Annali d'Italia, vol. 1 - 20
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più consoli, fu conferita questa dignità al medesimo _Marco Salvio
Ottone imperadore Augusto_ e a _Lucio Salvio Ottone Tiziano_ suo
fratello _per la seconda volta._ Nelle calende di marzo succederono ad
essi _Lucio Virginio Rufo_ e _Vopisco Pompeo Silvano:_ Cedendo questi
nelle calende di maggio, furono sostituiti _Tito Arrio Antonino_ e
_Publio Mario Celso per la seconda volta._ Continuarono questi in quel
decoroso grado sino alle calende di settembre; ed allora entrarono
consoli _Caio Fabio Valente_ ed _Aulo Alieno Cecina_. Ma essendo stato
degradato il secondo d'essi nel dì 31 di ottobre, fu creato console
_Roseto Regolo_, la cui dignità non oltrepassò quel giorno; perciocchè
nelle calende di novembre venne conferito il consolato a _Gneo Cecilio
Semplice_ e a _Caio Quinzio Attico._ Tutto ciò si ricava da
Tacito[425].
Sul principio si studiò Ottone di procacciarsi l'affetto e la stima
del popolo. Luminosa fu un'azione sua. _Mario Celso_ poco fu
mentovato, che comandava la compagnia delle milizie dell'Illirico, ed
era console disegnato, avea con fedeltà soddisfatto al suo dovere
nell'accorrere alla difesa di Galba. Dopo la di lui morte venne per
baciar la mano ad Ottone[426]. Gl'iniqui pretoriani alzarono allora le
voci, gridando: _Muoia._ Ottone, bramando di salvarlo dalla lor furia,
col pretesto di voler prima ricavare da lui varie notizie, il fece
caricar di catene, fingendosi pronto a toglierlo di vita. Ma nel dì
seguente il liberò, l'abbracciò, e scusò l'oltraggio fattogli
solamente per suo bene. Nè solamente il lasciò poi godere del
consolato, ma il volle ancora per uno de' suoi generali e dei più
intimi amici, con trovarlo non men fedele verso di sè che verso
l'infelice Galba. Alle istanze ancora del popolo indusse a darsi la
morte _Sofonio Tigellino_, da noi veduto infame ministro delle
scelleraggini di Nerone. Inoltre si applicò seriamente al maneggio de'
pubblici affari, e restituì a molti i lor beni tolti da Nerone: azioni
tutte che gli fecero del credito, non parendo egli più quel pigro e
quel perduto nel lusso e ne' piaceri che era stato in addietro. Ma i
più non se ne fidavano, conoscendolo abituato nei vizii, e simile nel
genio a Nerone, le cui statue, come ancor quelle di Poppea, permise
che si rialzassero. Osservavano parimente ch'egli mostrava poco
affetto al senato, moltissimo ai soldati: laonde temevano che se fosse
cessata la paura dell'emulo Vitellio, si sarebbe provato in lui un
novello Nerone. E certo egli era comunemente odiato più di Vitellio,
non tanto pel tradimento da lui fatto a Galba, quanto perchè il
riputavano persona data alla crudeltà, e capace di nuocere a tutti;
laddove Vitellio era in concetto di uomo dato ai piaceri, e però in
istato di solamente nuocere a sè stesso: benchè in fine amendue
fossero poco amati, anzi odiati dai Romani. Intanto era diviso il
romano imperio fra questi due competitori. _Ottone_ si trovava
riconosciuto imperadore in Roma e da tutta l'Italia. Cartagine con
tutta l'Africa era per lui. _Muciano_, governator della Siria, o sia
della Soria, gli fece prestar giuramento dai popoli di quelle
contrade[427]. Altrettanto fece _Vespasiano_ nella Palestina. Aveva
egli inviato già _Tito_ suo figliuolo, per attestare il suo ossequio a
Galba; ma dacchè, arrivato a Corinto, intese la di lui morte, se ne
tornò indietro a trovar il padre. Anche le legioni della Dalmazia,
Pannonia e Mesia aderirono ad Ottone. Così l'Egitto e le altre città
dell'Oriente e della Grecia. Ancorchè Ottone fosse un usurpatore, il
nome nondimeno di Roma e del senato romano, che l'avea accettato,
bastò perchè tanti altri paesi s'uniformassero al capo dell'imperio.
Ma in mano di _Vitellio_ erano le migliori e più accreditate milizie
de' Romani, raccolte dall'alta e bassa Germania, dalla Bretagna e da
una parte della Gallia[428]. Ne formò egli due eserciti, l'uno di
quarantamila combattenti sotto il comando di _Fabio Valente_, l'altro
di trentamila, comandato da _Alieno Cecina_, a' quali si unirono varii
rinforzi di Tedeschi. Ardevano tutti costoro di voglia, non ostante il
verno, di far dei fatti, per aver occasione di bottinare (fine
primario di chi esercita quel mestiere), mentre il grasso e pigro
Vitellio attendeva a darsi bel tempo, con far buona tavola, ubbriaco
per lo più. Anche vivente Galba si mossero tante forze sotto i due
generali per due diverse vie alla volta d'Italia; cioè _Valente_ per
le Gallie, e _Cecina_ per l'Elvezia. Vitellio facea conto di
seguitarli dipoi. Nel viaggio ebbero nuova della morte di Galba e
dell'innalzamento di Ottone. Dovunque passò Valente per la Gallia, il
terrore delle sue armi condusse i popoli all'ubbidienza di Vitellio.
Sopra tutto con allegria fu ricevuto in Lione. In altri luoghi non
mancarono saccheggi ed anche stragi. Non fece di meno Cecina nel
passare pel paese degli Svizzeri. All'avviso di queste armate, che si
avvicinavano all'Italia, un reggimento di cavalleria, accampato sul
Po, che avea servito una volta in Africa sotto Vitellio, l'acclamò
imperadore, e cagion fu che Milano, Ivrea, Novara e Vercelli
prendessero il suo partito. Perciò si affrettò Cecina verso la metà di
marzo per calare in Italia, ancorchè i monti fossero tuttavia carichi
di neve, e spedì innanzi un corpo di gente, per sostenere le suddette
città. Gran dire, gran costernazione fu in Roma, allorchè si udì la
mossa di tante armi, e l'inevitabil guerra civile[429]. Mosse _Ottone_
il senato a scrivere a Vitellio delle lettere amorevoli, per esortarlo
a desistere dalla ribellione, offrendogli danaro, comodi e una città.
Ne scrisse anch'egli, e dicono[430] che gli esibisse segretamente di
prenderlo per collega nell'imperio e per genero. Gli rispose Vitellio
in termini amichevoli; tali nondimeno che mostravano di burlarsi di
lui. Irritato Ottone gli rispose per le rime, cioè gliene scrisse
dell'altre piene di vituperii, e con ridicole sparate, ricordandogli
soprattutto l'infame sua vita passata. Non furono meno obbrobriose le
risposte di Vitellio. Nè alcun di loro diceva bugia. Amendue ancora
inviarono degli assassini, per liberarsi cadauno dall'emulo suo; ma
riuscì in fumo il loro disegno. Adunque chiaro si vide, non restar
altro che di decidere la contesa coll'armi. Unì _Ottone_ una possente
armata anch'egli, composta della maggior parte de' pretoriani e delle
legioni venute dalla Dalmazia e Pannonia. E lasciato al governo di
Roma _Tiziano_ suo fratello con _Flavio Svetonio_ prefetto d'essa
città, e fratello di Vespasiano, dato anche ordine che non fosse fatto
torto alcuno alla madre, alla moglie e a' figliuoli di Vitello, nel dì
14 di marzo si licenziò dal senato, e alla testa dell'esercito, non
parendo più quell'effeminato uomo di una volta, s'incamminò per venir
contro a' nemici. Suoi marescialli erano _Svetonio Paolino, Mario
Celso_ ed _Annio Gallo_, uffiziali non meno prudenti che bravi.
