Gli eretici d'Italia, vol. II - 13

E al 5 gennajo 1549 il Casa scriveva:
«Al Grisonio stamattina fu mandato le lettere ducali che mandi in qua i
processi fatti a lui; ed io gli ho fatto scrivere a parte che operi che
quel rettore, col qual mi par che sua signoria convenga benissimo,
scriva alla signoria, e faccia buona relazion come può e debbe far per
verità; ed allora si avrà facilmente il braccio secolare per Pola e gli
altri luoghi..... Non è possibile che io ritrovi questo benedetto
vescovo Vergerio, il quale è qui, ma incognito. Ho nondimeno, ragionando
coll'ambasciador di Francia che me lo suol raccomandare assai spesso,
operato con destrezza che lo meni un giorno a casa mia. Il qual mi ha
promesso di farlo, ma dice intendere che il vescovo è ammalato di
podagra. Poichè io l'arò pregato ed esortato che se ne venga a Roma, io
sarei di parere, non consentendo egli venire, operar con la signoria di
ritenerlo; che io dubito, se io gli presento il monitorio, che esso si
assenterà. Vero è che, etiam caso che la signoria me lo dia, io non
ispero poi di ottener di mandarlo fuori del dominio». Il Grisoni nelle
due diocesi di Capodistria e di Pola usato aveva estremo rigore,
frugando le case per trovarvi libri proibiti[97], facendo rimuovere le
persone sospette, minacciando di fuoco chi non si accusasse o non
consegnasse le bibbie vulgari; e predicando a Capodistria, diceva: «Voi
vedete le calamità che vi affliggono da alcuni anni; le messi, gli
ulivi, le vigne perirono; gli armenti deteriorarono; non v'ha alcuno de'
nostri beni che non abbia sofferto danno. E chi n'è la causa? Il vostro
vescovo, gli eretici che si trovano fra voi. Perchè non li lapidate?»
Queste odiose parole concitarono il furor popolare; nè solo contro di
Pietro Paolo, ma di molti, e alcuni vennero cacciati in bando: Sereno e
Teofanio ridotti ad abjurare: «Con la tirannide pretesca e peggio che
turchesca ben sai che fu posto terror agli altri» [98]. Il Vergerio si
difese sufficientemente dalle imputazioni in una pastorale; l'avvocato
fiscale Giovanni Maria Bucello asserì, che dalle indagini non era
risultata colpa, anzi attestava che esso vescovo «è il più giusto, il
più dabbene, il più cattolico pastore ch'io abbia conosciuto a' miei
giorni, e ha governato per lo spazio di parecchi anni tanto bene e
cattolicamente quella sua diocesi, che non si potria dir di più; io per
me credo non sia diocesi in Italia governata con più diligenza e frutto,
e che più brami e riverisca il suo pastore.... E veramente sono state
baje e calunnie di alcune male persone tutte quelle che ad esso vescovo
sono state apposte» (5 gennajo 1547).
Anche frà Marino inquisitore ne attestava l'innocenza ad Ercole Gonzaga
cardinale di Mantova, e «Non solo non ha predicato nè insegnato eresia
alcuna, ma ha governato la sua diocesi con tanta carità e tanto frutto,
quanto è possibile che un pastore possa fare, e così consta per più di
ottanta testimonj esaminati. E della sua vita dalli suoi medesimi
avversarj (benchè sono in poco numero) è confessato che ella è
_simpliciter et omnino irreprehensibilis juxta illud Pauli, oportet
episcopum irreprehensibilem esse_:» e conchiudeva che, gran torto erasi
fatto al povero vescovo, mentre egli, inquisitore e teologo, l'avrebbe
voluto pubblicare in pulpito assolto e pastor bonissimo: e ripetere che
_non omnis sermo facit hominem hæreticum_ (18 novembre 1546).
