Annali d'Italia, vol. 1 - 22

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l'aspettazion di ognuno[462]. Imperocchè tosto si accinse egli con
vigore a ristabilire Roma e l'imperio, che tanto aveano patito sotto i
precedenti, o principi o tiranni; nè si diede mai posa, finchè visse,
per levare i disordini, e per abbellire quella gran città. Chiara cosa
essendo che i passati affanni principalmente erano proceduti
dall'avidità, insolenza e poca disciplina de' soldati, e soprattutto
de' pretoriani, vi rimediò col cassare la maggior parte di quei di
Vitellio, ed esigere rigorosamente la buona disciplina dai suoi
propri. Per assicurarsi meglio del pretorio, cioè delle guardie del
palazzo, con istupore di ognuno, creò lo stesso _Tito_, suo figliuolo
e collega, prefetto del pretorio: carica sempre innanzi esercitata dai
cavalieri, e che perciò divenne col tempo la più insigne ed apprezzata
dopo la dignità imperiale[463]. La vita di Vespasiano era senza fasto.
Il venerava ognuno come signore, ed egli amava all'incontro di
comparir verso tutti piuttosto concittadino, e come persona tuttavia
privata. Di rado abitava nel palazzo, più spesso negli orti
sallustiani, luogo delizioso. Dava quivi benignamente udienza non solo
ai senatori, ma agli altri ancora di qualsivoglia grado.
Vigilantissimo, soleva avanti giorno, stando in letto, leggere le
lettere e le memorie a lui presentate, ammettere i suoi familiari ed
amici, quando si vestiva, e favellar con loro delle cose occorrenti.
Uno di questi era _Plinio il Vecchio_[464]. Anche andando per istrada
non rifiutava di parlare con chi avea bisogno di lui. Fra il giorno
stavano aperte a tutti e senza guardia le porte della sua abitazione.
Sempre interveniva al senato, mostrando il convenevol rispetto a
quell'ordine insigne, nè v'era affare d'importanza che non comunicasse
con loro. Sovente ancora, andava in piazza a rendere giustizia al
popolo. E qualora per la sua avanzata età non potea portarsi al
senato, gli partecipava i suoi sentimenti in iscritto, e incaricava i
suoi figliuoli di leggerli. Nè solamente in ciò dava egli a conoscere
la stima che facea del senato, ma eziandio col voler sempre alla sua
tavola molti dei senatori, e coll'andar egli stesso non rade volte a
pranzare in casa degli amici e dei familiari suoi. Sapeva dir delle
burle, e pungere con grazia; nè s'avea a male, se altri facea lo
stesso verso di lui. Dilettavasi massimamente di praticar colle
persone savie, per le quali non vi era portiera, e fu udito dire[465]:
_Oh potess'io comandare a dei saggi, e che anche i saggi potessero
comandare a me!_ Non mancavano neppure in que' tempi pasquinate e
satire contro di lui; ma egli, benchè, ne fosse avvertito, non se ne
alterava punto, seguitando, ciò non ostante, a far ciò che riputava
utile alla repubblica. Allorchè Vespasiano era in Grecia col pazzo
Nerone[466], vedendolo un dì nel teatro prorompere in parole, e gesti
indecenti alla sua dignità, non seppe ritenersi dal fare un cenno di
stupore e disapprovazione. Febo, liberto di Nerone, osservato ciò, se
gli accostò, e dissegli che un par suo non istava bene in quel luogo.
