Annali d'Italia, vol. 1 - 10
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falsi dii. Ma durò ben poco questo ciel sì ridente, siccome nell'anno
seguente apparirà. _Artabano_ re de' Parti, che in addietro odiò forte
Tiberio, udita la di lui morte, se ne rallegrò e diede tosto adito ad
un trattato di pace. Scrive Dione ch'egli stesso ricercò l'amicizia di
Cajo. Ma Svetonio e Giuseppe Ebreo raccontano, che fu Vitellio
governator della Soria il promotore di quell'accordo per ordine di
Cajo. Seguì in fatti fra esso re e Vitellio un magnifico abboccamento
in un ponte fabbricato sull'Eufrate, e quivi fu conchiusa la pace con
condizioni onorevoli per gli Romani.
NOTE:
[179] Fabret., Inscript., p. 674.
[180] Suet., in Tiber., c. 73.
[181] Thesaurus Novus Inscription., p. 303, n. 2.
[182] Sueton., in Tiber., c. 72.
[183] Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50.
[184] Sueton., in Caligula, cap. 8.
[185] Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.
[186] Dio, lib. 58.
[187] Philo, de Legation. Sueton., in Tiber., c. 76.
[188] Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50. Sueton. in Tiber., c. 73.
[189] Sueton., in Cajo, cap. 12.
[190] Sueton., in Caj., cap. 14. Dio, lib. 59.
[191] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.
[192] Joseph., Antiq. Jud., lib. 18. Dio, lib 59.
[193] Sueton., in Cajo, cap. 17. Dio, lib. 59.
Anno di CRISTO XXXVIII. Indizione XI.
PIETRO APOSTOLO papa 40.
CAJO CALIGOLA imperadore 2.
_Consoli_
MARCO AQUILIO GIULIANO e PUBLIO NONIO ASPRENATE.
Era già cominciato nel precedente anno un impensato cambiamento di
vita e di massime nel da noi osservato finora sì amorevole e grazioso
Cajo Caligola. Rapporterò io qui ciò che accadde allora e nel presente
anno ancora[194]. I conviti, le crapole ed altre dissolutezze di una
vita sensuale, a cui si abbandonò di buon'ora questo nuovo imperadore,
cagion furono ch'egli cadde nel mese d'ottobre sì gravemente malato,
che si dubitò di sua vita[195]. Appena si riebbe, che di volubile,
qual era dianzi, cominciò a comparir stranamente agitalo da vari e
fieri capricci, quasi che la mente sua per la sofferta malattia avesse
patito qualche detrimento, con peggiorar da lì innanzi di maniera, che
Roma, sì maltrattata sotto Tiberio cattivo, senza paragone sotto
questo pessimo maestro divenne teatro di calamità. Aveano fatto i
Romani delle pazzie pel tanto desiderio ch'egli superasse quel malore,
perchè dopo aver Cajo dato sì glorioso principio al suo governo, si
figurava ciascuno riposta tutta la pubblica felicità nella
conservazione della di lui vita. Due persone fra l'altre, cioè Publio
Afranio Potito, uomo popolare, ed Atanio Secondo, cavaliere, fecero
voto, l'uno di dar la propria vita, se egli ricuperava la salute,
l'altro di combattere fra i gladiatori, con esporsi al pericolo della
morte, purchè Caligola guarisse. Guarito ch'egli fu, d'inesplicabile
giubilo si riempiè tutta la città. Ma non tardò molto a cangiarsi
scena. La prima sua strepitosa iniquità quella fu di levar di vita
_Tiberio Gemello_, nipote legittimo e naturale di Tiberio Augusto, e
da lui adottato per figliuolo, con obbligarlo ad uccidersi da sè
stesso; perciocchè Cajo sì scrupoloso era, che non potea permettere a
chicchessia di torre la vita al nipote di un imperadore. Per iscusa di
questa crudeltà addusse l'essere egli stato accertato, che il
giovinetto Tiberio si era rallegrato della sua infermità, ed avea
desiderata la sua morte. Passò oltre il suo bestial capriccio con
esigere, che chi avea fatto voto della vita, per salvare la sua,
eseguisse la promessa, affinchè non rimanessero con lo spergiuro in
corpo.
Fece in quest'anno Cajo alcune azioni che piacquero al popolo[196],
perchè restituì alla plebe il suo diritto ne' comizii per l'elezione
de' magistrati che Tiberio avea ristretto nei senatori: il che ebbe
poco effetto. Ordinò che pubblicamente si rendessero i conti delle
rendite e spese della repubblica: regolamento dismesso sotto Tiberio.
Essendo sminuito forte l'ordine de' cavalieri, lo ristorò con
ascrivere ad esso molti scelti dalla nobilità delle città
dell'imperio, purchè ben imparentati, e sufficientemente ricchi,
concedendo loro anche de' privilegi. Con decreto del senato diede a
_Soemo_ il regno, o sia principato dell'Arabia Iturea; a _Cotys_
l'Armenia minore, e poscia alcune parti dell'Arabia. Concedette ancora
una parte della Tracia a _Rimetalce_, e il Ponto a _Polemone_,
figliuolo del re Polemone; esercitando in tal guisa la giurisdizione
romana sopra que' lontani paesi, ed affezionando quei re al romano
imperio. Non furono già di questo tenore altre sue azioni nell'anno
presente. Già dicemmo ch'egli per opera di Macrone prefetto del
pretorio avea ottenuto l'imperio. Perchè quest'uomo, per altro
cattivo, osava di parlargli con qualche franchezza[197], forse per
ritenerlo dall'esecuzione de' suoi malnati appetiti; Cajo, che non
voleva più aver sopra di sè dei maestri, dallo sprezzo passò alla
risoluzione di levarlo dal mondo, dopo avergli promesso il governo
dell'Egitto. Macrone prevenne il carnefice con darsi da sè stesso la
morte; e non meno di lui fece Ennia Nevia sua moglie, quella medesima,
con cui Caligola avea tenuta, per quanto fu creduto, una pratica
disonesta. Parve ad ognuno troppo nera l'ingratitudine di lui verso
persone tali; e più indegno si riputò il delitto apposto loro dal
medesimo imperadore, con chiamarli ruffiani, quando in lui ricadeva
questo reato. Suocero d'esso Cajo era Marco Giunio Silano, già stato
console, uomo di gran nobiltà, di gran senno, e primo nel senato a
dire il suo parere, allorchè regnava Tiberio. Sua figliuola _Giunia
Claudilla_ maritata con Caligola non per anche imperadore, era, per
attestato di Dione[198], stata ripudiata. Tacito[199] la dice morta in
breve, forse di parto. A questo illustre personaggio tali affronti
fece Cajo, che l'indusse, secondo l'empio stile d'allora, a darsi la
morte da sè stesso. Di ciò parla Dione all'anno precedente. Abbiamo
anche da Tacito[200] e da Seneca, che Caligola volle dar l'incombenza
d'accusar Silano a Giulio Grecino, senatore di rara probità, che
compose alcuni libri dell'Agricoltura, menzionati anche da Plinio, e
che fu padre di Giulio Agricola, la cui vita scritta da Tacito è
pervenuta ai nostri giorni. Generosamente se ne scusò egli, e per
questa bella azione meritò che il crudele Caligola il facesse morire.
Racconta Seneca[201] di questo Grecino, che mancandogli il denaro per
celebrar de' giuochi pubblici, Fabio Persico, probabilmente quello
stesso che fu console nell'anno 34 della nostra Era, ma uomo
screditato, gliene mandò ad esibire una buona somma. La rifiutò
Grecino, e agli amici che il biasimavano di questo, rispose: «Come
vorreste voi ch'io ricevessi dei danari da uno, con cui mi vergognerei
anche di stare a tavola?»