Mancavano ben questi pregi a' _Licinio Procolo_ prefetto del pretorio,
che pur faceva una delle prime figure in quell'armata. _Alieno
Cecina_, general di Vitellio, arrivato al Po, passò quel fiume a
Piacenza, ed assalì quella città, da cui _Annio Gallo_[431], dopo due
dì di valorosa difesa, il fece ritirare a Cremona, malcontento per la
perdita di molta gente. Fu in quella occasione bruciato l'anfiteatro
de' Piacentini, posto fuori della città, il più capace di gente che
fosse allora in Italia. Anche _Marzio Macro_, console disegnato, diede
a Cecina un'altra percossa coi gladiatori di Ottone. Eppur egli, ciò
non ostante, volle venire ad un terzo cimento: tanta era la voglia in
lui di vincere, affinchè l'altro general di Vitellio, cioè _Valente_,
non gli rapisse o dimezzasse la gloria. In un luogo detto i Castori,
dodici miglia lungi da Cremona, tese un'imboscata a _Svetonio Paolino_
e a _Mario Celso;_ ma questi, avutane notizia, presero così ben le
misure, che il misero in rotta, ed avrebbono anche rovinata affatto la
di lui gente, se Paolino per troppa cautela non avesse impedito ai
suoi l'inseguirli. Per questo fu egli in sospetto di tradimento, ed
Ottone chiamò da Roma _Tiziano_ suo fratello, acciocchè comandasse
l'armi, sebben con poco frutto, perchè Licinio Procolo, capitan delle
guardie, benchè uomo inesperto, la facea da superiore a tutti.
Venne poi Valente da Pavia colla sua armata più numerosa dell'altra ad
unirsi con Cecina, e tuttochè questi due generali di Vitellio fossero
gelosi l'uno dell'altro, si accordarono nondimeno pel buon regolamento
della guerra, e per isbrigarla il più presto possibile. Tenne
consiglio dall'altra parte Ottone; e il parere de' suoi più assennati
generali, cioè di Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, fu di
temporeggiare, tanto che venissero alcune legioni che si aspettavano
dall'Illirico. Ma prevalse quello di Ottone, Tiziano e Procolo, ai
quali parve meglio di venir senza dimora a battaglia, perchè i
pretoriani credendosi tanti Marti, si tenevano in pugno la vittoria, e
tutti ansavano di ritornarsene tosto alle delizie di Roma[432]. Lo
stesso Ottone impaziente per trovarsi in mezzo a tanti pericoli, fra
l'incertezza delle cose e il timore di qualche rivolta de' soldati,
era nelle spine; però si voleva levar d'affanno con un pronto fatto
d'armi. Ma da codardo si ritirò a Brescello, dove il fiume Enza sbocca
nel Po, per quivi aspettar l'esito delle cose; risoluzione che
accrebbe la sua rovina, perchè seco andarono molti bravi uffiziali e
molti soldati, con restare indebolita l'armata sua in mano di generali
discordi fra loro, e poco ubbidienti e senza quel coraggio di più che
loro avrebbe potuto dar la presenza del principe. Seguì qualche
piccolo fatto fra gli staccamenti delle due armate, ma finalmente
quella di Ottone, passato il Po, andò a postarsi a qualche miglio
lungi da Bedriaco, villa posta fra Verona e Cremona, più vicina
nondimeno all'ultimo, verso il fiume Oglio, dove si crede che oggidì
sia la terra di Caneto. Molte miglia separavano le due armate; ed
ancorchè Svetonio e Mario ripugnassero alla risoluzion conceputa da
Procolo di andare nel dì seguente (cioè circa il dì 15 di aprile) ad
assalire i nemici, perchè l'arrivar colà stanchi i soldati era un
principio d'esser vinti: Procolo persistè nella sua opinione, perchè
sollecitato da più lettere di Ottone, che voleva battaglia. Si venne
in fatti al combattimento[433], che fu sanguinosissimo, credendosi che
fra l'una e l'altra parte restassero sul campo estinte circa
quarantamila persone, perchè non si dava quartiere. Ma la vittoria
toccò all'armata di Vitellio. I generali di Ottone, chi qua chi là
fuggitivi, scamparono colle reliquie della lor gente il meglio che
poterono, valendosi del favor della notte[434]. Ma perchè nel dì
seguente si aspettavano di nuovo addosso il vittorioso esercito, con
pericolo d'essere tutti tagliati a pezzi, gli uffiziali, soldati e lo
stesso Tiziano, fratello di Ottone, che si trovarono insieme,
s'accordarono di fare una deputazione a Valente e Cecina, per
rendersi. Fu accettata l'offerta, ed unitesi le non più nemiche
armate, ognun corse ad abbracciare gli amici, a detestare gli odii
passati, e condolersi delle morti di tanti. Giurarono i vinti fedeltà
a Vitellio, e cessarono tutti i rancori. Portata questa lagrimevol
nuova ad Ottone, dimorante in Brescello, non mancarono già i suoi
cortigiani di animarlo, con fargli conoscere arrivate già ad Aquileia
tre legioni della Mesia, salvate altre buone milizie a lui fedeli, non
essere disperato il caso. Ma egli aveva già determinato di finirla,
chi credette per orrore di una guerra civile, come attesta
Svetonio[435], chi per poca fortezza d'animo, e chi per acquistarsi
una gloria vana con una risoluzion generosa. Pertanto attese
spiritosamente nel resto del giorno a distribuir danaro a' suoi
domestici ed amici, a bruciar le lettere scrittegli da varie persone
contra di Vitellio, affinchè non pregiudicassero a chi le avea
scritte, e a dar altri ordini per la sicurezza di molti nobili
ch'erano alla sua corte[436]. Prese anche nella notte seguente un po'
di sonno, ma fu disturbato da un rumor delle guardie, che minacciavano
la morte a que' senatori, i quali d'ordine suo erano per ritirarsi, e
sopra tutto aveano assediato _Virginio Rufo._ Uscì Ottone di camera, e
con buona maniera calmò quel tumulto. Poscia, sul far del giorno
svegliato, intrepidamente si diede un pugnale nel petto, e di quella
ferita fra poco morì in età di trentasette anni[437]. Al suo cadavero
bruciato fu data quella sepoltura che si potè, cioè in terra, colla
memoria del solo suo nome senza titolo alcuno. Una massa di monete
d'oro, trovate sui primi anni del secolo, in cui scrivo, sul
territorio di Brescello, fece credere ad alcuni che fossero ivi
seppellite in occasion delle disgrazie di Ottone. Benchè usurpator
dell'imperio, e screditato per varie sue ree qualità, cotanto era
amato dai soldati, che alcuni d'essi, non meno in Brescello, che in
Piacenza e in altri luoghi, pel dolore accompagnarono la di lui morte
colla propria, secondo la detestabil usanza e frenesia di quei tempi.
Dacchè i soldati, ch'erano in Brescello, non poterono indurre Virginio
Rufo ad accettar l'imperio, si diedero ai generali di Vitellio. In un
fiero imbroglio si trovò allora la maggior parte del senato che Ottone
avea lasciato in Modena, perchè dall'un canto temeva oltraggi
dall'armi di Vitellio, e dall'altro i soldati di Ottone tenendoli a
vista d'occhio, e riputandoli nemici dell'estinto principe, cercavano
pretesti per menar le mani contra di loro. Finalmente ebbero la
fortuna di salvarsi a Bologna, dove si mostrarono disposti a
riconoscere Vitellio; ma per qualche tempo se ne guardarono a cagion
di una falsa voce portata da Ceno, liberto già di Nerone, che i
vincitori erano poi stati vinti. Da queste paure non si riebbero se
non allorchè arrivarono lettere di Valente che riferirono la vera
positura degli affari. In Roma, subito che s'intese quanto era
succeduto di Ottone, _Flavio Sabino_, fratello di Vespasiano, fece
prestar giuramento dal senato e dai soldati che ivi restavano, a
Vitellio, e il senato gli accordò tutti gli onori consueti.
