il
bruciato Campidoglio, dando tal incombenza a _Lucio Vestino_,
cavaliere di molto credito. Nel dì 21 di giugno s'era dato principio a
sì importante lavoro con tutto il superstizioso rituale e le cerimonie
di Roma pagana, con essersi gittate ne' fondamenti assai monete nuove
e non usate, perchè così aveano decretato gli aruspici. Giunto da lì a
non molto Vespasiano a Roma, per meglio autenticar la sua premura per
quella fabbrica, e per alzar quivi un sontuoso tempio[455], fu dei
primi a portar sulle sue spalle alquanti di que' rottami; e volle che
gli altri nobili facessero altrettanto, affinchè dal suo e loro
esempio si animasse maggiormente il popolo all'impresa. E perciocchè
nell'incendio d'esso Campidoglio erano perite circa tremila tavole di
rame, o sia di bronzo, cioè le più preziose antichità di Roma, perchè
in simili tavole erano intagliate le leggi, i decreti, le leghe, le
paci e gli altri atti più insigni del senato e del popolo romano fin
dalla fondazione di Roma, comandò che se ne ricercassero
diligentemente quelle copie che si potessero ritrovare, e di nuovo
s'incidessero in altre tavole. Parimente ordinò Vespasiano che fosse
restituita la buona fama a tutti i condannati al tempo di Nerone[456],
e sotto i tre susseguenti Augusti, e la libertà a tutti gli esiliati
che si trovassero vivi; e che si cassassero tutte le accuse de' tempi
addietro. Cacciò eziandio di Roma tutti gli strologhi, gente
perniciosa alle repubbliche, quantunque egli non disprezzasse
quest'arte vana, e tenesse in sua corte uno di tali pescatori
dell'avvenire, stimandolo il più perito degli altri. E si sa ch'egli,
a requisizione di un certo Barbillo strologo, concedette al popol di
Efeso di poter fare il combattimento appellato sacro: grazia da lui
non accordata ad altre città.
Due guerre di somma importanza ebbero in questi tempi i Romani, l'una
in Giudea, l'altra nella Gallia e Germania. Diffusamente è narrata la
prima da Giuseppe Ebreo; l'una e l'altra da Cornelio Tacito. Io me ne
sbrigherò in poche parole. Famosissima è la guerra. Avea quel popolo,
ingrato e cieco, ricompensato il Messia, cioè il divino Salvator
nostro, di tanti suoi benefizii, con dargli una morte ignominiosa;
avea perseguitata a tutto potere fin qui la nata santissima religione
di Cristo. Venne il tempo, in cui la giustizia di Dio volle lasciar
piombare sopra quella sconoscente nazione il gastigo, già a lei
predetto dallo stesso Signor nostro[457]. S'erano ribellati i Giudei
all'imperio romano, e per una vittoria da loro riportata contro
_Cestio_, parea che si ridessero delle forze romane[458]. Vespasiano,
irritato forte contra di loro, spedì _Tito_ suo figliuolo nella
primavera dell'anno presente per domarli. Gerusalemme era in quei
tempi una delle più belle; forti e ricche città dell'universo, perchè
i Giudei, sparsi in gran copia per l'Asia e per l'Europa, faceano gara
di divozione per mandar colà doni al tempio e limosine di danari. Per
dar anche a conoscere Iddio più visibilmente che dalla sua mano veniva
il gastigo, Tito andò ad assediarla in tempo che un'infinità di Giudei
era, secondo il costume, concorsa colà per celebrarvi la Pasqua: nel
qual tempo appunto aveano crocifisso l'umanato figliuol di Dio. Che
sterminato numero di essi per giusto giudizio di Dio si trovasse
ristretto in quella città, come in prigione, si può raccogliere dal
medesimo loro storico Giuseppe, il quale asserisce che, durante
quell'assedio, vi perì un milione e centomila Giudei, per fame e per
la peste. Sanguinosi combattimenti seguirono; ostinato quel popolo mai
non volle ascoltar proposizioni di pace e di arrendersi. Avvegnachè
riuscisse al copiosissimo esercito romano di superar le due prime
cinte di muro di quella città, la terza nondimeno, più forte
dell'altre, fu sì bravamente difesa dagli assediati, che Tito perdè la
speranza di espugnar la città colla forza, e si rivolse al partito di