_Dove, volete ch'io vada?_, disse allora Vespasiano. E il superbo ed
insolente liberto replicò, _che andasse alle forche._ Costui ebbe
tanto ardire di presentarsi, davanti a lui, già divenuto imperadore,
per addurre delle scuse. Altro male non gli fece Vespasiano, se non di
dirgli, _che se gli levasse davanti, e andasse alle forche_. Con rara
pazienza sofferiva egli che gli si dicesse la verità, e godeva quel
bel privilegio, tanto esaltato da Cicerone in Giulio Cesare, di
dimenticar le ingiurie. Maritò molto decorosamente tre figliuole di
Vitellio; e benchè si trovasse più d'uno che macchinò congiure contra
di un principe sì buono, contuttociò niuno mai gastigò se non
coll'esilio, solendo anche dire, _che compativa la pazzia di coloro, i
quali aspiravano all'imperio, perchè non sapevano che aggravio e spine
l'accompagnassero_. Però sua usanza fu di guadagnar coi benefizii, e
non di rimeritar coi gastighi, chi era stato ministro della crudeltà
de' tiranni, perchè volea credere che avessero così operato più per
paura che per malizia. E questo per ora basti de' costumi di
Vespasiano. Ne riparleremo andando innanzi, come potremo, giacchè si
son perdute le storie di Tacito, e con ciò a noi manca il filo
cronologico delle azioni di questo principe.
NOTE:
[460] Sveton., in Tito, cap. 5.
[461] Philostratus, in Apollon. Tyaneo.
[462] Sueton., in Vespasiano, cap. 8.
[463] Dio, lib. 66.
[464] Plinius Junior, lib. 4, epist. 5.
[465] Philostratus, in Vita Apollonii Tyan.
[466] Dio, lib. 66. Suetonius, in Vespasiano, cap. 14.


Anno di CRISTO LXXII. Indizione XV.
CLEMENTE papa 6.
VESPASIANO imperadore 4.
_Consoli_
VESPASIANO AUGUSTO per la quarta volta, e TITO FLAVIO CESARE per la
seconda.

Dappoichè _Muciano_ venuto a Roma cominciò a godere de' primi onori,
il governo della Siria fu dato da Vespasiano a _Cesennio Peto._
Scriss'egli a Roma, che _Antioco re della Comagene_, il più ricco dei
re sudditi di Roma, con _Epifane_ suo figliuolo teneva dei trattati
secreti con _Vologeso_ re dei Parti, disegnando di rivoltarsi. Dubita
Giuseppe Ebreo[467], se Antioco fosse di ciò innocente, o reo, ed
inclina piuttosto al primo. Peto gli volea poco bene; e potè ordir
questa trama. Vespasiano, a cui troppo era difficile il chiarire la
verità, nè volea trascurar l'affare, essendo di somma importanza
quella provincia per le frontiere della Soria e dell'imperio romano:
mandò ordine a Peto di far ciò ch'egli credesse più convenevole, e
giusto in tal congiuntura. Pertanto unitosi quel governatore con
_Aristobolo re di Calcide_, e con _Soemo re di Emessa_, entrò
coll'esercito nella Comagene. A questa inaspettata mossa Antioco si
ritirò con tutta la sua famiglia, e senza voler far fronte all'armi
romane, lasciò che Peto entrasse in Samosata capitale dei suoi Stati.
Epifane e Callinico suoi figliuoli, prese le armi, fecero qualche
resistenza; ma tardarono poco i lor soldati a rendersi ai Romani. Si
rifuggirono essi alla corte di Vologeso, re dei Parti, che gli
accolse, non già come esiliati, ma come principi. Antioco lor padre
fuggì nella Cilicia. Peto inviò gente, a cercarlo, ed essendo stato
colto a Tarsi, fu caricato di catene, per essere condotto a Roma. Nol
permise Vespasiano, e spedì ordini che fosse rimesso in libertà, e che
potesse abitare a Sparta, dove gli facea somministrar tutto
l'occorrente, acciocchè vivesse da par suo. Per intercessione poi di
Vologeso, ai di lui figliuoli fu permesso di venire a Roma. Vi venne
anche Antioco, e tutti riceverono trattamento onorevole, senza più
riaver quegli Stati. Siamo assicurati da Svetonio[468] che la
Comagene, siccome ancora la Tracia, la Cilicia e la Giudea furono
ridotte in provincie sotto Vespasiano, cioè immediatamente governate
dagli uffiziali romani. Ma non tutto ciò avvenne sotto il presente
anno. Fece in questi tempi Vologeso re de' Parti istanza d'aiuti ai
Vespasiano, perchè gli Alani, feroce popolo della Tartaria, entrati
nella Media, obbligarono a fuggirne _Pacoro re_ di quel paese, e
_Tiridate re dell'Armenia_, minacciando anche il dominio di Vologeso.