Intanto _Vitellio_, dopo aver lasciato ad _Ordeonio Fiacco_ un corpo
di milizie per la guardia del Reno germanico, col resto delle genti
che potè raccorre, si mise in viaggio verso l'Italia. Per istrada
intese la vittoria de' suoi e la morte di Ottone, e che _Cluvio Rufo_,
governator della Spagna, avea ricuperate le due Mauritanie. Arrivato a
Lione, quivi trovò non meno i vincitori che i vinti generali. Perdonò
a _Tiziano_ fratello di Ottone, perchè il conosceva per uomo dappoco.
Conservò il consolato a _Mario Celso. Svetonio_ e _Procolo_ si
acquistarono la di lui grazia con una viltà, asserendo di aver fatta
consigliatamente perdere la vittoria ad Ottone nella battaglia di
Bedriaco. Mandò Vitellio a Roma un editto, per cui proibiva ai
cavalieri il combattere da gladiatori fra loro e contro le fiere negli
anfiteatri. Un altro ancora, che tutti gli strologhi e indovini prima
delle calende di ottobre fossero fuori d'Italia. Si vide attaccato
nella stessa notte un cartello, in cui essi strologhi comandavano a
lui di uscire del mondo prima del suddetto medesimo giorno. Se ne
alterò talmente Vitellio, che qualunque d'essi che gli capitasse alle
mani, senza processo il condannava alla morte. Grande odiosità si tirò
egli addosso coll'aver inviato ordine che si levasse la vita a _Gneo
Cornelio Dolabella_ uno de' più illustri Romani, odiato da lui per
particolari riguardi, che, relegato ad Aquino, era dopo la morte di
Ottone ritornato a Roma. L'ordine fu barbaramente eseguito. Intanto a
poco a poco tutte le provincie si andarono sottomettendo a lui; ma
l'Italia era afflitta per le tante soldatesche del medesimo Vitellio e
dell'altre che furono di Ottone. Senza disciplina saccheggiavano,
uccidevano, e sotto l'ombra loro anche molti altri faceano ruberie e
vendette. Entrato che fu Vitellio in Italia, trovò modo di dividere le
milizie (e specialmente i pretoriani) che avevano servito ad Ottone,
perchè le conobbe malcontente ed inquiete, e a poco a poco le andò
cassando, con dar loro delle ricompense. Venne a Cremona, e volle coi
suoi occhi vedere il campo dove s'era data (già scorreano quaranta
giorni) la battaglia; ed avvegnachè fossero tuttavia insepolte quelle
migliaia di cadaveri, e menasse un insopportabil fetore, non lasciò
ordine che si seppellissero; anzi disse che _l'odore di un nemico
morto sapea di buono._ Menava seco circa sessantamila combattenti,
senza i famigli ed altre persone destinate al bagaglio, ch'erano più
del doppio. Dovunque passava questa gran ciurma, lasciava lagrimevoli
segni della sua rapacità e barbarie. Verso la metà di luglio arrivò a
Roma, e, se non era distornato da' suoi amici, volea farvi l'entrata
in abito da guerra, come in una città conquistata. L'accompagnavano
mandre di eunuchi e commedianti, secondo la usanza del suo maestro
Nerone, e questi ebbero poi parte agli affari. Trovata _Sestilia_ sua
madre nel Campidoglio, le diede il cognome di _Augusta_; ma ella non
se ne allegrò punto, anzi si vergognava di avere un sì indegno
imperadore per figlio. Morì ella dipoi in quest'anno, non si sa se per
iniquità del figliuolo, o per veleno da lei preso, prevedendo i mali
che doveano avvenire. Fece dipoi Vitellio una nuova leva di coorti
pretoriane sino a sedici, tutte di mille uomini per cadauna, e gente
scelta. Due furono i prefetti del pretorio, cioè _Publio Sabino_ e
_Giulio Prisco. Valente_ e _Cecina_ potevano tutto in corte, ma sempre
fra loro discordi. Diedesi poi questo ghiottone Augusto, com'era il
suo stile, a fare del suo ventre un dio, ma con eccessi maggiori, a
misura della dignità e del comodo accresciuto. Il suo mestiere
cotidiano era mangiare e bere e vomitare per far luogo ad altri cibi e
bevande. Consumava in ciò tesori; e molti si spiantarono per fargli
de' conviti. Non istimava nè lodava questo mostro se non le azioni di
Nerone, e le imitava bene spesso, inclinando anche alla crudeltà, di
cui rapporta Svetonio[438] varii esempli; e se fosse sopravvissuto
molto, forse sarebbe riuscito anche in ciò non inferiore a lui. La
maniera di guadagnarlo soleva essere l'adulazione; ma siccome egli era
timido e sospettoso, poco ci voleva a disgustarlo.
E fin qui abbiam veduto le due tragedie di _Galba_ e di _Ottone._ Ora
è tempo di passare alla terza. Di niuno più temeva Vitellio che di
_Flavio Vespasiano_, generale dell'armi romane nella Giudea, dove si
continuava la guerra con apparenza ch'egli fosse per assediar
Gerusalemme. Allorchè gli venne la nuova che esso Vespasiano e
_Licinio Muciano_, governator della Soria, il riconoscevano per
imperadore, ne fece gran festa. Ed, in vero, sulle prime niuno mai
s'avvisò che Vespasiano potesse arrivar all'imperio, nè egli vi
aspirava, perchè bassamente nato a Rieti e mancante di danaro. Si
raccontavano ancora molte viltà di lui nella vita privata; e
Tacito[439] ci assicura ch'egli si era tirato addosso l'odio e il
dispregio de' popoli; ma i fatti mostrarono poi tutto il contrario.
Comunque sia, Dio l'aveva destinato a liberar Roma dai mostri, e a
punire l'orgoglio de' Giudei implacabili persecutori del nato
Cristianesimo. Era egli per altro dotato di molte lodevoli qualità,
perchè senza fasto, temperante nel vitto, amorevole verso tutti, e
massimamente verso i soldati, che l'amavano non poco, ancorchè li
tenesse in disciplina; vigilante e prudente, buono soldato e migliore
capitano. Sopra tutto veniva considerato come amator della giustizia;
la sua età era allora d'anni sessanta. Si può giustamente credere che
dopo la morte di Galba i più saggi de' Romani, al vedere che i due
usurpatori Ottone e Vitellio, senza sapersi chi fosse il peggiore di
loro, disputavano dell'imperio, rivolgessero i lor occhi e desiderii a
Vespasiano, e segretamente ancora l'esortassero al trono. _Flavio
Sabino_ di lui fratello gran figura faceva anch'egli, coll'essere
prefetto di Roma, e le sue belle doti maggiormente accreditavano
quelle del fratello. O questo fosse, o pure che gli uffiziali e
soldati di Vespasiano mirando quel che aveano fatto gli altri in
Ispagna, Roma e Germania, non volessero essere da meno: certo è che si
cominciò da essi a proporre di far imperadore Vespasiano. Quegli che
diede l'ultima spinta all'irrisoluzione di esso Vespasiano,
personaggio guardingo e non temerario, fu il suddetto _Licinio
Muciano_ governator della Soria, il quale dopo la morte di Ottone gli
rappresentò, che non era sicura nè la comune lor dignità, nè la vita
sotto quell'infame imperador di Vitellio. Si lasciò vincere in fine
Vespasiano, ed essendo entrato nella medesima lega anche _Tiberio
Alessandro_ governator dell'Egitto, fu egli il primo a proclamarlo in
Alessandria imperadore nel dì primo di luglio[440]; e lo stesso fece
nel terzo giorno di esso mese anche la armata della Giudea, a cui
Vespasiano promise un donativo, simile a quel di Claudio e di Nerone.
La Soria, e tutte le altre provincie e i re sudditi di Roma in
Oriente, e la Grecia alzarono anche esse le bandiere del novello
Augusto. Furono scritte lettere a tutte le provincie dell'Occidente,
per esortar ciascuno ad abbandonar Vitellio, usurpatore indegno del
trono imperiale[441]. Si fece intendere ai pretoriani cassati da
Vitellio, che questo era il tempo di farlo pentire; e veramente
costoro arrolatisi in favor di Vespasiano, fecero di poi delle
meraviglie contra di Vitellio.