Gli è sopra queste testimonianze ed altre congetture che, cent'anni or
fa, Rinaldo Carli tolse a difendere la fama di questo suo compatrioto,
quasi mai non avesse aberrato dalla Chiesa finchè non fu costretto dai
rigori di Roma a fuggire. Le nuove carte che noi recammo e più l'esame
delle opere del Vergerio ripudiano quella scusa.
Morì in quel tempo suo fratello Giambattista vescovo di Pola, e un
innominato spedì al cardinale Farnese una lettera, con postille che
notiamo in corsivo a' piedi.
— _Questa lettera è stata fatta per monsignor Pietro Paolo Vergerio
vescovo di Capodistria, sebben pare da altri. Dalla quale si cara la
dottrina ut in margine._
«Al conte Bisaro Vicentino.
«Signor conte. Se io potessi servir in altro alla vostra signoria, ella
sa ben che io la servirei. Ma, non essendo io, con la grande mia
impotenza, buono di altro che di scriver le nuove che occorrono tra noi,
di questo la voglio servir volontieri, come ho cominciato a fare. Dopo
che ella partì da me, è morto jeri di notte, e sepolto oggi in
Capodistria, monsignor vescovo di Pola, fratello, come sa vostra
signoria, del vescovo nostro. Il povero signor ha presa una infermità
gravissima nell'aere di quella sua Pola, e si fece portar qui già da tre
giorni, e si è fatto attorno di lui tutto ciò che si è mai potuto per
tenerlo in questa vita qua giù, e infine è piaciuto al Signor di
chiamarlo la su alla eterna. Tutta la città lo ha pianto[99]; perchè,
avendo ella alcuni che sono morali e del mundo, questi, credendo che 'l
vescovo di Pola fosse ancora morale e del mundo, lo amavano e lo avevano
caro, come gentil signor che egli era. E avendo la città nostra alcuni
che sono pii[100] e spirituali, questi anche l'amavano, perchè erano
pervenuti in cognizione che sua signoria era fatta pia[101] e spirituale
e intendeva benissimo la verità e l'avea con gran diligenzia nella sua
diocesi insegnata[102] e fatta insegnare. E poi sua signoria ha
benissimo confirmata questa opinione[103] con gran consolazione degli
eletti, al tempo di questo passaggio che egli ha fatto, perchè egli è
morto pien di fede viva[104] e viva speranza in solo Jesù Cristo. E
voglio affermare che la più cristiana morte[105] e più senza alcuna
superstizione e ipocrisia[106] non è stata fatta su questo nostro
scoglio a memoria d'uomo. Così piaccia al Signor di svegliar cui dorme,
e accenderli alla imitazione. Egli ha avuto sempre al letto fratelli
cristiani[107] che saviamente a tempo facevano l'officio, e li
ricordavano solamente quel che importava, resecando le superfluità[108],
e le inezie e le empietà. E esso parecchie fiate fece confessioni
bellissime: fra le altre, questa: egli, poco innanzi l'ora del morire
chiamò il vescovo suo fratello e monsignor Francesco Grisoni suo genero
e madonna Cecilia de' Vittori sua sorella e disse loro: «Poco tempo è
che appunto tra noi, che siamo qui, conducessimo le nozze di mia
figlioccia; e sia ringraziato Dio, che me ne contento assai. Ora, tra
quei medesimi che siamo qui per volontà di Dio, abbiamo a concludere un
par di nozze spirituali, e queste sono dell'anima mia con Cristo
crocifisso, e prego quel caro sposo che se la pigli adesso, adesso». E
aggiunse: «Questi saranno fatti; bisogna morir e dare quest'anima.
