Gli eretici d'Italia, vol. II - 54

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Transilvania dove lo invitava il principe Giovanni Sigismondo; divenne
archiatro e consigliere intimo di Stefano e Cristoforo Batori, e a lui
Soccino dedicò la seconda sua risposta a Volano.
Nel 1566 sostenne al cospetto di tutta la Corte una disputa pubblica,
appoggiato da Francesco David; ma questi l'oltrepassò bentosto, non solo
negando che Cristo è Dio, ma volendo non fosse adorato; lo perchè il
Biandrata gli si inimicò. E già la Polonia era invasa da un'infinità di
sètte: per metter qualche rimedio alle quali il Biandrata chiamò Fausto
Soccino. Non tardò a guastarsi anche con lui, il quale confessa che il
Biandrata avea reso molti servigi alle loro chiese, ma che, per
ingraziarsi re Sigismondo Augusto, non solo s'intepidì nel favorire gli
Unitarj, ma blandì i Gesuiti. Tant'è antico il tacciar di gesuita
chiunque dissente dall'opinione del giorno, foss'anche un
antitrinitario! Parve in fatti non si fosse staccato decisamente dal
cattolicismo, a segno che la Corte polacca l'adoperò in varie
nunziature: gli avversarj lo imputarono d'avarizia; dissero morì
d'indigestione, o soffocato da suo nipote Bernardino; nel che Soccino
vede «un giustissimo giudizio di Dio, che usa gran severità contro
quelli che abbandonano la sua causa per interessi umani».
Il Graziano, nella vita del cardinal Commendone, ritrae al vivo gli
scompigli nati in Polonia per le discordie fra re Sigismondo Augusto e
Bona Sforza sua madre, e l'insinuarsi delle opinioni erronee. _Ex
Germania, Gallia, Italia corruptores aderant, ac prohibente nemine, et
inanissime quoque dictis applaudente, sua quisque somnia venditurus,
cœtus æmulantium studia profligatæ dottrinæ habebant, et licentia linguæ
grassabantur. Eodem Bernardinus Ochinus confugerat, et præter cœteros
magno concursu et assensu audiebatur etc_.
Esso Commendone al cardinale Borromeo scrivendo il 6 luglio 1564, dopo
narrato del libro del Sarniscki calvinista, soggiunge: «Monsignor
Varmiese ebbe jeri avviso di Posnania che lì s'intendeva per lettere
dell'arcidiacono di Cracovia come frà Bernardino Ochino era venuto in
Cracovia, e che apertamente si era accostato a' Trinitarj, e che
apportava di più non so che altro dogma di poligamia». E da Parzow il 28
febbrajo 1565: «Gli eretici di questo regno, vedendosi fra loro così
divisi, per far pruova se possono in qualche modo ridursi tutti sotto
una setta, ed unirsi insieme contro i Cattolici, jeri ed oggi nelle case
di tre principali eretici hanno fatto tre conventicole di
Confessionisti, di Sacramentarj e di Trinitarj, e preso partito di
tentare se possono per qualche via accordarsi con gli altri. Io da un di
loro, il quale vacilla alquanto, e suole venir da me talvolta, ho inteso
come, la state passata, essi Trinitarj avevano risoluto di far un
conciliabolo generale in Polonia, al qual fine erano venuti a Cracovia
di Transilvania il Biandrata, di Moravia l'Alciato, il Statorio
(Stancario?) e il Gentile, e di Germania l'Ochino: ma dagli editti fu
poi interrotto questo loro disegno, e i sopradetti furono costretti
fuggirsi fuori del regno, eccetto l'Ochino, il quale fu intrattenuto
secretamente, finchè uscendo anch'esso ultimamente dal regno, se n'è
morto in Slesia».
Anche il cardinale Osio, scrivendo a Nicola Cristoforo Radziwil intorno
alle infinite sette pullulanti in Polonia, soggiunge: _Fortasse non
ignoras in dubium nunc revocari (quod etiam apud et ethnicos facere
capitale fuit) num sit Deus qui rerum humanarum aliqua cura tangatur.