Essendo così ben disposte le cose, e procacciate quelle somme di
denaro che si poterono raccogliere per muovere le soldatesche, e in un
gran consiglio tenuto in Berito, fu conchiuso che _Muciano_ marcerebbe
con un competente esercito in Italia; _Tito_, figliuolo di Vespasiano,
già dichiarato _Cesare_, continuerebbe lentamente la guerra contro ai
Giudei: e _Vespasiano_ passerebbe nella doviziosa provincia
dell'Egitto, per raunar danaro, ed affamare o provveder di grani Roma,
secondochè portasse il bisogno. _Muciano_, uomo ambizioso, e che
mirava a divenire in certa maniera compagno di Vespasiano nel
principato, accettò volentieri quella incumbenza. Per timore delle
tempeste non si arrischiò al mare; ma imprese il viaggio per terra,
con disegno di passare lo stretto verso Bisanzio; al qual fine ordinò
che quivi fossero pronti i vascelli del mar Nero. Non era molto
copiosa e possente l'armata di Muciano, ma a guisa de' fiumi regali
andò crescendo per via: tanta era la riputazion di Vespasiano, e
l'abbominazion di Vitellio. Nella Mesia le tre legioni che stavano ivi
a' quartieri, si dichiararono per Vespasiano; e l'esempio d'esse seco
trasse due altre della Pannonia, e poi le milizie della Dalmazia,
senza neppur aspettare l'arrivo di Muciano. _Antonio Primo_ da Tolosa,
soprannominato _Becco di Gallo_, forse dal suo naso (dal che impariamo
l'antichità della parola _Becco_), uomo arditissimo[442], sedizioso ed
egualmente pronto alle lodevoli che alle malvage imprese, quegli fu
che colla sua vivace eloquenza commosse popoli e soldati contra di
Vitellio, nè aspettò gli ordini di Vespasiano o di Muciano, per farsi
generale di quelle legioni. Che più? Chiamati in soccorso i re degli
Svevi ed altri Barbari, e trovato che quelle milizie nulla più
sospiravano che di entrare in Italia, per arricchirsi nello spoglio di
queste belle provincie, di sua testa con poche truppe innanzi agli
altri calò in Italia, e fu con festa ricevuto in Aquileia, Padova,
Vicenza, Este, ed altri luoghi di quelle parti. Mise in rotta un corpo
di cavalleria, ch'era postata al Foro da Alieno, dove oggidì è
Ferrara. Rinforzato poi dalle due legioni della Pannonia (soleva
essere ogni legione composta di seimila soldati), s'impadronì di
Verona, e quivi si fortificò. Colà ancora giunse _Marco Aponio
Saturnino_ con una delle legioni della Mesia, e concorse ad arrolarsi
sotto di Primo gran copia dei pretoriani licenziati da Vitellio.
Ancorchè fosse sì grande il suscitato incendio, non s'era per anche
mosso l'impoltronito Vitellio. Svegliossi egli allora solamente, che
intese penetrato il fuoco fino in Italia. Perchè _Valente_ non era ben
rimesso da una sofferta malattia, diede il comando delle sue armi ad
_Alieno Cecina_, con ordine di marciare speditamente contra di
_Antonio Primo._ Venne Cecina con otto legioni almeno, cioè con tali
forze che avrebbe potuto opprimerlo. Mandò parte delle milizie a
Cremona, e col più della gente armata si portò ad Ostiglia sul Po.
Macchinando poi altre cose, perdè apposta il tempo in iscrivere
lettere di rimproveri e minacce ai soldati di Primo, ed intanto lasciò
che arrivassero a Verona le due altre legioni della Mesia. Finalmente,
dappoichè intese che _Luciano Basso_, governatore della flotta di
Ravenna, con cui teneva intelligenza, verso il di 20 d'ottobre s'era
rivoltato in favor di Vespasiano: allora, come se fosse disperato il
caso per Vitellio, si diede ad esortare i soldati ad abbracciare il
partito di Vespasiano, e molti ne indusse a prestar giuramento a lui,
e a rompere le immagini di Vitellio. Ma gli altri, che non poteano
sofferir tanta perfidia, e quegli stessi che poc'anzi aveano
giurato[443], presi dalla vergogna e pentiti, si scagliarono contra di
lui, senza alcun rispetto al carattere di console, incatenato
l'inviarono a Cremona, e cominciarono a caricar anch'essi il bagaglio,
per passare colà.
Ad _Antonio Primo_, ch'era in Verona, fu portata dalle spie
l'informazione di quanto era accaduto ad Ostiglia, e subito fu in
armi, per impedir l'unione di quell'esercito con quel di Cremona.
Inoltratosi sino a Bedriaco, luogo fatale per le battaglie, e circa
nove miglia lungi da quel sito, s'incontrò colle soldatesche di
Vitellio, che uscite di Cremona venivano per unirsi con quelle
d'Ostiglia. Ciò fu circa il dì 26 di ottobre. Dopo sanguinoso
conflitto le mise in rotta, obbligando chi scampò dalle sue spade a
rifugiarsi in Cremona. Ad alte voci allora dimandarono i vittoriosi
soldati di andar dirittamente a Cremona, per isperanza d'entrarvi e
per avidità di saccheggiarla. Nè gli avrebbe potuto ritenere Primo, se
non fosse giunto l'avviso che s'appressava l'altra armata partita da
Ostiglia, e in ordinanza di battaglia. Era già sopraggiunta la notte,
e pure i due eserciti vennero alle mani con ardore, con fierezza
inaudita, combattendo, per quanto comportavano le tenebre, senza
distinguere talvolta chi fosse amico o nemico. Levatasi poi la luna,
cominciò Primo a provarne del vantaggio, perchè essa dava nel volto ai
nemici. Durò il combattimento tutto il resto della notte, e fatto poi
giorno, avendo la terza legione, già venuta di Soria, secondo l'uso di
que' paesi, salutato il sole con alti ed allegri _Viva_, questo rumore
fece credere a que' di Vitellio che l'esercito di Muciano fosse
arrivato, e diede loro tal terrore, che riuscì poi facile a Primo lo
sconfiggerli ed obbligarli alla fuga. Giuseppe[444], narrando che dei
soldati di Vitellio in queste azioni perirono trentamila e dugento
persone, quattromila e cinquecento di quei di Vespasiano,
verisimilmente, secondo l'uso delle battaglie, ingrandì di troppo il
racconto, nè noi siam tenuti a prestargli fede. Bensì possiam credere
a Dione allorchè dice, che oscurandosi talvolta la luna per qualche
nuvola, cessava il combattimento; e che i soldati emuli vicini
parlavano l'uno all'altro, chi con villanie, chi con parole
amichevoli, e con detestar le guerre civili, e con invitar
l'avversario a seguitar Vitellio o pur Vespasiano. Ma non c'è già
ragion di credere che l'uno porgesse all'altro da mangiare e da bere,
finchè non si provi che i soldati di allora erano sì bravi od
industriosi da portar seco anche nel furor delle zuffe le loro bisacce
al collo, coll'occorrente cibo e bevanda. Tanto poi Dione quanto
Tacito ci assicurano che incomodando forte una grossa petriera, con
lanciar sassi, l'esercito di Vespasiano, due coraggiosi soldati, dato
di piglio a due scudi degli avversarii, si finsero Vitelliani; ed
arrivati alla macchina ne tagliarono le funi, con render essa inutile,
ma con restar anch'essi tagliati a pezzi senza che rimanesse memoria
alcuna del lor nome. Dopo lo spoglio del campo, _a Cremona, a
Cremona_, gridarono i vincitori soldati. Bisognò andarvi. Si credevano
di saltarvi dentro, ma trovarono un impensato ostacolo, cioè un alto e
mirabil trinceramento, fatto fuor della città nella precedente guerra
Ottone imperadore Augusto_ e a _Lucio Salvio Ottone Tiziano_ suo
fratello _per la seconda volta._ Nelle calende di marzo succederono ad
essi _Lucio Virginio Rufo_ e _Vopisco Pompeo Silvano:_ Cedendo questi
nelle calende di maggio, furono sostituiti _Tito Arrio Antonino_ e
_Publio Mario Celso per la seconda volta._ Continuarono questi in quel
decoroso grado sino alle calende di settembre; ed allora entrarono
consoli _Caio Fabio Valente_ ed _Aulo Alieno Cecina_. Ma essendo stato
degradato il secondo d'essi nel dì 31 di ottobre, fu creato console
_Roseto Regolo_, la cui dignità non oltrepassò quel giorno; perciocchè
nelle calende di novembre venne conferito il consolato a _Gneo Cecilio
Semplice_ e a _Caio Quinzio Attico._ Tutto ciò si ricava da
Tacito[425].
