Annali d'Italia, vol. 1 - 17
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tennero mano altri nobili colle lor soscrizioni e sigilli, corse
all'eredità. Convinto di falsario, degradato con gli altri suoi
complici, riportò la pena statuita dalla legge Cornelia. Ucciso fu da
un suo servo, o vogliam dire schiavo, _Pedanio Secondo_, prefetto di
Roma. Ne aveva egli al suo servigio quattrocento, tra maschi e
femmine, grandi e piccoli, essendo soliti i ricchi Romani a tenerne
una prodigiosa quantità al loro servigio. Benchè fossero quasi tutti
innocenti di quel misfatto, doveano morire secondo il rigore delle
antiche leggi; ma fattasi grande adunanza di gente plebea per
difendere quegl'infelici, l'affare fu portato al senato; ed intorno a
ciò si fece lungo dibattimento, con prevalere in fine la sentenza del
supplicio di tutti. Nerone mandò un ordine alla plebe di attendere ai
fatti suoi, e somministrò quanti soldati occorressero per iscortare i
condannati. I mali portamenti degli uffiziali nella Bretagna cagion
furono di far perdere circa questi tempi quasi tutto quel paese che vi
aveano acquistato i Romani; e ciò perchè si volle rimetter ivi il
confisco dei beni de' delinquenti, da cui Claudio gli avea esentati.
Anche _Seneca_, se crediamo a Dione[366], avea dato ad usura un
milione a que' popoli, e con violenza ne esigeva non solo i frutti, ma
anche il capitale. Inoltre, _Boendicia_ o sia _Bunduica_ vedova[367]
di _Prasutago re_ di una parte di quella grand'isola, si protestava
anche essa troppo scontenta delle infinite prepotenze ed insolenze
fatte dai Romani a sè stessa, a due figlie e a tutto il suo popolo.
Questa regina, donna d'animo virile, quella fu che sonò in fine la
tromba col muovere i suoi e i circostanti popoli a sollevarsi contra
degl'indiscreti Romani con prevalersi della buona congiuntura che
_Svetonio Paolino_, governatore della parte della Bretagna romana, e
valoroso condottier d'armi, era ito a conquistare un'isola ben
popolata, adiacente alla Bretagna. Con un'armata dicono, di cento
ventimila persone vennero i sollevati addosso alla nuova colonia di
Camaloduno, e la presero di assalto. Dopo due dì ebbero anche il
tempio di Claudio, mettendo quanti Romani vennero alle lor mani, tutti
a fil di spada, senza voler far prigionieri. Petilio Cereale, venuto
per opporsi con una legione, fu rotto, messa in fuga la cavalleria, e
tutta la fanteria tagliata a pezzi. Portate queste funeste nuove a
Svetonio Paolino, frettolosamente si mosse, e venne a Londra, luogo di
una colonia scarsa, ma celebre città anche allora per la copia grande
dei mercatanti e del commercio. Benchè pregato con calde lagrime dagli
abitanti di fermarsi alla lor difesa, volle piuttosto attendere a
salvare il resto della provincia. S'impadronirono i ribelli di Londra
e di Verulamio, nè vi lasciarono persona in vita. Credesi che in que'
luoghi perissero circa settanta o ottantamila fra cittadini romani e
collegati. Si trovò poi forzato Svetonio, perchè mancava di viveri, ad
azzardare una battaglia, ancorchè non avesse potuto ammassare che
dieci mila combattenti; laddove i nemici da Dione si fanno ascendere a
dugento trentamila persone, numero probabilmente, secondo l'uso delle
guerre, o per disattenzion de' copisti, troppo amplificato. Boendicia
stessa comandava quella grande armata. Dopo fiero combattimento
prevalse la disciplina militare dei pochi allo sterminato numero dei
Britanni, che furono sconfitti, con essersi poi detto che restarono
sul campo estinti circa ottantamila di essi, numero anch'esso
eccessivo. Comunque, sia insigne e memoranda fu quella vittoria.
Boendicia morì poco dappoi, o per malattia o per veleno ch'essa
medesima prese, e colla sua morte tornò fra non molto all'ubbidienza
de' Romani il già rivoltato paese, con avervi Nerone inviato un buon
corpo di gente dalla Germania, il quale servì a Svetonio per compiere
quell'impresa.
NOTE:
[365] Tacitus, ibid.
[366] Dio, lib. 61.
[367] Tacitus, lib. 12, cap. 29.
Anno di CRISTO LXII. Indizione V.
PIETRO APOSTOLO papa 34.
NERONE CLAUDIO imper. 9.
_Consoli_
PUBLIO MARIO CELSO e LUCIO ASINIO GALLO.
Perchè Tacito sul principio di questo anno nomina _Giunio Marullo,
console disegnato_, il quale poi non apparisce console, perciò possiam
credere ch'egli fosse sostituito ad alcun d'essi consoli ordinari,
oppure all'uno degli straordinari, succeduti nelle calende di luglio,
i quali si tiene che fossero _Lucio Anneo Seneca_ maestro di Nerone, e
_Trebellio Massimo_. Nel gennaio dell'anno presente[368] accusato fu e
convinto _Antistio Sostano_ pretore, d'aver composto dei versi contro
l'onor di Nerone. I senatori più vili, fra' quali _Aulo Vitellio_, che
fu poi imperadore, conchiusero dovuta la pena della morte a questo
reato. Non osavano aprir bocca gli altri. Il solo _Peto Trasea_ ruppe
il silenzio, sostenendo che bastava relegarlo in un'isola, e
confiscargli i beni, nel qual parere venne il resto dei senatori.
Nondimeno fu creduto meglio di udir prima il sentimento di Nerone, il
quale mostrò bensì molto risentimento contra d'Antistio, eppur si
rimise al senato, con facoltà ancora di assolverlo. Si eseguì la
sentenza del bando. In quest'anno ancora il suddetto Trasea, uomo di
petto, e rivolto sempre al pubblico bene, propose che si proibisse ai
popoli delle provincie il mandare i lor deputati a Roma, per far
l'elogio dei loro governatori; perchè questo onore sel procuravano i
magistrati colla troppa indulgenza, e col permettere ai popoli delle
indebite licenze, per non disgustarli. L'ultimo anno fu questo della
vita di _Burro prefetto del pretorio_, uomo d'onore e di petto, che
avea finquì trattenuto Nerone dall'abbandonarsi affatto ai suoi
capricci, e massimamente alla crudeltà. Restò in dubbio s'egli
morisse, di mal naturale, oppure di veleno, per quanto ne scrive
Tacito[369]; poichè, per conto di Svetonio[370] e di Dione[371],
amendue crederono che Nerone, rincrescendogli ormai d'aver un
soprastante che non si accordava con tutti i suoi voleri, il facesse
prima del tempo sloggiar dal mondo. Gran perdita fece in lui il
pubblico, e molto più, perchè Nerone in vece d'uno creò due altri
prefetti del pretorio, cioè _Fenio Rufo_, uomo dabbene, ma capace di
far poco bene per la sua pigrizia, e _Sofonio Tigellino_, uomo
screditato per tutt'i versi, ma carissimo per la somiglianza de'
depravati costumi a Nerone. Con questo iniquo favorito cominciò Nerone
ad andare a vele gonfie verso la tirannia e pazzia. Allora fu, che
_Seneca_ conobbe che non era più luogo per lui presso di un principe,
il quale si lascerebbe da lì innanzi condurre dai consigli de'
cattivi, e già cominciava a dimostrar poca confidenza a lui. Il pregò
dunque di buona licenza, per ritirarsi a finir quietamente i suoi
giorni, con offerirgli ancora tutto il capitale de' beni a lui finquì
pervenuti o per la munificenza del principe, o per industria
propria[372]. Nerone con bella grazia gliela negò, ed accompagnò la
negativa con tenere espressioni d'affetto e di gratitudine, giungendo
sino a dirgli di desiderar egli piuttosto la morte, che di far mai
alcun torto ad un uomo, a cui si professava cotanto obbligato. Quel
che potè dal suo canto Seneca; giacchè non si fidava di sì belle
parole; fu di ricusar da lì innanzi le visite, di non volere corteggio
nell'uscire di casa; il che era anche di rado, fingendosi mal concio
di salute, ed occupato da' suoi studi. Si ridusse ancora a cibarsi di
solo pane ed acqua e di poche frutta, o per sobrietà o per paura del
veleno.