Non si volle mischiar Vespasiano negli affari di que' Barbari; e forse
di qua venne qualche alterazion di animo fra di loro. Sappiamo da
Dione[469], aver quel superbo re scritta una lettera con questo
titolo: _Arsace re dei re a Vespasiano_, senza riconoscerlo per
imperador de' Romani. Vespasiano, lungi dal farne rimprovero o
doglianza alcuna, gli rispose nel medesimo tenore: _Ad Arsace re dei
re, Vespasiano_. Credesi[470] che in questi tempi avvenisse qualche
guerra nella Bretagna, dov'era andato per governatore _Petilio
Cereale_, con far quivi l'armi romane nuove conquiste.
Seguitava intanto Vespasiano a far dei saggi regolamenti[471] per
levare gli abusi, e rimettere il buon ordine in Roma. Osservate alcune
persone indegne ne' due nobili ordini senatorio ed equestre, le levò
via; e perchè era scemato di molto il numero dei medesimi senatori e
cavalieri, per la crudeltà de' regnanti precedenti, aggregò a quegli
ordini le famiglie e persone più riguardevoli e degne, non tanto di
Roma, quanto dell'Italia e dell'altre provincie. Trovò che le liti
civili erano cresciute a dismisura, andavano in lungo e si eternavano
anche talvolta: male non forestiere anche in altri tempi e in altri
luoghi. Cercò di rimediarvi con eleggere varii giudici, che le
sbrigassero senz'attendere le formalità e lunghezze ordinarie del
foro. Per mettere freno alla libidine delle donne libere che sposavano
gli schiavi, rinnovò il decreto che anch'esse, perduta la libertà,
divenissero schiave. Per frastornar coloro che prestavano danaro ad
usura ai figliuoli di famiglia, vietò il poterlo esigere dopo la morte
dei padri. Ma nulla più contribuì alla correzion de' costumi e a far
cessare il soverchio lusso de' Romani, che l'esempio dell'imperadore
stesso. Parca era la mensa sua; semplice e non mai pomposo il suo
vestire; sicura dal di lui potere l'altrui onestà. Il disapprovar egli
colle parole e coi fatti gli eccessi introdotti, più che le leggi e i
gastighi, ebbe forza d'introdurre la riforma dei costumi nella
nobiltà, e in chiunque desiderava d'acquistare o conservar la grazia
di lui. Aveva[472] egli conceduta una carica ad un giovane. Andò
costui per ringraziarlo tutto profumato. Questo bastò perchè
Vespasiano, guatandolo con disprezzo, gli dicesse: _Avrei avuto più
caro che tu puzzassi d'aglio;_ e gli levò la patente. Oltre a ciò, per
guarire l'altrui vanità e superbia col proprio esempio, parlava egli
stesso della bassezza della prima sua fortuna, e si rise di chi avea
compilata una genealogia piena di adulazione, per mostrare[473]
ch'egli discendeva dai primi fondatori della città di Rieti sua
patria, e da Ercole. Anzi talora nella state andava a passar qualche
giorno nella villa, dov'egli era nato, fuori di Rieti, senza voler mai
che a quel luogo si facesse mutazione alcuna, per ben ricordarsi di
quello ch'egli fu una volta. E in memoria di _Tertulla_ sua avola
paterna, che l'avea allevato, nei dì solenni e festivi solea bere in
una tazza d'argento da lei usata.
NOTE:
[467] Joseph., de Bello Judaico, lib. 7.
[468] Suet., in Vespasiano, c. 8.
[469] Dio, lib. 66.
[470] Tacitus, in Vita Agricolae, c. 17.
[471] Suet., in Vespasiano, c. 9.
