Annali d'Italia, vol. 1 - 73
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appellar felice allora lo stato dell'imperio romano; ma, siccome
aggiugne lo stesso Aurelio Vittore, neppure allora mancavano pubblici
guai e sconcerti. La nefanda libidine di Massimiano Erculio Augusto
cagionava non pochi lamenti, non perdonando egli neppure agli ostaggi;
e Diocleziano, per non isconciar la quiete e gl'interessi suoi
proprii, nè rompere la concordia con esso Massimiano e con Galerio
Cesare, chiudeva gli occhi, lasciando far loro quanto volevano
d'ingiustizie e prepotenze. Peggio ancora operò nell'anno seguente,
come fra poco vedremo.
NOTE:
[2643] Idacius, in Fastis. Lactantius, de Mort. Persecut., cap. 7.
[2644] Chron. Alexandrin.
[2645] Procop., in Histor. arc.
[2646] Aurelius Victor, in Epitome.
[2647] Ausonius, de Urbibus.
Anno di CRISTO CCCIII. Indizione VI.
MARCELLINO papa 8.
DIOCLEZIANO imperadore 20.
MASSIMIANO imperadore 18.
_Consoli_
CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per l'ottava volta e MARCO
AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la settima.
L'uffizio di prefetto di Roma fu appoggiato a _Giunio Tiberiano_[2648]
in questo anno; anno non so s'io dica di funesta, oppur di gloriosa
memoria alla religione cristiana. Funesto, perchè in esso fu mossa la
più orrida persecuzione che mai patisse in addietro la fede di Cristo;
glorioso, perchè questa fede si mirò sostenuta da innumerabili
campioni sprezzatori dei tormenti e della morte, e che col loro
martirio accrebbero i cittadini al cielo[2649]. Per testimonianza di
Lattanzio[2650], fin l'anno di Cristo 298, perchè nel sagrificare agli
idoli niun segno si vedeva nelle viscere delle vittime per predir
l'avvenire, come si figurarono i troppo crudeli pagani, gli aruspici
attribuirono questo sconcerto al sospetto o alla certezza che fosse
presente qualche cristiano. Allora Diocleziano in collera ordinò che
non solamente tutte le persone di corte, fra le quali non poche
professavano la religione cristiana, ma anche i soldati per le
provincie sagrificassero agl'idoli, sotto pena d'essere flagellati e
cassati. Alcuni pochi per questo ordine sostennero anche la morte, ma
per allora gran rumore non si fece. Avvenne che Diocleziano Augusto e
Galerio Cesare suo genero unitamente passarono il verno di quest'anno
nella Bitinia, nella città di Nicomedia. In quei tempi, come confessa
Eusebio, per la lunga pace s'era bensì in mirabil forma dilatata la
religion di Cristo, coll'erezion d'infiniti templi nelle stesse città
per tutte le provincie romane; ed innumerabil popolo era già divenuto
quello degli adoratori della croce per l'Oriente e per l'Occidente. Ma
il loglio era anche col grano; già fra gli stessi cristiani s'udivano
eresie, si mirava l'invidia, la frode, la simulazione e l'ipocrisia
cresciuta fra loro. E fino i vescovi mal d'accordo insieme disputavano
di precedenze, l'un mormorando dell'altro, con giugnere poi le lor
gregge ad ingiurie e sedizioni, e a dimenticare i doveri e i bei
documenti di sì santa religione. Giacchè niun pensava a placar Dio,
volle Dio farli ravvedere, volle con leggier braccio gastigar le loro
negligenze, lasciando che i pagani sfogassero l'antico lor odio contra
del suo popolo eletto[2651]. Galerio Cesare quegli fu che accese il
fuoco. Costui da sua madre, donna di villa, asprissima nemica de'
cristiani, imparò ad abborrirli, e ne avea ben dati in addietro dei
fieri segni; ma in quest'anno decretò di sterminarli affatto.
Trovandosi egli dunque in Nicomedia col suocero Diocleziano, quando
ognuno credeva che amendue per tutto il verno trattassero in secreti
colloqui dei più importanti affari di stato, si venne a sapere che la
sola rovina de' cristiani si maneggiava ne' lor gabinetti. Galerio,
dissi, era l'ardente promotore di quest'empia impresa. Diocleziano
fece quanta difesa potè, dicendo che pericolosa cosa era l'inquietar
tutto il mondo romano; e che a nulla avrebbe servito, perchè i
cristiani erano usati a sofferir la morte per tener salda la lor
religione; e che, per conseguente, sarebbe bastato il solamente
vietarla ai cortigiani e soldati. Fece istanza Galerio che si udisse
il parer d'alcuni uffiziali della corte e dalla milizia. Costoro
aderirono tutti a Galerio. Volle parimente Diocleziano udir sopra ciò
gli oracoli dei suoi dii e dei sacerdoti gentili. Senza che io lo
dica, ognuno concepisce qual dovette essere la loro risposta. Fu
dunque stabilito di dar all'armi contra dei professori della fede di
Cristo; e Galerio pretendeva che eglino si avessero da bruciar vivi;
ma Diocleziano per allora solamente accordò che senza sangue si
procedesse contra di loro.
Diedesi principio a questa lagrimevol tragedia, per attestato di
Lattanzio, nel dì 25 di febbraio dell'anno presente, in cui il
prefetto del pretorio con una man di soldati si portò alla chiesa di
Nicomedia, posta sopra una eminenza in faccia al palazzo imperiale.
Rotte le porte, si cercò invano la figura del Dio adorato dai
cristiani. Vi si trovavano bensì le sacre scritture, che furono tosto
bruciate, e dato il saccheggio a tutti gli arredi e vasi sacri.
Stavano intanto i due principi alla finestra, da cui si mirava la
chiesa, disputando fra loro, perchè Galerio insisteva che se le desse
il fuoco, ma con prevalere la volontà di Diocleziano, che quel tempio
si demolisse, per non esporre al manifesto pericolo d'incendio le case
contigue. Restò in poche ore pienamente eseguito il decreto, e nel dì
seguente si vide pubblicato un editto[2652], con cui si ordinava
l'abbattere sino ai fondamenti tutte le chiese dei cristiani, il dar
alle fiamme tutti i lor sacri libri, con dichiarar infame ogni persona
nobile, e schiavo ciascun della plebe che non rinunziasse alla
religion di Cristo. Tale sul principio fu l'imperial editto, a cui
poscia fu aggiunto che si dovessero cercar tutti i vescovi, ed
obbligarli a sagrificare ai falsi dii. Finalmente si arrivò a
praticare i tormenti e le scuri; onde poi venne tanta copia di martiri
che illustrarono la fede di Gesù Cristo, e servirono col loro sangue a
maggiormente assodarla e a renderla trionfante nel mondo. Poco dopo la
pubblicazion di questo editto si attaccò il fuoco due volte al palazzo
di Nicomedia[2653], dove abitavano Diocleziano e Galerio, e bruciò
buona parte. Costantino, che fu poscia Augusto, e si trovava allora in
quella città, in una sua orazione[2654] ne attribuisce la cagione ad
un fulmine e fuoco del cielo. Lattanzio tenne, all'incontro, per certo
che autor di quell'incendio fosse lo stesso Galerio Cesare, par
incolparne poscia i cristiani, e maggiormente irritar Diocleziano
contra di loro, siccome avvenne. Non aspetti da me il lettore altro
racconto di questa famosa terribil persecuzione del popolo cristiano,
dovendosi prendere la serie della medesima da Eusebio[2655], dal
cardinal Baronio[2656], dal Tillemont[2657], dagli Atti dei santi del
Bollando[2658], in una parola dalla Storia ecclesiastica.
Circa questi tempi, per quanto si raccoglie da Eusebio[2659],
tentarono alcuni di farsi imperadori nella Melitene, provincia
dell'Armenia, e nella Soria. Di tali movimenti altro non sappiamo se
non ciò che il Valerio osservò presso Libanio sofista[2660]: cioè che
un certo Eugenio capitano di cinquecento soldati in Seleucia fu
forzato dai medesimi a prendere la porpora, perchè non poteano più
reggere alle fatiche loro imposte di nettare il porto di quella città.
