Annali d'Italia, vol. 1 - 18
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Nerone; il che non parea tanto difficile, stante l'odio comune. S'egli
fosse il primo ad intavolar la congiura, non si sa. Certo è bensì che
_Subrio_, o sia _Subio Flavio_, tribuno di una compagnia delle
guardie, e _Mario Anneo Lucano_ nipote di Seneca, e celebre autore del
poema della Farsalia, furono de' primi ad entrarvi, e de' più disposti
ad eseguirla. Per una giovanil vanità Lucano (era nato nell'anno 39
dell'Era nostra) non potea digerire che Nerone, per invidia, e pazza
credenza di saperne più di lui in poesia, gli avesse proibita la
pubblicazione del suddetto poema, ed anche di far da avvocato nelle
cause. Entrò in questo medesimo concerto anche _Plauzio Laterano_,
console disegnato, per l'amore che portava al pubblico. Molti altri, o
senatori, o cavalieri, o pretoriani, ed alcune dame ancora, chi per
odio e vendetta privata, e chi per liberar l'imperio da questo mostro,
tennero mano al trattato. Proposero alcuni di ammazzarlo, mentre
cantava in teatro, o pur di notte, quando usciva senza guardie per la
città. Altri giudicavano meglio di aspettare a far il colpo a
Pozzuolo, a Miseno o a Baja, avendo a tal fine guadagnato uno de'
principali uffiziali dell'armata navale. In fine fu stabilito di
ucciderlo nel dì 12 di aprile, in cui si celebravano i giuochi del
Circo a Cerere. Messo in petto di tanti il segreto, per poca
avvertenza di _Flavio Scevino_ traspirò. Fece egli testamento; diede
la libertà a molti servi; regalò gli altri; preparò fasce per legar
ferite: ed intanto, benchè desse agli amici un bel convito, e facesse
il disinvolto, pure comparve malinconico e pensoso. Milico suo liberto
osservava tutto, e perchè il padrone gli diede da far aguzzare un
pugnale rugginoso, s'avvisò che qualche grande affare fosse in volta.
Sul far del giorno questo infedele, animato dalla speranza di una gran
ricompensa, se n'andò agli orti Serviliani, dove allora soggiornava
Nerone, e tanto tempestò coi portinai, che potè parlare ad Epafrodito
liberto di corte, che l'introdusse all'udienza del padrone. Furono
tosto messe le mani addosso a Scevino, che coraggiosamente si difese,
e rivolse l'accusa contro del suo liberto. Ma perchè si seppe, avere
nel dì innanzi Scevino tenuto un segreto e lungo ragionamento con
Antonio Natale, ancor questo fu condotto dai soldati. Esaminati a
parte, si trovarono discordi, e poi alla vista de' tormenti
confessarono il disegno; e rivelarono i complici. Allo intendere si
numerosa frotta di congiurati, saltò tal paura addosso a Nerone, che
mise guardie dappertutto, e nè pur si teneva sicuro in qualunque luogo
ch'egli si trovasse.
Vien qui Tacito annoverando tutti i congiurati, e il loro fine. Molti
furono gli uccisi, e fra gli altri _Caio Pisone_, capo della congiura,
e _Lucano_ poeta; altri, con darsi la morte da sè stessi, prevennero
il carnefice; ed alcuni ancora la scamparono colla pena dell'esilio.
Fra gli altri denunziati v'entrò anche _Lucio Anneo Seneca_, insigne
maestro della stoica filosofia; ma che, se si avesse a credere a
Dione[383], macchiato fu di nefandi vizii d'avarizia di disonestà e di
adulazione. Di lui parla con istima maggiore Tacito, scrittore
alquanto più vicino a questi tempi. Consisteva tutto il suo reato
nell'essere stato a visitarlo nel suo ritiro _Antonio Natale_, e a
lamentarsi perchè non volesse ammettere _Pisone_ in sua casa, e
trattare con lui. Al che avea risposto Seneca, _non essere bene che
favellassero insieme; del resto dipendere la di lui salute da quella
di Pisone._ Trovavasi Seneca nella sua villa, quattro miglia lungi di
Roma, e mentre era a tavola con due amici, e con _Pompea Paolina_ sua
moglie cara, arrivò Silvano tribuno d'una coorte pretoriana ad
interrogarlo intorno alla suddetta accusa. Rispose con forti ragioni,
nulla mostrò di paura, e parlò senza punto turbarsi in volto. Portata
la risposta a Nerone, dimandò, il crudele, se Seneca pensava a levarsi
colle proprie mani la vita. Disse Silvano di non averne osservato
alcun segno. _Farà bene_, replicò allora Nerone, ed ordinò di
farglielo sapere. Intesa l'atroce intimazione, volle Seneca far
testamento, e gli fu proibito. Quindi scelto di morire collo svenarsi,
coraggiosamente si tagliò le vene, ed entrò nel bagno per accelerare
l'uscita del sangue. Dopo aver lasciati alcuni bei documenti agli
amici, morì. Anche la moglie _Paolina_ volle accompagnarlo collo
stesso genere di morte, e si svenò, ma per ordine di Nerone fu per
forza trattenuta in vita, ed alcuni pochi anni visse dipoi, ma pallida
sempre in volto. Le straordinarie ricchezze di Seneca si potrebbe
credere gl'inimicassero l'ingordo Nerone, se non che scrive Dione
ch'egli le avea dianzi cedute a lui, per impiegarle nelle sue
fabbriche. Ancorchè il console _Vestinio_ non fosse a parte della
congiura, pure si valse Nerone di questa occasione per levarlo di
vita, e lo stesso fece d'altri ch'egli mirava di mal occhio.
Andò poscia Nerone in senato, per informar quei padri del pericolo
fuggito e dei delinquenti[384]; e però furono decretati ringraziamenti
e doni agli dii, perchè avessero salvato un sì degno principe; ed egli
consecrò a Giove vendicatore nel Campidoglio il suo pugnale. Capitò in
questi tempi a Roma _Cesellio Basso_, di nascita Africano, uomo
visionario, che ammesso all'udienza di Nerone, gli narrò come cosa
certa, che nel territorio di Cartagine in una vasta spelonca stava
nascosa una massa immensa d'oro non coniato, quivi riposta o dalla
regina Didone, o da alcuno degli antichi re di Numidia. Vi saltò
dentro a piè pari l'avido Nerone, senza esaminar meglio l'affare,
senza prendere alcuna informazione, e subito fu spedita una grossa
nave, scelta come capace di sì sfoggiato tesoro, con varie galee di
scorta. Nè d'altro si parlava allora che di questo mirabil guadagno
fra il popolo. Per la speranza di un sì ricco aiuto di costa,
maggiormente s'impoverì il pazzo imperadore, perchè si fece animo in
ispendere e spandere in pubblici spettacoli e in profusion di regali.
Ma con tutto il gran cavamento fatto dal suddetto Basso, nè pure un
soldo si trovò; e però deluso il misero, altro scampo non ebbe per
sottrarsi alle pubbliche beffe, che di togliere colle sue mani a sè
stesso la vita. Ma se mancò a Nerone questa pioggia d'oro, si acquistò
egli almeno un'incomparabil gloria in quest'anno, coll'aver fatta una
pubblica comparsa nella scena del teatro, dove recitò alcuni suoi
versi. Fattagli istanza dal popolazzo di metter fuori la sua abilità
anche in altri studii, saltò fuori colla cetra in concorrenza d'altri
sonatori, e fece udir delle belle sonate. Strepitosi furono i viva del
popolo, la maggior parte per dileggiarlo, mentre i buoni si torcevano
tutti al mirar sì fatto obbrobrio della maestà imperiale. E guai a
que' nobili che non vi intervennero: erano tutti messi in nota. Fu in
pericolo della vita _Vespasiano_ (poscia imperadore), perchè osservato
dormire in occasione di tanta importanza. Conseguita la corona, passò
Nerone, secondo Svetonio e Dione[385], a far correre, stando in
carrozza, i cavalli. Ito poscia a casa[386], tutto contento di sì gran
plauso, trovò la sola _Poppea_ Augusta sua moglie, che gli disse
qualche disgustosa parola. Benchè l'amasse a dismisura, pure le
insegnò a tacere con un calcio nella pancia. Essa era gravida, e di
questo colpo morì. Donna sì delicata e vana, che tutto dì era davanti
allo specchio per abbellirsi; voleva le redini d'oro alle mule della
sua carrozza; e teneva cinquecento asine al suo servigio, per lavarsi
ogni dì in un bagno formato del loro latte. S'augurava anche piuttosto
la morte, che di arrivare ad esser vecchia, e a perdere la bellezza.