[472] Suet., in Vespasiano, c. 8.
[473] Idem, cap. 12.


Anno di CRISTO LXXIII. Indizione I.
CLEMENTE papa 7.
VESPASIANO imperadore 5.
_Consoli_
FLAVIO DOMIZIANO CESARE per la seconda volta, e MARCO VALERIO
MESSALINO.

Console ordinario fu in quest'anno _Domiziano_[474], non già per li
meriti suoi nè per elezione del saggio suo padre, ma perchè il buon
Tito suo fratello, disegnato per sostenere anche nell'anno presente sì
riguardevol dignità, la cedette a lui, e pregò il padre di
contentarsene. E si vuol qui appunto avvertire che esso Tito era in
tutti gli affari il braccio diritto del vecchio padre[475]. A nome di
lui dettava egli le lettere e gli editti, e per lui recitava in senato
le determinazioni occorrenti. Secondochè s'ha dalla cronaca
d'Eusebio[476], circa questi tempi (se pur ciò non fu più tardi)
l'Acaia, la Licia, Rodi, Bizanzio, Samo ed altri luoghi di Oriente
perderono la lor libertà, perchè se ne abusavano in danno lor proprio
per le sedizioni e nemicizie regnanti fra i cittadini. Non si mandava
colà proconsole o governatore romano in addietro, lasciando che si
governassero coi propri magistrati e colle lor leggi. Da qui innanzi
furono sottoposti al governo del presidente inviato da Roma, e a
pagare i tributi al pari dell'altre provincie. Per attestato ancora di
Filostrato[477], _Apollonio Tianeo_, filosofo rinomato di questi
tempi, grande strepito fece contra di Vespasiano, perchè avesse tolta
alla Grecia quella libertà che Nerone, tuttochè principe sì cattivo,
le avea restituita. Ma Vespasiano il lasciò gracchiare, dicendo _che i
Greci aveano disimparato il governarsi da gente libera_. Il Calvisio,
il Petavio, il Bianchini ed altri, non per certa cognizione del tempo,
ma per mera congettura, riferiscono a quest'anno la cacciata de'
_filosofi_ da Roma: risoluzione che par contraria alla saviezza di
Vespasiano, ma che fu fondata sopra giusti motivi. Le diede impulso
_Elvidio Prisco_ nobile senatore romano, e professore della più rigida
filosofia degli stoici, la qual era allora più dall'altre in voga
presso i Romani. A questo personaggio fa un grande elogio Cornelio
Tacito[478], con dire, aver egli studiata quella filosofia, non già
per vanità, come molti faceano, nè per darsi all'ozio, ma per
provvedersi di costanza ne' varii accidenti della vita, per sostenere
con equità e vigore i pubblici uffizii, e per operar sempre il bene, e
fuggire il male. Perciò s'era acquistato il concetto d'essere buon
cittadino, buon senatore, buon marito, buon genero, buon amico,
sprezzator delle ricchezze, inflessibile nella giustizia, ed intrepido
in qualsivoglia sua operazione. Anche Ariano[479], Plinio[480] il
giovane e Giovenale furono liberali di lodi verso di Prisco. Ma egli
era troppo invanito dell'amor della gloria, cercandola ancora per vie
mancanti di discrezione[481]. Gli esempli di _Trasea Peto_, suocero
suo, uomo da noi veduto lodatissimo ne' tempi addietro, gli stavano
sempre davanti agli occhi, per parlare francamente ove si trattava del
pubblico bene. Ma non sapea imitarlo nella prudenza. Trasea, ancorchè
avesse in orrore i vizii e le tirannie di Nerone, pure nulla dicea o
facea che potesse offenderlo. Solamente talvolta si ritirò dal senato,
per non approvare le di lui bestialità e crudeltà: il che poi gli
costò la vita.