S'avvisò egli di occupare Antiochia, ed ebbe anche la fortuna di
entrarvi con quel pugno di gente; ma sollevatosi contra di lui il
popolo d'essa città, non passò la notte che tutti quei masnadieri
furono morti o presi. La bella ricompensa che per questo atto di
fedeltà ebbero gli Antiocheni da Diocleziano, fu che i principali
uffiziali delle città d'Antiochia e Seleucia furono condannati a morte
senza forma di processo e senza concedere loro le difese. Questo atto
di detestabil crudeltà rendè sì odioso per tutta la Soria il nome di
Diocleziano, che anche novanta anni dappoi, cioè ai tempi di Libanio,
il cui avolo paterno fra gli altri perdè allora la vita, con orrore si
pronunziava il suo nome. Abbiamo poi da Lattanzio[2661] che
Diocleziano si portò a Roma in quest'anno per celebrarvi i vicennali,
che cadevano nel dì 20 di novembre. Hanno disputato intorno a questo
passo il padre Pagi[2662], il Tillemont[2663] ed altri, cercando quai
vicennali si debbano qui intendere, e come cadessero questi in quel
giorno. Non entrerò io in sì fatti litigii, e solamente dirò che
oggidì son d'accordo i letterati in credere celebrato in quest'anno, e
non già nel precedente, come porta il testo della Cronica di
Eusebio[2664], il trionfo romano d'esso Diocleziano, al quale, per
attestato d'un antico panegirista[2665], intervenne anche Massimiano
Augusto, siccome partecipe delle vittorie fin qui riportate contro ai
nemici del romano imperio. Con ciò che abbiam detto di sopra all'anno
297 della pace seguita col re di Persia, secondo la riguardevol
autorità di Pietro Patrizio[2666], pare che s'accordi ciò che
lasciarono scritto il suddetto Eusebio ed Eutropio[2667]: cioè che
davanti al cocchio trionfale furono condotte le mogli, le sorelle o i
figliuoli di Narse re di Persia, i quali già dicemmo restituiti molto
prima. Si può verisimilmente credere che solamente in figura, ma non
già in verità, comparissero in quel trionfo le principesse e i
principi suddetti. Parla ancora Eutropio di sontuosi conviti dati in
questa occasione da Diocleziano, ma non già di solenni giuochi,
siccome costumarono i precedenti Augusti; perchè egli, studiando il
più che potea, il risparmio, si rideva di Caro e d'altri suoi
predecessori, che, secondo lui, scialacquavano il danaro nella vanità
di quegli spettacoli[2668]. Uscirono perciò contra di lui varie
pasquinate in Roma; e non potendo egli sofferire cotanta libertà ed
insolenza, giudicò meglio di ritirarsi da Roma, e di andarsene a
Ravenna verso il fine dell'anno, senza voler aspettare il primo dì
dell'anno seguente, in cui egli dovea entrar console per la nona
volta. Ma essendo la stagione assai scomoda a cagion del freddo e
delle pioggie, egli contrasse nel viaggio delle febbri, leggiere sì,
ma nondimeno costanti, che l'obbligarono sempre ad andare in lettiga.
I cristiani, allora vessati in ogni parte, cominciarono a conoscere la
mano di Dio contra di questo lor persecutore. Dissi in ogni parte; ma
se n'ha da eccettuare il paese governato da Costanzo Cesare, cioè la
Gallia; imperciocchè, per attestato di Lattanzio[2669], essendo quel
principe amorevolissimo verso i cristiani, ed estimatore delle lor
virtù, volle bensì, per non comparir discorde da Diocleziano capo
dell'imperio, che fossero atterrate le lor chiese, ma che niun danno o
molestia venisse inferita alle persone. Anzi, se dice vero
Eusebio[2670], furono anche salve le chiese nel paese di sua
giurisdizione; o se pur ne furono distrutte alcune, ciò provenne dal
furor dei pagani, ma non da comandamento alcuno di Costanzo. Come poi
si dica che non mancassero anche alla Gallia i suoi martiri, bollendo
la persecuzione suddetta, è da vedere il padre Pagi all'anno presente.
Abbiamo poi dal sopra citato Lattanzio[2671] che nel tempo dei
vicennali una nazion di Barbari, cacciata dai Goti, si rifugiò sotto
l'ali di Massimiano Augusto, la qual poi presa nelle guardie da
Galerio, e indi da Massimino, in vece di servire ai Romani, li
signoreggiò e calpestò col tempo.
NOTE:
[2648] Bucherius, de Cyclo.
[2649] Euseb., Hist. Eccl., lib. 8, c. 1, et in Chron.
[2650] Lactantius, de Mortib. Persecutor., cap. 9 et 10.
[2651] Lactantius, de Mort. Persecutor., cap. 9 et 10.
[2652] Euseb., Histor. Eccles., lib. 8, cap. 2.
[2653] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 14.
[2654] Constantinus, in Oration. apud Eusebium.
[2655] Euseb., Histor. Eccles., lib. 8.
[2656] Baronius, in Annalib.
[2657] Tillemont, Mémoires des Empereurs.
[2658] Acta Sanctorum Bolland.
[2659] Eusebius, lib. eod., cap. 6.
[2660] Liban., Oration. 14 et 15.
[2661] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 17.
[2662] Pagius, Critic. Baron. ad annum 298.
[2663] Tillemont, Mémoires des Empereurs.
[2664] Eusebius, in Chronic.
[2665] Incertus, in Paneg. Max. et Const., cap. 8.
[2666] Petrus Patricius, de Legation., tom. I Hist. Byzant.
[2667] Eutrop., in Breviario.
[2668] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 17.
[2669] Idem, cap. 15.
[2670] Euseb., Hist. Eccl., lib. 7. cap. 13.
[2671] Lactantius, cap. 38.
Anno di CRISTO CCCIV. Indizione VII.
MARCELLINO papa 9.
DIOCLEZIANO imperadore 21.
MASSIMIANO imperadore 19.
_Consoli_
CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per la nona volta e MARCO
AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la ottava.
Prefetto di Roma noi troviamo nell'anno presente _Araclio Ruffino_.
Appena ebbe principio la persecuzion decretata da Diocleziano e
Massimiano Augusti, e da Galerio Cesare contro i seguaci della
religion cristiana, che nello stesso tempo l'ira di Dio cominciò a
farsi sentire sopra questi persecutori, che crudelmente spargevano il
sangue de' giusti; di modo che svanì ogni lor pace e grandezza; e
l'imperio romano, già ridotto ad un florido stato, tornò ad essere un
caos di rivoluzioni e calamità. Già dicemmo che il capo de'
persecutori predetti, cioè Diocleziano, caduto infermo nell'anno
precedente, era venuto a Ravenna. Quivi stando, procedette console per
la nona volta nelle calende di gennaio, e per isperanza di ricuperar
la salute, vi si fermò tutta la state. Ma veggendo che il male, in
vece di prendere buona piega, sembrava che peggiorasse, determinò di
passare all'aria più salutevole della Tracia; e tanto più perchè gli
premeva di dedicare il circo che egli avea fatto fabbricare a
Nicomedia. Facevansi intanto dappertutto preghiere ai sordi dii del
paganesimo per la conservazion della sua vita. Per la Venezia, per
l'Illirico e per le rive del Danubio, arrivò egli finalmente a
Nicomedia, dove da tal languidezza fu oppresso, che nel dì 13 di
dicembre corse voce di sua morte: il che riempiè tutta la corte di
lagrime e di sospetti, e per la città si giunse fino a dire che era
stata data sepoltura al suo corpo. Ma egli viveva, con tale
indebolimento nondimeno di cervello, che di tanto in tanto delirava; e
quantunque non mancassero persone, le quali l'attestavano vivo, pure
non pochi sospettavano che si tenesse occulta la sua morte per dar
tempo a Galerio Cesare di venire, e d'impedire che i soldati non
facessero delle novità. Ma noi nulla sappiamo delle azioni di Galerio
in quest'anno. Quanto a Massimiano Erculio Augusto, si ricava da un
antico panegirico[2672] ch'egli, essendo console per l'ottava volta,
soggiornò non poco in Roma. Secondo la Cronica di Damaso[2673],
_Marcellino_, romano pontefice, terminò in quest'anno il corso di sua
vita, alcuni han creduto col martirio, ma senza addurne valevoli
pruove. Anche negli antichi secoli sparsero voce i Donatisti ch'egli
nella persecuzione si lasciasse vincere dalla paura, e sacrificasse
agl'idoli: laonde fu poi formata una leggenda, in cui si rappresentava
la di lui caduta, e poi la penitenza, con altre favole, alle quali
l'erudizione degli ultimi secoli ha tagliato affatto le gambe, certo
ora essendo che questo pontefice fu esente da quel reato. La fierezza
poi della persecuzione cagion fu che la sedia di San Pietro stesse
vacante per tre anni, non arrischiandosi alcuno ad empierla, perchè il
furor de' pagani spezialmente si scaricava sopra i pastori della
Chiesa di Dio.