Sul principio si studiò Ottone di procacciarsi l'affetto e la stima
del popolo. Luminosa fu un'azione sua. _Mario Celso_ poco fu
mentovato, che comandava la compagnia delle milizie dell'Illirico, ed
era console disegnato, avea con fedeltà soddisfatto al suo dovere
nell'accorrere alla difesa di Galba. Dopo la di lui morte venne per
baciar la mano ad Ottone[426]. Gl'iniqui pretoriani alzarono allora le
voci, gridando: _Muoia._ Ottone, bramando di salvarlo dalla lor furia,
col pretesto di voler prima ricavare da lui varie notizie, il fece
caricar di catene, fingendosi pronto a toglierlo di vita. Ma nel dì
seguente il liberò, l'abbracciò, e scusò l'oltraggio fattogli
solamente per suo bene. Nè solamente il lasciò poi godere del
consolato, ma il volle ancora per uno de' suoi generali e dei più
intimi amici, con trovarlo non men fedele verso di sè che verso
l'infelice Galba. Alle istanze ancora del popolo indusse a darsi la
morte _Sofonio Tigellino_, da noi veduto infame ministro delle
scelleraggini di Nerone. Inoltre si applicò seriamente al maneggio de'
pubblici affari, e restituì a molti i lor beni tolti da Nerone: azioni
tutte che gli fecero del credito, non parendo egli più quel pigro e
quel perduto nel lusso e ne' piaceri che era stato in addietro. Ma i
più non se ne fidavano, conoscendolo abituato nei vizii, e simile nel
genio a Nerone, le cui statue, come ancor quelle di Poppea, permise
che si rialzassero. Osservavano parimente ch'egli mostrava poco
affetto al senato, moltissimo ai soldati: laonde temevano che se fosse
cessata la paura dell'emulo Vitellio, si sarebbe provato in lui un
novello Nerone. E certo egli era comunemente odiato più di Vitellio,
non tanto pel tradimento da lui fatto a Galba, quanto perchè il
riputavano persona data alla crudeltà, e capace di nuocere a tutti;
laddove Vitellio era in concetto di uomo dato ai piaceri, e però in
istato di solamente nuocere a sè stesso: benchè in fine amendue
fossero poco amati, anzi odiati dai Romani. Intanto era diviso il
romano imperio fra questi due competitori. _Ottone_ si trovava
riconosciuto imperadore in Roma e da tutta l'Italia. Cartagine con
tutta l'Africa era per lui. _Muciano_, governator della Siria, o sia
della Soria, gli fece prestar giuramento dai popoli di quelle
contrade[427]. Altrettanto fece _Vespasiano_ nella Palestina. Aveva
egli inviato già _Tito_ suo figliuolo, per attestare il suo ossequio a
Galba; ma dacchè, arrivato a Corinto, intese la di lui morte, se ne
tornò indietro a trovar il padre. Anche le legioni della Dalmazia,
Pannonia e Mesia aderirono ad Ottone. Così l'Egitto e le altre città
dell'Oriente e della Grecia. Ancorchè Ottone fosse un usurpatore, il
nome nondimeno di Roma e del senato romano, che l'avea accettato,
bastò perchè tanti altri paesi s'uniformassero al capo dell'imperio.
Ma in mano di _Vitellio_ erano le migliori e più accreditate milizie
de' Romani, raccolte dall'alta e bassa Germania, dalla Bretagna e da
una parte della Gallia[428]. Ne formò egli due eserciti, l'uno di
quarantamila combattenti sotto il comando di _Fabio Valente_, l'altro
di trentamila, comandato da _Alieno Cecina_, a' quali si unirono varii
rinforzi di Tedeschi. Ardevano tutti costoro di voglia, non ostante il
verno, di far dei fatti, per aver occasione di bottinare (fine
primario di chi esercita quel mestiere), mentre il grasso e pigro
Vitellio attendeva a darsi bel tempo, con far buona tavola, ubbriaco
per lo più. Anche vivente Galba si mossero tante forze sotto i due
generali per due diverse vie alla volta d'Italia; cioè _Valente_ per
le Gallie, e _Cecina_ per l'Elvezia. Vitellio facea conto di
seguitarli dipoi. Nel viaggio ebbero nuova della morte di Galba e
dell'innalzamento di Ottone. Dovunque passò Valente per la Gallia, il
terrore delle sue armi condusse i popoli all'ubbidienza di Vitellio.
Sopra tutto con allegria fu ricevuto in Lione. In altri luoghi non
mancarono saccheggi ed anche stragi. Non fece di meno Cecina nel
passare pel paese degli Svizzeri. All'avviso di queste armate, che si
avvicinavano all'Italia, un reggimento di cavalleria, accampato sul
Po, che avea servito una volta in Africa sotto Vitellio, l'acclamò
imperadore, e cagion fu che Milano, Ivrea, Novara e Vercelli
prendessero il suo partito. Perciò si affrettò Cecina verso la metà di
marzo per calare in Italia, ancorchè i monti fossero tuttavia carichi
di neve, e spedì innanzi un corpo di gente, per sostenere le suddette
città. Gran dire, gran costernazione fu in Roma, allorchè si udì la
mossa di tante armi, e l'inevitabil guerra civile[429]. Mosse _Ottone_
il senato a scrivere a Vitellio delle lettere amorevoli, per esortarlo
a desistere dalla ribellione, offrendogli danaro, comodi e una città.
Ne scrisse anch'egli, e dicono[430] che gli esibisse segretamente di
prenderlo per collega nell'imperio e per genero. Gli rispose Vitellio
in termini amichevoli; tali nondimeno che mostravano di burlarsi di
lui. Irritato Ottone gli rispose per le rime, cioè gliene scrisse
dell'altre piene di vituperii, e con ridicole sparate, ricordandogli
soprattutto l'infame sua vita passata. Non furono meno obbrobriose le
risposte di Vitellio. Nè alcun di loro diceva bugia. Amendue ancora
inviarono degli assassini, per liberarsi cadauno dall'emulo suo; ma
riuscì in fumo il loro disegno. Adunque chiaro si vide, non restar
altro che di decidere la contesa coll'armi. Unì _Ottone_ una possente
armata anch'egli, composta della maggior parte de' pretoriani e delle
legioni venute dalla Dalmazia e Pannonia. E lasciato al governo di
Roma _Tiziano_ suo fratello con _Flavio Svetonio_ prefetto d'essa
città, e fratello di Vespasiano, dato anche ordine che non fosse fatto
torto alcuno alla madre, alla moglie e a' figliuoli di Vitello, nel dì
14 di marzo si licenziò dal senato, e alla testa dell'esercito, non
parendo più quell'effeminato uomo di una volta, s'incamminò per venir
contro a' nemici. Suoi marescialli erano _Svetonio Paolino, Mario
Celso_ ed _Annio Gallo_, uffiziali non meno prudenti che bravi.