Ausus est hanc quæstionem tractare B. Ochinus, unus omnium impurissimus
hæreticus, qui simul et inimicum et defensorem agit: qui plurimis etiam
blasphemiis scatentes de sancta Trinitate dialogos edidit, quos patri
tuo dicare veritus non est. Vides igitur ad quod extremæ barathrum
impietatis ventum sit postea quam ab unitatis cathedra discessum est_
(da Colonia 1584).
E nuova confusione vi portò Fausto Soccino, passato in Polonia nel 1579,
perocchè dalle carte dello zio aveva tratto fuori un altro simbolo che
differiva in punti essenziali dagli Unitarj polacchi. Secondo i numerosi
suoi scritti, bene aveano meritato Lutero e Calvino, ma non abbastanza,
giacchè era mestieri sbrattar la fede da ogni dogma che trascenda la
ragione. La Bibbia è d'origine divina, e voglionsi prendere in senso
letterale i passi che si riferiscono a Cristo; il quale a Dio, unico
d'essenza come di persone, è inferiore soltanto nella maestà e potenza,
che esso acquistò colla morte, coll'obbedienza e colla risurrezione.
Concepito per opera dello Spirito Santo, e perciò detto Figliuol di Dio,
prima di assumere il ministero di maestro degli uomini fu rapito al
trono di Dio, ove ricevette gl'insegnamenti, perciò tanto sublimi. In
premio della sua obbedienza fu, dopo morte, elevato alla dignità divina,
con dominio sopra tutte le cose terrene e celesti. A lui possiamo
ricorrere dunque con fiducia, e dobbiamo adorarlo come Dio. Con ciò
opponevasi agli Unitarj transilvani; e in fatto nel catechismo di Racow
fu scritto: «Non è degno del nome di cristiano chi non rende a Gesù
Cristo onori divini».
Ad ogni modo costituivasi un Dio subalterno, al quale in un dato tempo
il Dio supremo cedette il governo del mondo[514]. Cristo non è più il
verbo incarnato, Dio rivelato agli uomini, per condurli sulla strada del
cielo, la ragion metafisica del mondo, l'inesausta sorgente della virtù;
egli non opera direttamente sull'uomo, il quale si conduce colle proprie
forze. L'uomo fu mortale prima della caduta; altrimenti Cristo, abolendo
il peccato l'avrebbe sottratto alla morte; non si trasmette colpa
originale. L'uomo è di libero arbitrio, tanto che l'onniscienza divina
non abbraccia le azioni umane; e la dottrina del predestino sovverte
ogni fede. La giustificazione non è più che un atto giuridico, pel quale
non è dichiarato giusto perchè tali il rendano le opere sue, fatte in
obbedienza de' divini precetti; Cristo non soddisfece pei peccati degli
uomini, poichè Dio gli avea perdonati anche prima di lui: la sua Grazia
non esiste, altrimenti pericolerebbe la moralità; il battesimo d'acqua è
meramente atto allusivo all'iniziazione; è cerimonia come la Cena. Lo
Spirito Santo è la forza ed efficacia dell'Altissimo. L'uomo arriva a
discerner il male e il bene da sè, e dall'istruzione trae l'idea di Dio
e delle cose divine. Dicesi immagine di Dio in quanto signoreggia le
bestie; — concetto il più basso che mai siasi dato alla somiglianza fra
Dio e la più nobile creatura[515], e che non ispiega come l'uomo, appena
Iddio gli si manifesta, immediatamente sia capace di comprenderne
l'esistenza. E sempre in Soccino l'idea religiosa è secondaria e
d'acquisto, primeggiando l'idea morale a cui essa dee servire; a tal
punto che de' libri sacri non sì riterrà nulla che contraddica alla
nostra intelligenza[516].