Opinione è d'insigni letterati[387] che nel dì 29 di giugno del
presente anno, per comandamento di Nerone, fosse crocifisso in Roma il
principe degli Apostoli _san Pietro_, e che nel medesimo giorno ed
anno venisse anche decollato l'Apostolo de' Gentili _san Paolo._
Certissima è la loro gloriosa morte e martirio in Roma; ma non sembra
egualmente certo il tempo; intorno a che potrà il lettore consultare
chi ha maneggiato _ex professo_ cotali materie. Nel pontificato romano
a lui succedette _s. Lino._ Dopo la morte di Poppea, Nerone, perchè
_Antonia_ figlia di Claudio Augusto, e sorella di _Ottavia_ sua prima
moglie, non volle consentir alle sue nozze, trovò de' pretesti per
farla morire. Quindi sposò _Statilia Messalina_, vedova di _Vestinio
Attico_ console, a cui egli avea dianzi tolta la vita. Certe altre sue
bestialità, raccontate da Dione, non si possono raccontar da me. E
Tacito aggiunge l'esilio o la morte da lui data ad altri primarii
romani, che mai non gli mancavano ragioni per far del male.
NOTE:
[381] Thesaurus Novus Inscription., pag. 305, num. 4.
[382] Tac., Annal., lib. 15, cap. 48 et seq. Dio, lib. 61. Sueton., in
Nerone, cap. 36.
[383] Dio, lib. 61.
[384] Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 1.
[385] Sueton., in Nerone, cap. 35. Dio, lib. 62.
[386] Tacitus, lib. 16, c. 6.
[387] Baron., in Annal. Blanchinius, ad Anastasium. Pagius, in Critica
Baroniana.
Anno di CRISTO LXVI. Indizione IX.
LINO papa 2.
NERONE CLAUDIO imper. 13.
_Consoli_
CAIO LUCIO TELESINO e CAIO SVETONIO PAOLINO.
Funesto ancora fu l'anno presente a Roma per l'infelice fine di molti
illustri romani, che tutti perirono per la crudeltà di Nerone,
principe giunto a non saziarsi mai di sangue, perchè questo sangue gli
fruttava l'acquisto dei beni de' pretesi rei. Tacito empie molte
carte[388] di sì tristo argomento. Io me ne sbrigherò in poche parole,
per risparmiare la malinconia a chiunque, è per leggere queste carte.
Basterà solo rammentare che _Anneo Mella_, fratello di _Seneca_, e
padre di _Lucano_ poeta, accusato si svenò e terminò presto il
processo. _Caio Petronio_, che ha il prenome di _Tito_ appresso
Plinio, uomo di somma leggiadria, e tutto dato al bel tempo, era
divenuto uno dei più favoriti di Nerone. La gelosia di Tigellino,
prefetto del pretorio, gli tagliò le gambe, e il costrinse a darsi la
morte. Ma prima di darsela, fece credere a Nerone di lasciarlo suo
erede, e gli mandò il suo testamento. In questo non si leggevano se
non le infami impurità ed iniquità di esso Nerone. La descrizione de'
costumi lasciati da Tacito, ha dato motivo ad alcuni di crederlo il
medesimo, che _Petronio Arbitro_, di cui restano i frammenti di un
impurissimo libro. Ma dicendo esso Tacito, che questo Petronio fu
proconsole della Bitinia e console, egli sembra essere stato quel
_Cajo Petronio Turpiliano_, che abbiam veduto console nell'anno 61 di
Cristo, e però diverso da _Petronio Arbitro._ Più di ogni altro venne
onorato dalla compassione di tutti, e compianto il caso di _Peto
Trasea_, e di _Berea Sorano_, amendue senatori e personaggi della
prima nobiltà, perchè non solo abbondavano di ricchezze, ma più di
virtù, di amore del pubblico bene e di costanza per sostenere le
azioni giuste e riprovar le cattive. Per questi lor bei pregi non
potea di meno l'iniquo Nerone di non odiarli, e di non desiderar la
morte loro. Però il fargli accusare, benchè d'insussistenti reati, lo
stesso fu che farli condannare dal senato, avvezzo a non mai
contraddire ai temuti voleri di Nerone. Così restò priva Roma dei due
più riguardevoli senatori, ch'ella avesse in que' tempi, crescendo con
ciò il batticuore a ciascun'altra persona di vaglia, giacchè in tempi
tali l'essere virtuoso era delitto. Non parlo d'altri o condannati o
esiliati da Nerone nell'anno presente, mentovati da Tacito, la cui
storia qui ci torna a venir meno perchè l'argomento è tedioso.
Secondo il concerto fatto con _Corbulone_ governator della Soria,
_Tiridate_ fratello di Vologeso re dei Parti[389], si mosse in
quest'anno per venir a prendere la corona dell'Armenia dalle mani di
Nerone, conducendo seco la moglie, e non solo i figliuoli suoi, ma
quelli ancora di Vologeso, di Pacoro e di Monobazo, e una guardia di
tremila cavalli. L'accompagnava _Annio Viviano_, genero di Corbulone,
con gran copia d'altri Romani. Nerone, che forte si compiaceva di
veder venire a' suoi piedi questo re barbaro, non perdonò a diligenza
ed attenzione alcuna, affinchè egli nel medesimo tempo fosse trattato
da par suo, e comparisse agli occhi di lui la magnificenza
dell'imperio romano. Non volle Tiridate[390] venir per mare, perchè
dato alla magia, peccato riputava lo sputare o il gittar qualche
lordura in mare. Convenne dunque condurlo per terra con sommo aggravio
dei popoli romani; perchè dacchè entrò e si fermò nelle terre
dell'imperio, dappertutto sempre alle spese del pubblico ricevè un
grandioso trattamento (il che costò un immenso tesoro), e tutte le
città per dove passò, magnificamente ornate, l'accolsero con grandi
acclamazioni. Marciava Tiridate in tutto il viaggio a cavallo, con la
moglie accanto, coperta sempre con una celata d'oro per non essere
veduta, secondo il rito de' suoi paesi, che tuttavia con rigore si
osserva. Passato per Bitinia, Tracia ed Illirico, e giunto in Italia,
montò nelle carrozze che gli avea inviato Nerone, e con esse arrivò a
Napoli, dove l'imperadore volle trovarsi a riceverlo. Menato
all'udienza, per quanto dissero i mastri delle cerimonie, non volle
deporre la spada. Solamente si contentò che fosse serrata con chiodi
nella guaina. Per questa renitenza Nerone concepì più stima di lui; e
maggiormente se gli affezionò, allorchè sel vide davanti con un
ginocchio piegato a terra, e colle mani alzate al cielo sentì darsi il
titolo di _Signore_. Dopo avergli Nerone fatto godere in Pozzuolo un
divertimento con caccia di fiere e di tori, il condusse seco a Roma.