NOTE:
[2672] Incertus, in Panegyr. Maximian. et Constant., cap. 8.
[2673] Anastas. Bibliothec.
Anno di CRISTO CCCV. Indizione VIII.
SEDE PONTIFICIA vacante.
COSTANZO imperadore 1.
GALERIO MASSIMIANO imper. 1.
_Consoli_
FLAVIO VALERIO COSTANZO CESARE per la quinta volta e CAIO GALERIO
VALERIO MASSIMIANO CESARE per la quinta.
Restò appoggiata nell'anno presente la prefettura di Roma a _Postumio
Tiziano_. Seguitava intanto Diocleziano Augusto il soggiorno suo in
Nicomedia, sempre infermo; se non che nel dì primo di marzo fece forza
a sè stesso[2674], ed uscì il meglio che potè fuori del palazzo per
farsi vedere al popolo, ma sì contraffatto pel male, che appena si
riconosceva quel desso, e in certi tempi ancora si osservava in lui
qualche alienazione di mente. Da lì a poco sopraggiunse Galieno Cesare
a visitarlo, non già per seco rallegrarsi della ricuperata salute, ma
per esortarlo, anzi forzarlo a rinunziare all'imperio. Già aveva egli
tenuto un simile ragionamento a Massimiano Erculio imperadore,
adoperando parole di gran polso, cioè minacciandolo di una guerra
civile, se non deponeva in sue mani il governo. Ora egli sulle prime
si studiò con buone maniere di tirare il suocero Diocleziano a' suoi
voleri, rappresentandogli l'età avanzata, l'infermità e l'inabilità a
più governar popoli, e mettendogli innanzi agli occhi l'esempio di
Nerva Augusto. Al che rispondeva Diocleziano, essere cosa indecente
che chi era stato sul trono, si avesse a ridurre ad una vita umile e
privata; e ciò anche pericoloso, per aver egli disgustato assaissime
persone. Nè valere l'esempio di Nerva, perchè egli sino alla morte
ritenne il suo grado. Che se pur Galerio bramava di alzarsi, tanto a
lui quanto a Costanzo Cloro si conferirebbe il titolo d'Augusto. Ma
Galerio, dopo aver replicato che, in far quattro imperadori, si
sconcerterebbe la forma del governo introdotto dal medesimo
Diocleziano, preso un tuono alto di voce, aggiunse, che s'egli non
voleva cedere, sarebbe sua cura di provvedervi, perchè certo non
voleva più far sì bassa figura, stanco della dura vita di quindici
anni menata nell'Illirico sempre in armi contra de' Barbari, quando
altri godevano le delizie in paesi migliori e tranquilli. Diocleziano
infermo, e che già avea ricevuto lettere di Massimiano coll'avviso di
somiglianti minaccie a lui fatte da Galerio, e colla notizia che
costui andava a questo fine sempre più ingrossando l'esercito proprio;
allora colle lagrime agli occhi si diede per vinto, e restarono
d'accordo tanto egli che Massimiano di deporre l'imperio. Si passò
dunque a trattare dell'elezion di due Cesari. Proponeva Diocleziano
che tal dignità si conferisse a Costantino figlio di Costanzo, e a
_Massenzio_ figlio di Massimiano. Amendue li rigettò l'orgoglioso
Galerio, con dire che Massenzio era troppo pien di vizii, benchè
genero suo; Costantino troppo pien di virtù ed amato dalle milizie; e
che niun d'essi presterebbe a lui l'ubbidienza dovuta; laddove egli
voleva persone che facessero a modo suo. _Ma e chi si farà?_ disse
allora Diocleziano. Rispose Galerio che promoverebbe _Severo_ e
_Daia_, ossia _Daza_, figliuolo d'una sua sorella, ed appellato poco
innanzi _Massimino_, amendue nativi dell'Illirico. Al nome di _Severo_
replicò Diocleziano: _Quel ballerino? quell'ubbriacone, che fa di
notte giorno, e di giorno notte?--Quello appunto, seguitò a dir
Galerio, perchè egli sa onoratamente governar le milizie._ Bisognò che
Diocleziano abbassasse la testa, e si accomodasse ai voleri
dell'altero suo genero. Altro dunque non restò a Diocleziano che di
concertare per via di lettere con Massimiano la maniera e il giorno di
rinunziare l'imperio, e di dar la porpora ai due stabiliti Cesari,
benchè l'insolenza di Galerio, prima anche di parlare a Diocleziano,
era giunta ad inviar Severo ad esso Massimiano, con fargli istanza
della porpora cesarea.
Venne il dì primo di maggio, cioè il giorno concertato per far la
rinunzia suddetta[2675]. Comparve _Diocleziano_ in un luogo Ire miglia
lungi da Nicomedia, dove già lo stesso Galerio molti anni prima era
stato creato Cesare. Quivi alzato si mirava un trono, quivi era
disposta in ordinanza la corte ed armata tutta. Costantino anch'egli,
siccome tribuno di prima riga, v'intervenne, e gli occhi di tutti
stavano rivolti verso di lui, sperando, anzi tenendo per fermo che
sarebbe egli l'eletto per la cesarea dignità: quand'ecco Diocleziano,
dopo aver colle lagrime agli occhi confessata h sua inabilità e il
bisogno di riposo, e dichiarati i due nuovi Augusti _Costanzo Cloro_ e
_Galerio Massimino_, pronunzia Cesari _Severo_ e _Massimino_.
Stupefatti i soldati, cominciarono a guardarsi l'un l'altro, con
chiedere se forse si fosse mutato il nome a Costantino. In questo
mentre Galerio fece venire innanzi _Daia_, chiamato _Massimino_: e
Diocleziano, cavatasi di dosso la porpora, con essa ne vestì il
novello Cesare: cioè chi cavato negli anni addietro dal pecoraio e
dalle selve, prima fu semplice soldato, poi soldato nelle guardie,
indi tribuno, e finalmente Cesare; non più pastore di pecore, ma di
soldati, ed assunto a governare, cioè a calpestar l'Oriente, benchè
nulla s'intendesse nè di milizie nè di governo di popoli.
_Diocleziano_, ripigliato il suo nome di _Diocle_, fu mandato in
carrozza a riposare in Dalmazia patria sua; e si fermò a Salona. Nè
sussiste il dirsi da Malala[2676] ch'egli fece la rinuncia in
Antiochia, e prese l'abito de' sacerdoti di Giove in quella città.
Galerio Augusto e Massimino Cesare presero le redini, e cominciarono
nuove tele per salire anche più alto. Trovavasi allora _Massimiano
Erculio_ Augusto in Milano, città, dove solea soggiornar volentieri.