Il Soccino fu dunque il vero e risoluto eresiarca, poichè non rispettò
limiti nel proclamare i diritti della ragione: Lutero e gli altri aveano
secolarizzato la religione, egli secolarizzò Dio; e se anche non osò
apertamente sbandire il soprasensibile, negò tutti i dogmi, insegnò a
scredere, fu il padre del razionalismo, che è l'eresia de' tempi nostri.
Fausto Soccino insegnava anche errori sociali, ed esagerando la dottrina
della mansuetudine evangelica e del perdono, negava non solo la
legittimità della guerra, ma quella pure di qualsiasi magistratura che
potesse recare a una coazione qualunque. Chi denunziasse un'ingiustizia
o una violenza fattagli, commetteva un atto di vendetta, repugnante alla
pratica generosa della morale cristiana: perocchè Cristo nel sermone sul
monte avea detto: «Sapete che fu scritto, occhio per occhio, dente per
dente. Io vi dico, Non resistete al male; e se alcuno vi batte la
guancia destra, presentategli anche l'altra».
Questa dottrina fu sostenuta da' suoi discepoli, portandola a negar il
diritto penale, e principalmente la morte. S'appoggiavano essi a un
celebre passo di Lattanzio, che proscrive e la guerra e la denunzia dei
delitti[517] e Ostorod, teologo de' più reputati in quella setta,
appoggiandosi al Nuovo Testamento, proclamò che il magistrato cristiano
pecca mandando al supplizio i malfattori. Schmalz vi aggiunse questo
riflesso, che l'uccisione del colpevole può produrre la perdita della
sua anima: Weigel diffuse quest'insegnamento in popolari istruzioni; e
tutti i dottori di quella setta impugnarono la legittimità della pena di
morte: Cristo perdonò all'adultera e rimproverò san Pietro che aveva
adoperato la spada; e san Paolo disse che armi de' Cristiani devon
essere solo le spirituali, non la spada e la forca[518].
Oltre i teologhi cattolici, queste massime furono impugnate da Benedetto
Carpzovio, giureconsulto lodato di Wittemberg (1595-1666), che nella
_Practica Criminalis_ pone il castigo come necessario a preservare la
società, e confutando i Socciniani, allega i tanti passi della Bibbia
ove la pena estrema è comandata o inflitta da santi personaggi. Nulla di
ciò ritrova nel Nuovo Testamento, ma poichè vi si ordina di obbedire
alle potestà, basta l'esser la pena di morte ordinata da tante leggi
umane[519].
Isabella dei Medici e suo fratello granduca aveano sempre impedito che i
beni di Fausto Soccino fossero staggiti dall'Inquisizione, col solo
patto non mettesse il nome a' suoi libri, che in fatto uscirono anonimi,
o coll'anagramma di _Felix Turpio Urbevetanus_. Andrea Wissovatius, suo
nipote, ne pubblicò le opere nella _Bibliotheca fratrum polonorum_,
1636, 6 volumi in-fol. Del 27 eransi stampate a Cracovia _Prælectiones
theologicæ Fausti Soccini senensis_.
Gravi contraddizioni suscitarono a Fausto le sue dottrine. Protetto da
alcuni signori, sposò Agnese, di buona casa, che poi perdette nell'87. I
suoi avversarj eccitarono contro di esso il popolo di Varsavia, che lo
trascinò per le vie; a gran fatica salvato, ritirossi in un oscuro
villaggio, ove morì il 3 marzo 1604, e gli fu posto per epitaffio,
_Tota licet Babylon destruxit tecta Lutherus,_
_Calvinus muros, sed fundamenta Soccinus._
In fatti la Riforma non era riuscita che a toglier le anime al papa per
darle a un re o ad un concistoro o ad un pastore. Solo il Soccianismo
impiantò l'autonomia della ragione; e ne derivano Cartesio, Spinosa,
Bayle, Hume, Kant, Lessing, Hegel, Bauer, Feuerbach: Straus e seguaci,
negando il Cristo positivo e surrogandone uno ideale, non fecero che
aggiungere al concetto socciniano l'elaborazione scientifica, propria
dell'età moderna: la bestemmia arcadica di Renan e la piazzajuola del
Bianchi-Giovini e d'altri italiani ne derivano, togliendo la suprema
questione, la chiave della storia, della vita, della morte,
dell'avvenire, l'intelligenza del mondo misterioso.