Si vide allora quella vastissima città tutta ornata di lumi, di
corone, di tappezzerie, con popolo senza numero accorso anche di
lontano, vestito di vaghe vesti, e coi soldati ben compartiti
coll'armi loro tutte rilucenti. Fu soprattutto mirabile nella mattina
del dì seguente il vedere la gran piazza e i tetti anch'essi coperti
tutti di gente. Miravasi nel mezzo di esse assiso Nerone in veste
trionfale sopra un alto trono, col senato e le guardie intorno. Per
mezzo di quel gran popolo condotti Tiridate e il suo nobil seguito,
s'inginocchiarono davanti a Nerone, ed allora proruppe il popolo in
altissime grida, che fecero paura a Tiridate, e il tennero sospeso per
qualche tempo. Fatto silenzio, parlò a Nerone con umiltà non
aspettata, chiamando se stesso schiavo, e dicendo di essere venuto ad
onorar Nerone come un suo dio, e al pari di Mitra, cioè del sole,
venerato dai Parti. Gli pose dipoi Nerone in capo il diadema,
dichiarandolo re dell'Armenia; e dopo la funzione passarono al teatro,
ch'era tutto messo a oro, per mirare i giuochi. Le tende tirate per
difendere la gente dal sole, furono di porpora, sparse di stelle
d'oro, e in mezzo di esse la figura di Nerone in cocchio, fatta di
ricamo. Succedette un sontuosissimo convito, dopo il quale si vide
quel bestion di Nerone pubblicamente cantare e suonar di cetra: e poi
montato in carretta colla canaglia de' cocchieri, vestito dell'abito
loro, gareggiar nel corso con loro.
Se ne scandalezzò forte Tiridate, e prese maggior concetto di
Corbulone, dacchè sapeva servire e sofferire un padrone sì fatto,
senza valersi dell'armi contra di lui. Anzi non potè contenersi da
toccar ciò in gergo allo stesso Nerone con dirgli: «Signore, voi avete
un ottimo servo in Corbulone;» ma Nerone non penetrò l'intenzion
segreta di queste parole. Fecesi conto, che i regali fatti da esso
Augusto a Tiridate ascendessero a due milioni. Ottenne egli ancora di
poter fortificar Artasata, e a questo fine menò da Roma gran quantità
di artefici, con dar poi a quella città il nome di Neronia. Da
Brindisi fu condotto a Durazzo, e passando per le grandi e ricche
città dell'Asia ebbe sempre più occasion di vedere la magnificenza e
possanza dell'imperio romano. Ma non ancor sazia la vanità di Nerone
per questa funzione che costò tanti milioni al popolo romano, avrebbe
pur voluto, che _Vologeso re de' Parti_ fosse venuto anch'egli a
visitarlo, e l'importunò su questo. Altra risposta non gli diede
Vologeso, se non che era più facile a Nerone passare il Mediterraneo:
il che facendo, avrebbono trattato di un abboccamento. Per questo
rifiuto a Nerone saltò in capo di fargli guerra; ma durarono poco
questi grilli, perchè egli pensò ad una maniera più facile di
acquistarsi gloria: del che parleremo all'anno seguente. Nacque[391]
bensì nell'anno presente la guerra in Giudea, essendosi rivoltato quel
popolo per le strane avanie de' Romani, mentre _Cestio Gallo_ era
governator della Siria, il quale durò fatica a salvarsi dalle loro
mani in una battaglia. Fu obbligato Nerone ad inviar un buon rinforzo
di gente colà, e scelse per comandante di quell'armata _Vespasiano_,
capitano di valore sperimentato. Io so che all'anno seguente è
comunemente riferita la morte di _Corbulone_, ricavandosi ciò da
Dione. Ma al trovar noi, per attestato di Giuseppe Storico, allora
vivente, il suddetto Cestio Gallo al governo della Siria, senzachè
parli punto di Corbulone, può dubitarsi che la morte di questo
eccellente uomo succedesse nell'anno presente. E per valore e per amor
della giustizia non era inferiore Corbulone ad alcuno de' più rinomati
antichi Romani. Nerone presso il quale passava per delitto l'essere
nobile, virtuoso e ricco, non potè lasciarlo più lungamente in vita.
Coll'apparenza di volerlo promuovere a maggiori onori, il richiamò
dalla Siria, ed allorchè fu arrivato a Cencre, vicino a Corinto, gli
mandò ad intimar la morte. Se la diede egli colle proprie mani, tardi
pentito di tanta sua fedeltà ad un principe sì indegno, e di essere
venuto disarmato a trovarlo. Perchè a noi qui manca la Storia di
Tacito, la cronologia non va con piede sicuro.
NOTE:
[388] Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 14 et seq.
[389] Dio, lib. 63.
[390] Plinius, lib. 30, cap. 2.
[391] Joseph., de Bello Judaico, lib. 2, cap. 40.
Anno di CRISTO LXVII. Indizione X.
CLEMENTE papa 1.
NERONE CLAUDIO imper. 14.
_Consoli_
LUCIO FONTEJO CAPITONE e CAJO GIULIO RUFO.
Seguendo le congetture di vari letterati, a _s. Lino papa_, che
martire della Fede finì di vivere in quest'anno, succedette
_Clemente_, personaggio che illustrò dipoi non poco la Chiesa di Dio.
Ho riserbato io a parlar qui del viaggio fatto da Nerone in Grecia,
benchè cominciato nell'anno precedente, per unir insieme tutte le
scene di quella testa sventata. La natura, in mettere lui al mondo,
intese di fare un uomo di vilissima condizione, un sonator di cetra,
un vetturino, un beccaio, un gladiatore, un buffone. La fortuna deluse
le intenzioni della natura, con portare costui al trono imperiale; ma
sul trono ancora si vide poi prevalere l'inclinazion naturale[392].
Invanito egli delle tante adulatorie acclamazioni che venivano fatte
in Roma alla soavità della sua voce, alla sua maestria nel suono e
bravura nel maneggiar i cavalli stando in carretta: s'invogliò di
riscuotere un egual plauso dalle città della Grecia, le quali
portavano anche allora il vanto di fare i più magnifici e rinomati
giuochi della terra. Perciò si mosse da Roma a quella volta con un
esercito di gente, armata non già di lance e scudi, ma di cetre, di
maschere e di abiti da commedia e tragedia. Con questa corte degna di
un tal imperadore, comparve egli in quelle parti, astenendosi
nondimeno dal visitare Atene e Sparta per alcuni suoi particolari
riguardi. Fece nell'altre città in mezzo ai pubblici teatri,
anfiteatri e circhi, da commediante, da sonatore, da musico, da
guidator di carrette abbigliato, ora da servo, ora da donna, ed anche
da donna partoriente, da Ercole, da Edipo e da altri simili
personaggi. Le corone destinate per chi vinceva ne' suddetti giuochi,
tutte senza fallo toccavano a lui. Dicono che ne riportasse più di
mille ottocento. Sì gli erano care, che arrivando ambasciatori delle
città, per offerirgli i premii delle sue vittorie, questi erano i
primi alla sua udienza, questi tenuti alla sua stessa tavola. Pregato
da essi talvolta di cantar e sonare dopo il desinare, o dopo la cena,
senza lasciarsi molto importunare, dava di mano alla chitarra, e gli
esaudiva. Si mostrava ognuno incantato dalla sua divina voce: egli era
il dio della musica, egli un nuovo Apollo; laonde ebbe a dire, non
esservi nazione, che meglio della greca sapesse ascoltando giudicar
del merito delle persone, e di aver trovato essi soli degni di sè e
de' suoi studi. Le viltà, le oscenità commesse da Nerone in tal
occasione furono infinite; immensi i regali e le spese. Ma nello
stesso tempo, per supplire ai bisogni della borsa, impoverì i popoli
della Grecia, saccheggiò quei lor templi, a' quali non per anche avea
steso le griffe; confiscò i beni di assaissime persone, condannate a
diritto e a rovescio. Mandò anche a Roma e per l'Italia Elio, liberto
di Claudio, con podestà senza limite, per confiscare, esiliare ed
uccidere fino i senatori; e costui il seppe servire di tutto punto,
facendo da imperadore, senza essersi potuto conchiudere, chi fosse
peggiore, o egli o Nerone stesso.