Quanta fosse la corruzion de' costumi in Roma pagana per questi tempi,
sarebbe facile il mostrarlo. Caligola anch'egli ne lasciò degl'infami
esempli[202]. Tre sorelle avea egli, cioè _Drusilla_, _Agrippina_ e
_Livilla_. Con tutte e tre, o vergini o maritate, disonestamente
conversò. Sopra l'altre amò Drusilla, a cui tolto avea l'onore
giovinetto. Era essa stata dipoi maritata con Lucio Cassio Longino,
che fu console. Caligola gliela tolse, e la tenne e trattò da
legittima consorte. Dione[203], non so come, la fa moglie (forse in
seconde nozze) di Marco Lepido, notando nondimeno anch'egli
l'obbrobrioso commercio del fratello con essa. Fu costei in quest'anno
rapita dalla morte, verisimilmente verso il fine di luglio. Caio
n'ebbe a impazzire, e cadde in istravaganze ridicole. Dopo un
solennissimo funerale e lutto pubblico, fece decretare ad essa gli
onori dati a Livia Augusta, e deificarla e alzarle dei templi; e si
trovò un senator sì vile, cioè Livio Geminio, che con giuramento
affermò di aver veduta Drusilla salire al cielo, e ne riportò un buon
regalo da Caio. Seneca anch'egli si rise di costui. Oltre a ciò come
forsennato all'improvviso si partì da Roma, fece un viaggio nella
Campania, arrivò sino a Siracusa, e poi frettolosamente ritornò a
Roma, senza essersi fatta radere la barba nè tosare i capelli. Andò
tanto innanzi la frenesia di Caio, che fece morir non so quante
persone per due opposti motivi o pretesti; cioè le une perchè si erano
rattristate per la morte di Drusilla, quasi che fosse un gran delitto
l'affliggersi per chi era divenuta partecipe della divinità; e
l'altre, perchè o avessero fatto conviti, o balli, o fossero ite al
bagno nel tempo del lutto per Drusilla, parendo ciò un rellegrarsi
della sua morte. Chi potea indovinarla con un sì furioso e pazzo
Augusto? Altri nondimeno han creduto ch'egli spigolasse sì fatti
pretesti, per ingoiar le ricchezze dei condannati a diritto o a torto;
imperciocchè il folle ne' primi mesi fece un tale scialacquamento di
denaro, che consumò colla sua prodigalità in doni e pubblici giuochi
gli immensi tesori che l'avaro Tiberio avea radunato; e, trovandosi
poi smunto, diede ad ogni sorta di violenza, o pubblica con imporre
gravezze, o privata con levar di vita i ricchi innocenti, per
soddisfare ai suoi capricciosi voleri colle loro sostanze. Quando
altra accusa mancava, sempre era in pronto quella che avessero avuta
parte nella morte dei di lui genitori e fratelli.
Un'altra ridicolosa comparsa avea fatto questo imperadore, forse
nell'anno precedente, come s'ha da Dione[204]. Invitato alle nozze di
Caio Calpurnio Pisone con _Livia_ (o sia _Cornelia_) _Orestilla_,
appena ebbe veduta quella giovinetta che se ne invaghì con dire a
Pisone: «Non ti venga talento di toccare mia moglie.» E tosto seco la
condusse in corte, poi fra pochi dì la ripudiò; e da li a due anni
ragguagliato ch'essa avea commercio col primo marito, relegò l'uno e
l'altra. Inoltre pochi giorni dopo la morte di Drusilla avendo esso
Caio udito parlare della straordinaria bellezza dell'avola di _Lollia
Paolina_, moglie di Caio Memmio Regolo, già stato console, e che era
allora governatore della Macedonia ed Acaia, stranamente avvisandosi
che non fosse minor la beltà della nipote, mandò a prendere essa
_Paolina_, e la sposò, con obbligar suo marito ad adottarla per
figliuola. Ma svaghitosene fra poco, la ripudiò, con precetto a lei
fatto di non avere carnal commercio con altr'uomo in avvenire. Sposò
dipoi _Cesonia Milonia_, che già avea avuto tre figliuole da un altro
marito; donna che sapea il mestiere di farsi amare. E la sposò nel dì
stesso che la medesima partorì una figliuola, ch'egli riconobbe per
sua, ed ebbe nome _Giulia Drusilla_. Dione la fa nata un mese dopo, e
riferisce all'anno seguente un tal matrimonio[205]. Intanto si diede
meglio a conoscere la sua furiosa passione di mirar con piacere le
morti degli uomini. I giuochi funesti de' gladiatori erano il suo
maggior sollazzo. Sollecitava anche i nobili, benchè fosse contro le
leggi, a combattere negli anfiteatri e a farsi scannare. Non contento
del duello d'uno con uno, ne voleva delle schiere; e un dì fece
combattere ventisei cavalieri romani, mostrando gran contento allo
spargimento del loro sangue. Talvolta ancora, mancando i gladiatori,
facea ghermire taluno della plebe; e colla lingua tagliata, affinchè
non potesse gridare, il forzava a combattere con le fiere. Così di
giorno in giorno andava egli crescendo nella crudeltà, sfoggiando
nelle pazzie, e gettando smoderata copia di danaro in vari spettacoli
e in demolir case per nuovi anfiteatri. In quest'anno[206], per quanto
si crede, la mano di Dio cominciò a farsi sentire in Levante contra
de' Giudei, fieri persecutori del già nato Cristianesimo. Ebbero
principio in Egitto le turbolenze mosse contra di tal nazione, che in
più centinaia di migliaia abitava in quella ricchissima provincia, con
essersi sollevato il popolo di Alessandria contra d'essi in occasione
che il re _Agrippa_ arrivò a quella città. Gran copia di loro fu
maltrattata, tormentata, uccisa; saccheggiate le lor case, spogliati i
magazzini, e ridotto quel gran popolo ad un'estrema miseria. La storia
distesamente si legge ne' libri di Filone contra Flacco, negli Annali
del Baronio all'anno 40, in quei dell'Usserio e d'altri. L'istituto
mio non soffre ch'io ne dica di più.
NOTE:
[194] Dio, lib. 59.
[195] Philo, in Legatione ad Cajum.
[196] Dio, lib. 59.
[197] Philo, in Legatione ad Cajum.
[198] Dio, lib. 59.
[199] Dio, lib. 59. Tacit., Annal., lib. 6, c. 46.
[200] Tacitus, in Vita Agricolae.
[201] Seneca, de Benefic., lib. 2, c. 21.
[202] Sueton., in Cajo, cap. 24.
[203] Dio, lib. 59.
[204] Dio, lib. 59. Sueton., in Cajo, cap. 25.
[205] Dio, lib. 59.
[206] Philo, in Flacc. Joseph., in Antiq. Judaic. Eusebius, et alii.
Anno di CRISTO XXXIX. Indizione XII.
PIETRO Apostolo papa 11.
CAJO CALIGOLA imperadore 3.
_Consoli_
CAJO CESARE CALIGOLA AUGUSTO per la seconda volta, LUCIO APRONIO
CESIANO.
Solamente per tutto il gennaio tenne _Caligola_ il consolato[207], e
nelle calende di febbraio, per attestato di Dione[208], rinunziò la
dignità a _Marco Sanquinio Massimo_, che era stato console un'altra
volta. Continuò _Apronio Cesiano_ nell'uffizio sino alla fine di
giugno, per testimonianza del medesimo storico, e nelle susseguenti
calende dicono che gli fu sostituito _Gneo Domizio Corbulone_. Così il
padre Stampa[209] ed altri, negando la sostituzione d'altri consoli.