Mancavano ben questi pregi a' _Licinio Procolo_ prefetto del pretorio,
che pur faceva una delle prime figure in quell'armata. _Alieno
Cecina_, general di Vitellio, arrivato al Po, passò quel fiume a
Piacenza, ed assalì quella città, da cui _Annio Gallo_[431], dopo due
dì di valorosa difesa, il fece ritirare a Cremona, malcontento per la
perdita di molta gente. Fu in quella occasione bruciato l'anfiteatro
de' Piacentini, posto fuori della città, il più capace di gente che
fosse allora in Italia. Anche _Marzio Macro_, console disegnato, diede
a Cecina un'altra percossa coi gladiatori di Ottone. Eppur egli, ciò
non ostante, volle venire ad un terzo cimento: tanta era la voglia in
lui di vincere, affinchè l'altro general di Vitellio, cioè _Valente_,
non gli rapisse o dimezzasse la gloria. In un luogo detto i Castori,
dodici miglia lungi da Cremona, tese un'imboscata a _Svetonio Paolino_
e a _Mario Celso;_ ma questi, avutane notizia, presero così ben le
misure, che il misero in rotta, ed avrebbono anche rovinata affatto la
di lui gente, se Paolino per troppa cautela non avesse impedito ai
suoi l'inseguirli. Per questo fu egli in sospetto di tradimento, ed
Ottone chiamò da Roma _Tiziano_ suo fratello, acciocchè comandasse
l'armi, sebben con poco frutto, perchè Licinio Procolo, capitan delle
guardie, benchè uomo inesperto, la facea da superiore a tutti.
Venne poi Valente da Pavia colla sua armata più numerosa dell'altra ad
unirsi con Cecina, e tuttochè questi due generali di Vitellio fossero
gelosi l'uno dell'altro, si accordarono nondimeno pel buon regolamento
della guerra, e per isbrigarla il più presto possibile. Tenne
consiglio dall'altra parte Ottone; e il parere de' suoi più assennati
generali, cioè di Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, fu di
temporeggiare, tanto che venissero alcune legioni che si aspettavano
dall'Illirico. Ma prevalse quello di Ottone, Tiziano e Procolo, ai
quali parve meglio di venir senza dimora a battaglia, perchè i
pretoriani credendosi tanti Marti, si tenevano in pugno la vittoria, e
tutti ansavano di ritornarsene tosto alle delizie di Roma[432]. Lo
stesso Ottone impaziente per trovarsi in mezzo a tanti pericoli, fra
l'incertezza delle cose e il timore di qualche rivolta de' soldati,
era nelle spine; però si voleva levar d'affanno con un pronto fatto
d'armi. Ma da codardo si ritirò a Brescello, dove il fiume Enza sbocca
nel Po, per quivi aspettar l'esito delle cose; risoluzione che
accrebbe la sua rovina, perchè seco andarono molti bravi uffiziali e
molti soldati, con restare indebolita l'armata sua in mano di generali
discordi fra loro, e poco ubbidienti e senza quel coraggio di più che
loro avrebbe potuto dar la presenza del principe. Seguì qualche
piccolo fatto fra gli staccamenti delle due armate, ma finalmente
quella di Ottone, passato il Po, andò a postarsi a qualche miglio
lungi da Bedriaco, villa posta fra Verona e Cremona, più vicina
nondimeno all'ultimo, verso il fiume Oglio, dove si crede che oggidì
sia la terra di Caneto. Molte miglia separavano le due armate; ed
ancorchè Svetonio e Mario ripugnassero alla risoluzion conceputa da
Procolo di andare nel dì seguente (cioè circa il dì 15 di aprile) ad
assalire i nemici, perchè l'arrivar colà stanchi i soldati era un
principio d'esser vinti: Procolo persistè nella sua opinione, perchè
sollecitato da più lettere di Ottone, che voleva battaglia. Si venne
in fatti al combattimento[433], che fu sanguinosissimo, credendosi che
fra l'una e l'altra parte restassero sul campo estinte circa
quarantamila persone, perchè non si dava quartiere. Ma la vittoria
toccò all'armata di Vitellio. I generali di Ottone, chi qua chi là
fuggitivi, scamparono colle reliquie della lor gente il meglio che
poterono, valendosi del favor della notte[434]. Ma perchè nel dì
seguente si aspettavano di nuovo addosso il vittorioso esercito, con
pericolo d'essere tutti tagliati a pezzi, gli uffiziali, soldati e lo
stesso Tiziano, fratello di Ottone, che si trovarono insieme,
s'accordarono di fare una deputazione a Valente e Cecina, per
rendersi. Fu accettata l'offerta, ed unitesi le non più nemiche
armate, ognun corse ad abbracciare gli amici, a detestare gli odii
passati, e condolersi delle morti di tanti. Giurarono i vinti fedeltà
a Vitellio, e cessarono tutti i rancori. Portata questa lagrimevol
nuova ad Ottone, dimorante in Brescello, non mancarono già i suoi
cortigiani di animarlo, con fargli conoscere arrivate già ad Aquileia
tre legioni della Mesia, salvate altre buone milizie a lui fedeli, non
essere disperato il caso. Ma egli aveva già determinato di finirla,
chi credette per orrore di una guerra civile, come attesta
Svetonio[435], chi per poca fortezza d'animo, e chi per acquistarsi
una gloria vana con una risoluzion generosa. Pertanto attese
spiritosamente nel resto del giorno a distribuir danaro a' suoi
domestici ed amici, a bruciar le lettere scrittegli da varie persone
contra di Vitellio, affinchè non pregiudicassero a chi le avea
scritte, e a dar altri ordini per la sicurezza di molti nobili
ch'erano alla sua corte[436]. Prese anche nella notte seguente un po'
di sonno, ma fu disturbato da un rumor delle guardie, che minacciavano
la morte a que' senatori, i quali d'ordine suo erano per ritirarsi, e
sopra tutto aveano assediato _Virginio Rufo._ Uscì Ottone di camera, e
con buona maniera calmò quel tumulto. Poscia, sul far del giorno
svegliato, intrepidamente si diede un pugnale nel petto, e di quella
ferita fra poco morì in età di trentasette anni[437]. Al suo cadavero
bruciato fu data quella sepoltura che si potè, cioè in terra, colla
memoria del solo suo nome senza titolo alcuno. Una massa di monete
d'oro, trovate sui primi anni del secolo, in cui scrivo, sul
territorio di Brescello, fece credere ad alcuni che fossero ivi
seppellite in occasion delle disgrazie di Ottone. Benchè usurpator
dell'imperio, e screditato per varie sue ree qualità, cotanto era
amato dai soldati, che alcuni d'essi, non meno in Brescello, che in
Piacenza e in altri luoghi, pel dolore accompagnarono la di lui morte
colla propria, secondo la detestabil usanza e frenesia di quei tempi.
Dacchè i soldati, ch'erano in Brescello, non poterono indurre Virginio
Rufo ad accettar l'imperio, si diedero ai generali di Vitellio. In un
fiero imbroglio si trovò allora la maggior parte del senato che Ottone
avea lasciato in Modena, perchè dall'un canto temeva oltraggi
dall'armi di Vitellio, e dall'altro i soldati di Ottone tenendoli a
vista d'occhio, e riputandoli nemici dell'estinto principe, cercavano
pretesti per menar le mani contra di loro. Finalmente ebbero la
fortuna di salvarsi a Bologna, dove si mostrarono disposti a
riconoscere Vitellio; ma per qualche tempo se ne guardarono a cagion
di una falsa voce portata da Ceno, liberto già di Nerone, che i
vincitori erano poi stati vinti. Da queste paure non si riebbero se
non allorchè arrivarono lettere di Valente che riferirono la vera
positura degli affari. In Roma, subito che s'intese quanto era
succeduto di Ottone, _Flavio Sabino_, fratello di Vespasiano, fece
prestar giuramento dal senato e dai soldati che ivi restavano, a
Vitellio, e il senato gli accordò tutti gli onori consueti.