Finora non ho fatto altro che parole per il mio signor». Così disse. Su
la qual confessione, dove il Figliuol di Dio morto in croce si prende
per sposo, difensor, salvator dell'anima nostra, io per me sicuramente
credo che possiamo fondar la certezza della salute; e che in certe cose
esterne[109] e simulate, che usano gli ipocriti, la non si possa fermare
per niente. Basta. Egli era fedele e già molto infocato nell'amor di
Gesù Cristo. Le sue esequie sono state tali, che hanno potuto piacere a
quei che sono pii. Nelle cose indifferenti si è fatto quasi secondo
usanza. Quelle altre, se in tutto non sono state lasciate, sono però
state mitigate e resecate in grandissima parte. Volete altro? Chè, dove
ogni piccolo cittadino suole aver nel suo funerale tutti i preti, tutte
le fraterie e quasi tutte le confraternite, questo prelato e gentiluomo
de' più onorati della città non ha avuto altri che solo i preti della
chiesa cattedrale, dove è stato sepolto. Dirò come ho detto di sopra:
Piaccia al Signor di operar col suo potente spirito onde gli altri si
sveglino ad imitare»[110].
Sappiamo in fatto che Pietro Paolo cercò far credere che suo fratello
fosse stato avvelenato perchè apostato, e così il fratello Aurelio[111],
e d'esser insidiato egli stesso, e al Muzio scriveva: «Per grazia di Dio
son de' perseguitati: non erubesco, anzi me ne glorio, non in me ma in
Cristo che mi fa degno di patir per lui; questo è dono, come è dono la
fede».
Il Vergerio si schermiva, senza professarsi nè disdirsi; e nell'archivio
estense, erede delle carte farnesi, esistono, come le anzi dette, così
altre lettere di lui, e prima questa al cardinale Farnese a Roma, da
Mantova 30 agosto 1545:
«Illustrissimo e reverendissimo signor. Piacque alla bontà di vostra
signoria illustrissima e reverendissima, quando la era in Mantova, di
dirmi che la mi prometteva (e usò questa parola efficace) di far che il
giudizio della causa mia sarebbe commesso al reverendissimo Legato di
Bologna. Or, non essendosi ciò fatto ancora per le occupazion maggiori
che l'hanno tenuta impedita, la supplico per la sua gran cortesia e per
la intercession di reverendissimi signori cardinali Mantoa e Ferrara,
che sia contenta di farlo far o a quel reverendissimo Legato di Bologna,
o al reverendissimo cardinale Grimano, che, essendo patriarca di
Aquileja, che è metropoli d'Istria, viene ad esser mio giudice
ordinario, e ora si ha da trovar in partibus. Questo beneficio rileverò
da vostra signoria reverendissima per tanto grande, quanto fu quello che
mi fece nostro signore dandomi la chiesa; e essendo conservato da lei
nello stato e nella dignità mia, sforzerommi alla giornata con gli studj
e con le fatiche mie di mostrarmi grato servitore. Io son ben uomo di
poca stima, pur supplico vostra signoria reverendissima che, tale quale
io mi son, mi voglia conservar, e non lasciar distrugger da impj. Le
bacio umilmente le mani, e in sua buona grazia mi raccomando». Di là
recammo pure questo viglietto:
«Illustrissimo reverendissimo monsignor reverendissimo,
«Il presente lator è mio nipote, il quale io mando a Roma a posta per le
cose mie, non vi potendo venir in persona, impedito da malattia e da
povertà. Supplico vostra signoria illustrissima e reverendissima che lui
e me abbia raccomandati, e che ci faccia dar espedizione. Così Dio a lei
doni tutto ciò ch'ella desidera. Bacio la mano.
«Di Venezia alli VI di gennaro nel MDXLVII.
_Umilissimo servitor_ VERGERIO VESCOVO».

Avevagli sempre affettato di appellarsi ad altri giudici: e il 15 marzo
1546 da Venezia scriveva ai legati del Concilio[112].
«Desideroso di obbedire e di poter fare la passeggiata mia, son venuto
in qua dove starò aspettando le signorie vostre reverendissime che mi
son patrone operino per bontà loro che mi sia mandato il breve con la
commission della causa al reverendissimo Legato e patriarca o veneto o
aquilejese... Raccomando il negozio, e me alla bontà e carità di quello.