Volle questo forsennato imperadore, che i giuochi olimpici d'Elide,
benchè si dovessero far prima, si differissero sino al suo arrivo in
Grecia, per poterne riportare il premio. Colla sua carretta anch'egli
entrò nel circo, ma cadutone ebbe ad accopparsi, e più giorni per tal
disgrazia stette in letto. Con tutto ciò il premio a lui fu assegnato.
Passava male per chi a lui non volea cedere[393]. Nei giuochi istmici
un tragico, miglior musico che politico, perchè non ebbe l'avvertenza
di desistere dal canto, per lasciar comparire quel di Nerone, che
dovea certamente essere più mirabile del suo, fu strangolato sul
teatro in faccia di tutta la Grecia. Vennegli poi in pensiero di far
un'opera stabile per cui s'immortalasse il suo nome: e fu quella di
tagliare lo stretto di Corinto, per unire i due mari Ionio ed
Egeo[394]: disegno concepito anche da Giulio Cesare e da molti altri;
ma per le molte difficoltà non mai eseguito. Nulla parea difficile
alla gran testa di Nerone. Fu egli nel destinato giorno il primo a
rompere la terra con un piccone d'oro, e a portar la terra in una
cesta, per animare gli altri all'impresa: il che fatto, si ritirò a
Corinto, tenendosi per più glorioso di Ercole a cagione di così gran
prodezza. Furono a quel lavoro impiegati i soldati, i condannati e
gran copia d'altra gente: e Vespasiano[395] gl'inviò apposta seimila
Giudei fatti prigioni. Non più di cinque miglia di terra è lo stretto
di Corinto; eppure con tante mani in due mesi e mezzo di lavoro non si
arrivò a cavar neppure un miglio di quel tratto. Non si andò poi più
innanzi, perchè affari premurosi richiamarono Nerone a Roma. Elio
liberto, mandato da lui con plenipotenza di far del male in Italia,
l'andava con frequenti lettere spronando a ritornarsene, inculcando la
necessità della sua presenza in queste parti. Ma Nerone, perduto in un
paese dove giorno non passava che non mietesse nuove palme, non
trovava la via di lasciar quel cielo sì caro: quand'ecco giugnere in
persona Elio stesso, venuto per le poste, che gli mise in corpo un
fastidioso sciroppo, avvertendolo che si tramava in Roma una
formidabil congiura contro di lui. Allora sì, che s'imbarcò, dopo
essersi quasi un anno intero fermato in Grecia, alla quale accordò il
governarsi coi propri magistrati, e l'esenzione da tutte le imposte; e
venne alla volta d'Italia. Sorpreso fu per viaggio da una tempesta,
per cui perdè i suoi tesori, laonde speranza insorse fra molti, che
anch'egli in quel furore del mare avesse a perire. Sano e salvo egli
compiè la navigazione, ma non già chi avea mostrata speranza o
desiderio di vederlo annegato, perchè ne pagò la pena col suo sangue.
Come trionfante entrò in Roma sullo stesso cocchio trionfale
d'Augusto, su cui veniva anche Diodoro citarista suo favorito,
corteggiato dai soldati, cavalieri e senatori. Era addobbata ed
illuminata tutta la città, incessanti le acclamazioni dettate
dall'adulazione: «Viva Nerone Ercole, Nerone Apollo, Nerone, vincitor
di tutti i giuochi. Beato chi può ascoltar la tua voce!» A questo
segno era ridotta la maestà del popolo romano. Mentre succedeano
queste vergognose commedie in Grecia e in Italia, avea dato principio
_Flavio Vespasiano_[396] alla guerra contro i sollevati Giudei. Già il
vedemmo inviato colà per generale da Nerone. La prima sua impresa fu
l'assedio di Jotapat, luogo fortissimo per la sua situazione. Vi spese
intorno quarantasette giorni, e costò la vita di molti de' suoi; ma
de' Giudei vi perirono circa quarantamila persone, e fra gli altri vi
restò prigione lo stesso _Giuseppe_, storico insigne della nazion
giudaica, il quale comandava a quelle milizie. Perchè predisse a
Vespasiano l'imperio, fu ben trattato. Di molte altre città e luoghi
della Galilea s'impadronì Vespasiano, e _Tito_ suo figliuolo riportò
qualche vittoria in vari combattimenti, con istrage di gran quantità
di Giudei.
NOTE:
[392] Dio, lib. 63. Sueton., in Nerone, cap. 22
[393] Lucian., in Nerone.
[394] Dio, lib. 63. Suetonius, in Nerone, c. 19.
[395] Joseph., de Bello Judaico, lib. 3
[396] Joseph., de Bello Judaico, lib. 3
Anno di CRISTO LXVIII. Indizione XI.
CLEMENTE papa 2.
NERONE CLAUDIO imper. 15.
SERVIO SULPICIO GALBA imper. 1.
_Consoli_
CAIO SILIO ITALICO e MARCO GALERIO TRACALO.
Il console _Silio Italico_ quel medesimo è che fu poeta, e lasciò dopo
di sè un poema pervenuto sino ai dì nostri. S'era egli meritata la
grazia di Nerone, e nello stesso tempo l'odio pubblico, col brutto
mestiere d'accusare e far condannare varie persone. Consisteva la
riputazion di _Tracalo_ nell'essere uomo di singolar eloquenza,
trattando le cause giudiciali. Non durò il loro consolato più del mese
d'aprile, a cagion delle rivoluzioni insorte, che liberarono
finalmente l'imperio romano da un imperador buffone, mostro insieme di
crudeltà[397]. Ne' primi mesi dell'anno presente _Caio Giulio
Vindice_, vicepretore e governator della Gallia Celtica, il primo fu
ad alzar bandiera contro di Nerone, col muovere a ribellione que'
popoli: al che non trovò difficoltà, sentendosi essi troppo aggravati
dalle estorsioni e tirannie del furioso imperadore, vivamente ancora
ricordate loro da Vindice in questa occasione. Non teneva egli al suo
comando legione alcuna, ma avea ben molto coraggio, e in breve tempo
mise in armi circa centomila persone di que' paesi. Con tutto ciò le
mire sue non erano già rivolte a farsi imperadore; anzi egli scrisse
tosto a _Servio Sulpicio Galba_, governatore della Spagna
Taraconense[398], e personaggio di gran credito per la sua saviezza,
giustizia e valore, esortandolo ad accettar l'imperio, con
promettergli anche la sua ubbidienza. Perciò circa il principio di
aprile, Galba, raunata una legione ch'egli avea in quella provincia,
con alquante squadre di cavalleria, ed esposte la crudeltà e pazzie di
Nerone, si vide proclamato imperadore da ognuno. Egli nondimeno prese
il titolo solamente di legato o sia di luogotenente della repubblica.