Ma Dione scrive, che incolpati da Caio i consoli, per non aver
intimate le ferie pel suo giorno natalizio, e per aver solennizzata la
vittoria d'Augusto contra di Marco Antonio, furono in quello stesso
dì, cioè del suo natale, degradati, con rompere i loro fasci:
ignominia tale, che l'un di essi consoli si uccise di poi da sè
stesso. Aggiugne che allora succedette nel consolato _Domizio
Africano_. Secondo Svetonio[210] Cajo Caligola nacque nel dì 31
d'agosto; e però in quel dì succedette la mutazion de' consoli, e
_Domizio Africano_ eletto console da Caligola, tenne il consolato sino
al fine dell'anno. _Domitium Afrum Collegam Cajus ipse sibi re, verbo
Populus elegit._ Certo è, essere stati due personaggi diversi _Domizio
Corbulone e Domizio Africano_, come si ricava da Tacito[211] che li
nomina amendue. Dione anch'egli parla di essi sotto l'anno presente,
con dire che _Domizio Corbulone_ si guadagnò il consolato con far dei
processi, e poscia aggiugne che anche _Domizio Africano_ fu creato
console. Quel solo che resta scuro, si è, qual dei due consoli deposti
si troncasse il filo della vita; perciocchè tanto Sanquinio Massimo,
quanto Corbulone sembra che vivessero alcuni anni ancora, se pur di
amendue parla Tacito negli Annali[212]. Cajo nell'anno presente levò
di nuovo al popolo il diritto dei Comizii, perchè ne seguiva
dell'imbroglio, e lo restituì al senato. Era per altre cagioni in
collera contro d'esso popolo, perchè sapea d'esserne odiato; vedea che
scarso era il loro concorso agli spettacoli; e più volte intese che
aveano levato rumore contro le spie e gli accusatori. Però molti di
quando in quando ne fece ammazzare, e si augurava che un solo collo
avesse tutto il popolo romano per poterlo tagliare con un sol colpo.
Nel medesimo tempo andava crescendo la di lui crudeltà anche verso i
nobili e i ricchi, trovandosi con facilità dei pretesti per farli
accusare e condannare a fine di mettere le griffe sopra le loro
ricchezze e beni. Di Calvisio Sabino senatore, di Prisco pretore e
d'altri parla Dione, con aggiungere che tutto il senato e popolo
all'udirlo un dì lodar Tiberio, e minacciar tutti, rimasero sbalorditi
e tremanti; e la conciarono per allora con delle adulazioni e lodi
eccessive. Domizio Africano, del cui consolato poco fa s'è ragionato,
seppe anch'egli con ripiego di fina accortezza schivar la mala
ventura. Credendo costui d'acquistarsi un gran merito, avea esposta
una statua di Caligola, con dire nell'iscrizione ch'esso Augusto in
età di ventisette anni era giunto ad essere console due volte. Prese
Caligola con quella sua testa sventata al rovescio l'espressione,
parendogli fatto un rimprovero a sè stesso per la sua età, e per le
leggi che non permetteano in sì poco tempo tali onori. Però
considerando che uomo accreditato nell'eloquenza del foro fosse
Domizio, composta un'orazione con molto studio volle egli stesso
accusarlo in senato. L'accorto Domizio, finita ch'egli ebbe la
diceria, senza mettersi a difendere sè stesso, si mostrò solamente
stupefatto per la forza e bellezza dell'orazione di Caio, con
rilevarne tutti i passi più luminosi e lodarli. Richiesto poi di
difendersi, se potea, rispose d'essere vinto da così forte eloquenza,
ed altro non restargli, se non di ricorrere alla clemenza di Cesare;
e, in così dire, se gli gittò supplichevole ai piedi, implorando
misericordia. Caio gonfio per aver superato un oratore di tanto nome,
gli perdonò il resto, ed in appresso il creò console.
Ma non meno della crudeltà cresceva in lui anche la frenesia o pazzia,
profondendo sempre più a sproposito immenso danaro negli
spettacoli[213]. Egli stesso sulla carretta talvolta andò nel circo a
gareggiar nella corsa coi plebei professori; e guai a quegli uomini e
cavalli che gli andavano innanzi. Fra gli altri ebbe un cavallo
prediletto, a cui avea posto il nome d'_Incitato_. Lo tenea seco a
tavola, dandogli biada in vasi d'oro, e in bicchieroni d'oro del vino.
Forse fu una burla il dirsi che egli avea anche promesso di crearlo
console un dì; e che l'avrebbe fatto, se fosse vivuto più tempo. Poca
gloria a questo forsennato regnante pareva il passeggiar per terra a
cavallo. Volle far vedere ai Romani, che gli dava l'animo di cavalcar
sopra il mare. Fece dunque fabbricar un ponte in un seno di esso mare
fra Baja e Pozzuolo, lungo da tre miglia e mezzo con due file di navi
da carico, fermate con ancore, e fatte venir anche da lontano[214]: il
che poi cagionò una gran carestia in Roma e nell'Italia. Sopra vi fu
fatto un piano di terra con varie case ben provvedute d'acqua dolce.
Per questo ponte fabbricato con immensa spesa, un dì montato sopra un
superbo cavallo, armato colla corazza riputata di Alessandro Magno, e
con sopravvesta ornata d'oro e di gemme, spada al fianco, e scudo
imbracciato e con corona di quercia in capo, marciò l'intrepido
imperadore con tutta la sua corte da Baja a Pozzuolo, quasichè andasse
ad assalire un'armata nemica; e come se fosse stanco per una data
battaglia, si riposò poi in quella città. Nel seguente giorno salito
sopra un carro tirato dai suoi più superbi destrieri, con Dario
avanti, uno degli ostaggi dei Parti, seguitato da essa sua corte tutta
in gala, e da alcune schiere di pretoriani, ripassò di nuovo sul
medesimo ponte; in mezzo al quale alzato un tribunale, arringò, come
se avesse conseguita qualche gran vittoria, lodando i soldati, quasi
che fossero usciti di pericolo, gloriandosi sopra tutto di aver
calpestato coi piedi il mare. Dato poscia un congiario o sia regalo al
popolo, egli coi cortigiani sul ponte, e gli altri in varie navi,
passarono il rimanente del giorno e la notte in gozzoviglie e in
ubbriacarsi, essendo tutto il ponte colla collina d'intorno illuminato
da fiaccole, fuochi ed altri lumi, talmente che la notte non invidiava
al giorno. Nel calore del vino e dell'allegria molti furono gittati
per divertimento in mare, e molti ve ne gittò lo stesso Caio, dei
quali perirono alcuni. Così terminò la gran funzione, con vantarsi il
prode Augusto di aver messo terrore al mare, e con ridersi di Dario e
di Serse, per aver egli domato il mare per un tratto più lungo. Le
immense spese fatte in quest'azion da teatro, incitarono dipoi lo
smunto Augusto a far danari per tutte le vie, e massimamente colle
condanne dei benestanti. Fra questi uno fu il celebre filosofo _Lucio
Anneo Seneca_, tenuto pel più saggio di Roma, che corse gran pericolo,
non già per qualche suo delitto, ma solamente per aver trattata con
vigore nel senato una causa alla presenza dello stesso Caligola, che
se l'ebbe a male, o perchè proteggesse co' desiderii quella causa, o
perchè gli spiacesse chi era più eloquente di lui. Il fece dunque
condannare; ma il lasciò poi vivere per avere inteso da una
donnicciuola di corte, che questo filosofo era tisico e poco potea
campare.
Prese susseguentemente Caligola all'improvviso la risoluzione di
passar nella Gallia, col pretesto della guerra non mai bene estinta
coi Germani; ma veramente per far bottino addosso alle provincie
romane, ed insieme per dar a conoscere l'insigne suo valore e potenza
ai Barbari, dopo averne data una sì bella lezione al mare stesso.