Frattanto che il breve venga, io mi ritirerò anche fuor di Venezia, in
alcun recesso a studiar e a pregar Dio che mi abbia in protezione, e mi
liberi da queste persecuzioni».
Ma quando definitivamente gli fu intimato si presentasse al patriarca di
Venezia; egli invece ritirossi a Riva di Trento, donde scriveva al
Madruzzo il 25 febbrajo 1547:
«Illustrissimo e reverendissimo signore,
«Voglio ben dire che io da me con le forze mie non spererei di poter
aver tanta potenza di star confinato a Riva, dove cominciano a soffiare
dei mali venti meridionali, ma è la bontà di Dio mio, che in questa
afflizion mi sostenta, e son sicuro che non mi mancherà anche nello
avvenire, e mi reggerà e difenderà. Sono già ventotto giorni che io son
qua, e comincio a man giunte supplicar che me ne caviate, e mandiate
dove vi piace.
«Questa è una. La seconda è questa. Signor, di grazia scrivete ancora
una fiata a Roma con quella vostra santa mano, e dite una cosa tale: Il
Vergerio quanto a lui andrà al giudizio di Venezia e dove vorrete, ma
credetemi, signore, che la riputazione del Concilio non è che a questo
tempo si faccia un tal giudizio. Lasciatelo venir a Trento, e fate a me
questo piacere, che vedrete che molto meglio ne riuscirà, che mandarlo
adesso a farlo giudicar in una Venezia, che è come teatro del mondo. In
questa forma, monsignor reverendissimo mio di Trento, scriva al signor
cardinale Farnese, e stia a vedere ciò che riuscirà. Signor, dico che
già la mormorazione è grande che io non sia con gli altri, e come io sia
veduto in Venezia la crescerà in infinito, e mi duole nel core di non
poter essere a servir Dio a canto la signoria vostra illustrissima in
Concilio. Faccia lui, che nelle sue mani mi rimetto. Ho gran desiderio
di parlar con quella, e se pur si verrà che io abbia d'andare a quella
Venezia, domando licenza a vostra signoria reverendissima di aver a
passar per Trento. Il podestà vostro di Riva mi fa tante amorevolezze,
che è una cosa infinita, mi ha fino tolto ad alloggiar seco come un
fratello; ma con tutto ch'io abbi questa dolce e lieta compagnia, pur mi
vorrei spedir di qua, e ne supplico la illustrissima signoria vostra o
ad una via, o all'altra. E li bacio le mani raccomandandomi in sua buona
grazia. Cristo con lei».
Il Vergerio tentò presentarsi al Concilio in qualità di vescovo; e dopo
quanto sponemmo non farà meraviglia se ne fu respinto[113]; il che,
nelle diatribe posteriori egli attribuiva all'aver i Padri temuto che
egli, informatissimo come era degli affari di Roma e di Germania, non
divenisse accannito oppositore. Di procedere contro la sua persona non
si osò, affinchè non paresse men libero il Concilio; ed egli si ricoverò
presso il suo protettore Ercole cardinale Gonzaga di Mantova. Il quale,
alle istanze del Casa per consegnarglielo mai non diede ascolto; anzi,
tra per convinzione, tra per paura non fesse spinto all'eccesso, tenealo
raccomandato al cardinal Farnese, e al Madruzzo cardinale di Trento,
affinchè gli ottenessero favorevole ascolto dal Concilio di Trento:
«Altramente facendosi, io dubito di qualche inconveniente, perchè
vedendosi il buon vescovo levar tutte le vie della sua giustificazione,
o si precipiterà come hanno fatto degli altri nostri; o tenendosi pur in
piedi, anderà qua e là stridendo come disperato; e così volendogli
proibire il parlare, lo faremo furiare e con fatti e con parole».