Già dicemmo, che _Ottavia_ figliuola di Claudio Augusto, e moglie di
Nerone, era per la sua saviezza e pazienza un'adorabile principessa;
ma non già agli occhi di Nerone, troppo diverso da lei d'inclinazione
e di costumi. Certamente egli non ebbe mai buon cuore per lei, e
dacchè introdusse in corte _Poppea Sabina_, cominciò anche ad
odiarla[373] per le continue batterie di quell'impudica, che non potea
stabilire la sua fortuna se non sulle rovine d'Ottavia. Tanto disse,
tanto fece questa maga che in quest'anno, col pretesto della sterilità
di essa Ottavia, Nerone la ripudiò, e da lì a pochi dì arrivò Poppea
all'intento suo di essere sposata da lui. Nondimeno qui non finì la
guerra. Poppea, sovvertito uno de' familiari di Ottavia, la fece
accusar di un illecito commercio con un suonatore di flauto, nominato
Eucero. Furono perciò messe ai tormenti le di lei damigelle, ed
estorta da alcune con sì violento mezzo la confession del fallo; ma
altre sostennero con coraggio l'innocenza della padrona, e dissero
delle villanie a Tigellino, ministro non meno di questa crudeltà, che
della morte data poco innanzi a _Silla_ e a _Rubellio Plauto_ già
mandati da Nerone in esilio. Fu relegata _Ottavia_ nella Campania, e
messe guardie alla di lei casa, per tenerla ristretta. Ma perciocchè
il popolo, che amava forte questa buona principessa, apertamente
mormorava di sì aspro trattamento, la fece Nerone ritornare a Roma.
Pel suo ritorno andò all'eccesso la gioia del popolo, perchè, ruppe le
statue alzate in onor di Poppea, e coronò di fiori quelle di Ottavia,
con altre pazzie d'allegria sediziosa; di che diede motivo a Poppea di
caricar la mano contra dell'odiata principessa, persuadendo a Nerone
che il di lei credito era sufficiente a rovesciare il suo trono. Fu
perciò chiamato a corte l'indegno Aniceto, che già avea tolta di vita
Agrippina, acciocchè servisse ancora ad abbattere Ottavia, col fingere
d'aver tenuta disonesta pratica con lei. Perchè gli fu minacciata la
morte, se ricusava di farlo, ubbidì. Promossa l'infame accusa colla
giunta d'altre inventate dal maligno principe di aborto procurato, di
ribellioni macchinate, l'infelice principessa, in età di soli ventidue
anni, venne relegata nell'isola Pandalaria, dove passato poco tempo
Nerone le fece levar la vita, e portar anche il suo capo a Roma,
acciocchè l'indegna Poppea s'accertasse della verità del suo crudel
trionfo. Di tante iniquità commesse da Nerone, forse niuna riuscì
cotanto sensibile al popolo romano, come il miserabil fine d'una sì
saggia ed amata principessa, la quale portava anche il titolo di
Augusta, e massimamente al vederla condannata per così patenti ed
indegne calunnie. La ricompensa ch'ebbe Aniceto dell'indegna sua
ubbidienza, fu di essere relegato in Sardegna, dove ben trattato
terminò poscia con suo comodo la vita. Pallante, già potentissimo
liberto sotto Claudio, morì in quest'anno, e fu creduto per veleno
datogli da Nerone, affin di metter le griffe sopra le immense di lui
ricchezze.
NOTE:
[368] Tacitus, lib. 14, cap. 48.
[369] Tacitus, ibid., cap. 51.
[370] Sueton., in Nerone, cap. 35.
[371] Dio, lib. 61.
[372] Sueton., in Nerone, c. 35.
[373] Tacit., lib. 14, c. 60. Dio, lib. 61. Suetonius, c. 35.
Anno di CRISTO LXIII. Indizione VI.
PIETRO APOSTOLO papa 35.
NERONE CLAUDIO imper. 10.
_Consoli_
PUBLIO MARIO CELSO e LUCIO ASINIO GALLO.
Erano tuttavia imbrogliati gli affari dell'Armenia, dacchè Nerone avea
colà inviato col titolo di re _Tigrane_[374]. _Vologeso_ re de' Parti
persisteva più che mai nella pretension di quel regno, per coronarne
_Tiridate_ suo fratello, che gliene faceva continue istanze. Ma andava
titubando, finchè Tigrane il fece risolvere a dar di piglio all'armi,
per aver egli fatta un'incursione nel paese degli Adiabeni o sudditi o
collegati de' Parti. Dopo aver dunque Vologeso coronato Tiridate come
re dell'Armenia, e somministratogli un possente esercito per
conquistar quel paese, si diede principio alla guerra. _Corbulone_,
governator della Siria, in aiuto di Tigrane spedì due legioni, e nello
stesso tempo scrisse a Nerone, rappresentandogli il bisogno d'un altro
generale, per accudire alla difesa dell'Armenia mentre egli dovea
difendere le frontiere della sua provincia. Nerone v'inviò _Lucio
Cesennio Peto_, uomo consolare, cioè ch'era stato console: il che ha
fatto ad alcuni crederlo lo stesso che _Caio Cesennio Peto_, da noi
veduto console nell'anno superiore 61 di Cristo, ma che da altri vien
tenuto per personaggio diverso. Intanto i Parti, entrati nell'Armenia,
posero l'assedio ad Artasata capital di quel regno, dove s'era
ritirato Tigrane, che non mancò di fare una valorosa difesa. Corbulone
allora inviò Casperio centurione a Vologeso, per dolersi dell'insulto
che si facea ad un regno dipendente dai Romani, minacciando dal suo
canto la guerra ai Parti, se non desistevano da quelle violenze. Servì
quest'ambasciata ad inchinar Vologeso a' pensieri di pace, ed avendo
chiesto di mandare a Nerone i suoi legati per trattarne, e pregarlo di
conferire lo scettro dell'Armenia a Tiridate suo fratello, accettata
fu la di lui proferta, con patto di far cessare l'assedio di Artasata:
il che ebbe esecuzione. Ma non è ben noto, che convenzione segreta
seguisse allora fra Corbulone e Vologeso, avendo alcuni creduto che
tanto i Parti quanto Tigrane avessero da abbandonar l'Armenia. Venuti
a Roma gli ambasciatori di Vologeso, nulla poterono ottenere; e però
il Parto ricominciò la guerra in tempo che Cesennio Peto giunse al
governo dell'Armenia, uomo di poca provvidenza e sapere in quel
mestiere, ma che si figurava di poter fare il maestro agli altri.
Prese Peto alcune castella, passò anche il monte Tauro, pensando a
maggiori conquiste; ma, all'avviso che Vologeso veniva con grandi
forze, fu ben presto a ritirarsi, ed a lasciar gente ne' passi del
monte suddetto, per impedir l'accesso de' nemici, con iscrivere
intanto più e più lettere a Corbulone, che venisse a soccorrerlo.