Già accennai che quivi egli avea fabbricate suntuose terme. Si può
credere che vi edificasse, come lasciò scritto Galvano dalla
Fiamma[2677], il palazzo imperiale, e un tempio ad Ercole, creduto
oggidì la basilica di San Lorenzo. In essa città[2678] nel medesimo dì
primo di maggio, secondo il concerto, anche lo stesso Massimiano
imperadore depose la porpora; dichiarò _Costanzo Cloro Augusto_ e
_Severo Cesare_: il che fatto, per attestato di Eutropio[2679] e di
Zosimo[2680], la cui Storia, mancante negli anni addietro, torna qui a
risorgere, si ritirò nei luoghi più deliziosi della Lucania, parte
oggidì della Calabria, non già per riposare, siccome vedremo, ma per
aspettar venti più favorevoli alla sua non ancor domata ambizione. Il
racconto fin qui fatto, e quanto succedette dipoi, ci fa conoscere che
questi non per grandezza d'animo, come Aurelio Vittore, Eutropio ed
altri gentili dissero, ma per forza lor fatta deposero lo scettro.
Sicchè noi miriamo passato l'imperio romano in due novelli Augusti,
cioè in _Costanzo Cloro_ e in _Galerio_, appellato _Massimiano il
giovine_, a distinzione del vecchio deposto; e in due nuovi Cesari,
cioè in _Severo_ e _Massimino_. Le porzioni loro assegnate furono le
seguenti. A _Costanzo_ toccò la Gallia, l'Italia e l'Africa, e per
conseguente anche la Spagna e Bretagna. A _Galerio_ tutta l'Asia
romana, l'Egitto, la Tracia e l'Illirico. Ma, per attestato di
Eutropio[2681] e di Aurelio Vittore[2682], Costanzo, contento del
titolo e dell'autorità augustale, e delle provincie a lui già
commesse, lasciò a Severo Cesare la cura dell'Italia, e probabilmente
ancora dell'Africa, che nel comparto precedente andava unita con essa
Italia, dovendo nondimeno esso Severo[2683], a tenore del regolamento
già fatto, dipendere dai cenni di esso Costanzo. Per segno di questo,
come consta dalle medaglie[2684], prese egli il nome di _Flavio
Valerio Severo_. Nella stessa guisa _Massimiano Cesare_ dovea prestare
ubbidienza a Galerio Augusto suo zio materno.
Già abbiamo detto come costui fosse vilmente nato. Aggiungasi ora
ch'egli era una sentina di vizii[2685]. Spezialmente predominava in
lui l'amore del vino, per cui sovente usciva di cervello; e perchè in
quello stato ordinava cose pregiudiziali anche a sè stesso, ebbe poi
tanto giudizio da ordinare che da lì innanzi nulla si eseguisse di
quello ch'egli comandava dopo il pranzo o dopo la cena, se non nel
giorno seguente. A questo vizio tenne dietro un'esecrabil lascivia, ed
una non inferior crudeltà, ch'egli massimamente sfogò contra de'
cristiani, de' quali fu fiero nemico ed asprissimo persecutore. Di che
peso fosse costui, troppo lo provarono i popoli da lui governati,
perchè da lui caricati d'insoffribili imposte, in guisa che sotto di
lui restarono impoverite e spogliate le provincie, tutto rubando egli,
per darlo ai suoi cortigiani e soldati. Vero è che Vittore gli dà la
lode d'uomo quieto ed amator de' letterati; ma, secondo Eusebio, non
si sa ch'altri egli amasse, se non i maghi ed incantatori, i quali
erano i suoi più favoriti. Siccome apparisce dalle medaglie[2686],
questo barbaro Daia o Daza si vede appellato _Caio Galerio Valerio
Massimino_. A cosini, secondo Eusebio[2687], non lasciò Galerio tutto
l'Oriente in governo, ma solamente la Soria e l'Egitto. Siccome dissi,
Costantino, deluso dalle sue speranze[2688], tuttavia dimorava a
Nicomedia nell'annata del fu imperador Diocleziano, presso il quale
s'era fin qui trattenuto, come ostaggio della fedeltà di Costanzo già
Cesare, ed ora Augusto. Ed appunto in questi tempi esso suo padre con
varie lettere andava facendo istanza a Galerio che gli si rimandasse
il figliuolo per desiderio di rivederlo, massimamente da che si
sentiva malconcio di sanità. Galerio avea delle altre mire per non
lasciarlo andare. Imperciocchè, considerando il natural di Costanzo,
assai dolce e pacifico, per cui lo sprezzava, e molto più la
disposizione in lui di corta vita, a cagion degl'incomodi di sua
salute, colla giunta ancora di poter egli disporre dei due Cesari a
talento suo, siccome sue creature: già si teneva egli in pugno il
dominio di tutto l'imperio romano per la morte di Costanze; e quando
occorresse, colla superiorità delle sue forze. Perciò, avendo in mano
Costantino, non si sentiva voglia di licenziarlo, anzi nulla più
desiderava che di torsi dagli occhi questo ostacolo al suo maggiore
innalzamento, con levargli la vita. Ma non osava di farlo apertamente,
perchè non gli era ignoto quanto affetto portasse l'esercito a questo
giovane principe, dotato di mirabili qualità. Ricorse pertanto alle
insidie e frodi. Prassagora, storico[2689], il quale si crede che
vivesse sotto lo stesso Costantino, o pur sotto i di lui figliuoli,
lasciò scritto che Galerio obbligò un giorno Costantino a combattere
con un furioso lione, ed egli in fatti l'uccise. Così, per relazion di
Zonara[2690], l'inviò un dì ad assalir con poca gente un capitano de'
Sarmati, che s'era inoltrato con molte soldatesche[2691]. Costantino
v'andò, e, presolo per li capelli, lo strascinò ai piedi di Galerio.
Probabilmente nella stessa guerra coi Sarmati, che sembra succeduta in
quest'anno, fu da esso Galerio inviato Costantino alla testa d'alcune
milizie contra di que' Barbari per mezzo ad una palude, con isperanza
che egli restasse quivi o affogato, ovvero oppresso dai nemici. Tutto
il contrario avvenne. Egli fece strage dei Sarmati, e tornò colla
vittoria a Galerio, che si fece bello del valore altrui. Così Dio in
mezzo a tanti pericoli ed insidie preservò questo principe, per farne
poscia un mirabile spettacolo della sua provvidenza in favore della
santa sua religione. Certo non sussiste, come vuole Aurelio
Vittore[2692], che Costantino fosse tenuto in Roma per ostaggio da
Galerio, il quale si sa che non venne più a Roma. Di queste insidie a
lui tese abbiamo anche la testimonianza d'Eusebio[2693].
NOTE:
[2674] Lactantius, de Mort. Persecutor., cap. 17.
[2675] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 19.
[2676] Johannes Malala, in Chronogr.
[2677] Gualvaneus de Flamma, Manipul. Flor. tom. XI Rer. Italic.
[2678] Euseb., in Chron. Idacius, in Chronico. Incertus, in Panegyr.
Maximian.
[2679] Eutrop., in Breviario.
[2680] Zosimus, lib. 2.
[2681] Eutrop., in Breviar.
[2682] Aurelius Victor, de Caesaribus.
[2683] Anonymus Valesianus post Ammian.
[2684] Mediobarbus, in Numismat. Imp.
[2685] Euseb. Lactant. Victor, etc.
[2686] Mediobarbus, in Numism. Imperator.
[2687] Euseb., Histor. Eccles., lib. 9, cap. 1.
[2688] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 24.
[2689] Photius, Bibliothec. Cod. 62.
[2690] Zonaras, in Annalibus.
[2691] Anonymus Valesianus post Ammian.
[2692] Aurelius Victor, in Epitome.