Molti teneano la stessa opinione: il celebre vescovo Vida già avea
preparato una lettera al papa per ottenergli il salvocondotto: ma altri
l'oppugnarono violentemente, massime il cardinale legato Cervino,
apponendogli d'aver diffuse calunnie contro Pier Luigi Farnese,
dichiarate false le leggende di san Giorgio e san Cristoforo[114]; vôlti
in celia i Fioretti di san Francesco e i miracoli della Vergine del
_Liber rosarum_. Il Casa seguitava a tenerlo d'occhio, e al 12 gennajo
1549 scriveva al cardinale Farnese:
«Il vescovo di Capodistria si è dichiarato per latitante, dicendo che
gli offizj fatti dal Grisonio ed alcune scritture sue che sono state
trovate tra le spoglie del vescovo di Pola, e le relazioni fatte di lui
dal suffraganeo di Padova, lo hanno posto in tanta diffidenza, che non
si vuole arrisicare».
Nel giorno stesso, Giampietro Celso, giustinopolitano, minor
conventuale, scrivendo da Bologna al cardinale Farnese, tra altro
diceva: «Monsignor Vergerio va per Venezia incognito, subvertendo ora
questo ora quel gentiluomo acciò sforzino monsignor Legato e i nostri
illustri signori a sepellire un nuovo processo formato contro di lui e
contro di quegli altri Luterani che sono nell'Istria dal reverendissimo
commissario apostolico monsignor padre Annibale Giasoni di Justinopoli,
e cerca per via de' nostri illustri signori far levare tal commissione
dalle mani del sopraddetto commissario». Il Vergerio stette alcun tempo
a Padova, dove frequentava assai Francesco Spiera, famosissimo nelle
cronache d'allora.
Era questi un giureconsulto di Cittadella presso Padova, vissuto nel
vizio e nella spensieratezza fino a quarant'anni, quando (dicono i suoi
panegeristi) primamente udì il vangelo, e si pose dì e notte a studiare
la Bibbia, ogni altra cura gettando da lato; e cercava comunicarne le
massime alla moglie, agli undici figliuoli, ed a quanti praticasse;
esercitava gratuitamente la medicina a favor dei poveri; parlava della
misericordia di Cristo, della certezza della fede, della speranza
dell'immortalità che Dio concede a tutti per amor del suo Figliuolo.
Accorreano a costui come a maestro persone rimaste fin allora
intirizzite alla vera pietà, e diventavano tutt'altre. A Padova nella
sua camera trovavasi circondato da uomini di qualità e da studenti, che
ivi disputavano come in un'accademia. Monsignor Della Casa ed altri
papisti da Venezia tolser a minacciarlo se non cangiasse tenore di
credere e di parlare: ond'egli si trovò combattuto fra due sentimenti.
«Vinse la carne e la suggestion del diavolo», ed abjurò i dogmi che avea
professato, facendone ritrattazione in pubblica piazza a Cittadella. Ma
che? Subito lo colse l'ira di Dio, nè più ebbe pace, non amore, non fede
o speranza: cercò mettersi nel convento e sulla tomba di sant'Antonio;
consultò i tre più valenti medici d'allora, ma non trovarono se non che
il pensiero avea turbato tutti i sensi, e sommosso gli umori cattivi. Al
che egli crollando il capo rispondea, che la sua malattia non era di
quelle che essi guarissero; niuna medicina bastando a sanar un'anima
che, per la conoscenza de' suoj peccati, sente aver meritato la collera
del Signore. E operava stranissimo: or infuriava, or gridava; ardente
sete struggevalo così, che avrebbe bevuto il Nilo e il Danubio; nè
riposo mai, nè consolazione rinveniva.
Racconta egli stesso queste miserie, e ai nuovi arrivati diceva: «Sia
lui il ben venuto ed io il mal trovato».
Alcuno prendea a confortarlo dicendo che la misericordia di Dio supera
tutti i peccati del mondo? egli rispondeva: «Quant'è terribile cader
nelle mani di Dio!»