Forzò Vologeso i passi: a Peto cadde il cuore per terra, perchè avea
troppo divise le sue genti, e colto fu con due sole legioni. Però
spedì nuove lettere ad affrettar Corbulone, il quale intanto avendo
passato l'Eufrate, marciava a gran giornate verso la Comagene o la
Cappadocia, per entrar poi nell'Armenia, Nulladimeno poco giovarono
gli sforzi di Corbulone. In questo mentre Vologeso strinse il picciolo
esercito di Peto, molti ne uccise; e tal terrore mise al capitano de'
Romani, ch'egli solamente pensò a comperarsi la salvezza con qualunque
vergognosa condizione che gli fosse esibita. Dimandando dunque un
abboccamento con gli uffiziali di Vologeso, restò conchiuso, che
l'armi romane si levassero da tutta l'Armenia, e cedessero ai Parti
tutte le castella e munizioni da bocca e da guerra; e che poi Vologeso
se l'intenderebbe coll'imperador Nerone pel resto. Le insolenze dei
Parti furono poi molte; vollero entrar nelle fortezze prima che ne
fossero usciti i Romani; affollati per le strade, dove passavano i
Romani, toglievano loro schiavi, bestie e vesti; ed i Romani come
galline lasciavano far tutto per paura che menassero anche le mani.
Tanto marciarono le avvilite truppe, che piene di confusione
arrivarono finalmente ad unirsi con quelle di Corbulone, il quale,
deposto per ora ogni pensier dell'Armenia, se ne tornò alla difesa
della Siria sua provincia.
Secondochè abbiam da Tacito, tutto ciò avvenne nel precedente anno.
Dione ne parla più tardi. Nella primavera del presente comparvero gli
ambasciatori di _Vologeso_, che chiedevano il regno dell'Armenia per
_Tiridate;_ ma senza ch'egli volesse presentarsi a Roma. Seppe allora
Nerone da un centurione, venuto con loro, come stava la faccenda
dell'Armenia, perchè Cesennio Peto gliene avea mandata una relazion
ben diversa. Parve a Nerone ed al senato che Vologeso si prendesse
beffa di loro, e perciò rimandati gli ambasciatori di lui senza
risposta, ma non senza ricchi regali, fu presa la risoluzione di far
guerra viva ai Parti. Richiamato Peto, tremante fu all'udienza di
Nerone, il quale mise la cosa in facezia, dicendogli, senza lasciarlo
parlare, «che gli perdonava tosto, acciocchè essendo egli sì pauroso,
non gli saltasse la febbre addosso.» Andò ordine a Corbulone di
muovere l'armi contro de' Parti, e gli furono inviati rinforzi di
nuove truppe e reclute; laonde egli passò alla volta dell'Armenia.
Tuttavia non ebbe dispiacere che venissero a trovarlo gli ambasciatori
di Vologeso, per esortarli a rimettersi alla clemenza di Cesare.
S'impadronì poi di varie castella, e diede tale apprensione ai Parti,
che _Tiridate_ fece premura di abboccarsi con lui. Mandati innanzi gli
ostaggi romani, Tiridate comparve al luogo destinato; e veduto
Corbulone, fu il primo a scendere da cavallo, e seguirono amichevoli
accoglienze e ragionamenti, nei quali Tiridate restò di voler
riconoscere dall'imperador romano l'Armenia, e che verrebbe a Roma a
prenderne la corona, qualora piacesse a Nerone di dargliela: del che
Corbulone gli diede buone speranze. In segno poi della sua
sommessione andò Tiridate a deporre il diadema a piè dell'immagine
dell'imperadore, per ripigliarla poi dalle mani del medesimo Augusto
in Roma. Noi non sappiamo che divenisse di _Tigrane_, re precedente
dell'Armenia[375]. Nacque nell'anno presente a Nerone una figliuola da
Poppea, fatta andare apposta a partorire ad Anzo, perchè quivi ancora
venne alla luce lo stesso Nerone. Ad essa e alla madre fu dato il
cognome di Augusta; e il senato, pronto sempre alle adulazioni,
decretò altri onori ad amendue, ed ordinò varie feste. Ma non
passarono quattro mesi, che questo caro pegno sel rapì la morte.
Nerone, che per tale acquisto era dato in eccessi di gioia, cadde in
altri di dolore per la perdita che ne fece. Si fecero in quest'anno i
giuochi de' gladiatori, e si videro anche molti senatori e molte
illustri donne combattere: tanto innanzi era arrivata la follia de'
Romani.
NOTE:
[374] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 1.
[375] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 23.
Anno di CRISTO LXIV. Indizione VII.
PIETRO APOSTOLO papa 36.
NERONE CLAUDIO imper. 11.
_Consoli_
CAIO LECANIO BASSO e MARCO LICINIO CRASSO.
Andò in quest'anno Nerone a Napoli[376] per vaghezza di far sentire a
quei popoli nel pubblico teatro la sua canora voce. Grande adunanza di
gente v'intervenne dalle vicine città, per udire un imperadore musico,
un usignolo Augusto. Ma occorse un terribile accidente, che nondimeno
a niun recò danno. Appena fu uscita tutta la gente ch'esso teatro
cadde a terra. Pensava quella vana testa di passar anche in Grecia, e
in altre parti di Levante, per raccogliere somiglianti plausi; ma poi
si fermò in Benevento, nè andò più oltre, senza che se ne sappia il
motivo. Fra questi divertimenti fece accusar _Torquato Silano_,
insigne personaggio, discendente da Augusto per via di donne. Il suo
reato era di far troppa spesa per un particolare; ciò indicar disegni
di perniciose novità. Prima di essere condannato, egli si tagliò le
vene. Tornato a Roma Nerone, volle dare una cena sontuosa nel lago di
Agrippa, come ha Tacito. Dione[377] scrive ciò fatto nell'anfiteatro,
dove, dopo una caccia di fiere, introdusse l'acqua per un
combattimento navale; e, dopo averne ritirata l'acqua, diede una
battaglia di gladiatori; e finalmente, rimessavi l'acqua, fece la
cena. N'ebbe l'incombenza Tigellino. V'erano superbe navi ornate d'oro
e d'avorio, con tavole coperte di preziosi tappeti, e all'intorno
taverne disposte in gran numero con delicati cibi preparati per
ognuno. Canti, suoni dappertutto, ed illuminata ogni parte. Concorso
grande di plebe e di nobiltà, tanto uomini che donne, e tutta la razza
delle prostitute. Che Babilonia d'infamità e di lascivie si vedesse
ivi, nol tacquero gli antichi, ma non è lecito alla mia penna il
ridirlo. A questa abbominevole scena ne tenne dietro un'altra, ma
sommamente terribile e funesta[378]. Attaccossi o fu attaccato nel dì
19 di luglio il fuoco alla parte di Roma, dov'era il Circo Massimo,
pieno di botteghe di venditori dell'olio. Spirava un vento gagliardo,
che dilatò l'incendio pel piano e per le colline con tal furore, che
di quattordici rioni di quella gran città dieci restarono orrida preda
delle fiamme, ed appena se ne salvarono quattro. Per così fiera strage
di case, di templi, di palazzi, colla perdita di tanti mobili, e
preziose rarità ed antichità, accompagnata ancora dalla morte
d'assaissime persone, che strida, che urli, che tumulto si provasse
allora, più facile è l'immaginarlo che il descriverlo. Per sei giorni
durò l'incendio (altri dissero di più), senza poter mai frenare il
corso a quel torrente di fuoco. Trovavasi Nerone ad Anzo, allorchè
ebbe nuova di sì gran malanno, nè si mosse per restituirsi a Roma, se
non quando seppe che le fiamme si accostavano al suo palazzo, e agli
orti di Mecenate, fabbriche anch'esse appresso involte nell'indicibil
eccidio.
Che quella bestia di Nerone fosse l'autore di sì orrida tragedia, a
cui non fu mai veduta una simile in Italia, lo scrivono risolutamente
Svetonio e Dione e chi poscia da loro trasse la storia romana.
Aggiungono, esser egli venuto a sì diabolica invenzione, perchè Roma
abbondante allora di vie strette e torte e di case disordinate, o
poveramente fabbricate, si rifacesse poi in miglior forma, e prendesse
il nome da lui; e che specialmente egli desiderava di veder per terra
molte case e granai pubblici, che gl'impedivano il fabbricare un gran
palazzo ideato da lui. Dicono di più, che fur veduti i suoi camerieri
con fiaccole e stoppia attaccarvi il fuoco; e che Nerone, in quel
mentre stava ad osservar lo scempio, con dire: «Che bella fiamma!»