Dopo di che si diede a far leva di gente, e a formare una specie di
senato. Parve un felice augurio e preludio, l'essere arrivata in quel
punto a Tortosa in Catalogna una nave d'Alessandria carica di armi,
senzachè persona vivente vi fosse sopra. In questi tempi soggiornava
l'impazzito Nerone tutto dedito ai suoi vergognosi divertimenti in
Napoli quando nel giorno anniversario, in cui avea uccisa la madre,
cioè nel di 21 di marzo, gli arrivarono le nuove della ribellion della
Gallia e dell'attentato di Vindice. Parve che non se ne mettesse gran
pensiero e piuttosto ne mostrasse allegria, sulla speranza che il
gastigo di quelle ricche provincie gli frutterebbe degl'immensi
tesori. Seguitò dunque i suoi spassi, e per otto giorni non mandò nè
lettere nè ordini, quasichè volesse coprir col silenzio l'affare. Ma
sopraggiunta copia degli editti pubblicati da Vindice nella Gallia,
pieni d'ingiurie contra di lui, allora si risentì. Quel che più gli
trafisse il cuore, fu il vedere, che Vindice invece di Nerone il
nominava col suo primo cognome _Enobarbo_,[399] e diede poi nelle
fosse il primo ad intavolar la congiura, non si sa. Certo è bensì che
_Subrio_, o sia _Subio Flavio_, tribuno di una compagnia delle
guardie, e _Mario Anneo Lucano_ nipote di Seneca, e celebre autore del
poema della Farsalia, furono de' primi ad entrarvi, e de' più disposti
ad eseguirla. Per una giovanil vanità Lucano (era nato nell'anno 39
dell'Era nostra) non potea digerire che Nerone, per invidia, e pazza
credenza di saperne più di lui in poesia, gli avesse proibita la
pubblicazione del suddetto poema, ed anche di far da avvocato nelle
cause. Entrò in questo medesimo concerto anche _Plauzio Laterano_,
console disegnato, per l'amore che portava al pubblico. Molti altri, o
senatori, o cavalieri, o pretoriani, ed alcune dame ancora, chi per
odio e vendetta privata, e chi per liberar l'imperio da questo mostro,
tennero mano al trattato. Proposero alcuni di ammazzarlo, mentre
cantava in teatro, o pur di notte, quando usciva senza guardie per la
città. Altri giudicavano meglio di aspettare a far il colpo a
Pozzuolo, a Miseno o a Baja, avendo a tal fine guadagnato uno de'
principali uffiziali dell'armata navale. In fine fu stabilito di
ucciderlo nel dì 12 di aprile, in cui si celebravano i giuochi del
Circo a Cerere. Messo in petto di tanti il segreto, per poca
avvertenza di _Flavio Scevino_ traspirò. Fece egli testamento; diede
la libertà a molti servi; regalò gli altri; preparò fasce per legar
ferite: ed intanto, benchè desse agli amici un bel convito, e facesse
il disinvolto, pure comparve malinconico e pensoso. Milico suo liberto
osservava tutto, e perchè il padrone gli diede da far aguzzare un
pugnale rugginoso, s'avvisò che qualche grande affare fosse in volta.
Sul far del giorno questo infedele, animato dalla speranza di una gran
ricompensa, se n'andò agli orti Serviliani, dove allora soggiornava
Nerone, e tanto tempestò coi portinai, che potè parlare ad Epafrodito
liberto di corte, che l'introdusse all'udienza del padrone. Furono
tosto messe le mani addosso a Scevino, che coraggiosamente si difese,
e rivolse l'accusa contro del suo liberto. Ma perchè si seppe, avere
nel dì innanzi Scevino tenuto un segreto e lungo ragionamento con
Antonio Natale, ancor questo fu condotto dai soldati. Esaminati a
parte, si trovarono discordi, e poi alla vista de' tormenti
confessarono il disegno; e rivelarono i complici. Allo intendere si
numerosa frotta di congiurati, saltò tal paura addosso a Nerone, che
mise guardie dappertutto, e nè pur si teneva sicuro in qualunque luogo
ch'egli si trovasse.
Vien qui Tacito annoverando tutti i congiurati, e il loro fine. Molti
furono gli uccisi, e fra gli altri _Caio Pisone_, capo della congiura,
e _Lucano_ poeta; altri, con darsi la morte da sè stessi, prevennero
il carnefice; ed alcuni ancora la scamparono colla pena dell'esilio.
Fra gli altri denunziati v'entrò anche _Lucio Anneo Seneca_, insigne
maestro della stoica filosofia; ma che, se si avesse a credere a
Dione[383], macchiato fu di nefandi vizii d'avarizia di disonestà e di
adulazione. Di lui parla con istima maggiore Tacito, scrittore
alquanto più vicino a questi tempi. Consisteva tutto il suo reato
nell'essere stato a visitarlo nel suo ritiro _Antonio Natale_, e a
lamentarsi perchè non volesse ammettere _Pisone_ in sua casa, e
trattare con lui. Al che avea risposto Seneca, _non essere bene che
favellassero insieme; del resto dipendere la di lui salute da quella
di Pisone._ Trovavasi Seneca nella sua villa, quattro miglia lungi di
Roma, e mentre era a tavola con due amici, e con _Pompea Paolina_ sua
moglie cara, arrivò Silvano tribuno d'una coorte pretoriana ad
interrogarlo intorno alla suddetta accusa. Rispose con forti ragioni,
nulla mostrò di paura, e parlò senza punto turbarsi in volto. Portata
la risposta a Nerone, dimandò, il crudele, se Seneca pensava a levarsi
colle proprie mani la vita. Disse Silvano di non averne osservato
alcun segno. _Farà bene_, replicò allora Nerone, ed ordinò di
farglielo sapere. Intesa l'atroce intimazione, volle Seneca far
testamento, e gli fu proibito. Quindi scelto di morire collo svenarsi,
coraggiosamente si tagliò le vene, ed entrò nel bagno per accelerare
l'uscita del sangue. Dopo aver lasciati alcuni bei documenti agli
amici, morì. Anche la moglie _Paolina_ volle accompagnarlo collo
stesso genere di morte, e si svenò, ma per ordine di Nerone fu per
forza trattenuta in vita, ed alcuni pochi anni visse dipoi, ma pallida
sempre in volto. Le straordinarie ricchezze di Seneca si potrebbe
credere gl'inimicassero l'ingordo Nerone, se non che scrive Dione
ch'egli le avea dianzi cedute a lui, per impiegarle nelle sue
fabbriche. Ancorchè il console _Vestinio_ non fosse a parte della
congiura, pure si valse Nerone di questa occasione per levarlo di
vita, e lo stesso fece d'altri ch'egli mirava di mal occhio.
Andò poscia Nerone in senato, per informar quei padri del pericolo
fuggito e dei delinquenti[384]; e però furono decretati ringraziamenti
e doni agli dii, perchè avessero salvato un sì degno principe; ed egli
consecrò a Giove vendicatore nel Campidoglio il suo pugnale. Capitò in
questi tempi a Roma _Cesellio Basso_, di nascita Africano, uomo
visionario, che ammesso all'udienza di Nerone, gli narrò come cosa
certa, che nel territorio di Cartagine in una vasta spelonca stava
nascosa una massa immensa d'oro non coniato, quivi riposta o dalla
regina Didone, o da alcuno degli antichi re di Numidia. Vi saltò
dentro a piè pari l'avido Nerone, senza esaminar meglio l'affare,
senza prendere alcuna informazione, e subito fu spedita una grossa
nave, scelta come capace di sì sfoggiato tesoro, con varie galee di
scorta. Nè d'altro si parlava allora che di questo mirabil guadagno
fra il popolo. Per la speranza di un sì ricco aiuto di costa,
maggiormente s'impoverì il pazzo imperadore, perchè si fece animo in
ispendere e spandere in pubblici spettacoli e in profusion di regali.
Ma con tutto il gran cavamento fatto dal suddetto Basso, nè pure un
soldo si trovò; e però deluso il misero, altro scampo non ebbe per
sottrarsi alle pubbliche beffe, che di togliere colle sue mani a sè
stesso la vita. Ma se mancò a Nerone questa pioggia d'oro, si acquistò
egli almeno un'incomparabil gloria in quest'anno, coll'aver fatta una
pubblica comparsa nella scena del teatro, dove recitò alcuni suoi
versi. Fattagli istanza dal popolazzo di metter fuori la sua abilità
anche in altri studii, saltò fuori colla cetra in concorrenza d'altri
sonatori, e fece udir delle belle sonate. Strepitosi furono i viva del
popolo, la maggior parte per dileggiarlo, mentre i buoni si torcevano
tutti al mirar sì fatto obbrobrio della maestà imperiale. E guai a
que' nobili che non vi intervennero: erano tutti messi in nota. Fu in
pericolo della vita _Vespasiano_ (poscia imperadore), perchè osservato
dormire in occasione di tanta importanza. Conseguita la corona, passò
Nerone, secondo Svetonio e Dione[385], a far correre, stando in
carrozza, i cavalli. Ito poscia a casa[386], tutto contento di sì gran
plauso, trovò la sola _Poppea_ Augusta sua moglie, che gli disse
qualche disgustosa parola. Benchè l'amasse a dismisura, pure le
insegnò a tacere con un calcio nella pancia. Essa era gravida, e di
questo colpo morì. Donna sì delicata e vana, che tutto dì era davanti
allo specchio per abbellirsi; voleva le redini d'oro alle mule della
sua carrozza; e teneva cinquecento asine al suo servigio, per lavarsi
ogni dì in un bagno formato del loro latte. S'augurava anche piuttosto
la morte, che di arrivare ad esser vecchia, e a perdere la bellezza.