I Socciniani, come i seguaci di Lutero, si annunziavano quali
restauratori del primitivo cristianesimo, nell'assumer la Santa
Scrittura per unica regola di fede e norma delle azioni. Lutero dalla
Bibbia eliminando quel che non gli garbava, conservò i dogmi della
Trinità, del peccato originale, dell'incarnazione e divinità di Cristo,
il battesimo, l'eucaristia. Soccino levò tutto. Il luteranismo avea dato
prevalenza all'elemento divino; il soccianismo all'umano; Luterani e
Riformati esagerarono il peccato ereditario; i Socciniani nol
riconobbero.
Secondo quelli, Iddio solo opera la giustificazione, restando l'uomo
interamente passivo: secondo gli altri, l'uomo solo è attivo, e per se
stesso si eleva e perfeziona, nè Dio fa altro che rivelargli la sua
dottrina. Pei Protestanti il Salvator divino venne in terra onde
ricomprarci col suo sagrificio; pe' Socciniani è un uomo, che fu mandato
in terra a dar agli uomini una nuova dottrina, ed esibir in se stesso il
modello da imitare. I Protestanti, fidando interamente nella Grazia,
disprezzano la ragione: i Socciniani proclamano continuamente la ragione
e i suoi diritti sopra ogni mistero, la sua competenza a schiarire la
folta nebbia che involge le sante scritture. I Protestanti (dice il
Gioberti) presero dagli scritti pagani gli accessorj e la facondia: i
Soccini ne rinnovarono sostanzialmente gli spiriti e le dottrine.
Ripudiando il sovrintelligibile ideale e rivelato, oscurano
l'intelligibile per necessità di logica, gli tolgono quella purità e
perfezione che ridonda dai dettati evangelici; riducono la sapienza di
Cristo all'angusta misura di Socrate e di Platone: all'idea splendida e
adeguata della cristianità cattolica surrogano l'idea manca e caliginosa
della filosofia gentilesca. Serbano soltanto in sembianza le verità
sovrarazionali della rivelazione per mettere un'armonia apparente fra
l'aristocrazia socciniana e la moltitudine, e formar una dottrina
esoterica a uso solamente del vulgo.
In Siena, dove la famiglia Soccini era da antico illustre per impieghi e
per sapere, ne cercammo diligentemente qualche memoria, ma quasi niuna
ne rimase. Solo dicono appartenesse a quella casa la villa di Scopeto;
pochi anni fa ci frondeggiava un grand'albero, sotto del quale era
tradizione tenessero le loro congreghe i religionarj, e perciò fu fatto
abbattere dalla pia posseditrice. Da quella biblioteca comunale potemmo
ricavare alcune lettere, che, in mancanza di meglio, riferiamo, senza
che occorra avvertivi un gergo d'intelligenza.