Aggiungono finalmente, ch'egli vestito in abito da scena a suon di
cetra cantò la rovina di Troia. Ma fra le tante iniquità di Nerone
questa non è certa. Tacito la mette in dubbio; e l'altre suddette
particolarità sono bensì in parte toccate da lui, ma con aggiungere
che ne corse la voce. Trattandosi di un sì screditato imperadore,
conosciuto capace di qualsisia enormità, facil cosa allora fu
l'attribuire a lui l'invenzione di sì gran calamità, ed ora è a noi
impossibile il discernere se vero o falso ciò fosse. Si applicò tosto
Nerone a far alzare gran copia di case di legno, per ricoverarvi tutti
i poveri sbandati, facendo venir mobili da Ostia e da altri luoghi;
comandò ancora, che si vendesse il frumento a basso prezzo. Quindi
stese le sue premure, a far rifabbricare la rovinata città, la quale
(non può negarsi) da questa sventura riportò un incredibil vantaggio.
Imperciocchè con bel ordine fu a poco a poco rifatta, tirate le strade
diritte e larghe, aggiunti i portici alle case, e proibito l'alzar di
troppo le fabbriche. Tutta la trabocchevol copia dei rottami venne di
tanto in tanto condotta via dalle navi che conducevano grani a Roma, e
scaricata nelle paludi di Ostia. Vuole Svetonio che Nerone si
caricasse del trasporto di quelle demolizioni, per profittar delle
ricchezze che si trovavano in esse rovine; nè vi si potevano accostare
se non i deputati da lui. Determinò di sua borsa premii a chiunque
entro di un tal termine di tempo avesse alzata una casa o palagio: e
del suo edificò ancora i portici. Fece distribuire con più proporzione
l'acque condotte per gli acquidotti a Roma, e destinò i siti di esse,
per estinguere al bisogno gl'incendii, con altre provvisioni che
meritavano gran lode, ma non la conseguirono per la comune credenza
che da lui fosse venuto sì orribil malanno. Anch'egli imprese allora
la fabbrica del suo nuovo palazzo, che fu mirabil cosa, e nominato poi
_la Casa doro._ Svetonio[379] ce ne dà un piccolo abbozzo. Tutto il di
dentro era messo a oro, ornato di gemme, intarsiato di madreperle.
Sale e camere innumerabili incrostate di marmi fini; portici con tre
ordini di colonne che si stendevano un miglio; vigne, boschetti,
prati, bagni, peschiere, parchi con ogni sorta di fiere ed animali; un
lago di straordinaria grandezza, con corona di fabbriche all'intorno a
guisa di una città; davanti al palazzo un colosso alto centoventi
piedi, rappresentante Nerone. Allorchè egli vi andò poi ad alloggiare,
disse: «Ora sì che quasi comincio ad abitare in un alloggio
conveniente ad un uomo.» Ma questa sì sontuosa e stupenda mole, con
altri vastissimi disegni da lui fatti di sterminati canali, per condur
lontano sino a cento sessanta miglia per terra l'acqua del mare, costò
ben caro al popolo romano, perciocchè smunto e ridotto al bisogno il
prodigo Augusto, passò a mille estorsioni e rapine, confiscando, sotto
qualsivoglia pretesto, i beni altrui, imponendo non più uditi dazii e
gabelle, ed esigendo contribuzioni rigorose da tutte le città, ed
anche dalle libere e collegate; il che fu quasi la rovina delle
provincie. Nè ciò bastando, mise mano ai luoghi sacri; estraendone
tutti i vasi d'oro e d'argento, e le altre cose preziose. Mandò anche
per la Grecia e per l'Asia a spogliar tutti que' templi delle ricche
statue degli stessi dii, e di ogni lor più riguardevole ornamento.
Diede occasione lo spaventoso incendio di Roma alla prima persecuzione
degl'imperatori pagani[380] contra dei Cristiani. Si era già non solo
introdotta, ma largamente diffusa nel popolo romano, per le
insinuazioni di s. Pietro Apostolo e de' suoi discepoli, la religione
di Cristo; giacchè non duravano fatica i buoni a conservare la santità
ed eccellenza in confronto dell'empia e sozza dei Gentili. Nerone,
affin di scaricar sopra d'altri l'odiosità da lui contratta per la
comune voce di aver egli stesso incendiata quella gran città,
calunniosamente, secondo il suo solito, ne fece accusare i Cristiani,
siccome attestano Tertulliano, Eusebio, Lattanzio, Orosio ed altri
autori, e fin gli stessi storici pagani Tacito e Svetonio. Scrive esso
Tacito, ma non già Svetonio, che furono convinti di aver essi
attaccato il fuoco a Roma, quando egli stesso poco dianzi avea
attestato che la persuasion comune ne facea autore lo stesso Nerone; e
Svetonio e Dione ciò danno per certo. Non era capace di sì enorme
misfatto chi seguitava la legge purissima di Gesù Cristo, e
massimamente durante il fervore e l'illibatezza dei primi Cristiani. A
che fine mai, gente dabbene, e lasciata in pace, avea da cadere in sì
mostruoso eccesso? Perciò una _gran moltitudine_ di essi fu con aspri
ed inutili tormenti fatta morire sulle croci, o bruciata a lento
fuoco, o vestita da fiere, per essere sbranata dai cani. Vi si
aggiunse ancora l'inumana invenzione di coprirli di cera, pece e di
altre materie combustibili, e di farli servir di notte, come tanti
doppieri della crudeltà, negli orti stessi di Nerone. Così cominciò
Roma ad essere bagnata dal sacro sangue de' martiri. Confessa
nondimeno il medesimo Tacito, che gran compassione produsse un così
fiero macello di gente, tuttochè, secondo lui, colpevole per una
religione contraria al culto dei falsi dii. In questi tempi avendo
ordinato Nerone che l'armata navale tornasse al porto di Miseno, fu
essa sorpresa da così impetuosa burrasca, che la maggior parte delle
galee e di altre navi minori s'andò a fracassare nei lidi di Cuma.
NOTE:
[376] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 33.
[377] Dio, lib. 61.
[378] Tacit., Annal., lib. 15, c. 38. Dio, lib. 61. Suet., in Ner., c.
38.
[379] Sueton., in Nerone, c. 31 et 32. Tacitus, Annal., lib. 15, cap.
42 et seqq.
[380] Sueton., in Nerone, c. 16. Tacit., lib. 15, c. 42 et seqq.
Anno di CRISTO LXV. Indizione VIII.
LINO papa 1.
NERONE CLAUDIO imper. 12.
_Consoli_
AULO LICINIO NERVA SILIANO e MARCO VESTINO ATTICO.