Opinione è d'insigni letterati[387] che nel dì 29 di giugno del
presente anno, per comandamento di Nerone, fosse crocifisso in Roma il
principe degli Apostoli _san Pietro_, e che nel medesimo giorno ed
anno venisse anche decollato l'Apostolo de' Gentili _san Paolo._
Certissima è la loro gloriosa morte e martirio in Roma; ma non sembra
egualmente certo il tempo; intorno a che potrà il lettore consultare
chi ha maneggiato _ex professo_ cotali materie. Nel pontificato romano
a lui succedette _s. Lino._ Dopo la morte di Poppea, Nerone, perchè
_Antonia_ figlia di Claudio Augusto, e sorella di _Ottavia_ sua prima
moglie, non volle consentir alle sue nozze, trovò de' pretesti per
farla morire. Quindi sposò _Statilia Messalina_, vedova di _Vestinio
Attico_ console, a cui egli avea dianzi tolta la vita. Certe altre sue
bestialità, raccontate da Dione, non si possono raccontar da me. E
Tacito aggiunge l'esilio o la morte da lui data ad altri primarii
romani, che mai non gli mancavano ragioni per far del male.
NOTE:
[381] Thesaurus Novus Inscription., pag. 305, num. 4.
[382] Tac., Annal., lib. 15, cap. 48 et seq. Dio, lib. 61. Sueton., in
Nerone, cap. 36.
[383] Dio, lib. 61.
[384] Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 1.
[385] Sueton., in Nerone, cap. 35. Dio, lib. 62.
[386] Tacitus, lib. 16, c. 6.
[387] Baron., in Annal. Blanchinius, ad Anastasium. Pagius, in Critica
Baroniana.
Anno di CRISTO LXVI. Indizione IX.
LINO papa 2.
NERONE CLAUDIO imper. 13.
_Consoli_
CAIO LUCIO TELESINO e CAIO SVETONIO PAOLINO.
Funesto ancora fu l'anno presente a Roma per l'infelice fine di molti
illustri romani, che tutti perirono per la crudeltà di Nerone,
principe giunto a non saziarsi mai di sangue, perchè questo sangue gli
fruttava l'acquisto dei beni de' pretesi rei. Tacito empie molte
carte[388] di sì tristo argomento. Io me ne sbrigherò in poche parole,
per risparmiare la malinconia a chiunque, è per leggere queste carte.
Basterà solo rammentare che _Anneo Mella_, fratello di _Seneca_, e
padre di _Lucano_ poeta, accusato si svenò e terminò presto il
processo. _Caio Petronio_, che ha il prenome di _Tito_ appresso
Plinio, uomo di somma leggiadria, e tutto dato al bel tempo, era
divenuto uno dei più favoriti di Nerone. La gelosia di Tigellino,
prefetto del pretorio, gli tagliò le gambe, e il costrinse a darsi la
morte. Ma prima di darsela, fece credere a Nerone di lasciarlo suo
erede, e gli mandò il suo testamento. In questo non si leggevano se
non le infami impurità ed iniquità di esso Nerone. La descrizione de'
costumi lasciati da Tacito, ha dato motivo ad alcuni di crederlo il
medesimo, che _Petronio Arbitro_, di cui restano i frammenti di un
impurissimo libro. Ma dicendo esso Tacito, che questo Petronio fu
proconsole della Bitinia e console, egli sembra essere stato quel
_Cajo Petronio Turpiliano_, che abbiam veduto console nell'anno 61 di
Cristo, e però diverso da _Petronio Arbitro._ Più di ogni altro venne
onorato dalla compassione di tutti, e compianto il caso di _Peto
Trasea_, e di _Berea Sorano_, amendue senatori e personaggi della
prima nobiltà, perchè non solo abbondavano di ricchezze, ma più di
virtù, di amore del pubblico bene e di costanza per sostenere le
azioni giuste e riprovar le cattive. Per questi lor bei pregi non
potea di meno l'iniquo Nerone di non odiarli, e di non desiderar la
morte loro. Però il fargli accusare, benchè d'insussistenti reati, lo
stesso fu che farli condannare dal senato, avvezzo a non mai
contraddire ai temuti voleri di Nerone. Così restò priva Roma dei due
più riguardevoli senatori, ch'ella avesse in que' tempi, crescendo con
ciò il batticuore a ciascun'altra persona di vaglia, giacchè in tempi
tali l'essere virtuoso era delitto. Non parlo d'altri o condannati o
esiliati da Nerone nell'anno presente, mentovati da Tacito, la cui
storia qui ci torna a venir meno perchè l'argomento è tedioso.
Secondo il concerto fatto con _Corbulone_ governator della Soria,
_Tiridate_ fratello di Vologeso re dei Parti[389], si mosse in
quest'anno per venir a prendere la corona dell'Armenia dalle mani di
Nerone, conducendo seco la moglie, e non solo i figliuoli suoi, ma
quelli ancora di Vologeso, di Pacoro e di Monobazo, e una guardia di
tremila cavalli. L'accompagnava _Annio Viviano_, genero di Corbulone,
con gran copia d'altri Romani. Nerone, che forte si compiaceva di
veder venire a' suoi piedi questo re barbaro, non perdonò a diligenza
ed attenzione alcuna, affinchè egli nel medesimo tempo fosse trattato
da par suo, e comparisse agli occhi di lui la magnificenza
dell'imperio romano. Non volle Tiridate[390] venir per mare, perchè
dato alla magia, peccato riputava lo sputare o il gittar qualche
lordura in mare. Convenne dunque condurlo per terra con sommo aggravio
dei popoli romani; perchè dacchè entrò e si fermò nelle terre
dell'imperio, dappertutto sempre alle spese del pubblico ricevè un
grandioso trattamento (il che costò un immenso tesoro), e tutte le
città per dove passò, magnificamente ornate, l'accolsero con grandi
acclamazioni. Marciava Tiridate in tutto il viaggio a cavallo, con la
moglie accanto, coperta sempre con una celata d'oro per non essere
veduta, secondo il rito de' suoi paesi, che tuttavia con rigore si
osserva. Passato per Bitinia, Tracia ed Illirico, e giunto in Italia,
montò nelle carrozze che gli avea inviato Nerone, e con esse arrivò a
Napoli, dove l'imperadore volle trovarsi a riceverlo. Menato
all'udienza, per quanto dissero i mastri delle cerimonie, non volle
deporre la spada. Solamente si contentò che fosse serrata con chiodi
nella guaina. Per questa renitenza Nerone concepì più stima di lui; e
maggiormente se gli affezionò, allorchè sel vide davanti con un
ginocchio piegato a terra, e colle mani alzate al cielo sentì darsi il
titolo di _Signore_. Dopo avergli Nerone fatto godere in Pozzuolo un
divertimento con caccia di fiere e di tori, il condusse seco a Roma.