[2693] Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 20.
aggiugne lo stesso Aurelio Vittore, neppure allora mancavano pubblici
guai e sconcerti. La nefanda libidine di Massimiano Erculio Augusto
cagionava non pochi lamenti, non perdonando egli neppure agli ostaggi;
e Diocleziano, per non isconciar la quiete e gl'interessi suoi
proprii, nè rompere la concordia con esso Massimiano e con Galerio
Cesare, chiudeva gli occhi, lasciando far loro quanto volevano
d'ingiustizie e prepotenze. Peggio ancora operò nell'anno seguente,
come fra poco vedremo.
NOTE:
[2643] Idacius, in Fastis. Lactantius, de Mort. Persecut., cap. 7.
[2644] Chron. Alexandrin.
[2645] Procop., in Histor. arc.
[2646] Aurelius Victor, in Epitome.
[2647] Ausonius, de Urbibus.
Anno di CRISTO CCCIII. Indizione VI.
MARCELLINO papa 8.
DIOCLEZIANO imperadore 20.
MASSIMIANO imperadore 18.
_Consoli_
CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per l'ottava volta e MARCO
AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la settima.
L'uffizio di prefetto di Roma fu appoggiato a _Giunio Tiberiano_[2648]
in questo anno; anno non so s'io dica di funesta, oppur di gloriosa
memoria alla religione cristiana. Funesto, perchè in esso fu mossa la
più orrida persecuzione che mai patisse in addietro la fede di Cristo;
glorioso, perchè questa fede si mirò sostenuta da innumerabili
campioni sprezzatori dei tormenti e della morte, e che col loro
martirio accrebbero i cittadini al cielo[2649]. Per testimonianza di
Lattanzio[2650], fin l'anno di Cristo 298, perchè nel sagrificare agli
idoli niun segno si vedeva nelle viscere delle vittime per predir
l'avvenire, come si figurarono i troppo crudeli pagani, gli aruspici
attribuirono questo sconcerto al sospetto o alla certezza che fosse
presente qualche cristiano. Allora Diocleziano in collera ordinò che
non solamente tutte le persone di corte, fra le quali non poche
professavano la religione cristiana, ma anche i soldati per le
provincie sagrificassero agl'idoli, sotto pena d'essere flagellati e
cassati. Alcuni pochi per questo ordine sostennero anche la morte, ma
per allora gran rumore non si fece. Avvenne che Diocleziano Augusto e
Galerio Cesare suo genero unitamente passarono il verno di quest'anno
nella Bitinia, nella città di Nicomedia. In quei tempi, come confessa
Eusebio, per la lunga pace s'era bensì in mirabil forma dilatata la
religion di Cristo, coll'erezion d'infiniti templi nelle stesse città
per tutte le provincie romane; ed innumerabil popolo era già divenuto
quello degli adoratori della croce per l'Oriente e per l'Occidente. Ma
il loglio era anche col grano; già fra gli stessi cristiani s'udivano
eresie, si mirava l'invidia, la frode, la simulazione e l'ipocrisia
cresciuta fra loro. E fino i vescovi mal d'accordo insieme disputavano
di precedenze, l'un mormorando dell'altro, con giugnere poi le lor
gregge ad ingiurie e sedizioni, e a dimenticare i doveri e i bei
documenti di sì santa religione. Giacchè niun pensava a placar Dio,
volle Dio farli ravvedere, volle con leggier braccio gastigar le loro
negligenze, lasciando che i pagani sfogassero l'antico lor odio contra
del suo popolo eletto[2651]. Galerio Cesare quegli fu che accese il
fuoco. Costui da sua madre, donna di villa, asprissima nemica de'
cristiani, imparò ad abborrirli, e ne avea ben dati in addietro dei
fieri segni; ma in quest'anno decretò di sterminarli affatto.
Trovandosi egli dunque in Nicomedia col suocero Diocleziano, quando
ognuno credeva che amendue per tutto il verno trattassero in secreti
colloqui dei più importanti affari di stato, si venne a sapere che la
sola rovina de' cristiani si maneggiava ne' lor gabinetti. Galerio,
dissi, era l'ardente promotore di quest'empia impresa. Diocleziano
fece quanta difesa potè, dicendo che pericolosa cosa era l'inquietar
tutto il mondo romano; e che a nulla avrebbe servito, perchè i
cristiani erano usati a sofferir la morte per tener salda la lor
religione; e che, per conseguente, sarebbe bastato il solamente
vietarla ai cortigiani e soldati. Fece istanza Galerio che si udisse
il parer d'alcuni uffiziali della corte e dalla milizia. Costoro
aderirono tutti a Galerio. Volle parimente Diocleziano udir sopra ciò
gli oracoli dei suoi dii e dei sacerdoti gentili. Senza che io lo
dica, ognuno concepisce qual dovette essere la loro risposta. Fu
dunque stabilito di dar all'armi contra dei professori della fede di
Cristo; e Galerio pretendeva che eglino si avessero da bruciar vivi;
ma Diocleziano per allora solamente accordò che senza sangue si
procedesse contra di loro.
Diedesi principio a questa lagrimevol tragedia, per attestato di
Lattanzio, nel dì 25 di febbraio dell'anno presente, in cui il
prefetto del pretorio con una man di soldati si portò alla chiesa di
Nicomedia, posta sopra una eminenza in faccia al palazzo imperiale.
Rotte le porte, si cercò invano la figura del Dio adorato dai
cristiani. Vi si trovavano bensì le sacre scritture, che furono tosto
bruciate, e dato il saccheggio a tutti gli arredi e vasi sacri.
Stavano intanto i due principi alla finestra, da cui si mirava la
chiesa, disputando fra loro, perchè Galerio insisteva che se le desse
il fuoco, ma con prevalere la volontà di Diocleziano, che quel tempio
si demolisse, per non esporre al manifesto pericolo d'incendio le case
contigue. Restò in poche ore pienamente eseguito il decreto, e nel dì
seguente si vide pubblicato un editto[2652], con cui si ordinava
l'abbattere sino ai fondamenti tutte le chiese dei cristiani, il dar
alle fiamme tutti i lor sacri libri, con dichiarar infame ogni persona
nobile, e schiavo ciascun della plebe che non rinunziasse alla
religion di Cristo. Tale sul principio fu l'imperial editto, a cui
poscia fu aggiunto che si dovessero cercar tutti i vescovi, ed
obbligarli a sagrificare ai falsi dii. Finalmente si arrivò a
praticare i tormenti e le scuri; onde poi venne tanta copia di martiri
che illustrarono la fede di Gesù Cristo, e servirono col loro sangue a
maggiormente assodarla e a renderla trionfante nel mondo. Poco dopo la
pubblicazion di questo editto si attaccò il fuoco due volte al palazzo
di Nicomedia[2653], dove abitavano Diocleziano e Galerio, e bruciò
buona parte. Costantino, che fu poscia Augusto, e si trovava allora in
quella città, in una sua orazione[2654] ne attribuisce la cagione ad
un fulmine e fuoco del cielo. Lattanzio tenne, all'incontro, per certo
che autor di quell'incendio fosse lo stesso Galerio Cesare, par
incolparne poscia i cristiani, e maggiormente irritar Diocleziano
contra di loro, siccome avvenne. Non aspetti da me il lettore altro
racconto di questa famosa terribil persecuzione del popolo cristiano,
dovendosi prendere la serie della medesima da Eusebio[2655], dal
cardinal Baronio[2656], dal Tillemont[2657], dagli Atti dei santi del
Bollando[2658], in una parola dalla Storia ecclesiastica.
Circa questi tempi, per quanto si raccoglie da Eusebio[2659],
tentarono alcuni di farsi imperadori nella Melitene, provincia
dell'Armenia, e nella Soria. Di tali movimenti altro non sappiamo se
non ciò che il Valerio osservò presso Libanio sofista[2660]: cioè che
un certo Eugenio capitano di cinquecento soldati in Seleucia fu
forzato dai medesimi a prendere la porpora, perchè non poteano più
reggere alle fatiche loro imposte di nettare il porto di quella città.