In una iscrizione, rapportata dal Doni e da me[381], si legge SILANO
ET ATTICO COS. Se questa sussiste, non _Siliano_, ma _Silano_ sarà
stato l'ultimo dei suoi cognomi. Il cardinal Noris ed altri sostentano
_Siliano._ Per attestato di Tacito, avea Nerone disegnati consoli per
le calende di luglio, _Plauzio Laterano_, dalla cui persona o casa
riconosce la sua origine la Basilica Lateranense, ed _Anicio Cereale._
Il primo, in vece del consolato, ebbe da Nerone la morte, siccome
dirò. Fece lo stesso fine _Vestino Attico_, cioè l'altro console
ordinario. Però si può tenere per fermo che _Cereale_ succedesse nel
consolato. Roma[382] in questo anno divenne teatro di morti violente
per la congiura di _Caio Calpurnio Pisone_, che fu scoperta. Era
questi di nobilissima famiglia, ben provveduto di beni di fortuna,
grande avvocato dei rei, e però comunemente amato e stimato, benchè
dato ai piaceri ed al lusso, e mancante di gravità di costumi. Sarebbe
volentieri salito sul trono, e per salirvi conveniva levar di mezzo
all'eredità. Convinto di falsario, degradato con gli altri suoi
complici, riportò la pena statuita dalla legge Cornelia. Ucciso fu da
un suo servo, o vogliam dire schiavo, _Pedanio Secondo_, prefetto di
Roma. Ne aveva egli al suo servigio quattrocento, tra maschi e
femmine, grandi e piccoli, essendo soliti i ricchi Romani a tenerne
una prodigiosa quantità al loro servigio. Benchè fossero quasi tutti
innocenti di quel misfatto, doveano morire secondo il rigore delle
antiche leggi; ma fattasi grande adunanza di gente plebea per
difendere quegl'infelici, l'affare fu portato al senato; ed intorno a
ciò si fece lungo dibattimento, con prevalere in fine la sentenza del
supplicio di tutti. Nerone mandò un ordine alla plebe di attendere ai
fatti suoi, e somministrò quanti soldati occorressero per iscortare i
condannati. I mali portamenti degli uffiziali nella Bretagna cagion
furono di far perdere circa questi tempi quasi tutto quel paese che vi
aveano acquistato i Romani; e ciò perchè si volle rimetter ivi il
confisco dei beni de' delinquenti, da cui Claudio gli avea esentati.
Anche _Seneca_, se crediamo a Dione[366], avea dato ad usura un
milione a que' popoli, e con violenza ne esigeva non solo i frutti, ma
anche il capitale. Inoltre, _Boendicia_ o sia _Bunduica_ vedova[367]
di _Prasutago re_ di una parte di quella grand'isola, si protestava
anche essa troppo scontenta delle infinite prepotenze ed insolenze
fatte dai Romani a sè stessa, a due figlie e a tutto il suo popolo.
Questa regina, donna d'animo virile, quella fu che sonò in fine la
tromba col muovere i suoi e i circostanti popoli a sollevarsi contra
degl'indiscreti Romani con prevalersi della buona congiuntura che
_Svetonio Paolino_, governatore della parte della Bretagna romana, e
valoroso condottier d'armi, era ito a conquistare un'isola ben
popolata, adiacente alla Bretagna. Con un'armata dicono, di cento
ventimila persone vennero i sollevati addosso alla nuova colonia di
Camaloduno, e la presero di assalto. Dopo due dì ebbero anche il
tempio di Claudio, mettendo quanti Romani vennero alle lor mani, tutti
a fil di spada, senza voler far prigionieri. Petilio Cereale, venuto
per opporsi con una legione, fu rotto, messa in fuga la cavalleria, e
tutta la fanteria tagliata a pezzi. Portate queste funeste nuove a
Svetonio Paolino, frettolosamente si mosse, e venne a Londra, luogo di
una colonia scarsa, ma celebre città anche allora per la copia grande
dei mercatanti e del commercio. Benchè pregato con calde lagrime dagli
abitanti di fermarsi alla lor difesa, volle piuttosto attendere a
salvare il resto della provincia. S'impadronirono i ribelli di Londra
e di Verulamio, nè vi lasciarono persona in vita. Credesi che in que'
luoghi perissero circa settanta o ottantamila fra cittadini romani e
collegati. Si trovò poi forzato Svetonio, perchè mancava di viveri, ad
azzardare una battaglia, ancorchè non avesse potuto ammassare che
dieci mila combattenti; laddove i nemici da Dione si fanno ascendere a
dugento trentamila persone, numero probabilmente, secondo l'uso delle
guerre, o per disattenzion de' copisti, troppo amplificato. Boendicia
stessa comandava quella grande armata. Dopo fiero combattimento
prevalse la disciplina militare dei pochi allo sterminato numero dei
Britanni, che furono sconfitti, con essersi poi detto che restarono
sul campo estinti circa ottantamila di essi, numero anch'esso
eccessivo. Comunque, sia insigne e memoranda fu quella vittoria.
Boendicia morì poco dappoi, o per malattia o per veleno ch'essa
medesima prese, e colla sua morte tornò fra non molto all'ubbidienza
de' Romani il già rivoltato paese, con avervi Nerone inviato un buon
corpo di gente dalla Germania, il quale servì a Svetonio per compiere
quell'impresa.
NOTE:
[365] Tacitus, ibid.
[366] Dio, lib. 61.
[367] Tacitus, lib. 12, cap. 29.
Anno di CRISTO LXII. Indizione V.
PIETRO APOSTOLO papa 34.
NERONE CLAUDIO imper. 9.
_Consoli_
PUBLIO MARIO CELSO e LUCIO ASINIO GALLO.
Perchè Tacito sul principio di questo anno nomina _Giunio Marullo,
console disegnato_, il quale poi non apparisce console, perciò possiam
credere ch'egli fosse sostituito ad alcun d'essi consoli ordinari,
oppure all'uno degli straordinari, succeduti nelle calende di luglio,
i quali si tiene che fossero _Lucio Anneo Seneca_ maestro di Nerone, e
_Trebellio Massimo_. Nel gennaio dell'anno presente[368] accusato fu e
convinto _Antistio Sostano_ pretore, d'aver composto dei versi contro
l'onor di Nerone. I senatori più vili, fra' quali _Aulo Vitellio_, che
fu poi imperadore, conchiusero dovuta la pena della morte a questo
reato. Non osavano aprir bocca gli altri. Il solo _Peto Trasea_ ruppe
il silenzio, sostenendo che bastava relegarlo in un'isola, e
confiscargli i beni, nel qual parere venne il resto dei senatori.
Nondimeno fu creduto meglio di udir prima il sentimento di Nerone, il
quale mostrò bensì molto risentimento contra d'Antistio, eppur si
rimise al senato, con facoltà ancora di assolverlo. Si eseguì la
sentenza del bando. In quest'anno ancora il suddetto Trasea, uomo di
petto, e rivolto sempre al pubblico bene, propose che si proibisse ai
popoli delle provincie il mandare i lor deputati a Roma, per far
l'elogio dei loro governatori; perchè questo onore sel procuravano i
magistrati colla troppa indulgenza, e col permettere ai popoli delle
indebite licenze, per non disgustarli. L'ultimo anno fu questo della
vita di _Burro prefetto del pretorio_, uomo d'onore e di petto, che
avea finquì trattenuto Nerone dall'abbandonarsi affatto ai suoi
capricci, e massimamente alla crudeltà. Restò in dubbio s'egli
morisse, di mal naturale, oppure di veleno, per quanto ne scrive
Tacito[369]; poichè, per conto di Svetonio[370] e di Dione[371],
amendue crederono che Nerone, rincrescendogli ormai d'aver un
soprastante che non si accordava con tutti i suoi voleri, il facesse
prima del tempo sloggiar dal mondo. Gran perdita fece in lui il
pubblico, e molto più, perchè Nerone in vece d'uno creò due altri
prefetti del pretorio, cioè _Fenio Rufo_, uomo dabbene, ma capace di
far poco bene per la sua pigrizia, e _Sofonio Tigellino_, uomo
screditato per tutt'i versi, ma carissimo per la somiglianza de'
depravati costumi a Nerone. Con questo iniquo favorito cominciò Nerone
ad andare a vele gonfie verso la tirannia e pazzia. Allora fu, che
_Seneca_ conobbe che non era più luogo per lui presso di un principe,
il quale si lascerebbe da lì innanzi condurre dai consigli de'
cattivi, e già cominciava a dimostrar poca confidenza a lui. Il pregò
dunque di buona licenza, per ritirarsi a finir quietamente i suoi
giorni, con offerirgli ancora tutto il capitale de' beni a lui finquì
pervenuti o per la munificenza del principe, o per industria
propria[372]. Nerone con bella grazia gliela negò, ed accompagnò la
negativa con tenere espressioni d'affetto e di gratitudine, giungendo
sino a dirgli di desiderar egli piuttosto la morte, che di far mai
alcun torto ad un uomo, a cui si professava cotanto obbligato. Quel
che potè dal suo canto Seneca; giacchè non si fidava di sì belle
parole; fu di ricusar da lì innanzi le visite, di non volere corteggio
nell'uscire di casa; il che era anche di rado, fingendosi mal concio
di salute, ed occupato da' suoi studi. Si ridusse ancora a cibarsi di
solo pane ed acqua e di poche frutta, o per sobrietà o per paura del
veleno.