vincerla con la fame. Un prodigioso muro con fosse e bastioni di
circonvallazione fatto intorno a Gerusalemme tolse ad ognuno la via a
fuggirsene. Però una orribil fame, e la peste sua compagna, entrate in
Gerusalemme, vi faceano un orrido macello di quegli abitanti; i quali
anche discordi fra loro e sediziosi, piuttosto amavano di vedere e
sofferire ogni più orribile scempio, che di suggettarsi di nuovo al
popolo romano. Non si può leggere senza orrore la descrizione che fa
Giuseppe di quella deplorabil miseria, a cui difficilmente si troverà
una simile nelle storie. Immense furono le ruberie e le crudeltà di
quei che più poteano in quella città; le centinaia di migliaia di
cadaveri accrescevano il fetore e le miserie di coloro che restavano
in vita; faceano i falsi profeti e i tiranni interni più male al
popolo che gli stessi Romani. Ma nel dì 22 di luglio il tempio di
Gerusalemme, fu preso, e con tutta la cura di Tito Cesare, perchè si
conservasse quell'insigne e ricchissimo edificio, Dio permise che gli
stessi Giudei vi attaccassero il fuoco, e si riducesse in un monte di
sassi e di cenere. S'impadronì poi Tito della città alta e bassa nel
mese di settembre colla strage e schiavitù di quanti si ritrovarono
vivi. Non solo il tempio, ma anche la città, parte dalle mani de'
vincitori, parte dal fuoco furono disfatti ed atterrati; e quella gran
città rimase per molto tempo un orrido testimonio dell'ira di Dio,
siccome la dispersion di quel popolo senza tempio, senza sacerdoti,
che noi tuttavia miriamo, fa fede, quello non essere più il popolo di
Dio, siccome aveano predetto i profeti.
L'altra guerra, che i Romani sostennero in questi tempi, ebbe
principio nella Batavia, oggidì Olanda, sotto Vitellio[459]. _Claudio
Civile_, persona di sangue reale, di gran coraggio, avendo prese
l'armi, stuzzicò quei popoli, e i circonvicini ancora, a rivoltarsi
contra de' Romani e di Vitellio, con apparenza nondimeno di sostenere
il partito di Vespasiano. Diede sul Reno una rotta ad _Aquilio_
generale de' Romani, e al suo fiacco esercito. Questa vittoria fece
voltar casacca a molte delle soldatesche, le quali ausiliarie
militavano per l'imperio, e commosse a ribellione altri popoli della
Germania e della Gallia; e però cresciute le forze a Claudio Civile,
non riuscì a lui difficile il riportare altri vantaggi. Ma dopo la
morte di Vitellio, i ministri di Vespasiano inviarono gran copia di
gente per ismorzar quell'incendio. _Annio Fallo_ e _Petilio Cereale_
furono scelti per capitani di tale impresa. Andò innanzi il terrore di
quest'armata, e cagion fu che la parte rivoltata della Gallia tornasse
all'ubbidienza. Furono ripigliate alcune città colla forza, date più
sconfitte a Civile e a' suoi seguaci, tanto che tutti a poco a poco si
ridussero a piegare il collo, e a ricorrere alla clemenza romana.
_Domiziano Cesare_ in questa occasione, bramoso di non essere da meno
di Tito suo fratello, volle andare alla guerra; e _Muciano_, per paura
che questo sfrenato ed impetuoso giovane non commettesse qualche
bestialità in danno dell'armi romane, giudicò meglio, di
accompagnarlo. Seppe poi con destrezza fermarlo a Lione sotto varii
pretesti, tanto che si mise fine a quella guerra, senzachè egli vi
avesse mano; e poscia; il ricondusse in Italia, acciocchè andasse ad
incontrar il padre Augusto, il quale; siccome già dicemmo, venne a
Roma nell'anno, presente, e fu ricevuto con gran magnificenza
dappertutto.
NOTE:
[450] Tacit., Histor., lib. 4. Dio, lib. 66.
[451] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 69.
[452] Philostratus, in Apollon. Tyan.
[453] Dio, lib. 66.
[454] Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 52.
[455] Sueton., in Vespasiano, c. 8.
[456] Dio, in Excerptis Valesianis.
[457] Joseph., lib. 5 de bello Judaico.
[458] Tacitus, Histor., lib. 5.
[459] Tacitus, Histor., lib. 4.