Dovette accadere la sua partenza negli ultimi mesi di questo anno. Fu
detto, che raunò dugentomila, ed altri anche scrissero dugento
cinquantamila armati. Direste ch'egli sicuramente subbissò con tante
forze la Germania. Andò a finire anche questo formidabil apparato in
una scena comica. Appena ebbe passato il Reno, che marciando in
carrozza in mezzo all'esercito per dei passi stretti, gli fu detto che
sorgerebbe ivi della confusione se i nemici venissero ad assalire i
Romani. Bastò questo, perchè egli salito a cavallo, con fretta se ne
tornasse al ponte del Reno, e trovatolo impedito dalle carrette dei
bagagli, si facesse portar di là sulle spalle dagli uomini, non
parendogli mai d'essere in sicuro dai Germani, finchè non ebbe la
barriera del Reno davanti. In quella ridicolosa spedizione fece un dì
nascondere alcuni Tedeschi della sua guardia di là da esso Reno,
acciocchè nel tempo del desinare gli fosse portata la nuova che il
nemico veniva. Allora saltato su da tavola, colle milizie corse contra
quelle sognate truppe, e giunto in un bosco vi spese il resto del
giorno a far tagliare degli alberi, per innalzarvi de' trofei
dell'oste nemica da lui messa in fuga, confortando intanto alla
tolleranza le legioni colla speranza di menar meglio le mani un'altra
volta. Ed intanto scrivea lettere di fuoco al senato, perchè in Roma
si faceano dei conviti ed altri divertimenti, mentre egli si trovava
in mezzo ai pericoli della guerra. Venne in questi tempi a mettersi
sotto la di lui protezione con pochi de' suoi Adminio figliuolo d'uno
dei re della gran Bretagna, cacciato dal padre. Come s'egli avesse
conquistata la Bretagna, spedì tosto corrieri a Roma con lettere
laureate, ed ordine ad essi di presentarsi sol quando il senato fosse
adunato nel tempio di Marte, e di consegnar le lettere in mano dei
consoli. Fecesi anco proclamar imperadore per la settima volta,
quasichè egli avesse riportata qualche vittoria, quando neppur uno dei
Germani provò se erano ben affilate le spade romane. Queste furono le
bravure e conquiste del buffonesco imperadore, che diedero da ridere a
tutti, e specialmente agli stessi Germani, i quali s'avvidero per
tempo della di lui vanità e paura, nè ebbero più apprensione alcuna di
lui. Il tempo preciso di queste sue ridicolose prodezze non è
assegnato dagli antichi scrittori.
Diedero per lo contrario da piagnere alla Gallia le inaudite sue
estorsioni per far danaro. Non contento dei regali che gli portavano i
deputati delle città, si applicò a far morire i più ricchi di quelle
contrade sotto diversi pretesti; occupando le lor terre, e vendendole
dipoi anche per forza a chi non ne avea voglia, ed era obbligato a
pagarle molto più che non valevano. Trovandosi un giorno al giuoco,
gli fu detto che mancava il danaro. Fecesi tosto portare i catasti dei
beni della Gallia, comandò che i meglio possidenti fossero privati di
vita; rivoltosi poi agli altri giocatori, disse: «Voi giuocate di
poco; ma io giuoco a guadagnar sei milioni.» Profuse bensì un gran
danaro in regalar le milizie, ma insieme cassò molti uffiziali; ad
altri assaissimi negò la promozione dovuta; e a gran copia di soldati
per capricciose ragioni fece levar la vita. Soprattutto risonò la
morte da lui data a due dei suoi principali magistrati. L'uno fu _Gneo
Lentolo Getulico_ della primaria nobiltà romana, che per dieci anni
avea tenuto il governo dell'armi della Germania. Perchè egli, secondo
il sentimento di Dione, s'era guadagnata la benevolenza de' soldati,
questo fu il gran delitto per cui Caligola il tolse dal mondo. Ma
probabilmente anch'egli fu incolpato, come mischiato in una congiura
tramata contra d'esso Augusto da _Marco Emilio Lepido_, non so se vera
o falsa. Svetonio la dà per vera. Aveva Cajo condotte seco nel viaggio
le sue sorelle _Agrippina_ e _Livilla_, disonestamente amate da lui, e
prostituite anche da altri. Lepido era loro parente, sì per essere
figliuolo di Giulia nipote d'Augusto e sorella d'Agrippina lor madre,
e sì per essere stato marito di _Drusilla_, loro sorella. La
confidenza che passava fra essi a cagion della parentela, degenerò
facilmente in un infame commercio, cosa non rara fra i Pagani, seguaci
di una falsa e sporca religione. Sapendo le sorelle, quanto fosse
odiato il fratello, ed aspirando spezialmente l'ambiziosa Agrippina a
divenir imperadrice, macchinarono tutti e tre contra di Caligola,
perchè Lepido si prometteva di succedergli. Scoperta la trama, Lepido
la pagò con la vita; ed Agrippina e Livilla furono relegate nell'isola
di Ponza, con aver anche Cajo obbligata Agrippina a portare a Roma le
ceneri del drudo in un'urna. Disse che oltre alle isole egli avea per
loro anche delle spade. Scrisse poscia al senato di avere scappato
quella pericolosa burrasca, e mandò a Roma i biglietti che attestavano
l'impudica lor vita, e la lor lega coi congiurati, e tre pugnali
inoltre destinali a torgli la vita, con ordine di consecrarli a Marte
vendicatore[215]. Fece da lì a poco venir nella Gallia tutti gli
ornamenti e le suppellettili, gli schiavi, ed anche i liberti delle
sorelle per ricavarne danaro (perchè spesso lo scialacquatore ne
scarseggiava), e trovato che li vendea ben cari, nella maniera
nondimeno che dissi da lui praticata: comandò tosto, che fossero
condotte da Roma anche tutte le più belle e preziose masserizie del
palazzo imperiale, prendendo per forza tutte le carrette e cavalli che
si trovavano per le pubbliche strade, affin di condurle, non senza
grave danno e lamento dei popoli. Tutto ancora vendè come all'incanto
nella Gallia, e carissimo, perchè volea che si pagasse anche il fumo,
con aver messo de' biglietti sopra cadaun di que' mobili; in uno
d'essi dicea: «Questo fu di mio padre; quest'altro di mio nonno e di
mia madre; quest'era di Marc'Antonio in Egitto; questo lo guadagnò
Augusto in una tal vittoria;» e così discorrendo. Tutto il danaro poi
si dissipò in breve tra le paghe e i regali dei soldati, ed alcuni
spettacoli ch'egli volle dar in Lione prima del suo ritorno, succeduto
nell'anno seguente.
NOTE:
[207] Sueton., in Cajo, cap. 17.
[208] Dio, lib. 59.
[209] Stampa, Continuat. Fastor. Sigonius et alii.
[210] Sueton., in Cajo, c. 8.
[211] Tacitus, Annal., lib. 3, cap. 33, et lib. 4, c. 52.
[212] Tacitus, Annal., lib. II, cap. 18.
[213] Sueton., in Cajo, cap. 54. Dio, lib. 59.
[214] Sueton., in Cajo, c. 19.
[215] Sueton., in Cajo, cap. 39.
Anno di CRISTO XL. Indizione XIII.
PIETRO APOSTOLO papa 12.
CAJO CALIGOLA imperadore 4.
_Consoli_
CAJO CESARE CALIGOLA AUGUSTO per la terza volta.
Solo fu console ad aprir l'anno _Cajo Caligola_, non già perchè egli
non avesse nominato il collega; ma perchè, come abbiamo da Svetonio e
da Dione[216], il console disegnato morì nell'ultimo dì del precedente
anno, nè vi restò tempo da provvedere. Si ritrovarono imbrogliati i
senatori per non esservi in Roma capo alcuno del senato, nè si
attentavano i pretori a convocare esso senato, benchè loro
appartenesse tale officio nell'assenza e mancanza de' consoli.