Già dicemmo, che _Ottavia_ figliuola di Claudio Augusto, e moglie di
Nerone, era per la sua saviezza e pazienza un'adorabile principessa;
ma non già agli occhi di Nerone, troppo diverso da lei d'inclinazione
e di costumi. Certamente egli non ebbe mai buon cuore per lei, e
dacchè introdusse in corte _Poppea Sabina_, cominciò anche ad
odiarla[373] per le continue batterie di quell'impudica, che non potea
stabilire la sua fortuna se non sulle rovine d'Ottavia. Tanto disse,
tanto fece questa maga che in quest'anno, col pretesto della sterilità
di essa Ottavia, Nerone la ripudiò, e da lì a pochi dì arrivò Poppea
all'intento suo di essere sposata da lui. Nondimeno qui non finì la
guerra. Poppea, sovvertito uno de' familiari di Ottavia, la fece
accusar di un illecito commercio con un suonatore di flauto, nominato
Eucero. Furono perciò messe ai tormenti le di lei damigelle, ed
estorta da alcune con sì violento mezzo la confession del fallo; ma
altre sostennero con coraggio l'innocenza della padrona, e dissero
delle villanie a Tigellino, ministro non meno di questa crudeltà, che
della morte data poco innanzi a _Silla_ e a _Rubellio Plauto_ già
mandati da Nerone in esilio. Fu relegata _Ottavia_ nella Campania, e
messe guardie alla di lei casa, per tenerla ristretta. Ma perciocchè
il popolo, che amava forte questa buona principessa, apertamente
mormorava di sì aspro trattamento, la fece Nerone ritornare a Roma.
Pel suo ritorno andò all'eccesso la gioia del popolo, perchè, ruppe le
statue alzate in onor di Poppea, e coronò di fiori quelle di Ottavia,
con altre pazzie d'allegria sediziosa; di che diede motivo a Poppea di
caricar la mano contra dell'odiata principessa, persuadendo a Nerone
che il di lei credito era sufficiente a rovesciare il suo trono. Fu
perciò chiamato a corte l'indegno Aniceto, che già avea tolta di vita
Agrippina, acciocchè servisse ancora ad abbattere Ottavia, col fingere
d'aver tenuta disonesta pratica con lei. Perchè gli fu minacciata la
morte, se ricusava di farlo, ubbidì. Promossa l'infame accusa colla
giunta d'altre inventate dal maligno principe di aborto procurato, di
ribellioni macchinate, l'infelice principessa, in età di soli ventidue
anni, venne relegata nell'isola Pandalaria, dove passato poco tempo
Nerone le fece levar la vita, e portar anche il suo capo a Roma,
acciocchè l'indegna Poppea s'accertasse della verità del suo crudel
trionfo. Di tante iniquità commesse da Nerone, forse niuna riuscì
cotanto sensibile al popolo romano, come il miserabil fine d'una sì
saggia ed amata principessa, la quale portava anche il titolo di
Augusta, e massimamente al vederla condannata per così patenti ed
indegne calunnie. La ricompensa ch'ebbe Aniceto dell'indegna sua
ubbidienza, fu di essere relegato in Sardegna, dove ben trattato
terminò poscia con suo comodo la vita. Pallante, già potentissimo
liberto sotto Claudio, morì in quest'anno, e fu creduto per veleno
datogli da Nerone, affin di metter le griffe sopra le immense di lui
ricchezze.
NOTE:
[368] Tacitus, lib. 14, cap. 48.
[369] Tacitus, ibid., cap. 51.
[370] Sueton., in Nerone, cap. 35.
[371] Dio, lib. 61.
[372] Sueton., in Nerone, c. 35.
[373] Tacit., lib. 14, c. 60. Dio, lib. 61. Suetonius, c. 35.
Anno di CRISTO LXIII. Indizione VI.
PIETRO APOSTOLO papa 35.
NERONE CLAUDIO imper. 10.
_Consoli_
PUBLIO MARIO CELSO e LUCIO ASINIO GALLO.
Erano tuttavia imbrogliati gli affari dell'Armenia, dacchè Nerone avea
colà inviato col titolo di re _Tigrane_[374]. _Vologeso_ re de' Parti
persisteva più che mai nella pretension di quel regno, per coronarne
_Tiridate_ suo fratello, che gliene faceva continue istanze. Ma andava
titubando, finchè Tigrane il fece risolvere a dar di piglio all'armi,
per aver egli fatta un'incursione nel paese degli Adiabeni o sudditi o
collegati de' Parti. Dopo aver dunque Vologeso coronato Tiridate come
re dell'Armenia, e somministratogli un possente esercito per
conquistar quel paese, si diede principio alla guerra. _Corbulone_,
governator della Siria, in aiuto di Tigrane spedì due legioni, e nello
stesso tempo scrisse a Nerone, rappresentandogli il bisogno d'un altro
generale, per accudire alla difesa dell'Armenia mentre egli dovea
difendere le frontiere della sua provincia. Nerone v'inviò _Lucio
Cesennio Peto_, uomo consolare, cioè ch'era stato console: il che ha
fatto ad alcuni crederlo lo stesso che _Caio Cesennio Peto_, da noi
veduto console nell'anno superiore 61 di Cristo, ma che da altri vien
tenuto per personaggio diverso. Intanto i Parti, entrati nell'Armenia,
posero l'assedio ad Artasata capital di quel regno, dove s'era
ritirato Tigrane, che non mancò di fare una valorosa difesa. Corbulone
allora inviò Casperio centurione a Vologeso, per dolersi dell'insulto
che si facea ad un regno dipendente dai Romani, minacciando dal suo
canto la guerra ai Parti, se non desistevano da quelle violenze. Servì
quest'ambasciata ad inchinar Vologeso a' pensieri di pace, ed avendo
chiesto di mandare a Nerone i suoi legati per trattarne, e pregarlo di
conferire lo scettro dell'Armenia a Tiridate suo fratello, accettata
fu la di lui proferta, con patto di far cessare l'assedio di Artasata:
il che ebbe esecuzione. Ma non è ben noto, che convenzione segreta
seguisse allora fra Corbulone e Vologeso, avendo alcuni creduto che
tanto i Parti quanto Tigrane avessero da abbandonar l'Armenia. Venuti
a Roma gli ambasciatori di Vologeso, nulla poterono ottenere; e però
il Parto ricominciò la guerra in tempo che Cesennio Peto giunse al
governo dell'Armenia, uomo di poca provvidenza e sapere in quel
mestiere, ma che si figurava di poter fare il maestro agli altri.
Prese Peto alcune castella, passò anche il monte Tauro, pensando a
maggiori conquiste; ma, all'avviso che Vologeso veniva con grandi
forze, fu ben presto a ritirarsi, ed a lasciar gente ne' passi del
monte suddetto, per impedir l'accesso de' nemici, con iscrivere
intanto più e più lettere a Corbulone, che venisse a soccorrerlo.