Le scene rinnovavansi ogni giorno, e il Vergerio le divisa, e gli pare
che gli studenti abbiano a prenderne spaventoso esempio. E riferisce il
lungo colloquio avuto con esso, dove cercò rassicurarlo coi dogmi e con
esempj sacri: tutto invano: onde inorridiva al mirare la disperazione di
costui, che non vedevasi davanti se non la certezza dell'inferno.
Eppure in mezzo a ciò lo Spiera parlava con forza, gravità, unzione:
provava con vigore, ribattea con risolutezza: talchè molti v'andavano
per imparare: e ragionando non da pazzo, ma da uomo costante e grave,
conchiudeva: «Volesse Dio che questa fosse una frenesia! ma io veramente
son un nemico di Dio, un vaso del suo furore».
Dagli indagatori delle malattie mentali sono conosciute e classificate
siffatte follie, più strane quando pigliano persone di talento, com'era
in questo caso, ove il senno dello Spiera spiegavasi rettamente, fuorchè
nel punto che i frenojatri qualificherebbero _desperatio æternæ
salutis_. Per sottrarlo a tanti curiosi, lo portarono a Cittadella: e
colà finì, non si sa come. Fu divulgatissimo il fatto, e assicurano che
valse a tener molti nella fede nuova. Celio Curione attesta che la razza
pretina fece ogni possibile onde mostrarlo falso; io penso l'avranno
piuttosto offerto a specchio de' rimorsi d'un'anima, che abbandonò la
paterna credenza. Calvino, che ne stampò la storia con una prefazione,
vi vedeva il caso d'un'immensa superbia, che pretese «filosofar
profanamente nella scuola di Cristo, mentre egli era allevato in paese
tutto dato all'empietà, sicchè la maggior parte o non pensano a Dio
creatore, o non conoscono Dio giudice. Il papa, colla sua coorte di
ladroni, ha potuto aver sottocchio quell'esempio. Dal quale prendano
lezione i nostri Francesi, che dalla leggerezza loro levati sopra le
nubi, s'avvezzano più del giusto alle profanità della religione: i
Tedeschi che tardi, ed ebeti nel riconoscer i giudizj di Dio, ora negli
estremi mali pare abbian spogliato il senso umano: gli Inglesi ed altri
vedano con quanta riverenza e premura bisogni ricever Cristo che
splende»[115].
Il Vergerio ogni giorno più volte tornava dallo Spiera: e poichè di tal
frequenza molti prendeano scandalo, egli stimò dovere pubblicare
un'apologia nel 1548, diretta al Rota vescovo suffraganeo di Padova. Ivi
narra l'accaduto, adduce tanti testimonj da escluder ogni dubbio
d'illusione: assicura che i discorsi tenuti con esso lui sonavano tutti
pietà, consentanei alla dottrina che da Cristo in perpetua serie la
santa e cattolica e apostolica Chiesa serbò e serba: lo spettacolo
offertogli dallo Spiera esser tale, da meritar che si venisse dalle
terre più remote; non doversi pigliar paura di legati e d'inquisitori
nell'indagare la verità; e «se per ciò (diceva) mi sovrasta pericolo,
secondo odo susurrare, lo soffrirò volontieri come decreto di Dio,
desideroso che pel sangue e pel cenere mio vengano irrigati e impinguati
i semi che Dio continua a spargere per mezzo di tanti operaj in questa
bellissima età». E confessa che si strugge dal desiderio di udirsi
citato alla porta del vescovo o del Legato presso i Veneti, e prorompe:
«Eccomi! dove sono le carceri, dove le fiamme vostre? Saziate la
cupidigia dell'animo vostro; bruciatemi per Cristo; perchè son andato a
consolar l'infelicissimo Spiera, e divulgai ciò che Dio stesso vuol si
divulghi, cioè che la verità conosciuta non venga dissimulata, non
negata, non offuscata».