Contuttociò da loro stessi salirono nelle calende di gennajo al
Campidoglio, e quivi fecero i sacrifizii; posta anche la sedia di
Caligola nel tempio, l'adorarono; e, come s'egli fosse stato presente,
gli fecero l'offerta dei doni che in testimonianza del loro amore avea
introdotto Augusto. Tiberio poi la dismise, e Caligola per avarizia la
rinnovò. Null'altro osarono di fare in quel dì i senatori, se non di
caricar di lodi l'imperadore, e di augurargli delle immense
prosperità. Si contennero anche nei dì seguenti, finchè arrivò
seguente apparirà. _Artabano_ re de' Parti, che in addietro odiò forte
Tiberio, udita la di lui morte, se ne rallegrò e diede tosto adito ad
un trattato di pace. Scrive Dione ch'egli stesso ricercò l'amicizia di
Cajo. Ma Svetonio e Giuseppe Ebreo raccontano, che fu Vitellio
governator della Soria il promotore di quell'accordo per ordine di
Cajo. Seguì in fatti fra esso re e Vitellio un magnifico abboccamento
in un ponte fabbricato sull'Eufrate, e quivi fu conchiusa la pace con
condizioni onorevoli per gli Romani.
NOTE:
[179] Fabret., Inscript., p. 674.
[180] Suet., in Tiber., c. 73.
[181] Thesaurus Novus Inscription., p. 303, n. 2.
[182] Sueton., in Tiber., c. 72.
[183] Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50.
[184] Sueton., in Caligula, cap. 8.
[185] Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.
[186] Dio, lib. 58.
[187] Philo, de Legation. Sueton., in Tiber., c. 76.
[188] Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50. Sueton. in Tiber., c. 73.
[189] Sueton., in Cajo, cap. 12.
[190] Sueton., in Caj., cap. 14. Dio, lib. 59.
[191] Mediobarbus, in Numismat. Imperator.
[192] Joseph., Antiq. Jud., lib. 18. Dio, lib 59.
[193] Sueton., in Cajo, cap. 17. Dio, lib. 59.
Anno di CRISTO XXXVIII. Indizione XI.
PIETRO APOSTOLO papa 40.
CAJO CALIGOLA imperadore 2.
_Consoli_
MARCO AQUILIO GIULIANO e PUBLIO NONIO ASPRENATE.
Era già cominciato nel precedente anno un impensato cambiamento di
vita e di massime nel da noi osservato finora sì amorevole e grazioso
Cajo Caligola. Rapporterò io qui ciò che accadde allora e nel presente
anno ancora[194]. I conviti, le crapole ed altre dissolutezze di una
vita sensuale, a cui si abbandonò di buon'ora questo nuovo imperadore,
cagion furono ch'egli cadde nel mese d'ottobre sì gravemente malato,
che si dubitò di sua vita[195]. Appena si riebbe, che di volubile,
qual era dianzi, cominciò a comparir stranamente agitalo da vari e
fieri capricci, quasi che la mente sua per la sofferta malattia avesse
patito qualche detrimento, con peggiorar da lì innanzi di maniera, che
Roma, sì maltrattata sotto Tiberio cattivo, senza paragone sotto
questo pessimo maestro divenne teatro di calamità. Aveano fatto i
Romani delle pazzie pel tanto desiderio ch'egli superasse quel malore,
perchè dopo aver Cajo dato sì glorioso principio al suo governo, si
figurava ciascuno riposta tutta la pubblica felicità nella
conservazione della di lui vita. Due persone fra l'altre, cioè Publio
Afranio Potito, uomo popolare, ed Atanio Secondo, cavaliere, fecero
voto, l'uno di dar la propria vita, se egli ricuperava la salute,
l'altro di combattere fra i gladiatori, con esporsi al pericolo della
morte, purchè Caligola guarisse. Guarito ch'egli fu, d'inesplicabile
giubilo si riempiè tutta la città. Ma non tardò molto a cangiarsi
scena. La prima sua strepitosa iniquità quella fu di levar di vita
_Tiberio Gemello_, nipote legittimo e naturale di Tiberio Augusto, e
da lui adottato per figliuolo, con obbligarlo ad uccidersi da sè
stesso; perciocchè Cajo sì scrupoloso era, che non potea permettere a
chicchessia di torre la vita al nipote di un imperadore. Per iscusa di
questa crudeltà addusse l'essere egli stato accertato, che il
giovinetto Tiberio si era rallegrato della sua infermità, ed avea
desiderata la sua morte. Passò oltre il suo bestial capriccio con
esigere, che chi avea fatto voto della vita, per salvare la sua,
eseguisse la promessa, affinchè non rimanessero con lo spergiuro in
corpo.
Fece in quest'anno Cajo alcune azioni che piacquero al popolo[196],
perchè restituì alla plebe il suo diritto ne' comizii per l'elezione
de' magistrati che Tiberio avea ristretto nei senatori: il che ebbe
poco effetto. Ordinò che pubblicamente si rendessero i conti delle
rendite e spese della repubblica: regolamento dismesso sotto Tiberio.
Essendo sminuito forte l'ordine de' cavalieri, lo ristorò con
ascrivere ad esso molti scelti dalla nobilità delle città
dell'imperio, purchè ben imparentati, e sufficientemente ricchi,
concedendo loro anche de' privilegi. Con decreto del senato diede a
_Soemo_ il regno, o sia principato dell'Arabia Iturea; a _Cotys_
l'Armenia minore, e poscia alcune parti dell'Arabia. Concedette ancora
una parte della Tracia a _Rimetalce_, e il Ponto a _Polemone_,
figliuolo del re Polemone; esercitando in tal guisa la giurisdizione
romana sopra que' lontani paesi, ed affezionando quei re al romano
imperio. Non furono già di questo tenore altre sue azioni nell'anno
presente. Già dicemmo ch'egli per opera di Macrone prefetto del
pretorio avea ottenuto l'imperio. Perchè quest'uomo, per altro
cattivo, osava di parlargli con qualche franchezza[197], forse per
ritenerlo dall'esecuzione de' suoi malnati appetiti; Cajo, che non
voleva più aver sopra di sè dei maestri, dallo sprezzo passò alla
risoluzione di levarlo dal mondo, dopo avergli promesso il governo
dell'Egitto. Macrone prevenne il carnefice con darsi da sè stesso la
morte; e non meno di lui fece Ennia Nevia sua moglie, quella medesima,
con cui Caligola avea tenuta, per quanto fu creduto, una pratica
disonesta. Parve ad ognuno troppo nera l'ingratitudine di lui verso
persone tali; e più indegno si riputò il delitto apposto loro dal
medesimo imperadore, con chiamarli ruffiani, quando in lui ricadeva
questo reato. Suocero d'esso Cajo era Marco Giunio Silano, già stato
console, uomo di gran nobiltà, di gran senno, e primo nel senato a
dire il suo parere, allorchè regnava Tiberio. Sua figliuola _Giunia
Claudilla_ maritata con Caligola non per anche imperadore, era, per
attestato di Dione[198], stata ripudiata. Tacito[199] la dice morta in
breve, forse di parto. A questo illustre personaggio tali affronti
fece Cajo, che l'indusse, secondo l'empio stile d'allora, a darsi la
morte da sè stesso. Di ciò parla Dione all'anno precedente. Abbiamo
anche da Tacito[200] e da Seneca, che Caligola volle dar l'incombenza
d'accusar Silano a Giulio Grecino, senatore di rara probità, che
compose alcuni libri dell'Agricoltura, menzionati anche da Plinio, e
che fu padre di Giulio Agricola, la cui vita scritta da Tacito è
pervenuta ai nostri giorni. Generosamente se ne scusò egli, e per
questa bella azione meritò che il crudele Caligola il facesse morire.
Racconta Seneca[201] di questo Grecino, che mancandogli il denaro per
celebrar de' giuochi pubblici, Fabio Persico, probabilmente quello
stesso che fu console nell'anno 34 della nostra Era, ma uomo
screditato, gliene mandò ad esibire una buona somma. La rifiutò
Grecino, e agli amici che il biasimavano di questo, rispose: «Come
vorreste voi ch'io ricevessi dei danari da uno, con cui mi vergognerei
anche di stare a tavola?»