Forzò Vologeso i passi: a Peto cadde il cuore per terra, perchè avea
troppo divise le sue genti, e colto fu con due sole legioni. Però
spedì nuove lettere ad affrettar Corbulone, il quale intanto avendo
passato l'Eufrate, marciava a gran giornate verso la Comagene o la
Cappadocia, per entrar poi nell'Armenia, Nulladimeno poco giovarono
gli sforzi di Corbulone. In questo mentre Vologeso strinse il picciolo
esercito di Peto, molti ne uccise; e tal terrore mise al capitano de'
Romani, ch'egli solamente pensò a comperarsi la salvezza con qualunque
vergognosa condizione che gli fosse esibita. Dimandando dunque un
abboccamento con gli uffiziali di Vologeso, restò conchiuso, che
l'armi romane si levassero da tutta l'Armenia, e cedessero ai Parti
tutte le castella e munizioni da bocca e da guerra; e che poi Vologeso
se l'intenderebbe coll'imperador Nerone pel resto. Le insolenze dei
Parti furono poi molte; vollero entrar nelle fortezze prima che ne
fossero usciti i Romani; affollati per le strade, dove passavano i
Romani, toglievano loro schiavi, bestie e vesti; ed i Romani come
galline lasciavano far tutto per paura che menassero anche le mani.
Tanto marciarono le avvilite truppe, che piene di confusione
arrivarono finalmente ad unirsi con quelle di Corbulone, il quale,
deposto per ora ogni pensier dell'Armenia, se ne tornò alla difesa
della Siria sua provincia.
Secondochè abbiam da Tacito, tutto ciò avvenne nel precedente anno.
Dione ne parla più tardi. Nella primavera del presente comparvero gli
ambasciatori di _Vologeso_, che chiedevano il regno dell'Armenia per
_Tiridate;_ ma senza ch'egli volesse presentarsi a Roma. Seppe allora
Nerone da un centurione, venuto con loro, come stava la faccenda
dell'Armenia, perchè Cesennio Peto gliene avea mandata una relazion
ben diversa. Parve a Nerone ed al senato che Vologeso si prendesse
beffa di loro, e perciò rimandati gli ambasciatori di lui senza
risposta, ma non senza ricchi regali, fu presa la risoluzione di far
guerra viva ai Parti. Richiamato Peto, tremante fu all'udienza di
Nerone, il quale mise la cosa in facezia, dicendogli, senza lasciarlo
parlare, «che gli perdonava tosto, acciocchè essendo egli sì pauroso,
non gli saltasse la febbre addosso.» Andò ordine a Corbulone di
muovere l'armi contro de' Parti, e gli furono inviati rinforzi di
nuove truppe e reclute; laonde egli passò alla volta dell'Armenia.
Tuttavia non ebbe dispiacere che venissero a trovarlo gli ambasciatori
di Vologeso, per esortarli a rimettersi alla clemenza di Cesare.
S'impadronì poi di varie castella, e diede tale apprensione ai Parti,
che _Tiridate_ fece premura di abboccarsi con lui. Mandati innanzi gli
ostaggi romani, Tiridate comparve al luogo destinato; e veduto
Corbulone, fu il primo a scendere da cavallo, e seguirono amichevoli
accoglienze e ragionamenti, nei quali Tiridate restò di voler
riconoscere dall'imperador romano l'Armenia, e che verrebbe a Roma a
prenderne la corona, qualora piacesse a Nerone di dargliela: del che
Corbulone gli diede buone speranze. In segno poi della sua
sommessione andò Tiridate a deporre il diadema a piè dell'immagine
dell'imperadore, per ripigliarla poi dalle mani del medesimo Augusto
in Roma. Noi non sappiamo che divenisse di _Tigrane_, re precedente
dell'Armenia[375]. Nacque nell'anno presente a Nerone una figliuola da
Poppea, fatta andare apposta a partorire ad Anzo, perchè quivi ancora
venne alla luce lo stesso Nerone. Ad essa e alla madre fu dato il
cognome di Augusta; e il senato, pronto sempre alle adulazioni,
decretò altri onori ad amendue, ed ordinò varie feste. Ma non
passarono quattro mesi, che questo caro pegno sel rapì la morte.
Nerone, che per tale acquisto era dato in eccessi di gioia, cadde in
altri di dolore per la perdita che ne fece. Si fecero in quest'anno i
giuochi de' gladiatori, e si videro anche molti senatori e molte
illustri donne combattere: tanto innanzi era arrivata la follia de'
Romani.
NOTE:
[374] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 1.
[375] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 23.
Anno di CRISTO LXIV. Indizione VII.
PIETRO APOSTOLO papa 36.
NERONE CLAUDIO imper. 11.
_Consoli_
CAIO LECANIO BASSO e MARCO LICINIO CRASSO.
Andò in quest'anno Nerone a Napoli[376] per vaghezza di far sentire a
quei popoli nel pubblico teatro la sua canora voce. Grande adunanza di
gente v'intervenne dalle vicine città, per udire un imperadore musico,
un usignolo Augusto. Ma occorse un terribile accidente, che nondimeno
a niun recò danno. Appena fu uscita tutta la gente ch'esso teatro
cadde a terra. Pensava quella vana testa di passar anche in Grecia, e
in altre parti di Levante, per raccogliere somiglianti plausi; ma poi
si fermò in Benevento, nè andò più oltre, senza che se ne sappia il
motivo. Fra questi divertimenti fece accusar _Torquato Silano_,
insigne personaggio, discendente da Augusto per via di donne. Il suo
reato era di far troppa spesa per un particolare; ciò indicar disegni
di perniciose novità. Prima di essere condannato, egli si tagliò le
vene. Tornato a Roma Nerone, volle dare una cena sontuosa nel lago di
Agrippa, come ha Tacito. Dione[377] scrive ciò fatto nell'anfiteatro,
dove, dopo una caccia di fiere, introdusse l'acqua per un
combattimento navale; e, dopo averne ritirata l'acqua, diede una
battaglia di gladiatori; e finalmente, rimessavi l'acqua, fece la
cena. N'ebbe l'incombenza Tigellino. V'erano superbe navi ornate d'oro
e d'avorio, con tavole coperte di preziosi tappeti, e all'intorno
taverne disposte in gran numero con delicati cibi preparati per
ognuno. Canti, suoni dappertutto, ed illuminata ogni parte. Concorso
grande di plebe e di nobiltà, tanto uomini che donne, e tutta la razza
delle prostitute. Che Babilonia d'infamità e di lascivie si vedesse
ivi, nol tacquero gli antichi, ma non è lecito alla mia penna il
ridirlo. A questa abbominevole scena ne tenne dietro un'altra, ma
sommamente terribile e funesta[378]. Attaccossi o fu attaccato nel dì
19 di luglio il fuoco alla parte di Roma, dov'era il Circo Massimo,
pieno di botteghe di venditori dell'olio. Spirava un vento gagliardo,
che dilatò l'incendio pel piano e per le colline con tal furore, che
di quattordici rioni di quella gran città dieci restarono orrida preda
delle fiamme, ed appena se ne salvarono quattro. Per così fiera strage
di case, di templi, di palazzi, colla perdita di tanti mobili, e
preziose rarità ed antichità, accompagnata ancora dalla morte
d'assaissime persone, che strida, che urli, che tumulto si provasse
allora, più facile è l'immaginarlo che il descriverlo. Per sei giorni
durò l'incendio (altri dissero di più), senza poter mai frenare il
corso a quel torrente di fuoco. Trovavasi Nerone ad Anzo, allorchè
ebbe nuova di sì gran malanno, nè si mosse per restituirsi a Roma, se
non quando seppe che le fiamme si accostavano al suo palazzo, e agli
orti di Mecenate, fabbriche anch'esse appresso involte nell'indicibil
eccidio.
Che quella bestia di Nerone fosse l'autore di sì orrida tragedia, a
cui non fu mai veduta una simile in Italia, lo scrivono risolutamente
Svetonio e Dione e chi poscia da loro trasse la storia romana.
Aggiungono, esser egli venuto a sì diabolica invenzione, perchè Roma
abbondante allora di vie strette e torte e di case disordinate, o
poveramente fabbricate, si rifacesse poi in miglior forma, e prendesse
il nome da lui; e che specialmente egli desiderava di veder per terra
molte case e granai pubblici, che gl'impedivano il fabbricare un gran
palazzo ideato da lui. Dicono di più, che fur veduti i suoi camerieri
con fiaccole e stoppia attaccarvi il fuoco; e che Nerone, in quel
mentre stava ad osservar lo scempio, con dire: «Che bella fiamma!»