Intanto _Vitellio_, dopo aver lasciato ad _Ordeonio Fiacco_ un corpo
di milizie per la guardia del Reno germanico, col resto delle genti
che potè raccorre, si mise in viaggio verso l'Italia. Per istrada
intese la vittoria de' suoi e la morte di Ottone, e che _Cluvio Rufo_,
governator della Spagna, avea ricuperate le due Mauritanie. Arrivato a
Lione, quivi trovò non meno i vincitori che i vinti generali. Perdonò
a _Tiziano_ fratello di Ottone, perchè il conosceva per uomo dappoco.
Conservò il consolato a _Mario Celso. Svetonio_ e _Procolo_ si
acquistarono la di lui grazia con una viltà, asserendo di aver fatta
consigliatamente perdere la vittoria ad Ottone nella battaglia di
Bedriaco. Mandò Vitellio a Roma un editto, per cui proibiva ai
cavalieri il combattere da gladiatori fra loro e contro le fiere negli
anfiteatri. Un altro ancora, che tutti gli strologhi e indovini prima
delle calende di ottobre fossero fuori d'Italia. Si vide attaccato
nella stessa notte un cartello, in cui essi strologhi comandavano a
lui di uscire del mondo prima del suddetto medesimo giorno. Se ne
alterò talmente Vitellio, che qualunque d'essi che gli capitasse alle
mani, senza processo il condannava alla morte. Grande odiosità si tirò
egli addosso coll'aver inviato ordine che si levasse la vita a _Gneo
Cornelio Dolabella_ uno de' più illustri Romani, odiato da lui per
particolari riguardi, che, relegato ad Aquino, era dopo la morte di
Ottone ritornato a Roma. L'ordine fu barbaramente eseguito. Intanto a
poco a poco tutte le provincie si andarono sottomettendo a lui; ma
l'Italia era afflitta per le tante soldatesche del medesimo Vitellio e
dell'altre che furono di Ottone. Senza disciplina saccheggiavano,
uccidevano, e sotto l'ombra loro anche molti altri faceano ruberie e
vendette. Entrato che fu Vitellio in Italia, trovò modo di dividere le
milizie (e specialmente i pretoriani) che avevano servito ad Ottone,
perchè le conobbe malcontente ed inquiete, e a poco a poco le andò
cassando, con dar loro delle ricompense. Venne a Cremona, e volle coi
suoi occhi vedere il campo dove s'era data (già scorreano quaranta
giorni) la battaglia; ed avvegnachè fossero tuttavia insepolte quelle
migliaia di cadaveri, e menasse un insopportabil fetore, non lasciò
ordine che si seppellissero; anzi disse che _l'odore di un nemico
morto sapea di buono._ Menava seco circa sessantamila combattenti,
senza i famigli ed altre persone destinate al bagaglio, ch'erano più
del doppio. Dovunque passava questa gran ciurma, lasciava lagrimevoli
segni della sua rapacità e barbarie. Verso la metà di luglio arrivò a
Roma, e, se non era distornato da' suoi amici, volea farvi l'entrata
in abito da guerra, come in una città conquistata. L'accompagnavano
mandre di eunuchi e commedianti, secondo la usanza del suo maestro
Nerone, e questi ebbero poi parte agli affari. Trovata _Sestilia_ sua
madre nel Campidoglio, le diede il cognome di _Augusta_; ma ella non
se ne allegrò punto, anzi si vergognava di avere un sì indegno
imperadore per figlio. Morì ella dipoi in quest'anno, non si sa se per
iniquità del figliuolo, o per veleno da lei preso, prevedendo i mali
che doveano avvenire. Fece dipoi Vitellio una nuova leva di coorti
pretoriane sino a sedici, tutte di mille uomini per cadauna, e gente
scelta. Due furono i prefetti del pretorio, cioè _Publio Sabino_ e
_Giulio Prisco. Valente_ e _Cecina_ potevano tutto in corte, ma sempre
fra loro discordi. Diedesi poi questo ghiottone Augusto, com'era il
suo stile, a fare del suo ventre un dio, ma con eccessi maggiori, a
misura della dignità e del comodo accresciuto. Il suo mestiere
cotidiano era mangiare e bere e vomitare per far luogo ad altri cibi e
bevande. Consumava in ciò tesori; e molti si spiantarono per fargli
de' conviti. Non istimava nè lodava questo mostro se non le azioni di
Nerone, e le imitava bene spesso, inclinando anche alla crudeltà, di
cui rapporta Svetonio[438] varii esempli; e se fosse sopravvissuto
molto, forse sarebbe riuscito anche in ciò non inferiore a lui. La
maniera di guadagnarlo soleva essere l'adulazione; ma siccome egli era
timido e sospettoso, poco ci voleva a disgustarlo.
E fin qui abbiam veduto le due tragedie di _Galba_ e di _Ottone._ Ora
è tempo di passare alla terza. Di niuno più temeva Vitellio che di
_Flavio Vespasiano_, generale dell'armi romane nella Giudea, dove si
continuava la guerra con apparenza ch'egli fosse per assediar
Gerusalemme. Allorchè gli venne la nuova che esso Vespasiano e
_Licinio Muciano_, governator della Soria, il riconoscevano per
imperadore, ne fece gran festa. Ed, in vero, sulle prime niuno mai
s'avvisò che Vespasiano potesse arrivar all'imperio, nè egli vi
aspirava, perchè bassamente nato a Rieti e mancante di danaro. Si
raccontavano ancora molte viltà di lui nella vita privata; e
Tacito[439] ci assicura ch'egli si era tirato addosso l'odio e il
dispregio de' popoli; ma i fatti mostrarono poi tutto il contrario.
Comunque sia, Dio l'aveva destinato a liberar Roma dai mostri, e a
punire l'orgoglio de' Giudei implacabili persecutori del nato
Cristianesimo. Era egli per altro dotato di molte lodevoli qualità,
perchè senza fasto, temperante nel vitto, amorevole verso tutti, e
massimamente verso i soldati, che l'amavano non poco, ancorchè li
tenesse in disciplina; vigilante e prudente, buono soldato e migliore
capitano. Sopra tutto veniva considerato come amator della giustizia;
la sua età era allora d'anni sessanta. Si può giustamente credere che
dopo la morte di Galba i più saggi de' Romani, al vedere che i due
usurpatori Ottone e Vitellio, senza sapersi chi fosse il peggiore di
loro, disputavano dell'imperio, rivolgessero i lor occhi e desiderii a
Vespasiano, e segretamente ancora l'esortassero al trono. _Flavio
Sabino_ di lui fratello gran figura faceva anch'egli, coll'essere
prefetto di Roma, e le sue belle doti maggiormente accreditavano
quelle del fratello. O questo fosse, o pure che gli uffiziali e
soldati di Vespasiano mirando quel che aveano fatto gli altri in
Ispagna, Roma e Germania, non volessero essere da meno: certo è che si
cominciò da essi a proporre di far imperadore Vespasiano. Quegli che
diede l'ultima spinta all'irrisoluzione di esso Vespasiano,
personaggio guardingo e non temerario, fu il suddetto _Licinio
Muciano_ governator della Soria, il quale dopo la morte di Ottone gli
rappresentò, che non era sicura nè la comune lor dignità, nè la vita
sotto quell'infame imperador di Vitellio. Si lasciò vincere in fine
Vespasiano, ed essendo entrato nella medesima lega anche _Tiberio
Alessandro_ governator dell'Egitto, fu egli il primo a proclamarlo in
Alessandria imperadore nel dì primo di luglio[440]; e lo stesso fece
nel terzo giorno di esso mese anche la armata della Giudea, a cui
Vespasiano promise un donativo, simile a quel di Claudio e di Nerone.
La Soria, e tutte le altre provincie e i re sudditi di Roma in
Oriente, e la Grecia alzarono anche esse le bandiere del novello
Augusto. Furono scritte lettere a tutte le provincie dell'Occidente,
per esortar ciascuno ad abbandonar Vitellio, usurpatore indegno del
trono imperiale[441]. Si fece intendere ai pretoriani cassati da
Vitellio, che questo era il tempo di farlo pentire; e veramente
costoro arrolatisi in favor di Vespasiano, fecero di poi delle
meraviglie contra di Vitellio.