Si vide allora quella vastissima città tutta ornata di lumi, di
corone, di tappezzerie, con popolo senza numero accorso anche di
lontano, vestito di vaghe vesti, e coi soldati ben compartiti
coll'armi loro tutte rilucenti. Fu soprattutto mirabile nella mattina
del dì seguente il vedere la gran piazza e i tetti anch'essi coperti
tutti di gente. Miravasi nel mezzo di esse assiso Nerone in veste
trionfale sopra un alto trono, col senato e le guardie intorno. Per
mezzo di quel gran popolo condotti Tiridate e il suo nobil seguito,
s'inginocchiarono davanti a Nerone, ed allora proruppe il popolo in
altissime grida, che fecero paura a Tiridate, e il tennero sospeso per
qualche tempo. Fatto silenzio, parlò a Nerone con umiltà non
aspettata, chiamando se stesso schiavo, e dicendo di essere venuto ad
onorar Nerone come un suo dio, e al pari di Mitra, cioè del sole,
venerato dai Parti. Gli pose dipoi Nerone in capo il diadema,
dichiarandolo re dell'Armenia; e dopo la funzione passarono al teatro,
ch'era tutto messo a oro, per mirare i giuochi. Le tende tirate per
difendere la gente dal sole, furono di porpora, sparse di stelle
d'oro, e in mezzo di esse la figura di Nerone in cocchio, fatta di
ricamo. Succedette un sontuosissimo convito, dopo il quale si vide
quel bestion di Nerone pubblicamente cantare e suonar di cetra: e poi
montato in carretta colla canaglia de' cocchieri, vestito dell'abito
loro, gareggiar nel corso con loro.
Se ne scandalezzò forte Tiridate, e prese maggior concetto di
Corbulone, dacchè sapeva servire e sofferire un padrone sì fatto,
senza valersi dell'armi contra di lui. Anzi non potè contenersi da
toccar ciò in gergo allo stesso Nerone con dirgli: «Signore, voi avete
un ottimo servo in Corbulone;» ma Nerone non penetrò l'intenzion
segreta di queste parole. Fecesi conto, che i regali fatti da esso
Augusto a Tiridate ascendessero a due milioni. Ottenne egli ancora di
poter fortificar Artasata, e a questo fine menò da Roma gran quantità
di artefici, con dar poi a quella città il nome di Neronia. Da
Brindisi fu condotto a Durazzo, e passando per le grandi e ricche
città dell'Asia ebbe sempre più occasion di vedere la magnificenza e
possanza dell'imperio romano. Ma non ancor sazia la vanità di Nerone
per questa funzione che costò tanti milioni al popolo romano, avrebbe
pur voluto, che _Vologeso re de' Parti_ fosse venuto anch'egli a
visitarlo, e l'importunò su questo. Altra risposta non gli diede
Vologeso, se non che era più facile a Nerone passare il Mediterraneo:
il che facendo, avrebbono trattato di un abboccamento. Per questo
rifiuto a Nerone saltò in capo di fargli guerra; ma durarono poco
questi grilli, perchè egli pensò ad una maniera più facile di
acquistarsi gloria: del che parleremo all'anno seguente. Nacque[391]
bensì nell'anno presente la guerra in Giudea, essendosi rivoltato quel
popolo per le strane avanie de' Romani, mentre _Cestio Gallo_ era
governator della Siria, il quale durò fatica a salvarsi dalle loro
mani in una battaglia. Fu obbligato Nerone ad inviar un buon rinforzo
di gente colà, e scelse per comandante di quell'armata _Vespasiano_,
capitano di valore sperimentato. Io so che all'anno seguente è
comunemente riferita la morte di _Corbulone_, ricavandosi ciò da
Dione. Ma al trovar noi, per attestato di Giuseppe Storico, allora
vivente, il suddetto Cestio Gallo al governo della Siria, senzachè
parli punto di Corbulone, può dubitarsi che la morte di questo
eccellente uomo succedesse nell'anno presente. E per valore e per amor
della giustizia non era inferiore Corbulone ad alcuno de' più rinomati
antichi Romani. Nerone presso il quale passava per delitto l'essere
nobile, virtuoso e ricco, non potè lasciarlo più lungamente in vita.
Coll'apparenza di volerlo promuovere a maggiori onori, il richiamò
dalla Siria, ed allorchè fu arrivato a Cencre, vicino a Corinto, gli
mandò ad intimar la morte. Se la diede egli colle proprie mani, tardi
pentito di tanta sua fedeltà ad un principe sì indegno, e di essere
venuto disarmato a trovarlo. Perchè a noi qui manca la Storia di
Tacito, la cronologia non va con piede sicuro.
NOTE:
[388] Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 14 et seq.
[389] Dio, lib. 63.
[390] Plinius, lib. 30, cap. 2.
[391] Joseph., de Bello Judaico, lib. 2, cap. 40.
Anno di CRISTO LXVII. Indizione X.
CLEMENTE papa 1.
NERONE CLAUDIO imper. 14.
_Consoli_
LUCIO FONTEJO CAPITONE e CAJO GIULIO RUFO.
Seguendo le congetture di vari letterati, a _s. Lino papa_, che
martire della Fede finì di vivere in quest'anno, succedette
_Clemente_, personaggio che illustrò dipoi non poco la Chiesa di Dio.
Ho riserbato io a parlar qui del viaggio fatto da Nerone in Grecia,
benchè cominciato nell'anno precedente, per unir insieme tutte le
scene di quella testa sventata. La natura, in mettere lui al mondo,
intese di fare un uomo di vilissima condizione, un sonator di cetra,
un vetturino, un beccaio, un gladiatore, un buffone. La fortuna deluse
le intenzioni della natura, con portare costui al trono imperiale; ma
sul trono ancora si vide poi prevalere l'inclinazion naturale[392].
Invanito egli delle tante adulatorie acclamazioni che venivano fatte
in Roma alla soavità della sua voce, alla sua maestria nel suono e
bravura nel maneggiar i cavalli stando in carretta: s'invogliò di
riscuotere un egual plauso dalle città della Grecia, le quali
portavano anche allora il vanto di fare i più magnifici e rinomati
giuochi della terra. Perciò si mosse da Roma a quella volta con un
esercito di gente, armata non già di lance e scudi, ma di cetre, di
maschere e di abiti da commedia e tragedia. Con questa corte degna di
un tal imperadore, comparve egli in quelle parti, astenendosi
nondimeno dal visitare Atene e Sparta per alcuni suoi particolari
riguardi. Fece nell'altre città in mezzo ai pubblici teatri,
anfiteatri e circhi, da commediante, da sonatore, da musico, da
guidator di carrette abbigliato, ora da servo, ora da donna, ed anche
da donna partoriente, da Ercole, da Edipo e da altri simili
personaggi. Le corone destinate per chi vinceva ne' suddetti giuochi,
tutte senza fallo toccavano a lui. Dicono che ne riportasse più di
mille ottocento. Sì gli erano care, che arrivando ambasciatori delle
città, per offerirgli i premii delle sue vittorie, questi erano i
primi alla sua udienza, questi tenuti alla sua stessa tavola. Pregato
da essi talvolta di cantar e sonare dopo il desinare, o dopo la cena,
senza lasciarsi molto importunare, dava di mano alla chitarra, e gli
esaudiva. Si mostrava ognuno incantato dalla sua divina voce: egli era
il dio della musica, egli un nuovo Apollo; laonde ebbe a dire, non
esservi nazione, che meglio della greca sapesse ascoltando giudicar
del merito delle persone, e di aver trovato essi soli degni di sè e
de' suoi studi. Le viltà, le oscenità commesse da Nerone in tal
occasione furono infinite; immensi i regali e le spese. Ma nello
stesso tempo, per supplire ai bisogni della borsa, impoverì i popoli
della Grecia, saccheggiò quei lor templi, a' quali non per anche avea
steso le griffe; confiscò i beni di assaissime persone, condannate a
diritto e a rovescio. Mandò anche a Roma e per l'Italia Elio, liberto
di Claudio, con podestà senza limite, per confiscare, esiliare ed
uccidere fino i senatori; e costui il seppe servire di tutto punto,
facendo da imperadore, senza essersi potuto conchiudere, chi fosse
peggiore, o egli o Nerone stesso.