«Materiale amatissimo[520]. Non son più che cinque giorni ch'io ricevei
da una medesima mano tre delle tue lettere del 2, del 15 e del 23 di
marzo, alle quali non darò quella piena risposta che tu forse vorresti e
io desidererei, perciocchè io ho da scrivere ancora molte lettere, e il
tempo che m'è dato non è molto lungo. Ti anderò rispondendo per ordine,
cominciando dalla prima, con lasciar dall'un de' lati il dirti che
l'aver tue lettere m'abbia tutto racconsolato, e quasi ritornato in
vita. Credoti, Materiale, tutto quello che mi racconti del dolore che tu
hai avuto di me, cioè di non sapere nè dov'io fossi, nè in che stato mi
trovassi, facendo quei pensieri di me e quei discorsi che tu dici, li
quali non mi fanno saper cosa alcuna di nuovo, perciocchè a troppi segni
ho conosciuto il grand'amore che tu mi porti: ma ti puoi ben pensare et
accorgere dall'altre mie lettere, che non meno sono io stato in pensiero
e in affanno de' casi tuoi, li quali per le tue lettere non solo non
cessano in me, ma s'accrescono molto più dove il pensiero e l'affanno
che tu avevi di me per le mie lettere, è cessato si può dir in tutto; e
dove, quando fosse avvenuto quello, di che ti faceva dubitare l'amor che
tu mi porti, altro non ne poteva riuscire che montasse più che 'l
perdere questa vita corporale. Se avvenisse quello di che mi fa
sospettare la grandissima affezione ch'io ti porto, ne riuscirebbe a te
perdita d'una vita spirituale et eterna, et a me mentre ch'io vivessi
perpetuo e infinito dolore. Laonde se mai desiderai d'esserti appresso,
e se mai conobbi di quanto danno ti sia stato l'essermi io allontanato
da te, ora lo desidero, ora lo conosco. Infelice giorno fu quello di cui
oggi si rinnovella il 2º anno, nel quale fui costretto ad abbandonarti:
ma perciocchè tornerò ben tosto a ragionar teco in questa lettera di
questa parte, seguirò di rispondere ordinatamente. — Quella seconda
dov'erano le composizioni, ti dee a questa ora esser pervenuta alle
mani, ma con tutto ciò non resterò di rimandartela. Dispiacemi che tu
sii fuori di quei concetti che ti porgevano materia di farmi de' dubbj,
e dubito che tu non mi riesca tra le mani a poco a poco un puro
leggista, che sarebbe bene un colmar il sacco da dovero. Credo quel che
mi dici di messer Ascanio da Viterbo, cioè che m'ami assai, ancora ch'io
non sappia che cosa lo possa indurre a questo, avendomi egli conosciuto
in tempo ch'io non avea parte alcuna in me che fosse degna d'alcuna
laude. Quanto alla Befana e il resto che tu mi racconti intorno a quelle
cose che già m'erano tanto grate, me ne passerò leggermente. Ti dirò
solo che mi par che tu abbi voluto far prova della mia fermezza, la
quale con l'ajuto di Dio non scemerà mai, anzi ogni giorno anderà
crescendo. Io posso dir, Materiale — Amor se vuoi ch'io torni al giogo
antico, Come par che tu mostri, un'altra prova Meravigliosa e nova Per
domar me convienti vincer pria. — E quest'è che bisogna ch'egli mi
faccia vedere apertamente, rendendomene chiaro testimonio, che, seguendo
le sue istigazioni e facendomi suo servo, io dopo morte abbia a ritornar
in vita, sì come ha fatto Cristo, ogni volta ch'io osserverò i suoi
comandamenti e mi farò tutto suo: ma perciocchè questo è del tutto
impossibile, impossibil è ancora ch'io mai più ritorni ad innamorarmi di
quella maniera.
«Alla mia impresa ho ritornato il primiero motto, sì come puoi vedere, e
me ne servo non per Delia, ma per soggetto divinissimo, il quale non t'è
nascosto. Dispiacemi che il Benvogliente sia stato egli cagione,
quantunque non sia lontano dalle belle lettere, di ritrarsene; perdonimi
sua signoria, in questa parte non sa dov'egli s'abbia il capo, bisogna
pur ch'io lo dica: e che vale un legista se egli non è tutto ripieno di
belle lettere? o mi dirà, Le belle lettere non son _de pane lucrando_.