Aggiungono finalmente, ch'egli vestito in abito da scena a suon di
cetra cantò la rovina di Troia. Ma fra le tante iniquità di Nerone
questa non è certa. Tacito la mette in dubbio; e l'altre suddette
particolarità sono bensì in parte toccate da lui, ma con aggiungere
che ne corse la voce. Trattandosi di un sì screditato imperadore,
conosciuto capace di qualsisia enormità, facil cosa allora fu
l'attribuire a lui l'invenzione di sì gran calamità, ed ora è a noi
impossibile il discernere se vero o falso ciò fosse. Si applicò tosto
Nerone a far alzare gran copia di case di legno, per ricoverarvi tutti
i poveri sbandati, facendo venir mobili da Ostia e da altri luoghi;
comandò ancora, che si vendesse il frumento a basso prezzo. Quindi
stese le sue premure, a far rifabbricare la rovinata città, la quale
(non può negarsi) da questa sventura riportò un incredibil vantaggio.
Imperciocchè con bel ordine fu a poco a poco rifatta, tirate le strade
diritte e larghe, aggiunti i portici alle case, e proibito l'alzar di
troppo le fabbriche. Tutta la trabocchevol copia dei rottami venne di
tanto in tanto condotta via dalle navi che conducevano grani a Roma, e
scaricata nelle paludi di Ostia. Vuole Svetonio che Nerone si
caricasse del trasporto di quelle demolizioni, per profittar delle
ricchezze che si trovavano in esse rovine; nè vi si potevano accostare
se non i deputati da lui. Determinò di sua borsa premii a chiunque
entro di un tal termine di tempo avesse alzata una casa o palagio: e
del suo edificò ancora i portici. Fece distribuire con più proporzione
l'acque condotte per gli acquidotti a Roma, e destinò i siti di esse,
per estinguere al bisogno gl'incendii, con altre provvisioni che
meritavano gran lode, ma non la conseguirono per la comune credenza
che da lui fosse venuto sì orribil malanno. Anch'egli imprese allora
la fabbrica del suo nuovo palazzo, che fu mirabil cosa, e nominato poi
_la Casa doro._ Svetonio[379] ce ne dà un piccolo abbozzo. Tutto il di
dentro era messo a oro, ornato di gemme, intarsiato di madreperle.
Sale e camere innumerabili incrostate di marmi fini; portici con tre
ordini di colonne che si stendevano un miglio; vigne, boschetti,
prati, bagni, peschiere, parchi con ogni sorta di fiere ed animali; un
lago di straordinaria grandezza, con corona di fabbriche all'intorno a
guisa di una città; davanti al palazzo un colosso alto centoventi
piedi, rappresentante Nerone. Allorchè egli vi andò poi ad alloggiare,
disse: «Ora sì che quasi comincio ad abitare in un alloggio
conveniente ad un uomo.» Ma questa sì sontuosa e stupenda mole, con
altri vastissimi disegni da lui fatti di sterminati canali, per condur
lontano sino a cento sessanta miglia per terra l'acqua del mare, costò
ben caro al popolo romano, perciocchè smunto e ridotto al bisogno il
prodigo Augusto, passò a mille estorsioni e rapine, confiscando, sotto
qualsivoglia pretesto, i beni altrui, imponendo non più uditi dazii e
gabelle, ed esigendo contribuzioni rigorose da tutte le città, ed
anche dalle libere e collegate; il che fu quasi la rovina delle
provincie. Nè ciò bastando, mise mano ai luoghi sacri; estraendone
tutti i vasi d'oro e d'argento, e le altre cose preziose. Mandò anche
per la Grecia e per l'Asia a spogliar tutti que' templi delle ricche
statue degli stessi dii, e di ogni lor più riguardevole ornamento.
Diede occasione lo spaventoso incendio di Roma alla prima persecuzione
degl'imperatori pagani[380] contra dei Cristiani. Si era già non solo
introdotta, ma largamente diffusa nel popolo romano, per le
insinuazioni di s. Pietro Apostolo e de' suoi discepoli, la religione
di Cristo; giacchè non duravano fatica i buoni a conservare la santità
ed eccellenza in confronto dell'empia e sozza dei Gentili. Nerone,
affin di scaricar sopra d'altri l'odiosità da lui contratta per la
comune voce di aver egli stesso incendiata quella gran città,
calunniosamente, secondo il suo solito, ne fece accusare i Cristiani,
siccome attestano Tertulliano, Eusebio, Lattanzio, Orosio ed altri
autori, e fin gli stessi storici pagani Tacito e Svetonio. Scrive esso
Tacito, ma non già Svetonio, che furono convinti di aver essi
attaccato il fuoco a Roma, quando egli stesso poco dianzi avea
attestato che la persuasion comune ne facea autore lo stesso Nerone; e
Svetonio e Dione ciò danno per certo. Non era capace di sì enorme
misfatto chi seguitava la legge purissima di Gesù Cristo, e
massimamente durante il fervore e l'illibatezza dei primi Cristiani. A
che fine mai, gente dabbene, e lasciata in pace, avea da cadere in sì
mostruoso eccesso? Perciò una _gran moltitudine_ di essi fu con aspri
ed inutili tormenti fatta morire sulle croci, o bruciata a lento
fuoco, o vestita da fiere, per essere sbranata dai cani. Vi si
aggiunse ancora l'inumana invenzione di coprirli di cera, pece e di
altre materie combustibili, e di farli servir di notte, come tanti
doppieri della crudeltà, negli orti stessi di Nerone. Così cominciò
Roma ad essere bagnata dal sacro sangue de' martiri. Confessa
nondimeno il medesimo Tacito, che gran compassione produsse un così
fiero macello di gente, tuttochè, secondo lui, colpevole per una
religione contraria al culto dei falsi dii. In questi tempi avendo
ordinato Nerone che l'armata navale tornasse al porto di Miseno, fu
essa sorpresa da così impetuosa burrasca, che la maggior parte delle
galee e di altre navi minori s'andò a fracassare nei lidi di Cuma.
NOTE:
[376] Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 33.
[377] Dio, lib. 61.
[378] Tacit., Annal., lib. 15, c. 38. Dio, lib. 61. Suet., in Ner., c.
38.
[379] Sueton., in Nerone, c. 31 et 32. Tacitus, Annal., lib. 15, cap.
42 et seqq.
[380] Sueton., in Nerone, c. 16. Tacit., lib. 15, c. 42 et seqq.
Anno di CRISTO LXV. Indizione VIII.
LINO papa 1.
NERONE CLAUDIO imper. 12.
_Consoli_
AULO LICINIO NERVA SILIANO e MARCO VESTINO ATTICO.
In una iscrizione, rapportata dal Doni e da me[381], si legge SILANO
ET ATTICO COS. Se questa sussiste, non _Siliano_, ma _Silano_ sarà
stato l'ultimo dei suoi cognomi. Il cardinal Noris ed altri sostentano
_Siliano._ Per attestato di Tacito, avea Nerone disegnati consoli per
le calende di luglio, _Plauzio Laterano_, dalla cui persona o casa
riconosce la sua origine la Basilica Lateranense, ed _Anicio Cereale._
Il primo, in vece del consolato, ebbe da Nerone la morte, siccome
dirò. Fece lo stesso fine _Vestino Attico_, cioè l'altro console
ordinario. Però si può tenere per fermo che _Cereale_ succedesse nel
consolato. Roma[382] in questo anno divenne teatro di morti violente
per la congiura di _Caio Calpurnio Pisone_, che fu scoperta. Era
questi di nobilissima famiglia, ben provveduto di beni di fortuna,
grande avvocato dei rei, e però comunemente amato e stimato, benchè
dato ai piaceri ed al lusso, e mancante di gravità di costumi. Sarebbe
volentieri salito sul trono, e per salirvi conveniva levar di mezzo
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