Ma _Elvidio_ si facea gloria di parlar con vigore e libertà senza
riguardo alcuno. Così operò sotto Galba, sotto Vitellio; ma più usò di
farlo sotto Vespasiano, quasichè la bontà di questo principe dovesse
servire di passaporto alla soverchia licenza delle sue parole. Il
peggio fu ch'egli, scoprendosi nemico della monarchia, tenendo sempre
il partito del popolo, non si facea scrupolo di darsi in pubblico e in
privato a conoscere per persona che odiava Vespasiano. Allorchè questo
principe arrivò a Roma, ito a salutarlo, non gli diede altro nome che
quello di Vespasiano. Essendo pretore nell'anno 70, in niuno de' suoi
editti mai mise parola in onore di lui, anzi nè pure il nominò. Ma
questo era poco. Sparlava di lui dappertutto, lodava solamente il
governo popolare, e Bruto e Cassio; formava anche delle fazioni contra
del dominio cesareo. Andò così innanzi l'ostentazione di questo suo
libero parlare, che nel senato medesimo giunse a contrastare e garrire
insolentemente collo stesso Vespasiano, quasichè fosse un suo
eguale[482]; perlochè, d'ordine dei tribuni della plebe, fu preso e
consegnato ai littori, o sia ai sergenti della giustizia. Il buon
Vespasiano, a cui forte dispiaceva di perdere un sì fatt'uomo, eppur
non credea bene d'impedire il riparo alla di lui insolenza, uscì di
senato quel dì piangendo e con dire: _O mio figliuolo mi succederà, o
niun altro:_ volendo forse indicare che Elvidio con quelle sue
impertinenti maniere additava di pretendere all'imperio. Pure la
clemenza di Vespasiano non permise che si decretasse ad uomo sì
turbolento, che inquietava e screditava il presente governo, e
mostravasi tanto capace di sedizioni, se non la pena dell'esilio. Ma
perchè verisimilmente neppur si seppe contener da lì innanzi la lingua
di questo imprudente filosofo, fu (non si sa in qual anno) condannato
a morte dal senato, e mandata gente ad eseguire il decreto. Vespasiano
spedì ordini appresso per salvargli la vita; ma gli fu fatto
falsamente credere che non erano arrivati a tempo. Probabilmente
_Muciano_, che men di Vespasiano amava Elvidio, il volle tolto dal
mondo con questa frode. E fu appunto in tale occasione[483] ch'esso
Muciano persuase all'imperatore di cacciar via da Roma tutti i
filosofi, e massimamente coloro che professavano la filosofia stoica,
maestra della superbia. Imperciocchè, oltre al rendersi da questa gli
uomini grandi estimatori di sè stessi e sprezzatori degli altri, i
seguaci di essa altro non faceano allora che declamar nelle scuole, e
fors'anche in pubblico, contra dello stato monarchico, e in favore del
popolare, svergognando una scienza che dee inspirare l'ossequio e la
fedeltà verso qualsivoglia regnante. E tanto più dovea farlo allora
Elvidio, che ai precedenti tiranni era succeduto un buon principe,
quale ognun confessa che fu Vespasiano, e la sua vita il dimostra. Fra
gli altri andarono relegati nelle isole _Ostilio_ e _Demetrio_
filosofi anch'essi. Portata al primo la nuova del suo esilio, mentre
disputava contra dello stato monarchico, maggiormente s'infervorò a
dirne peggio, benchè dipoi mutasse parere. Ma Demetrio, siccome
professore della filosofia cinica, o sia canina, che si gloriava di
mordere tutti, e di non portare rispetto ai difetti e falli di
chicchessia[484], dopo la condanna vedendo venir per via Vespasiano,
nol salutò, e neppur si mosse da sedere, e fu anche udito borbottar
delle ingiurie contro di lui. Il paziente principe passò oltre,
solamente dicendo: _Ve' che cane!_ Nè mutò registro, ancorchè Demetrio
continuasse a tagliargli addosso i panni; perciocchè avvisato di tanta
tracotanza, pure non altro gli fece dire all'orecchio se non queste
poche parole: _Tu fai quanto puoi perch'io ti faccia ammazzare: ma io
non mi perdo ad uccidere can che abbaia._ Per attestato di Dione, il
solo _Caio Musonio Rufo_, cavaliere romano, eccellente filosofo
stoico, non fu cacciato di Roma: il che non s'accorda colla Cronica di
Eusebio, da cui abbiamo che Tito, dopo la morte del padre, il richiamò
dall'esilio.