Quanta fosse la corruzion de' costumi in Roma pagana per questi tempi,
sarebbe facile il mostrarlo. Caligola anch'egli ne lasciò degl'infami
esempli[202]. Tre sorelle avea egli, cioè _Drusilla_, _Agrippina_ e
_Livilla_. Con tutte e tre, o vergini o maritate, disonestamente
conversò. Sopra l'altre amò Drusilla, a cui tolto avea l'onore
giovinetto. Era essa stata dipoi maritata con Lucio Cassio Longino,
che fu console. Caligola gliela tolse, e la tenne e trattò da
legittima consorte. Dione[203], non so come, la fa moglie (forse in
seconde nozze) di Marco Lepido, notando nondimeno anch'egli
l'obbrobrioso commercio del fratello con essa. Fu costei in quest'anno
rapita dalla morte, verisimilmente verso il fine di luglio. Caio
n'ebbe a impazzire, e cadde in istravaganze ridicole. Dopo un
solennissimo funerale e lutto pubblico, fece decretare ad essa gli
onori dati a Livia Augusta, e deificarla e alzarle dei templi; e si
trovò un senator sì vile, cioè Livio Geminio, che con giuramento
affermò di aver veduta Drusilla salire al cielo, e ne riportò un buon
regalo da Caio. Seneca anch'egli si rise di costui. Oltre a ciò come
forsennato all'improvviso si partì da Roma, fece un viaggio nella
Campania, arrivò sino a Siracusa, e poi frettolosamente ritornò a
Roma, senza essersi fatta radere la barba nè tosare i capelli. Andò
tanto innanzi la frenesia di Caio, che fece morir non so quante
persone per due opposti motivi o pretesti; cioè le une perchè si erano
rattristate per la morte di Drusilla, quasi che fosse un gran delitto
l'affliggersi per chi era divenuta partecipe della divinità; e
l'altre, perchè o avessero fatto conviti, o balli, o fossero ite al
bagno nel tempo del lutto per Drusilla, parendo ciò un rellegrarsi
della sua morte. Chi potea indovinarla con un sì furioso e pazzo
Augusto? Altri nondimeno han creduto ch'egli spigolasse sì fatti
pretesti, per ingoiar le ricchezze dei condannati a diritto o a torto;
imperciocchè il folle ne' primi mesi fece un tale scialacquamento di
denaro, che consumò colla sua prodigalità in doni e pubblici giuochi
gli immensi tesori che l'avaro Tiberio avea radunato; e, trovandosi
poi smunto, diede ad ogni sorta di violenza, o pubblica con imporre
gravezze, o privata con levar di vita i ricchi innocenti, per
soddisfare ai suoi capricciosi voleri colle loro sostanze. Quando
altra accusa mancava, sempre era in pronto quella che avessero avuta
parte nella morte dei di lui genitori e fratelli.
Un'altra ridicolosa comparsa avea fatto questo imperadore, forse
nell'anno precedente, come s'ha da Dione[204]. Invitato alle nozze di
Caio Calpurnio Pisone con _Livia_ (o sia _Cornelia_) _Orestilla_,
appena ebbe veduta quella giovinetta che se ne invaghì con dire a
Pisone: «Non ti venga talento di toccare mia moglie.» E tosto seco la
condusse in corte, poi fra pochi dì la ripudiò; e da li a due anni
ragguagliato ch'essa avea commercio col primo marito, relegò l'uno e
l'altra. Inoltre pochi giorni dopo la morte di Drusilla avendo esso
Caio udito parlare della straordinaria bellezza dell'avola di _Lollia
Paolina_, moglie di Caio Memmio Regolo, già stato console, e che era
allora governatore della Macedonia ed Acaia, stranamente avvisandosi
che non fosse minor la beltà della nipote, mandò a prendere essa
_Paolina_, e la sposò, con obbligar suo marito ad adottarla per
figliuola. Ma svaghitosene fra poco, la ripudiò, con precetto a lei
fatto di non avere carnal commercio con altr'uomo in avvenire. Sposò
dipoi _Cesonia Milonia_, che già avea avuto tre figliuole da un altro
marito; donna che sapea il mestiere di farsi amare. E la sposò nel dì
stesso che la medesima partorì una figliuola, ch'egli riconobbe per
sua, ed ebbe nome _Giulia Drusilla_. Dione la fa nata un mese dopo, e
riferisce all'anno seguente un tal matrimonio[205]. Intanto si diede
meglio a conoscere la sua furiosa passione di mirar con piacere le
morti degli uomini. I giuochi funesti de' gladiatori erano il suo
maggior sollazzo. Sollecitava anche i nobili, benchè fosse contro le
leggi, a combattere negli anfiteatri e a farsi scannare. Non contento
del duello d'uno con uno, ne voleva delle schiere; e un dì fece
combattere ventisei cavalieri romani, mostrando gran contento allo
spargimento del loro sangue. Talvolta ancora, mancando i gladiatori,
facea ghermire taluno della plebe; e colla lingua tagliata, affinchè
non potesse gridare, il forzava a combattere con le fiere. Così di
giorno in giorno andava egli crescendo nella crudeltà, sfoggiando
nelle pazzie, e gettando smoderata copia di danaro in vari spettacoli
e in demolir case per nuovi anfiteatri. In quest'anno[206], per quanto
si crede, la mano di Dio cominciò a farsi sentire in Levante contra
de' Giudei, fieri persecutori del già nato Cristianesimo. Ebbero
principio in Egitto le turbolenze mosse contra di tal nazione, che in
più centinaia di migliaia abitava in quella ricchissima provincia, con
essersi sollevato il popolo di Alessandria contra d'essi in occasione
che il re _Agrippa_ arrivò a quella città. Gran copia di loro fu
maltrattata, tormentata, uccisa; saccheggiate le lor case, spogliati i
magazzini, e ridotto quel gran popolo ad un'estrema miseria. La storia
distesamente si legge ne' libri di Filone contra Flacco, negli Annali
del Baronio all'anno 40, in quei dell'Usserio e d'altri. L'istituto
mio non soffre ch'io ne dica di più.
NOTE:
[194] Dio, lib. 59.
[195] Philo, in Legatione ad Cajum.
[196] Dio, lib. 59.
[197] Philo, in Legatione ad Cajum.
[198] Dio, lib. 59.
[199] Dio, lib. 59. Tacit., Annal., lib. 6, c. 46.
[200] Tacitus, in Vita Agricolae.
[201] Seneca, de Benefic., lib. 2, c. 21.
[202] Sueton., in Cajo, cap. 24.
[203] Dio, lib. 59.
[204] Dio, lib. 59. Sueton., in Cajo, cap. 25.
[205] Dio, lib. 59.
[206] Philo, in Flacc. Joseph., in Antiq. Judaic. Eusebius, et alii.
Anno di CRISTO XXXIX. Indizione XII.
PIETRO Apostolo papa 11.
CAJO CALIGOLA imperadore 3.
_Consoli_
CAJO CESARE CALIGOLA AUGUSTO per la seconda volta, LUCIO APRONIO
CESIANO.
Solamente per tutto il gennaio tenne _Caligola_ il consolato[207], e
nelle calende di febbraio, per attestato di Dione[208], rinunziò la
dignità a _Marco Sanquinio Massimo_, che era stato console un'altra
volta. Continuò _Apronio Cesiano_ nell'uffizio sino alla fine di
giugno, per testimonianza del medesimo storico, e nelle susseguenti
calende dicono che gli fu sostituito _Gneo Domizio Corbulone_. Così il
padre Stampa[209] ed altri, negando la sostituzione d'altri consoli.