S'avvisò egli di occupare Antiochia, ed ebbe anche la fortuna di
entrarvi con quel pugno di gente; ma sollevatosi contra di lui il
popolo d'essa città, non passò la notte che tutti quei masnadieri
furono morti o presi. La bella ricompensa che per questo atto di
fedeltà ebbero gli Antiocheni da Diocleziano, fu che i principali
uffiziali delle città d'Antiochia e Seleucia furono condannati a morte
senza forma di processo e senza concedere loro le difese. Questo atto
di detestabil crudeltà rendè sì odioso per tutta la Soria il nome di
Diocleziano, che anche novanta anni dappoi, cioè ai tempi di Libanio,
il cui avolo paterno fra gli altri perdè allora la vita, con orrore si
pronunziava il suo nome. Abbiamo poi da Lattanzio[2661] che
Diocleziano si portò a Roma in quest'anno per celebrarvi i vicennali,
che cadevano nel dì 20 di novembre. Hanno disputato intorno a questo
passo il padre Pagi[2662], il Tillemont[2663] ed altri, cercando quai
vicennali si debbano qui intendere, e come cadessero questi in quel
giorno. Non entrerò io in sì fatti litigii, e solamente dirò che
oggidì son d'accordo i letterati in credere celebrato in quest'anno, e
non già nel precedente, come porta il testo della Cronica di
Eusebio[2664], il trionfo romano d'esso Diocleziano, al quale, per
attestato d'un antico panegirista[2665], intervenne anche Massimiano
Augusto, siccome partecipe delle vittorie fin qui riportate contro ai
nemici del romano imperio. Con ciò che abbiam detto di sopra all'anno
297 della pace seguita col re di Persia, secondo la riguardevol
autorità di Pietro Patrizio[2666], pare che s'accordi ciò che
lasciarono scritto il suddetto Eusebio ed Eutropio[2667]: cioè che
davanti al cocchio trionfale furono condotte le mogli, le sorelle o i
figliuoli di Narse re di Persia, i quali già dicemmo restituiti molto
prima. Si può verisimilmente credere che solamente in figura, ma non
già in verità, comparissero in quel trionfo le principesse e i
principi suddetti. Parla ancora Eutropio di sontuosi conviti dati in
questa occasione da Diocleziano, ma non già di solenni giuochi,
siccome costumarono i precedenti Augusti; perchè egli, studiando il
più che potea, il risparmio, si rideva di Caro e d'altri suoi
predecessori, che, secondo lui, scialacquavano il danaro nella vanità
di quegli spettacoli[2668]. Uscirono perciò contra di lui varie
pasquinate in Roma; e non potendo egli sofferire cotanta libertà ed
insolenza, giudicò meglio di ritirarsi da Roma, e di andarsene a
Ravenna verso il fine dell'anno, senza voler aspettare il primo dì
dell'anno seguente, in cui egli dovea entrar console per la nona
volta. Ma essendo la stagione assai scomoda a cagion del freddo e
delle pioggie, egli contrasse nel viaggio delle febbri, leggiere sì,
ma nondimeno costanti, che l'obbligarono sempre ad andare in lettiga.
I cristiani, allora vessati in ogni parte, cominciarono a conoscere la
mano di Dio contra di questo lor persecutore. Dissi in ogni parte; ma
se n'ha da eccettuare il paese governato da Costanzo Cesare, cioè la
Gallia; imperciocchè, per attestato di Lattanzio[2669], essendo quel
principe amorevolissimo verso i cristiani, ed estimatore delle lor
virtù, volle bensì, per non comparir discorde da Diocleziano capo
dell'imperio, che fossero atterrate le lor chiese, ma che niun danno o
molestia venisse inferita alle persone. Anzi, se dice vero
Eusebio[2670], furono anche salve le chiese nel paese di sua
giurisdizione; o se pur ne furono distrutte alcune, ciò provenne dal
furor dei pagani, ma non da comandamento alcuno di Costanzo. Come poi
si dica che non mancassero anche alla Gallia i suoi martiri, bollendo
la persecuzione suddetta, è da vedere il padre Pagi all'anno presente.
Abbiamo poi dal sopra citato Lattanzio[2671] che nel tempo dei
vicennali una nazion di Barbari, cacciata dai Goti, si rifugiò sotto
l'ali di Massimiano Augusto, la qual poi presa nelle guardie da
Galerio, e indi da Massimino, in vece di servire ai Romani, li
signoreggiò e calpestò col tempo.
NOTE:
[2648] Bucherius, de Cyclo.
[2649] Euseb., Hist. Eccl., lib. 8, c. 1, et in Chron.
[2650] Lactantius, de Mortib. Persecutor., cap. 9 et 10.
[2651] Lactantius, de Mort. Persecutor., cap. 9 et 10.
[2652] Euseb., Histor. Eccles., lib. 8, cap. 2.
[2653] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 14.
[2654] Constantinus, in Oration. apud Eusebium.
[2655] Euseb., Histor. Eccles., lib. 8.
[2656] Baronius, in Annalib.
[2657] Tillemont, Mémoires des Empereurs.
[2658] Acta Sanctorum Bolland.
[2659] Eusebius, lib. eod., cap. 6.
[2660] Liban., Oration. 14 et 15.
[2661] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 17.
[2662] Pagius, Critic. Baron. ad annum 298.
[2663] Tillemont, Mémoires des Empereurs.
[2664] Eusebius, in Chronic.
[2665] Incertus, in Paneg. Max. et Const., cap. 8.
[2666] Petrus Patricius, de Legation., tom. I Hist. Byzant.
[2667] Eutrop., in Breviario.
[2668] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 17.
[2669] Idem, cap. 15.
[2670] Euseb., Hist. Eccl., lib. 7. cap. 13.
[2671] Lactantius, cap. 38.
Anno di CRISTO CCCIV. Indizione VII.
MARCELLINO papa 9.
DIOCLEZIANO imperadore 21.
MASSIMIANO imperadore 19.
_Consoli_
CAIO AURELIO VALERIO DIOCLEZIANO AUGUSTO per la nona volta e MARCO
AURELIO VALERIO MASSIMIANO AUGUSTO per la ottava.
Prefetto di Roma noi troviamo nell'anno presente _Araclio Ruffino_.
Appena ebbe principio la persecuzion decretata da Diocleziano e
Massimiano Augusti, e da Galerio Cesare contro i seguaci della
religion cristiana, che nello stesso tempo l'ira di Dio cominciò a
farsi sentire sopra questi persecutori, che crudelmente spargevano il
sangue de' giusti; di modo che svanì ogni lor pace e grandezza; e
l'imperio romano, già ridotto ad un florido stato, tornò ad essere un
caos di rivoluzioni e calamità. Già dicemmo che il capo de'
persecutori predetti, cioè Diocleziano, caduto infermo nell'anno
precedente, era venuto a Ravenna. Quivi stando, procedette console per
la nona volta nelle calende di gennaio, e per isperanza di ricuperar
la salute, vi si fermò tutta la state. Ma veggendo che il male, in
vece di prendere buona piega, sembrava che peggiorasse, determinò di
passare all'aria più salutevole della Tracia; e tanto più perchè gli
premeva di dedicare il circo che egli avea fatto fabbricare a
Nicomedia. Facevansi intanto dappertutto preghiere ai sordi dii del
paganesimo per la conservazion della sua vita. Per la Venezia, per
l'Illirico e per le rive del Danubio, arrivò egli finalmente a
Nicomedia, dove da tal languidezza fu oppresso, che nel dì 13 di
dicembre corse voce di sua morte: il che riempiè tutta la corte di
lagrime e di sospetti, e per la città si giunse fino a dire che era
stata data sepoltura al suo corpo. Ma egli viveva, con tale
indebolimento nondimeno di cervello, che di tanto in tanto delirava; e
quantunque non mancassero persone, le quali l'attestavano vivo, pure
non pochi sospettavano che si tenesse occulta la sua morte per dar
tempo a Galerio Cesare di venire, e d'impedire che i soldati non
facessero delle novità. Ma noi nulla sappiamo delle azioni di Galerio
in quest'anno. Quanto a Massimiano Erculio Augusto, si ricava da un
antico panegirico[2672] ch'egli, essendo console per l'ottava volta,
soggiornò non poco in Roma. Secondo la Cronica di Damaso[2673],
_Marcellino_, romano pontefice, terminò in quest'anno il corso di sua
vita, alcuni han creduto col martirio, ma senza addurne valevoli
pruove. Anche negli antichi secoli sparsero voce i Donatisti ch'egli
nella persecuzione si lasciasse vincere dalla paura, e sacrificasse
agl'idoli: laonde fu poi formata una leggenda, in cui si rappresentava
la di lui caduta, e poi la penitenza, con altre favole, alle quali
l'erudizione degli ultimi secoli ha tagliato affatto le gambe, certo
ora essendo che questo pontefice fu esente da quel reato. La fierezza
poi della persecuzione cagion fu che la sedia di San Pietro stesse
vacante per tre anni, non arrischiandosi alcuno ad empierla, perchè il
furor de' pagani spezialmente si scaricava sopra i pastori della
Chiesa di Dio.