Gran mercè a lui: adunque si studia per guadagnare o per divenir grande
e famoso? Messer no, questo non è il vero fine degli studj, ma sì bene
il giovar primieramente con la sua scienza ad altrui, e poi l'aver nelle
lettere come un rifugio in tutti i travagli. Dirà, che cosa può più
giovar al mondo che le leggi e la conoscenza d'esse, per le quali tutte
le città si mantengono in pace e tutte le provincie? E in ciò s'inganna
troppo evidentemente; non è sì vil mestiero al mondo che oggi non sia
più giovevole a tutti comunemente, che la scienza delle leggi civili,
trattata come s'usa ora; anzi non vi ha scienza che sia ricevuta e
approvata, parlo delle scienze umane, che apporti maggior nocumento al
mondo che quella delle leggi civili, trattata da dottori, avvocati,
auditori e simile generazione, nel modo che si costuma in tanti e tanti
luoghi, di che rendono piena testimonianza quelle città, ch'hanno dato
bando a sì fatte genti, le quali vivono tanto quietamente, che non si
potrebbe dire: non istà almeno un pover'uomo trent'anni a litigar e
consumarsi su per li palazzi: non s'ode nè Bartolo, nè Baldo, nè Cino,
nè Alessandro, nè tanta canaglia che nacquero al mondo per mettervi una
peste perpetua. Ma perciocchè io non ho tempo, mi riserbo ad un'altra
volta a mostrarti che non può eleggere l'uomo stato peggiore o
condizione, che la vogliam chiamare, che quello del dottor in ragion
civile e canonica o civil solamente, o come ti piace, pur che sia dottor
di leggi fatte da uomini. Quanto poi a quell'altra parte dell'aver un
rifugio nei suoi travagli, lo lascio pensare a te quanto le leggi sieno
al proposito. Vuoi altro, che s'io ti fossi appresso, io te lo farei
venir in odio di maniera che gitteresti nel fuoco quanti di quegli
animalacci tu hai nel tuo studio! Ma perciocchè tu mi potresti dir che
faccio male a biasimar com'io fo quella professione ch'è stata
com'ereditaria della mia casa, e per la quale ella ha avuto qualche
nome, ti dico che quello ch'io ti scrivo non lo direi già su per le
piazze, ma l'essermi tu quel che mi sei, e 'l vederti camminar per
quella strada, mi sforza a parlar teco in questa guisa. Ti ringrazio
dell'avermi fatto a sapere le cose fatte questo carnevale, e delle
stanze mandatemi; più grato quasi mi sarebbe stato il sonetto fatto per
li due figli del duca, nè so qual possa essere quella cosa che ti vieti
il mandarmelo; starò aspettando la canzone del frate, ma aspetterò
insieme il sonetto; te 'l dico, non mi far le baje. La morte dello
Spannocchio, che m'è stata del tutto nuova, m'ha conturbato
estremamente, e ne scrivo al Focoso.
«Questo è quanto alla tua prima lettera: vengo alla 2ª, della quale mi
spedirò in pochissime parole. Io certo son di natura tale che non mi
conturba altro che 'l danno altrui, e 'l tuo sopra tutti gli altri, e
perciò starò sempre allegrissimo, se non quando udirò che coloro ch'io
amo, e tu particolarmente, seguino via da rompersi il collo e ruinarsi.
Duolmi che la nostra Accademia se ne sia ita in fumo per le cagioni che
altre volte ti ho scritto, e poichè par che l'Italia ami tanto la
barbarie, che voglia dar bando a tutte le buone lettere, guardisi che
Dio non la faccia barbara da dovero. Al Focoso ho scritto, come tu vedi,
ma non l'ho già sgridato della maniera che tu vorresti, anzi in quel
cambio nella sua lettera ho sgridato te. La speranza che ti dava la mia
lettera che si avessimo a godere, sebben è lontana, non manca perciò, nè
mancherà così leggiermente; se pur viveremo ancor qualch'anno, e questo
basti intorno alla tua 2ª lettera.