Ma Dione scrive, che incolpati da Caio i consoli, per non aver
intimate le ferie pel suo giorno natalizio, e per aver solennizzata la
vittoria d'Augusto contra di Marco Antonio, furono in quello stesso
dì, cioè del suo natale, degradati, con rompere i loro fasci:
ignominia tale, che l'un di essi consoli si uccise di poi da sè
stesso. Aggiugne che allora succedette nel consolato _Domizio
Africano_. Secondo Svetonio[210] Cajo Caligola nacque nel dì 31
d'agosto; e però in quel dì succedette la mutazion de' consoli, e
_Domizio Africano_ eletto console da Caligola, tenne il consolato sino
al fine dell'anno. _Domitium Afrum Collegam Cajus ipse sibi re, verbo
Populus elegit._ Certo è, essere stati due personaggi diversi _Domizio
Corbulone e Domizio Africano_, come si ricava da Tacito[211] che li
nomina amendue. Dione anch'egli parla di essi sotto l'anno presente,
con dire che _Domizio Corbulone_ si guadagnò il consolato con far dei
processi, e poscia aggiugne che anche _Domizio Africano_ fu creato
console. Quel solo che resta scuro, si è, qual dei due consoli deposti
si troncasse il filo della vita; perciocchè tanto Sanquinio Massimo,
quanto Corbulone sembra che vivessero alcuni anni ancora, se pur di
amendue parla Tacito negli Annali[212]. Cajo nell'anno presente levò
di nuovo al popolo il diritto dei Comizii, perchè ne seguiva
dell'imbroglio, e lo restituì al senato. Era per altre cagioni in
collera contro d'esso popolo, perchè sapea d'esserne odiato; vedea che
scarso era il loro concorso agli spettacoli; e più volte intese che
aveano levato rumore contro le spie e gli accusatori. Però molti di
quando in quando ne fece ammazzare, e si augurava che un solo collo
avesse tutto il popolo romano per poterlo tagliare con un sol colpo.
Nel medesimo tempo andava crescendo la di lui crudeltà anche verso i
nobili e i ricchi, trovandosi con facilità dei pretesti per farli
accusare e condannare a fine di mettere le griffe sopra le loro
ricchezze e beni. Di Calvisio Sabino senatore, di Prisco pretore e
d'altri parla Dione, con aggiungere che tutto il senato e popolo
all'udirlo un dì lodar Tiberio, e minacciar tutti, rimasero sbalorditi
e tremanti; e la conciarono per allora con delle adulazioni e lodi
eccessive. Domizio Africano, del cui consolato poco fa s'è ragionato,
seppe anch'egli con ripiego di fina accortezza schivar la mala
ventura. Credendo costui d'acquistarsi un gran merito, avea esposta
una statua di Caligola, con dire nell'iscrizione ch'esso Augusto in
età di ventisette anni era giunto ad essere console due volte. Prese
Caligola con quella sua testa sventata al rovescio l'espressione,
parendogli fatto un rimprovero a sè stesso per la sua età, e per le
leggi che non permetteano in sì poco tempo tali onori. Però
considerando che uomo accreditato nell'eloquenza del foro fosse
Domizio, composta un'orazione con molto studio volle egli stesso
accusarlo in senato. L'accorto Domizio, finita ch'egli ebbe la
diceria, senza mettersi a difendere sè stesso, si mostrò solamente
stupefatto per la forza e bellezza dell'orazione di Caio, con
rilevarne tutti i passi più luminosi e lodarli. Richiesto poi di
difendersi, se potea, rispose d'essere vinto da così forte eloquenza,
ed altro non restargli, se non di ricorrere alla clemenza di Cesare;
e, in così dire, se gli gittò supplichevole ai piedi, implorando
misericordia. Caio gonfio per aver superato un oratore di tanto nome,
gli perdonò il resto, ed in appresso il creò console.
Ma non meno della crudeltà cresceva in lui anche la frenesia o pazzia,
profondendo sempre più a sproposito immenso danaro negli
spettacoli[213]. Egli stesso sulla carretta talvolta andò nel circo a
gareggiar nella corsa coi plebei professori; e guai a quegli uomini e
cavalli che gli andavano innanzi. Fra gli altri ebbe un cavallo
prediletto, a cui avea posto il nome d'_Incitato_. Lo tenea seco a
tavola, dandogli biada in vasi d'oro, e in bicchieroni d'oro del vino.
Forse fu una burla il dirsi che egli avea anche promesso di crearlo
console un dì; e che l'avrebbe fatto, se fosse vivuto più tempo. Poca
gloria a questo forsennato regnante pareva il passeggiar per terra a
cavallo. Volle far vedere ai Romani, che gli dava l'animo di cavalcar
sopra il mare. Fece dunque fabbricar un ponte in un seno di esso mare
fra Baja e Pozzuolo, lungo da tre miglia e mezzo con due file di navi
da carico, fermate con ancore, e fatte venir anche da lontano[214]: il
che poi cagionò una gran carestia in Roma e nell'Italia. Sopra vi fu
fatto un piano di terra con varie case ben provvedute d'acqua dolce.
Per questo ponte fabbricato con immensa spesa, un dì montato sopra un
superbo cavallo, armato colla corazza riputata di Alessandro Magno, e
con sopravvesta ornata d'oro e di gemme, spada al fianco, e scudo
imbracciato e con corona di quercia in capo, marciò l'intrepido
imperadore con tutta la sua corte da Baja a Pozzuolo, quasichè andasse
ad assalire un'armata nemica; e come se fosse stanco per una data
battaglia, si riposò poi in quella città. Nel seguente giorno salito
sopra un carro tirato dai suoi più superbi destrieri, con Dario
avanti, uno degli ostaggi dei Parti, seguitato da essa sua corte tutta
in gala, e da alcune schiere di pretoriani, ripassò di nuovo sul
medesimo ponte; in mezzo al quale alzato un tribunale, arringò, come
se avesse conseguita qualche gran vittoria, lodando i soldati, quasi
che fossero usciti di pericolo, gloriandosi sopra tutto di aver
calpestato coi piedi il mare. Dato poscia un congiario o sia regalo al
popolo, egli coi cortigiani sul ponte, e gli altri in varie navi,
passarono il rimanente del giorno e la notte in gozzoviglie e in
ubbriacarsi, essendo tutto il ponte colla collina d'intorno illuminato
da fiaccole, fuochi ed altri lumi, talmente che la notte non invidiava
al giorno. Nel calore del vino e dell'allegria molti furono gittati
per divertimento in mare, e molti ve ne gittò lo stesso Caio, dei
quali perirono alcuni. Così terminò la gran funzione, con vantarsi il
prode Augusto di aver messo terrore al mare, e con ridersi di Dario e
di Serse, per aver egli domato il mare per un tratto più lungo. Le
immense spese fatte in quest'azion da teatro, incitarono dipoi lo
smunto Augusto a far danari per tutte le vie, e massimamente colle
condanne dei benestanti. Fra questi uno fu il celebre filosofo _Lucio
Anneo Seneca_, tenuto pel più saggio di Roma, che corse gran pericolo,
non già per qualche suo delitto, ma solamente per aver trattata con
vigore nel senato una causa alla presenza dello stesso Caligola, che
se l'ebbe a male, o perchè proteggesse co' desiderii quella causa, o
perchè gli spiacesse chi era più eloquente di lui. Il fece dunque
condannare; ma il lasciò poi vivere per avere inteso da una
donnicciuola di corte, che questo filosofo era tisico e poco potea
campare.
Prese susseguentemente Caligola all'improvviso la risoluzione di
passar nella Gallia, col pretesto della guerra non mai bene estinta
coi Germani; ma veramente per far bottino addosso alle provincie
romane, ed insieme per dar a conoscere l'insigne suo valore e potenza
ai Barbari, dopo averne data una sì bella lezione al mare stesso.