NOTE:
[2672] Incertus, in Panegyr. Maximian. et Constant., cap. 8.
[2673] Anastas. Bibliothec.
Anno di CRISTO CCCV. Indizione VIII.
SEDE PONTIFICIA vacante.
COSTANZO imperadore 1.
GALERIO MASSIMIANO imper. 1.
_Consoli_
FLAVIO VALERIO COSTANZO CESARE per la quinta volta e CAIO GALERIO
VALERIO MASSIMIANO CESARE per la quinta.
Restò appoggiata nell'anno presente la prefettura di Roma a _Postumio
Tiziano_. Seguitava intanto Diocleziano Augusto il soggiorno suo in
Nicomedia, sempre infermo; se non che nel dì primo di marzo fece forza
a sè stesso[2674], ed uscì il meglio che potè fuori del palazzo per
farsi vedere al popolo, ma sì contraffatto pel male, che appena si
riconosceva quel desso, e in certi tempi ancora si osservava in lui
qualche alienazione di mente. Da lì a poco sopraggiunse Galieno Cesare
a visitarlo, non già per seco rallegrarsi della ricuperata salute, ma
per esortarlo, anzi forzarlo a rinunziare all'imperio. Già aveva egli
tenuto un simile ragionamento a Massimiano Erculio imperadore,
adoperando parole di gran polso, cioè minacciandolo di una guerra
civile, se non deponeva in sue mani il governo. Ora egli sulle prime
si studiò con buone maniere di tirare il suocero Diocleziano a' suoi
voleri, rappresentandogli l'età avanzata, l'infermità e l'inabilità a
più governar popoli, e mettendogli innanzi agli occhi l'esempio di
Nerva Augusto. Al che rispondeva Diocleziano, essere cosa indecente
che chi era stato sul trono, si avesse a ridurre ad una vita umile e
privata; e ciò anche pericoloso, per aver egli disgustato assaissime
persone. Nè valere l'esempio di Nerva, perchè egli sino alla morte
ritenne il suo grado. Che se pur Galerio bramava di alzarsi, tanto a
lui quanto a Costanzo Cloro si conferirebbe il titolo d'Augusto. Ma
Galerio, dopo aver replicato che, in far quattro imperadori, si
sconcerterebbe la forma del governo introdotto dal medesimo
Diocleziano, preso un tuono alto di voce, aggiunse, che s'egli non
voleva cedere, sarebbe sua cura di provvedervi, perchè certo non
voleva più far sì bassa figura, stanco della dura vita di quindici
anni menata nell'Illirico sempre in armi contra de' Barbari, quando
altri godevano le delizie in paesi migliori e tranquilli. Diocleziano
infermo, e che già avea ricevuto lettere di Massimiano coll'avviso di
somiglianti minaccie a lui fatte da Galerio, e colla notizia che
costui andava a questo fine sempre più ingrossando l'esercito proprio;
allora colle lagrime agli occhi si diede per vinto, e restarono
d'accordo tanto egli che Massimiano di deporre l'imperio. Si passò
dunque a trattare dell'elezion di due Cesari. Proponeva Diocleziano
che tal dignità si conferisse a Costantino figlio di Costanzo, e a
_Massenzio_ figlio di Massimiano. Amendue li rigettò l'orgoglioso
Galerio, con dire che Massenzio era troppo pien di vizii, benchè
genero suo; Costantino troppo pien di virtù ed amato dalle milizie; e
che niun d'essi presterebbe a lui l'ubbidienza dovuta; laddove egli
voleva persone che facessero a modo suo. _Ma e chi si farà?_ disse
allora Diocleziano. Rispose Galerio che promoverebbe _Severo_ e
_Daia_, ossia _Daza_, figliuolo d'una sua sorella, ed appellato poco
innanzi _Massimino_, amendue nativi dell'Illirico. Al nome di _Severo_
replicò Diocleziano: _Quel ballerino? quell'ubbriacone, che fa di
notte giorno, e di giorno notte?--Quello appunto, seguitò a dir
Galerio, perchè egli sa onoratamente governar le milizie._ Bisognò che
Diocleziano abbassasse la testa, e si accomodasse ai voleri
dell'altero suo genero. Altro dunque non restò a Diocleziano che di
concertare per via di lettere con Massimiano la maniera e il giorno di
rinunziare l'imperio, e di dar la porpora ai due stabiliti Cesari,
benchè l'insolenza di Galerio, prima anche di parlare a Diocleziano,
era giunta ad inviar Severo ad esso Massimiano, con fargli istanza
della porpora cesarea.
Venne il dì primo di maggio, cioè il giorno concertato per far la
rinunzia suddetta[2675]. Comparve _Diocleziano_ in un luogo Ire miglia
lungi da Nicomedia, dove già lo stesso Galerio molti anni prima era
stato creato Cesare. Quivi alzato si mirava un trono, quivi era
disposta in ordinanza la corte ed armata tutta. Costantino anch'egli,
siccome tribuno di prima riga, v'intervenne, e gli occhi di tutti
stavano rivolti verso di lui, sperando, anzi tenendo per fermo che
sarebbe egli l'eletto per la cesarea dignità: quand'ecco Diocleziano,
dopo aver colle lagrime agli occhi confessata h sua inabilità e il
bisogno di riposo, e dichiarati i due nuovi Augusti _Costanzo Cloro_ e
_Galerio Massimino_, pronunzia Cesari _Severo_ e _Massimino_.
Stupefatti i soldati, cominciarono a guardarsi l'un l'altro, con
chiedere se forse si fosse mutato il nome a Costantino. In questo
mentre Galerio fece venire innanzi _Daia_, chiamato _Massimino_: e
Diocleziano, cavatasi di dosso la porpora, con essa ne vestì il
novello Cesare: cioè chi cavato negli anni addietro dal pecoraio e
dalle selve, prima fu semplice soldato, poi soldato nelle guardie,
indi tribuno, e finalmente Cesare; non più pastore di pecore, ma di
soldati, ed assunto a governare, cioè a calpestar l'Oriente, benchè
nulla s'intendesse nè di milizie nè di governo di popoli.
_Diocleziano_, ripigliato il suo nome di _Diocle_, fu mandato in
carrozza a riposare in Dalmazia patria sua; e si fermò a Salona. Nè
sussiste il dirsi da Malala[2676] ch'egli fece la rinuncia in
Antiochia, e prese l'abito de' sacerdoti di Giove in quella città.
Galerio Augusto e Massimino Cesare presero le redini, e cominciarono
nuove tele per salire anche più alto. Trovavasi allora _Massimiano
Erculio_ Augusto in Milano, città, dove solea soggiornar volentieri.