NOTE:
[474] Suet., in Domiziano, cap. 2.
[475] Idem, in Tito, cap. 6.
[476] Euseb., in Chron.
[477] Philostratus, in Apollon. Tyan.
[478] Tacitus, Historiar., lib. 4, cap. 5.
[479] Arrian., in Epictet.
[480] Plinius junior., lib. 4, epist. 23.
[481] Dio, lib. 66.
[482] Sueton., in Vespasiano, cap. 15.
[483] Dio, lib. 66.
[484] Sueton., in Vespasiano, cap. 13.


Anno di CRISTO LXXIV. Indizione II.
CLEMENTE papa 8.
VESPASIANO imperadore 6.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la quinta volta, e TITO FLAVIO CESARE
per la terza.

A _Tito Cesare_, che dimise il consolato, succedette nelle calende di
luglio _Domiziano Cesare_ suo fratello. Terminarono in quest'anno
_Vespasiano_ e _Tito_ il censo, o sia la descrizione de' cittadini
romani ch'essi aveano già cominciato come censori negli anni addietro.
E questo fu l'ultimo de' censi fatti dagl'imperadori romani. Scrive
Plinio il vecchio[485], che in tale occasione si trovarono fra
l'Apennino e il Po molti vecchi di riguardevol età. Cioè tre in Parma
di cento venti, e due di cento trenta anni; in _Brescello_ uno di
cento venticinque; in _Piacenza_ uno di cento trentuno; in _Faenza_
una donna di cento trentadue; in _Bologna_ e _Rimini_ due di cento
cinquanta anni, se pure non è fallato, come possiam sospettare, il
testo. Aggiugne essersi trovati nella _Regione ottava dell'Italia_,
ch'egli determina da Rimini sino a Piacenza, cinquantaquattro persone
di cento anni; quattordici di cento dieci; due di cento venticinque;
quattro di cento trenta; altrettanti di cento trentacinque, o cento
trentasette, e tre di cento quaranta. Dal che probabilmente può
apparire qual fosse tenuta allora per la più salutevol aria d'Italia.
Se in altre parti d'Italia si fossero osservate somiglianti età, non
si sa vedere perchè Plinio l'avesse taciuto. Circa questi tempi[486]
mancò di vita Cenide, donna carissima a Vespasiano, liberta di
Antonia, madre di Claudio Augusto. Avea Vespasiano avuta per moglie
_Flavia Domitilla_, che gli partorì _Tito_ e _Domiziano_. Morta
costei, ebbe per sua amica questa Cenide, e creato anche imperatore la
tenne quasi per sua moglie, amandola non solamente per la sua fedeltà
e disinvoltura, e per molti benefizii da lei ricevuti quando era
privato, ma ancora perchè gli serviva di sensale per far danari. Era
l'avarizia forse l'unico vizio per cui universalmente veniva
proverbiato questo imperadore[487]. Mostravasi egli non mai contento
di danaro. A questo fine rimise in piedi alcune imposte e gabelle,
abolite già da Galba; ne aggiunse delle nuove e gravi; accrebbe i
tributi che si pagavano dalle provincie, ed alcune furono tassate il
doppio. Lasciavasi anche tirare a far un mercimonio vergognoso per un
par suo, col comperar cose a buon mercato, per venderle poi caro.