Con ciò il Vergerio scoteva la polvere dai piedi, abbandonando affatto
la Chiesa. Subito se ne levò rumore in Italia non solo, ma in Europa;
tanto era allora insolito il disertare la propria bandiera; esclamavasi
che caduta simile non si fosse mai vista, e paragonavanla a quella di
Lucifero; non pochi incolpavano la Corte romana d'avere spinto agli
estremi un uomo che possedea tanti secreti, tanta abilità di
controversia, tanta eloquenza: il papa in concistoro del 3 luglio 1549
lo dichiarò contumace, e perciò scaduto dalla dignità vescovile e
incorso nelle pene ecclesiastiche; più tardi venne scomunicato e
bandito.
Già prima era stato privato del vescovado, e datogli successore il
domenicano Tommaso Stella veneziano: e al 12 ottobre 1549 il Casa al
cardinal Farnese scriveva: «Quanto prima si fa che il vescovo di
Capodistria vadi alla diocesi, tanto fia meglio, perchè sua signoria è
sollecitata e di qua con parole, e di là con lettere, e anco la cosa
stessa sollecita per sè medesima».
E al 9 novembre:
«Il vescovo di Capodistria fu spedito, ed ha preso licenza dalla
signoria per andarsene alla chiesa con molta laude e favore. E del
Vergerio non so niente altro, se non che ha scritto e stampato un altro
suo volume, dove, per quanto mi è scritto da Bergamo, dice molto male di
Nostro Signore e di me. Che Dio gliel perdoni: che certo si è proceduto
con esso lui, come vostra signoria sa, piuttosto pigramente e con ogni
carità che con vigore alcuno».
Tommaso Stella, succeduto inquisitore al Grisoni, continuava intanto il
processo del Vergerio[116], il quale «al serenissimo duce Donato»
diresse una orazione e difensione da Vicosoprano il 10 aprile 1551,
incitando a non permetter che l'Inquisizione e i legati operassero negli
Stati della serenissima.
Il Vergerio atteggiavasi da martire, e a Dio diceva: «Altra cura, altro
pensiero non ci stringe se non che tu ci perdoni le tante offese che ti
abbiam recate, massimamente in aver opposta resistenza così grande al
tuo spirito ed alla tua volontà quando ci cominciasti a manifestar Gesù
Cristo»; e ringraziava inquisitori, fiscali, il papa d'averlo spinto a
rompere colla menzogna.
Ma a Basilea disse a Martino Barrhans, professore d'ebraico: «Io non
sarei qui se non avessi veduto lo Spiera. Il papa, tra con minacce, tra
con lusinghe m'invitava andar a Roma, e quivi, celato il vangelo, vivere
non disforme de' suoi decreti... Ma visto che ebbi e udito lo Spiera che
lottava gravissimamente col giudizio di Dio, cioè col peccato, colla
morte, coll'inferno, talmente fui percosso e pietrificato, che rimossi
dall'animo ogni pensiero di andar al papa e venerarlo, e dissimular la
verità...... Poco dopo averlo veduto, lasciato il vescovado, la patria,
gli amici, gli averi, uscii d'Italia per poter più liberamente
confessare Cristo, re dell'inferno, della terra, del cielo, che prima
con falsa dottrina e non miglior vita avevo deturpato, prestando opera
all'avversario di lui, che elevatosi al di sopra di Dio, una podestà
pari a Cristo già da molti secoli si arrogò».
Per le montagne bergamasche il Vergerio era fuggito nella Valtellina,
soggetta allora ai Grigioni e perciò libera di fede: e si fermò a
Poschiavo, dove Giulio da Milano avea raccolto una Chiesa italiana. Di
là al Delfino vescovo di Lésina scriveva: «Siamo d'intorno a duecento
uomini, dall'Italia fuorusciti per Cristo; e quale abita nel paese dei
signori Grigioni, qual tra signori Svizzeri, qual in Ginevra, qual
nell'Inghilterra, qual in Germania e qual in Polonia. Or di questi
duecento o là intorno, manco che la quarta o quinta parte sono uomini di
lettere, e ve n'ha di eccellentissimi. Dica chi vuole, e' se n'accorge
bene il papato sentendone i colpi, e alla giornata ne sentirà di
maggiori».