«Alla terza dico, che i sonetti di quella novella Saffo mi sono stati
molto cari, e son di parere ch'ella sia per riuscir una grande poetessa,
poi che così si chiama, e farà vergogna a voi altri giovani che vi
sarete dati ai paragrafi, o a non so dir che. Guardati tu di non metter
il piè su l'amorosa pania, nè per costei, nè per altra, nè ti far
gabbonaggio di me con dire, O quando bene il Frastagliato il risapesse
che importerebbe? Perciocchè facendo questo non ti faresti gabbonaggio
di me, ma di Dio, il quale non farà com'io, che te ne riprenderò
acerbamente e ne avrò dolore inestimabile e poi nulla più, ma ti
castigherà di modo che non vorresti mai esser nato: se non altro ti darà
per pena morte perpetua, cosa orribile e spaventosa fin alle bestie. E
di vero, Materiale, se tu non ti risolvi di mutar vita e di lasciar da
parte coteste frascherie, che da qui a poco tempo ti saranno omai troppo
disdicevoli, io ti veggio ruinare affatto affatto, perciochè, poichè per
un pezzo ti sarai fatto beffe di Dio, egli si farà beffe di te, e ti
abbandonerà in maniera tale, che cadrai poscia strabocchevolmente in
ogni sorte di vizj, e farai molte di quelle cose ch'ora non faresti per
tutto l'oro del mondo. So che questo mio parlare ti parrà strano, e pur
la cosa sta così, nè voler paragonar altri con te, perciocchè gli altri
non hanno avuto nè tante correzioni nè tanti ricordi, nè tanta luce in
questo oscurissimo mondo, quanta n'hai avuta tu; e oltre a ciò i ricordi
e le correzioni che ti sono state fatte, ti sono state fatte da persona
che tu ami tanto, e a cui ne sei tanto caro, che maraviglia mi pare che
tu non ti risenta. Com'è possibile che non ti muovano le mie parole,
dette con tanto amore e con tanta verità? vuoi forse ch'io ti scriva una
diceria per persuaderti? non bast'egli tra gli amici veri e perfetti,
quali cerchiam d'esser noi, il far intender l'un all'altro la sua
volontà semplicemente nelle cose lecite e oneste? Ricercami tu di
qualunque cosa si sia, pur che sia lecita e onesta, e vedrai s'io dirò
mai di no, anzi s'io non avrò più tosto ubbidito che tu abbi comandato.
Non sai tu che tu sei mio? credi ch'io n'abbia perduto il dominio per la
lontananza di due anni? le tue leggi non t'insegnano già questo, e se
sei mio, perchè non mi lasci far di te ciò ch'io voglio? Qual contento
puoi tu trovar maggiore che di esser unitissimo col tuo Frastagliato?
antiporrai forse tu a tal perfetta unione e congiungimento quanti
piaceri, grandezze et onori ti potesse dar tutto il mondo insieme? non
eleggeresti tu più tosto d'andar tapinando per lo mondo che di non esser
perfetto amico suo? Se m'amerai veramente, Materiale, ora lo conoscerò,
e massimamente poi quando ti risolverai quel ch'abbia ad esser di te:
perciocchè, se eleggerai un modo di vivere che tu sappi esser contrario
alla mia intenzione, dirò che tu non m'ami, anzi che desideri di vedermi
in dolore ed in affanno, poi che tu sai bene ch'altra cosa non mi
potrebbe più molestare che il vederti lontano troppo dai miei disegni.
Perdonami s'io sono troppo aspro riprensore, e fa ch'io sappia che tu
abbi pigliati i miei ricordi in buona parte, ma molto più che tu
gl'incominci a metter in esecuzione. Un'altra volta appena sarò io lungo
la metà di quello ch'ora sono stato, perciochè i miei studj e molte
altre cose insieme mi togliono ch'io non sia brieve nello scrivere.
Eccoti quei pochi versi mandati con la mia seconda.
Saluterai lo Scacciato da mia parte, io gli ho
di già scritto, e scriverò, quand'io sappia
ch'egli abbia ricevuto le lettere che già gli
ho mandate».
Nunc barbarorum asperrima hæc loca incolens
Ubi horrido gelu riget, tabet, perit
Hominum, ferarum, et arborum simul genus
Dulcissimi haud meminisse natalis soli
Omnia ubi ferme adhuc virent, vivunt, vigent,
Non possum, amice mi omnium charissime,
Ejusque desiderio inenarrabili
Non usque aduri et confici miserrime.