Dovette accadere la sua partenza negli ultimi mesi di questo anno. Fu
detto, che raunò dugentomila, ed altri anche scrissero dugento
cinquantamila armati. Direste ch'egli sicuramente subbissò con tante
forze la Germania. Andò a finire anche questo formidabil apparato in
una scena comica. Appena ebbe passato il Reno, che marciando in
carrozza in mezzo all'esercito per dei passi stretti, gli fu detto che
sorgerebbe ivi della confusione se i nemici venissero ad assalire i
Romani. Bastò questo, perchè egli salito a cavallo, con fretta se ne
tornasse al ponte del Reno, e trovatolo impedito dalle carrette dei
bagagli, si facesse portar di là sulle spalle dagli uomini, non
parendogli mai d'essere in sicuro dai Germani, finchè non ebbe la
barriera del Reno davanti. In quella ridicolosa spedizione fece un dì
nascondere alcuni Tedeschi della sua guardia di là da esso Reno,
acciocchè nel tempo del desinare gli fosse portata la nuova che il
nemico veniva. Allora saltato su da tavola, colle milizie corse contra
quelle sognate truppe, e giunto in un bosco vi spese il resto del
giorno a far tagliare degli alberi, per innalzarvi de' trofei
dell'oste nemica da lui messa in fuga, confortando intanto alla
tolleranza le legioni colla speranza di menar meglio le mani un'altra
volta. Ed intanto scrivea lettere di fuoco al senato, perchè in Roma
si faceano dei conviti ed altri divertimenti, mentre egli si trovava
in mezzo ai pericoli della guerra. Venne in questi tempi a mettersi
sotto la di lui protezione con pochi de' suoi Adminio figliuolo d'uno
dei re della gran Bretagna, cacciato dal padre. Come s'egli avesse
conquistata la Bretagna, spedì tosto corrieri a Roma con lettere
laureate, ed ordine ad essi di presentarsi sol quando il senato fosse
adunato nel tempio di Marte, e di consegnar le lettere in mano dei
consoli. Fecesi anco proclamar imperadore per la settima volta,
quasichè egli avesse riportata qualche vittoria, quando neppur uno dei
Germani provò se erano ben affilate le spade romane. Queste furono le
bravure e conquiste del buffonesco imperadore, che diedero da ridere a
tutti, e specialmente agli stessi Germani, i quali s'avvidero per
tempo della di lui vanità e paura, nè ebbero più apprensione alcuna di
lui. Il tempo preciso di queste sue ridicolose prodezze non è
assegnato dagli antichi scrittori.
Diedero per lo contrario da piagnere alla Gallia le inaudite sue
estorsioni per far danaro. Non contento dei regali che gli portavano i
deputati delle città, si applicò a far morire i più ricchi di quelle
contrade sotto diversi pretesti; occupando le lor terre, e vendendole
dipoi anche per forza a chi non ne avea voglia, ed era obbligato a
pagarle molto più che non valevano. Trovandosi un giorno al giuoco,
gli fu detto che mancava il danaro. Fecesi tosto portare i catasti dei
beni della Gallia, comandò che i meglio possidenti fossero privati di
vita; rivoltosi poi agli altri giocatori, disse: «Voi giuocate di
poco; ma io giuoco a guadagnar sei milioni.» Profuse bensì un gran
danaro in regalar le milizie, ma insieme cassò molti uffiziali; ad
altri assaissimi negò la promozione dovuta; e a gran copia di soldati
per capricciose ragioni fece levar la vita. Soprattutto risonò la
morte da lui data a due dei suoi principali magistrati. L'uno fu _Gneo
Lentolo Getulico_ della primaria nobiltà romana, che per dieci anni
avea tenuto il governo dell'armi della Germania. Perchè egli, secondo
il sentimento di Dione, s'era guadagnata la benevolenza de' soldati,
questo fu il gran delitto per cui Caligola il tolse dal mondo. Ma
probabilmente anch'egli fu incolpato, come mischiato in una congiura
tramata contra d'esso Augusto da _Marco Emilio Lepido_, non so se vera
o falsa. Svetonio la dà per vera. Aveva Cajo condotte seco nel viaggio
le sue sorelle _Agrippina_ e _Livilla_, disonestamente amate da lui, e
prostituite anche da altri. Lepido era loro parente, sì per essere
figliuolo di Giulia nipote d'Augusto e sorella d'Agrippina lor madre,
e sì per essere stato marito di _Drusilla_, loro sorella. La
confidenza che passava fra essi a cagion della parentela, degenerò
facilmente in un infame commercio, cosa non rara fra i Pagani, seguaci
di una falsa e sporca religione. Sapendo le sorelle, quanto fosse
odiato il fratello, ed aspirando spezialmente l'ambiziosa Agrippina a
divenir imperadrice, macchinarono tutti e tre contra di Caligola,
perchè Lepido si prometteva di succedergli. Scoperta la trama, Lepido
la pagò con la vita; ed Agrippina e Livilla furono relegate nell'isola
di Ponza, con aver anche Cajo obbligata Agrippina a portare a Roma le
ceneri del drudo in un'urna. Disse che oltre alle isole egli avea per
loro anche delle spade. Scrisse poscia al senato di avere scappato
quella pericolosa burrasca, e mandò a Roma i biglietti che attestavano
l'impudica lor vita, e la lor lega coi congiurati, e tre pugnali
inoltre destinali a torgli la vita, con ordine di consecrarli a Marte
vendicatore[215]. Fece da lì a poco venir nella Gallia tutti gli
ornamenti e le suppellettili, gli schiavi, ed anche i liberti delle
sorelle per ricavarne danaro (perchè spesso lo scialacquatore ne
scarseggiava), e trovato che li vendea ben cari, nella maniera
nondimeno che dissi da lui praticata: comandò tosto, che fossero
condotte da Roma anche tutte le più belle e preziose masserizie del
palazzo imperiale, prendendo per forza tutte le carrette e cavalli che
si trovavano per le pubbliche strade, affin di condurle, non senza
grave danno e lamento dei popoli. Tutto ancora vendè come all'incanto
nella Gallia, e carissimo, perchè volea che si pagasse anche il fumo,
con aver messo de' biglietti sopra cadaun di que' mobili; in uno
d'essi dicea: «Questo fu di mio padre; quest'altro di mio nonno e di
mia madre; quest'era di Marc'Antonio in Egitto; questo lo guadagnò
Augusto in una tal vittoria;» e così discorrendo. Tutto il danaro poi
si dissipò in breve tra le paghe e i regali dei soldati, ed alcuni
spettacoli ch'egli volle dar in Lione prima del suo ritorno, succeduto
nell'anno seguente.
NOTE:
[207] Sueton., in Cajo, cap. 17.
[208] Dio, lib. 59.
[209] Stampa, Continuat. Fastor. Sigonius et alii.
[210] Sueton., in Cajo, c. 8.
[211] Tacitus, Annal., lib. 3, cap. 33, et lib. 4, c. 52.
[212] Tacitus, Annal., lib. II, cap. 18.
[213] Sueton., in Cajo, cap. 54. Dio, lib. 59.
[214] Sueton., in Cajo, c. 19.
[215] Sueton., in Cajo, cap. 39.
Anno di CRISTO XL. Indizione XIII.
PIETRO APOSTOLO papa 12.
CAJO CALIGOLA imperadore 4.
_Consoli_
CAJO CESARE CALIGOLA AUGUSTO per la terza volta.
Solo fu console ad aprir l'anno _Cajo Caligola_, non già perchè egli
non avesse nominato il collega; ma perchè, come abbiamo da Svetonio e
da Dione[216], il console disegnato morì nell'ultimo dì del precedente
anno, nè vi restò tempo da provvedere. Si ritrovarono imbrogliati i
senatori per non esservi in Roma capo alcuno del senato, nè si
attentavano i pretori a convocare esso senato, benchè loro
appartenesse tale officio nell'assenza e mancanza de' consoli.
Contuttociò da loro stessi salirono nelle calende di gennajo al
Campidoglio, e quivi fecero i sacrifizii; posta anche la sedia di
Caligola nel tempio, l'adorarono; e, come s'egli fosse stato presente,
gli fecero l'offerta dei doni che in testimonianza del loro amore avea
introdotto Augusto. Tiberio poi la dismise, e Caligola per avarizia la
rinnovò. Null'altro osarono di fare in quel dì i senatori, se non di
caricar di lodi l'imperadore, e di augurargli delle immense
prosperità. Si contennero anche nei dì seguenti, finchè arrivò
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