Essendo così ben disposte le cose, e procacciate quelle somme di
denaro che si poterono raccogliere per muovere le soldatesche, e in un
gran consiglio tenuto in Berito, fu conchiuso che _Muciano_ marcerebbe
con un competente esercito in Italia; _Tito_, figliuolo di Vespasiano,
già dichiarato _Cesare_, continuerebbe lentamente la guerra contro ai
Giudei: e _Vespasiano_ passerebbe nella doviziosa provincia
dell'Egitto, per raunar danaro, ed affamare o provveder di grani Roma,
secondochè portasse il bisogno. _Muciano_, uomo ambizioso, e che
mirava a divenire in certa maniera compagno di Vespasiano nel
principato, accettò volentieri quella incumbenza. Per timore delle
tempeste non si arrischiò al mare; ma imprese il viaggio per terra,
con disegno di passare lo stretto verso Bisanzio; al qual fine ordinò
che quivi fossero pronti i vascelli del mar Nero. Non era molto
copiosa e possente l'armata di Muciano, ma a guisa de' fiumi regali
andò crescendo per via: tanta era la riputazion di Vespasiano, e
l'abbominazion di Vitellio. Nella Mesia le tre legioni che stavano ivi
a' quartieri, si dichiararono per Vespasiano; e l'esempio d'esse seco
trasse due altre della Pannonia, e poi le milizie della Dalmazia,
senza neppur aspettare l'arrivo di Muciano. _Antonio Primo_ da Tolosa,
soprannominato _Becco di Gallo_, forse dal suo naso (dal che impariamo
l'antichità della parola _Becco_), uomo arditissimo[442], sedizioso ed
egualmente pronto alle lodevoli che alle malvage imprese, quegli fu
che colla sua vivace eloquenza commosse popoli e soldati contra di
Vitellio, nè aspettò gli ordini di Vespasiano o di Muciano, per farsi
generale di quelle legioni. Che più? Chiamati in soccorso i re degli
Svevi ed altri Barbari, e trovato che quelle milizie nulla più
sospiravano che di entrare in Italia, per arricchirsi nello spoglio di
queste belle provincie, di sua testa con poche truppe innanzi agli
altri calò in Italia, e fu con festa ricevuto in Aquileia, Padova,
Vicenza, Este, ed altri luoghi di quelle parti. Mise in rotta un corpo
di cavalleria, ch'era postata al Foro da Alieno, dove oggidì è
Ferrara. Rinforzato poi dalle due legioni della Pannonia (soleva
essere ogni legione composta di seimila soldati), s'impadronì di
Verona, e quivi si fortificò. Colà ancora giunse _Marco Aponio
Saturnino_ con una delle legioni della Mesia, e concorse ad arrolarsi
sotto di Primo gran copia dei pretoriani licenziati da Vitellio.
Ancorchè fosse sì grande il suscitato incendio, non s'era per anche
mosso l'impoltronito Vitellio. Svegliossi egli allora solamente, che
intese penetrato il fuoco fino in Italia. Perchè _Valente_ non era ben
rimesso da una sofferta malattia, diede il comando delle sue armi ad
_Alieno Cecina_, con ordine di marciare speditamente contra di
_Antonio Primo._ Venne Cecina con otto legioni almeno, cioè con tali
forze che avrebbe potuto opprimerlo. Mandò parte delle milizie a
Cremona, e col più della gente armata si portò ad Ostiglia sul Po.
Macchinando poi altre cose, perdè apposta il tempo in iscrivere
lettere di rimproveri e minacce ai soldati di Primo, ed intanto lasciò
che arrivassero a Verona le due altre legioni della Mesia. Finalmente,
dappoichè intese che _Luciano Basso_, governatore della flotta di
Ravenna, con cui teneva intelligenza, verso il di 20 d'ottobre s'era
rivoltato in favor di Vespasiano: allora, come se fosse disperato il
caso per Vitellio, si diede ad esortare i soldati ad abbracciare il
partito di Vespasiano, e molti ne indusse a prestar giuramento a lui,
e a rompere le immagini di Vitellio. Ma gli altri, che non poteano
sofferir tanta perfidia, e quegli stessi che poc'anzi aveano
giurato[443], presi dalla vergogna e pentiti, si scagliarono contra di
lui, senza alcun rispetto al carattere di console, incatenato
l'inviarono a Cremona, e cominciarono a caricar anch'essi il bagaglio,
per passare colà.
Ad _Antonio Primo_, ch'era in Verona, fu portata dalle spie
l'informazione di quanto era accaduto ad Ostiglia, e subito fu in
armi, per impedir l'unione di quell'esercito con quel di Cremona.
Inoltratosi sino a Bedriaco, luogo fatale per le battaglie, e circa
nove miglia lungi da quel sito, s'incontrò colle soldatesche di
Vitellio, che uscite di Cremona venivano per unirsi con quelle
d'Ostiglia. Ciò fu circa il dì 26 di ottobre. Dopo sanguinoso
conflitto le mise in rotta, obbligando chi scampò dalle sue spade a
rifugiarsi in Cremona. Ad alte voci allora dimandarono i vittoriosi
soldati di andar dirittamente a Cremona, per isperanza d'entrarvi e
per avidità di saccheggiarla. Nè gli avrebbe potuto ritenere Primo, se
non fosse giunto l'avviso che s'appressava l'altra armata partita da
Ostiglia, e in ordinanza di battaglia. Era già sopraggiunta la notte,
e pure i due eserciti vennero alle mani con ardore, con fierezza
inaudita, combattendo, per quanto comportavano le tenebre, senza
distinguere talvolta chi fosse amico o nemico. Levatasi poi la luna,
cominciò Primo a provarne del vantaggio, perchè essa dava nel volto ai
nemici. Durò il combattimento tutto il resto della notte, e fatto poi
giorno, avendo la terza legione, già venuta di Soria, secondo l'uso di
que' paesi, salutato il sole con alti ed allegri _Viva_, questo rumore
fece credere a que' di Vitellio che l'esercito di Muciano fosse
arrivato, e diede loro tal terrore, che riuscì poi facile a Primo lo
sconfiggerli ed obbligarli alla fuga. Giuseppe[444], narrando che dei
soldati di Vitellio in queste azioni perirono trentamila e dugento
persone, quattromila e cinquecento di quei di Vespasiano,
verisimilmente, secondo l'uso delle battaglie, ingrandì di troppo il
racconto, nè noi siam tenuti a prestargli fede. Bensì possiam credere
a Dione allorchè dice, che oscurandosi talvolta la luna per qualche
nuvola, cessava il combattimento; e che i soldati emuli vicini
parlavano l'uno all'altro, chi con villanie, chi con parole
amichevoli, e con detestar le guerre civili, e con invitar
l'avversario a seguitar Vitellio o pur Vespasiano. Ma non c'è già
ragion di credere che l'uno porgesse all'altro da mangiare e da bere,
finchè non si provi che i soldati di allora erano sì bravi od
industriosi da portar seco anche nel furor delle zuffe le loro bisacce
al collo, coll'occorrente cibo e bevanda. Tanto poi Dione quanto
Tacito ci assicurano che incomodando forte una grossa petriera, con
lanciar sassi, l'esercito di Vespasiano, due coraggiosi soldati, dato
di piglio a due scudi degli avversarii, si finsero Vitelliani; ed
arrivati alla macchina ne tagliarono le funi, con render essa inutile,
ma con restar anch'essi tagliati a pezzi senza che rimanesse memoria
alcuna del lor nome. Dopo lo spoglio del campo, _a Cremona, a
Cremona_, gridarono i vincitori soldati. Bisognò andarvi. Si credevano
di saltarvi dentro, ma trovarono un impensato ostacolo, cioè un alto e
mirabil trinceramento, fatto fuor della città nella precedente guerra
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