Cenide anch'essa l'aiutava ad empiere la borsa. A lei si accostava
chiunque ricercava sacerdozi e cariche civili e militari,
accompagnando le suppliche con esibizioni proporzionate al profitto
dei posti desiderati. Nè si badava, se questi concorrenti fossero o
non fossero uomini dabbene, purchè se ne spremesse del sugo. Si
vendevano in questa maniera anche l'altre grazie del principe; e le
pene, per chi potea, venivano riscattate col danaro. Di tutto si
credeva consapevole e partecipe Vespasiano. E tanto egli si lasciava
vincere da questa avidità, che cadeva in bassezze[488]. Avendo i
deputati di una città chiesta licenza di alzare in onor suo una
statua, la cui spesa ascenderebbe a venticinquemila dramme, per far
loro conoscere che amerebbe più il denaro in natura, stese la mano
aperta con dire: _Eccovi la base dove potete mettere la vostra
statua._ Era egli stesso il primo a porre in burla questa sua sete
d'oro per coprirne la vergogna, e si rideva di chi poco approvava le
sue vili maniere per adunarne. Uno di questi fu suo figliuolo Tito,
che non potendo sofferire una non so quale imposta, da lui messa sopra
l'orina, seriamente gliene parlò, con chiamar fetente quell'aggravio.
Aspettò Vespasiano che gli portassero i primi frutti di quell'imposta,
e fattili fiutare al figlio, dimandò _se quell'oro sapea di cattivo
odore_. Un giorno, ch'egli era per viaggio in lettiga, si fermò il
mulattiere con dire che bisognava ferrar le mule. Sospettò egli dipoi
inventato da costui un tal pretesto, per dar tempo ad un litigante di
parlargli, e di esporre le sue ragioni. E però gli domandò poi _quanto
avesse guadagnato a far ferrare le mule, perchè voleva esser a parte
del guadagno_. Questo forse disse per burla. Ma da vero operò egli con
uno de' suoi più cari cortigiani, che gli avea fatta istanza di un
posto per persona da lui tenuta in luogo di fratello. Chiamato a sè
quel tale, volle da lui il danaro pattuito con fargli la grazia.
Avendo poscia il cortigiano replicate le preghiere, siccome non
informato della beffa, Vespasiano gli disse: _Va a cercare un altro
fratello, perchè il proposto da te, non è tuo, ma mio fratello_.
Tale era l'industria e continua cura di Vespasiano per ammassar
danari, cura in lui biasimata, e non senza ragione dagli storici di
allora, e più dai sudditi. Credevano alcuni, che dal suo naturale
fosse egli portato a questa debolezza: ed altri, che Muciano
gliel'avesse inspirata, con rappresentargli che nell'erario ben
provveduto consisteva la forza e la salute della repubblica, sì pel
mantenimento delle milizie, come per ogni altro bisogno. Tuttavia il
brutto aspetto di questo vizio si sminuisce di molto al sapere, come
osservarono Svetonio[489] e Dione[490], che Vespasiano non fece mai
morire persona per prendergli la roba, nè mai per via d'ingiustizie
occupò l'altrui. Quel che è più, non amava, nè cercava egli le
ricchezze, per impiegarle ne' suoi piaceri, perchè sempre fu
moderatissimo in tutto, nè poteva spendere senza necessità, contento
di poco. Appariva eziandio chiaramente, quanto egli fosse lontano dal
covare con viltà il danaro, perciocchè lo dispensava allegramente e
con saviezza in tutti i bisogni del pubblico, e in benefizio de'
popoli. Sapeva regalare chi lo meritava[491], sovvenire a' nobili
caduti in povertà; anzi la sua liberalità si stendeva a tutti.
Promosse con somma attenzione le arti e le scienze, favorendo in varie
maniere chi le coltivava; e fu il primo che istituisse in Roma scuole
d'eloquenza greca e latina, con buon salario pagato dal suo erario.