Volle questo forsennato imperadore, che i giuochi olimpici d'Elide,
benchè si dovessero far prima, si differissero sino al suo arrivo in
Grecia, per poterne riportare il premio. Colla sua carretta anch'egli
entrò nel circo, ma cadutone ebbe ad accopparsi, e più giorni per tal
disgrazia stette in letto. Con tutto ciò il premio a lui fu assegnato.
Passava male per chi a lui non volea cedere[393]. Nei giuochi istmici
un tragico, miglior musico che politico, perchè non ebbe l'avvertenza
di desistere dal canto, per lasciar comparire quel di Nerone, che
dovea certamente essere più mirabile del suo, fu strangolato sul
teatro in faccia di tutta la Grecia. Vennegli poi in pensiero di far
un'opera stabile per cui s'immortalasse il suo nome: e fu quella di
tagliare lo stretto di Corinto, per unire i due mari Ionio ed
Egeo[394]: disegno concepito anche da Giulio Cesare e da molti altri;
ma per le molte difficoltà non mai eseguito. Nulla parea difficile
alla gran testa di Nerone. Fu egli nel destinato giorno il primo a
rompere la terra con un piccone d'oro, e a portar la terra in una
cesta, per animare gli altri all'impresa: il che fatto, si ritirò a
Corinto, tenendosi per più glorioso di Ercole a cagione di così gran
prodezza. Furono a quel lavoro impiegati i soldati, i condannati e
gran copia d'altra gente: e Vespasiano[395] gl'inviò apposta seimila
Giudei fatti prigioni. Non più di cinque miglia di terra è lo stretto
di Corinto; eppure con tante mani in due mesi e mezzo di lavoro non si
arrivò a cavar neppure un miglio di quel tratto. Non si andò poi più
innanzi, perchè affari premurosi richiamarono Nerone a Roma. Elio
liberto, mandato da lui con plenipotenza di far del male in Italia,
l'andava con frequenti lettere spronando a ritornarsene, inculcando la
necessità della sua presenza in queste parti. Ma Nerone, perduto in un
paese dove giorno non passava che non mietesse nuove palme, non
trovava la via di lasciar quel cielo sì caro: quand'ecco giugnere in
persona Elio stesso, venuto per le poste, che gli mise in corpo un
fastidioso sciroppo, avvertendolo che si tramava in Roma una
formidabil congiura contro di lui. Allora sì, che s'imbarcò, dopo
essersi quasi un anno intero fermato in Grecia, alla quale accordò il
governarsi coi propri magistrati, e l'esenzione da tutte le imposte; e
venne alla volta d'Italia. Sorpreso fu per viaggio da una tempesta,
per cui perdè i suoi tesori, laonde speranza insorse fra molti, che
anch'egli in quel furore del mare avesse a perire. Sano e salvo egli
compiè la navigazione, ma non già chi avea mostrata speranza o
desiderio di vederlo annegato, perchè ne pagò la pena col suo sangue.
Come trionfante entrò in Roma sullo stesso cocchio trionfale
d'Augusto, su cui veniva anche Diodoro citarista suo favorito,
corteggiato dai soldati, cavalieri e senatori. Era addobbata ed
illuminata tutta la città, incessanti le acclamazioni dettate
dall'adulazione: «Viva Nerone Ercole, Nerone Apollo, Nerone, vincitor
di tutti i giuochi. Beato chi può ascoltar la tua voce!» A questo
segno era ridotta la maestà del popolo romano. Mentre succedeano
queste vergognose commedie in Grecia e in Italia, avea dato principio
_Flavio Vespasiano_[396] alla guerra contro i sollevati Giudei. Già il
vedemmo inviato colà per generale da Nerone. La prima sua impresa fu
l'assedio di Jotapat, luogo fortissimo per la sua situazione. Vi spese
intorno quarantasette giorni, e costò la vita di molti de' suoi; ma
de' Giudei vi perirono circa quarantamila persone, e fra gli altri vi
restò prigione lo stesso _Giuseppe_, storico insigne della nazion
giudaica, il quale comandava a quelle milizie. Perchè predisse a
Vespasiano l'imperio, fu ben trattato. Di molte altre città e luoghi
della Galilea s'impadronì Vespasiano, e _Tito_ suo figliuolo riportò
qualche vittoria in vari combattimenti, con istrage di gran quantità
di Giudei.
NOTE:
[392] Dio, lib. 63. Sueton., in Nerone, cap. 22
[393] Lucian., in Nerone.
[394] Dio, lib. 63. Suetonius, in Nerone, c. 19.
[395] Joseph., de Bello Judaico, lib. 3
[396] Joseph., de Bello Judaico, lib. 3
Anno di CRISTO LXVIII. Indizione XI.
CLEMENTE papa 2.
NERONE CLAUDIO imper. 15.
SERVIO SULPICIO GALBA imper. 1.
_Consoli_
CAIO SILIO ITALICO e MARCO GALERIO TRACALO.
Il console _Silio Italico_ quel medesimo è che fu poeta, e lasciò dopo
di sè un poema pervenuto sino ai dì nostri. S'era egli meritata la
grazia di Nerone, e nello stesso tempo l'odio pubblico, col brutto
mestiere d'accusare e far condannare varie persone. Consisteva la
riputazion di _Tracalo_ nell'essere uomo di singolar eloquenza,
trattando le cause giudiciali. Non durò il loro consolato più del mese
d'aprile, a cagion delle rivoluzioni insorte, che liberarono
finalmente l'imperio romano da un imperador buffone, mostro insieme di
crudeltà[397]. Ne' primi mesi dell'anno presente _Caio Giulio
Vindice_, vicepretore e governator della Gallia Celtica, il primo fu
ad alzar bandiera contro di Nerone, col muovere a ribellione que'
popoli: al che non trovò difficoltà, sentendosi essi troppo aggravati
dalle estorsioni e tirannie del furioso imperadore, vivamente ancora
ricordate loro da Vindice in questa occasione. Non teneva egli al suo
comando legione alcuna, ma avea ben molto coraggio, e in breve tempo
mise in armi circa centomila persone di que' paesi. Con tutto ciò le
mire sue non erano già rivolte a farsi imperadore; anzi egli scrisse
tosto a _Servio Sulpicio Galba_, governatore della Spagna
Taraconense[398], e personaggio di gran credito per la sua saviezza,
giustizia e valore, esortandolo ad accettar l'imperio, con
promettergli anche la sua ubbidienza. Perciò circa il principio di
aprile, Galba, raunata una legione ch'egli avea in quella provincia,
con alquante squadre di cavalleria, ed esposte la crudeltà e pazzie di
Nerone, si vide proclamato imperadore da ognuno. Egli nondimeno prese
il titolo solamente di legato o sia di luogotenente della repubblica.
Dopo di che si diede a far leva di gente, e a formare una specie di
senato. Parve un felice augurio e preludio, l'essere arrivata in quel
punto a Tortosa in Catalogna una nave d'Alessandria carica di armi,
senzachè persona vivente vi fosse sopra. In questi tempi soggiornava
l'impazzito Nerone tutto dedito ai suoi vergognosi divertimenti in
Napoli quando nel giorno anniversario, in cui avea uccisa la madre,
cioè nel di 21 di marzo, gli arrivarono le nuove della ribellion della
Gallia e dell'attentato di Vindice. Parve che non se ne mettesse gran
pensiero e piuttosto ne mostrasse allegria, sulla speranza che il
gastigo di quelle ricche provincie gli frutterebbe degl'immensi
tesori. Seguitò dunque i suoi spassi, e per otto giorni non mandò nè
lettere nè ordini, quasichè volesse coprir col silenzio l'affare. Ma
sopraggiunta copia degli editti pubblicati da Vindice nella Gallia,
pieni d'ingiurie contra di lui, allora si risentì. Quel che più gli
trafisse il cuore, fu il vedere, che Vindice invece di Nerone il
nominava col suo primo cognome _Enobarbo_,[399] e diede poi nelle
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