Feci questi jambi, come già l'ho scritto, nel principio di novembre per
un estremo freddo che sentii, e posso dir vidi in queste parti, e fecili
con intenzione di farne molto più, ma poi per molti rispetti fui
costretto ad abbandonar l'impresa, ma perciocchè, lasciandoli così
imperfetti, avrebbero potuto forse cagionar qualche sospetto nell'amico
tuo, ti scrissi che tutto era detto iperbolicamente, e così ti dico ora.
Ti scrissi ultimamente com'io desiderava d'aver un Boccaccio, cioè le
cento sue novelle, di quelle che si stamparono in Firenze dai Giunti
l'anno 1527, e che tu facessi ogni opera d'averne uno almeno in
qualunque modo si sia. Te lo ritorno a dire, e ti riprego a non mancare,
se tu dovessi metter sottosopra tutto il mondo, non che Siena.
Di mortal cosa per cui già in oblìo
Posi me stesso e sol pianto e dolore
Alfin trar ne potea, d'interno amore
Arsi pur contra il fermo voler mio.
Ed or che del eterno padre e Dio
Fonte d'ogni mio ben bramo nel core
Vive fiamme sentir di dolce ardore,
Lungi è l'effetto da sì bel desio.
Ma s'io potessi, come chiaro scorsi
L'angelica beltà del primo objetto,
Scorger dell'altro la pietà infinita,
O me beato, che gli estremi morsi,
Non temerei di morte a cui m'affetto,
Amando lui, che' suoi ritorna in vita.
«Saluto l'Attonito per mille volle, col quale mi corruccierò molto meno
quando non facesse altro tutto il tempo della sua vita ch'attender alla
filosofia naturale, che non farò teco s'io odo che ti perda in quelle
Baldate e Bartolate, che mi fanno vergognare quando io penso d'averci
speso del tempo. Saluto similmente tutti gli amici: a Dio Materiale». Il
20 d'aprile 1563.
_Al virtuoso Materiale Intronato mio come
fratello sempre maggiormente onorando, Siena._

Molto magnifico signor mio osservandissimo,
«V. s. non si dovrà maravigliare se non ho più tosto dato risposta ad
una sua gratissima lettera, scrittami da lei più di quattro mesi sono,
cioè il dì 24 di giugno, poichè io non l'ho ricevuta più tosto che
quattro dì fa. Io, signor mio, vivamente secondo il più delle volte
scrivendo al nostro Bargaglio ho fatta menzione di v. s., così sempre ho
fatto conto scrivendo a lui di scrivere a lei ancora, riputando
parimente le lettere scritte a me dal sig. Bargaglio essere scritte non
da lui solo, ma da v. s. insieme: tanto mi pare, che sia salda e
indissolubile l'amicizia nostra, nella quale con somma mia soddisfazione
e vera utilità vi è sempre piaciuto di ricevermi per terzo, quantunque
allora che più io coglieva il frutto di così fatta benignità vostra, mi
sia stato quasi forza d'allontanarmi per un tempo, e per non brieve
spazio di paese, dall'uno e dall'altro di voi. La quale lontananza, se a
v. s. ancora portasse danno com'ella scrive, in me certo si
raddoppierebbe il dolore ch'io debbo sentirne. Ma che danno ha ella
potuto portarle, massimamente in quel particolare, che ella mi dice
della risposta da lei fatta al Mazzone? Che bisogno può ella avere d'un
par mio nelle quistioni e materie poetiche, nelle quali essa è così
avanti introdotta, anzi così esercitata e intendente, e dalle quali io a
poco a poco, e per le mie infermità, e per gli studj più gravi a' quali
mi sono interamente dato, mi vo non solamente ritraendo, ma allontanando
quasi del tutto? Aggiungasi a questo, che v. s. si ha avuta ottima causa
alle mani, e se pur a superare alcune difficoltà, che in essa si parano
davanti, e a spegnere affatto questo mostro ella avesse avuto bisogno
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