Prendeva al suo servigio i migliori poeti ed artifici che si
trovassero, e tutti erano partecipi della sua munificenza. A lui
premeva specialmente che il minuto popolo potesse guadagnare. A questo
fine faceva di quando in quando de' magnifici conviti; e ad un valente
artefice, che gli si era esibito di trasportare con poca spesa molte
colonne, diede bensì un regalo, ma di lui non si volle servire, per
non defraudare di quel guadagno la plebe. In Roma edificò degli
acquidotti, alzò uno smisurato colosso, nè solamente fece di pianta
varie fabbriche insigni, ma eziandio rifece le già fatte dagli altri,
mettendovi non già il nome suo, ma quel de' primi fondatori. Erano per
cagion de' tremuoti cadute, o per gl'incendi molto sformate,
assaissime città dell'imperio romano. Egli alle sue spese le rifece, e
più belle di prima. La stessa attenzione ebbe per fondar delle colonie
in varie città, e per risarcir le pubbliche strade dell'imperio[492].
Restano tuttavia molte iscrizioni[493] per testimonianza di ciò. Gli
convenne per questo tagliar montagne e rompere vasti macigni; e per
tutto si lavorava senza salassar le borse de' popoli. Rallegrava
ancora il popolo colla caccia delle fiere negli anfiteatri, ma
abborriva i detestabili combattimenti de' gladiatori. Aggiungasi, per
testimonianza di Zonara[494], che Vespasiano mai non volle profittar
dei beni di coloro che aveano prese l'armi contra di lui, ma li lasciò
ai lor figliuoli o parenti. Ed ecco ciò che può servire, non già per
assolvere questo principe da ogni taccia in questo particolare, ma
bensì per iscusarlo, meritando bene il buon uso che egli facea del
denaro, che si accordi qualche perdono alle indecenti maniere da lui
tenute per raunarlo. Se non è scorretto il testo di Plinio il
vecchio[495], abbiamo da lui, che in questi tempi misurato il
circondario delle mura di Roma, si trovò esser di tredici miglia
dugento passi. Un gran campo occupavano poi i borghi suoi.
NOTE:
[485] Plinius, Histor. Natural., lib. 7, cap. 49.
[486] Dio, lib. 66. Sueton., in Vespasiano, cap. 3.
[487] Sueton., in Vespasiano, cap. 3.
[488] Sueton., in Vespasiano, cap. 23. Dio, lib. 66.
[489] Sueton., in Vespasiano, cap. 16.
[490] Dio, lib. 66.
[491] Sueton., in Vespasiano, cap. 16.
[492] Aurelius Victor, in Breviar.
[493] Gruterus, Thesaur. Inscription. Thesaurus Novus Veter.
Inscription. Muratorian.
[494] Zonaras, Annal.
[495] Plinius, Histor. Natur., lib. 3, c. 5.


Anno di CRISTO LXXV. Indizione III.
CLEMENTE papa 9.
VESPASIANO imperadore 7.
_Consoli_
FLAVIO VESPASIANO AUGUSTO per la sesta volta, e TITO CESARE per la
quarta.

Nelle calende di luglio furono sostituiti nel consolato _Flavio
Domiziano Cesare_ per la quarta volta, e _Marco Licinio Muciano_ per
la terza. In gran favore continuava Muciano ad essere presso di
Vespasiano[496]. Naturalmente superbo, e più perchè alzato ai primi
onori, sapea ben far valere la sua autorità[497]. Sopra gli altri
della corte pretendea d'essere ossequiato e rispettato. Verso chi gli
mostrava anche ogni menomo segno di distinzione in onorarlo, andava
all'eccesso in procurargli posti ed avanzamenti. Guai all'incontro a
chi, non dirò gli facea qualche affronto od ingiuria, ma solamente
lasciava di onorarlo; l'odio di Muciano contra di lui diveniva
implacabile. Costui pubblicamente era perduto nelle disonestà, e
vantava tuttodì i gran servigi da lui prestati a Vespasiano: suo dono
chiamava ancora quel diadema ch'egli portava in capo. A tanto giunse
talvolta questa sua boria, e la fiducia de' meriti propri, che nemmeno
portava rispetto allo stesso imperadore. E pure nulla più fece
risplendere, che magnanimo cuore fosse quel di Vespasiano, quanto la
pazienza sua in sopportare quest'uomo, temendo egli sempre di
contravvenire alla gratitudine se l'avesse disgustato, non che punito.
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