Già accennai che quivi egli avea fabbricate suntuose terme. Si può
credere che vi edificasse, come lasciò scritto Galvano dalla
Fiamma[2677], il palazzo imperiale, e un tempio ad Ercole, creduto
oggidì la basilica di San Lorenzo. In essa città[2678] nel medesimo dì
primo di maggio, secondo il concerto, anche lo stesso Massimiano
imperadore depose la porpora; dichiarò _Costanzo Cloro Augusto_ e
_Severo Cesare_: il che fatto, per attestato di Eutropio[2679] e di
Zosimo[2680], la cui Storia, mancante negli anni addietro, torna qui a
risorgere, si ritirò nei luoghi più deliziosi della Lucania, parte
oggidì della Calabria, non già per riposare, siccome vedremo, ma per
aspettar venti più favorevoli alla sua non ancor domata ambizione. Il
racconto fin qui fatto, e quanto succedette dipoi, ci fa conoscere che
questi non per grandezza d'animo, come Aurelio Vittore, Eutropio ed
altri gentili dissero, ma per forza lor fatta deposero lo scettro.
Sicchè noi miriamo passato l'imperio romano in due novelli Augusti,
cioè in _Costanzo Cloro_ e in _Galerio_, appellato _Massimiano il
giovine_, a distinzione del vecchio deposto; e in due nuovi Cesari,
cioè in _Severo_ e _Massimino_. Le porzioni loro assegnate furono le
seguenti. A _Costanzo_ toccò la Gallia, l'Italia e l'Africa, e per
conseguente anche la Spagna e Bretagna. A _Galerio_ tutta l'Asia
romana, l'Egitto, la Tracia e l'Illirico. Ma, per attestato di
Eutropio[2681] e di Aurelio Vittore[2682], Costanzo, contento del
titolo e dell'autorità augustale, e delle provincie a lui già
commesse, lasciò a Severo Cesare la cura dell'Italia, e probabilmente
ancora dell'Africa, che nel comparto precedente andava unita con essa
Italia, dovendo nondimeno esso Severo[2683], a tenore del regolamento
già fatto, dipendere dai cenni di esso Costanzo. Per segno di questo,
come consta dalle medaglie[2684], prese egli il nome di _Flavio
Valerio Severo_. Nella stessa guisa _Massimiano Cesare_ dovea prestare
ubbidienza a Galerio Augusto suo zio materno.
Già abbiamo detto come costui fosse vilmente nato. Aggiungasi ora
ch'egli era una sentina di vizii[2685]. Spezialmente predominava in
lui l'amore del vino, per cui sovente usciva di cervello; e perchè in
quello stato ordinava cose pregiudiziali anche a sè stesso, ebbe poi
tanto giudizio da ordinare che da lì innanzi nulla si eseguisse di
quello ch'egli comandava dopo il pranzo o dopo la cena, se non nel
giorno seguente. A questo vizio tenne dietro un'esecrabil lascivia, ed
una non inferior crudeltà, ch'egli massimamente sfogò contra de'
cristiani, de' quali fu fiero nemico ed asprissimo persecutore. Di che
peso fosse costui, troppo lo provarono i popoli da lui governati,
perchè da lui caricati d'insoffribili imposte, in guisa che sotto di
lui restarono impoverite e spogliate le provincie, tutto rubando egli,
per darlo ai suoi cortigiani e soldati. Vero è che Vittore gli dà la
lode d'uomo quieto ed amator de' letterati; ma, secondo Eusebio, non
si sa ch'altri egli amasse, se non i maghi ed incantatori, i quali
erano i suoi più favoriti. Siccome apparisce dalle medaglie[2686],
questo barbaro Daia o Daza si vede appellato _Caio Galerio Valerio
Massimino_. A cosini, secondo Eusebio[2687], non lasciò Galerio tutto
l'Oriente in governo, ma solamente la Soria e l'Egitto. Siccome dissi,
Costantino, deluso dalle sue speranze[2688], tuttavia dimorava a
Nicomedia nell'annata del fu imperador Diocleziano, presso il quale
s'era fin qui trattenuto, come ostaggio della fedeltà di Costanzo già
Cesare, ed ora Augusto. Ed appunto in questi tempi esso suo padre con
varie lettere andava facendo istanza a Galerio che gli si rimandasse
il figliuolo per desiderio di rivederlo, massimamente da che si
sentiva malconcio di sanità. Galerio avea delle altre mire per non
lasciarlo andare. Imperciocchè, considerando il natural di Costanzo,
assai dolce e pacifico, per cui lo sprezzava, e molto più la
disposizione in lui di corta vita, a cagion degl'incomodi di sua
salute, colla giunta ancora di poter egli disporre dei due Cesari a
talento suo, siccome sue creature: già si teneva egli in pugno il
dominio di tutto l'imperio romano per la morte di Costanze; e quando
occorresse, colla superiorità delle sue forze. Perciò, avendo in mano
Costantino, non si sentiva voglia di licenziarlo, anzi nulla più
desiderava che di torsi dagli occhi questo ostacolo al suo maggiore
innalzamento, con levargli la vita. Ma non osava di farlo apertamente,
perchè non gli era ignoto quanto affetto portasse l'esercito a questo
giovane principe, dotato di mirabili qualità. Ricorse pertanto alle
insidie e frodi. Prassagora, storico[2689], il quale si crede che
vivesse sotto lo stesso Costantino, o pur sotto i di lui figliuoli,
lasciò scritto che Galerio obbligò un giorno Costantino a combattere
con un furioso lione, ed egli in fatti l'uccise. Così, per relazion di
Zonara[2690], l'inviò un dì ad assalir con poca gente un capitano de'
Sarmati, che s'era inoltrato con molte soldatesche[2691]. Costantino
v'andò, e, presolo per li capelli, lo strascinò ai piedi di Galerio.
Probabilmente nella stessa guerra coi Sarmati, che sembra succeduta in
quest'anno, fu da esso Galerio inviato Costantino alla testa d'alcune
milizie contra di que' Barbari per mezzo ad una palude, con isperanza
che egli restasse quivi o affogato, ovvero oppresso dai nemici. Tutto
il contrario avvenne. Egli fece strage dei Sarmati, e tornò colla
vittoria a Galerio, che si fece bello del valore altrui. Così Dio in
mezzo a tanti pericoli ed insidie preservò questo principe, per farne
poscia un mirabile spettacolo della sua provvidenza in favore della
santa sua religione. Certo non sussiste, come vuole Aurelio
Vittore[2692], che Costantino fosse tenuto in Roma per ostaggio da
Galerio, il quale si sa che non venne più a Roma. Di queste insidie a
lui tese abbiamo anche la testimonianza d'Eusebio[2693].
NOTE:
[2674] Lactantius, de Mort. Persecutor., cap. 17.
[2675] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 19.
[2676] Johannes Malala, in Chronogr.
[2677] Gualvaneus de Flamma, Manipul. Flor. tom. XI Rer. Italic.
[2678] Euseb., in Chron. Idacius, in Chronico. Incertus, in Panegyr.
Maximian.
[2679] Eutrop., in Breviario.
[2680] Zosimus, lib. 2.
[2681] Eutrop., in Breviar.
[2682] Aurelius Victor, de Caesaribus.
[2683] Anonymus Valesianus post Ammian.
[2684] Mediobarbus, in Numismat. Imp.
[2685] Euseb. Lactant. Victor, etc.
[2686] Mediobarbus, in Numism. Imperator.
[2687] Euseb., Histor. Eccles., lib. 9, cap. 1.
[2688] Lactantius, de Mortib. Persecut., cap. 24.
[2689] Photius, Bibliothec. Cod. 62.
[2690] Zonaras, in Annalibus.
[2691] Anonymus Valesianus post Ammian.
[2692] Aurelius Victor, in Epitome.
[2693] Euseb., in Vita Constant., lib. 1, cap. 20.
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