Anno di CRISTO LXXI. Indizione XIV.
CLEMENTE papa 5.
FLAVIO VESPASIANO imperadore 3.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la terza volta, e MARCO COCCEIO NERVA.
Nerva, collega dell'imperadore nel consolato, divenne anch'egli col
tempo imperadore. Non tennero essi consoli se non per tutto febbraio
quella dignità, e ad essi succederono, nelle calende di marzo, _Flavio
Domiziano Cesare_, figliuolo di Vespasiano, e _Gneo Pedio Casto_.
Merito grande s'era acquistato _Tito Cesare_ presso il padre per la
guerra gloriosamente terminata nella Giudea. Maggior anche era il
merito de' suoi dolci costumi[460]. Cotanto si faceva egli amar dai
soldati, che, dopo la presa di Gerusalemme, l'armata romana, gli diede
il titolo militare d'imperadore; e volendo egli venire a Roma,
cominciarono tutti con preghiere, e poi con minacce, a gridare o che
restasse egli, o che tutti li conducesse seco. Per questo e per
qualche altro barlume insorse sospetto presso della gente maliziosa
ch'egli nudrisse dei disegni di rivoltarsi contra del padre: il che
giammai a lui non cadde in pensiero. Ne fu anche informato Vespasiano;
ma siccome egli avea troppe prove dell'onoratezza del figliuolo, così
non ne fece caso; anzi udito che già egli era in viaggio, il fece
dichiarar suo collega nell'imperio, e compagno anche nella podestà
tribunizia, ma senza conferirgli i titoli di _Augusto_ e _Padre della
Patria._ Questi onori equivalevano allora alla dignità dei re de'
Romani de' nostri giorni, ed erano un sicuro grado per succedere al
padre Augusto nella piena dignità ed autorità imperiale[461]. Passando
per la Città di Argos, volle Tito abboccarsi con _Apollonio Tianeo_,
filosofo di gran grido in questi tempi, e di cui molte favole hanno
spacciato i Gentili. Il pregò di dargli alcune regole per saper ben
governare. Altro non gli diss'egli, se non d'imitar Vespasiano suo
padre, e di ascoltar con pazienza Demetrio filosofo cinico, che facea
professione di dir liberamente, e senz'adulazione o rispetto di
alcuno, la verità; e che non s'inquietasse, se l'avesse ripreso di
qualche fallo. Tito promise di farlo. Sarebbe da desiderare un
filosofo sì fatto, e con tale autorità in ogni corte; e fors'anche in
ogni paese si troverebbe volendolo. Ma è da temere che non si
trovassero poi tanti Titi. Ebbe Tito sentore per istrada delle
relazioni maligne portate di lui al padre (e forse n'era stato sotto
mano autore l'invidioso Domiziano) con fargli anche sospettare che
Tito non verrebbe, perchè macchinava cose più grandi. Allora egli
s'affrettò, e in una nave da carico, quando men s'aspettava, arrivò in
corte; e quasi rimproverando il padre ch'era uscito in fretta ad
incontrarlo, un po' agramente gli disse: _Son venuto, Signor e Padre,
son venuto._
Fu decretato il trionfo dal senato tanto a Vespasiano, quanto al
figliuolo, e separatamente per la vittoria giudaica. Ma Vespasiano che
amava il risparmio in tutte le occorrenze, nè potea sofferir tanta
spesa, si contentò d'un solo che servisse ad amendue. Non s'era mai
veduto in addietro un padre trionfar con un figlio: si vide questa
volta. Memoria di questo trionfo tuttavia abbiamo nell'arco di Tito in
Roma, dato anche alle stampe dal Bellorio, e vi si mira portato
l'aureo candelabro del tempio di Gerusalemme. L'essersi felicemente
terminate le guerre della Giudea e Germania, diede campo a Vespasiano
di fabbricar il tempio della Pace, e di chiudere quello di Giano;
giacchè per tutto l'imperio romano si godeva un'invidiabil calma.
Questa specialmente tornò a fiorire in Roma insieme colla giustizia,
per tanti anni in addietro bandita da essa, e vi risorse la quiete
degli animi e l'allegria: tutti effetti del saggio e dolce governo di
Vespasiano. Buon concetto si avea nei tempi andati di questo
personaggio; ma, divenuto imperadore; superò di lunga mano
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