Pensate qual trionfo menarono i Protestanti dell'acquisto d'un tal uomo,
ammirato per la facondia nell'insegnare e confutare e convincere;
inoltre di bella presenza, ma principalmente di grande autorità come
vescovo e che in tale qualità continuava la tradizione apostolica nelle
chiese riformate. Blasius scriveva al Bullinger nel 1550: _Est, quantum
judicare ego possum, testantibus ejus moribus, vir magnae eruditionis et
pietatis verae, ac dignus ut in suo proposito ab omnibus piis
promoveatur. Rhaetia nostra merito eum observat atque colit, non tam
propter ejus pietatem, verum propter linguae ejusdem miram facundiam,
qua solet non tantum docere, verum et contradicentes convincere ac
confutare._ L'A Porta occupa un intero capitolo della sua storia retica
attorno al Vergerio; e dice che _supra cæterorum exulum ejus æstimabatur
oratio, quod externo quopiam corporis habitu niteret, parrhesia et
eloquio emineret_.
Tanto maggior noja recava la sua presenza in Valtellina ai Cattolici,
che cercarono anche qualche mezzo straordinario per farlo partire; ai
comizj retici si presentarono ventitrè deputati dei Comuni della
Valtellina, chiedendo fosse licenziato dal territorio di Sondrio e da
tutta la valle il Vergerio, che teneva residenza a Rogoledo, e predicava
dottrine repugnanti alla fede dei più, e protestavano contro qualunque
scandalo ne potesse seguire. Non ottennero nulla: pur egli dalla
Valtellina passò nell'Engadina, valle retica, e capitò a Ponteresína
quando appunto n'era morto il pastore. Fermatosi in un'osteria, tenuta
dal magistrato del paese, entrò in discorso cogli avventori, e si esibì
di predicar egli, invece del defunto. Sì, no; finalmente gli fu
concesso, ed egli tenne un discorso sopra la giustificazione pei soli
meriti di Cristo. I vecchi non approvarono nè disapprovarono, ma
dissero, «Ascoltiamolo un'altra volta». Ed egli predicò sull'eucaristia,
e presto vi ottenne gran lode, consolidò quella Chiesa, e poichè i
paesani vendevano ai Valtellinesi le reliquie cui più non credevano,
egli disse: «Ciò che reputiam male per noi non possiamo secondar gli
altri a farlo», e li persuase a recarle tutte sul ponte Ota, e di là
buttarle nell'Inn.
Lasciato ivi pastore il bergamasco Pietro Parisotto, si pose nella val
Pregalia a Vicosoprano; di là propagando l'insegnamento ai paesi vicini.
A Casaccia, discosta appena un miglio, una notte si trovarono atterrate
tutte le immagini, e disperso il corpo di san Gaudenzio; del che il
Vergerio si compiaceva come di evidenti progressi.
Egli però, non dimenticando d'essere stato vescovo, arrogavasi una certa
superiorità sui religionarj, e valevasene per metter accordo fra i
dissensi che vi pullulavano, siccome altrove dovremo ampiamente
divisare: e a Roberto Gualter a Zurigo, da Vicosoprano il 21 gennajo
1551 scriveva: «Ho conciliato Camillo col ministro della Chiesa di
Chiavenna, e l'ho costretto accettar una confessione a mio modo. Mi è
bisognato andar in Valtellina e patire molti incomodi da certi
Anabattisti. Infine ne ho riconciliati alcuni, ed alcuni ho fatto partir
dal paese. Un'altra grave contesa ho avuto con papisti, che ci facevano
molte novità e molti insulti e anche questi ho vinto con l'ajuto del
Signore». E al Bullinger l'11 ottobre 1552: «Se prontamente non
accorrevasi, cadeva pericolo che la Valtellina non divenisse una tana