Gli eretici d'Italia, vol. II - 01
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GLI
ERETICI D'ITALIA
DISCORSI STORICI
DI
CESARE CANTÙ
_Error cui non resistitur,
approbatur: et veritas quaæ minime
defensatur, opprimitur._
Papa FELICE III ad Acacio.
VOLUME SECONDO
TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
Via Carlo Alberto, casa Pomba, Nº 33
1866
DISCORSO XXI.
PAOLO III. L'ARETINO SUGGERIMENTI DI RIFORME. TEATINI E GESUITI.
Alessandro Farnese avea studiato sotto Pomponio Leto, poi alla Corte dei
Medici erasi formato nell'erudizione elegante e ne' facili costumi;
parlava squisitamente italiano e latino, rifuggendo ogni frase che
classica non fosse: amante delle belle arti, cominciò in Roma il più bel
palazzo del mondo; teneva splendida villa presso Bolsena; affabile e
mansueto quanto magnifico, indulgeva alle fragilità umane, e prediligeva
un figlio, che poi diffamossi col nome di Pier Luigi duca di Parma. Da
Alessandro VI creato cardinale, in quarant'anni aveva assistito a cinque
conclavi; quando di sessantasette anni, in prima per ispirazione, poi
per iscrutinio, i trentasette elettori a schede aperte lo celebrarono
papa.
Da Martino V in poi nessun altro romano era salito pontefice, onde
pensate che tripudj menò il popolo! Denominatosi Paolo III, non volle
che i Farnesi paressero da meno dei Medici, sicchè ordinò a Michelangelo
di continuare i cartoni pel Giudizio universale e i palazzi sul
Campidoglio; fece in Vaticano la sala Regia e la cappella Paolina, sul
Palatino gli orti Farnesiani, e può dirsi rifabbricasse Roma; colla
fortezza Paolina tenne in freno i Perugini: spossessò i sempre riottosi
Colonna. Persuaso che si riesce sempre, purchè s'abbia la pazienza
d'aspettare e l'abilità di cambiare le vie secondo le circostanze,
bilanciossi anch'egli tra la Francia, sempre breve dominatrice in
Italia, e Carlo V che, prevalendo, avrebbe qui dominato solo: e sperò
aver riconciliate le due emule potenze e pacificatele nel congresso di
Nizza, dove col re di Francia e coll'imperatore cercò impedire
gl'incrementi della Riforma e l'avanzarsi dei Turchi, contro i quali
esibiva 200,000 scudi d'oro e 12,000 armati, oltre la facoltà d'alienare
beni ecclesiastici per mezzo milione d'oro.
Ma insieme poneva improvido studio a ingrandire il suo Pier Luigi, al
quale attribuì varj dominj della Santa Sede, e infine il ducato di Parma
e Piacenza, col pretesto di impedire fosse annesso al Milanese, e così
aumentasse la potenza di Carlo V. Ad Alessandro, figlio quattordicenne
di Pier Luigi, diede la porpora e la collazione di quasi tutti i
benefizj del Novarese; a Ottavio, altro figlio di quindici anni, il
governo di Roma, poi la mano di Margherita, bastarda di Carlo V, colla
speranza d'averne il Milanese. Ma invece Carlo V assecondò i congiurati
piacentini che scannarono l'esecrato Pier Luigi, e occupò Piacenza.
Quando, atterrito da questo colpo, il papa piangeva e disperavasi, non
mancò qualche cardinale di rivelargli i turpi comporti del figlio ucciso
e la necessità di rendersi esempio, anzichè scandalo al mondo. Ma è
notevole che, mentre con disordinata politica, apriva brutto arringo
alle dicerie dei Protestanti, Paolo III comprese lo spirito cattolico, e
secondando quelli che lo ridestavano negli intelletti e nei costumi,
nominò da settanta cardinali, de' quali ben quattro ottennero poi la
tiara; lasciava che in concistoro ognuno dicesse liberamente il suo
parere; si pose attorno eccellenti prelati, quali il Caraffa, il
Sadoleto, il Contarini, il Polo, il Ghiberti, il Fregoso, il modenese
Badia, maestro del Sacro Palazzo; tutti che aveano per cure particolari
cominciato la riforma della Chiesa. Formò di essi una commissione per
attendere a questa, e ai membri di essa scriveva: _Te speramus electum,
ut nomen Christi, jam oblitum a gentibus et a nobis clericis, restituas
in cordibus et in operibus nostris; ægritudines sanes; oves Christi in
unum ovile reducas; amovaesque a nobis iram Dei et ultionem eam quam
meremur, jam paratam, jam cervicibus nostris imminentem._
Costoro in fatti vi si accinsero. Il Sadoleto, persuaso che colla
mansuetudine si potrebbero ancora ricondurre gli erranti, pur
lamentavasi che il papa non s'accorgesse della defezione degli spiriti
anche in Italia, e della loro mala disposizione verso l'autorità
ecclesiastica[1]: il Caraffa dichiaravagli che l'eresia luterana aveva
infetto l'Italia, e sedotto non solo persone di Stato, ma molti del
clero[2]. D'accordo que' nove consultori levavano rimproveri contro i
papi, che spesso aveano scelto non consiglieri ma servidori, non per
apprendere il proprio dovere, ma per farsi autorizzare ad ogni loro
desiderio[3]: snudavano gli abusi della curia; e poichè alcuno gli
appuntava di eccedente vivacità. «E che?» disse il Contarini: «Dobbiamo
darci pena dei vizj di tre o quattro pontefici, o non anzi correggere
ciò ch'è guasto, e a noi meritar migliore reputazione? Arduo sarebbe lo
scagionare tutte le azioni de' pontefici; è tirannide, è idolatria il
sostenere ch'essi non abbiano altra regola se non la volontà loro per
istabilire o abolire il diritto positivo».
Esso Contarini aggiungeva anche consigli sul governo temporale, non
volendo che il despotismo venisse negli Stati del papa rinfiancato dalla
infallibilità di questo. «Qual uomo di mente sana direbbe si possa
costituire un buon governo, dove regola sia la volontà d'un solo,
propensa per natura al male e soggetta a passioni? Chi fa principe
l'uomo anzichè la legge, fa il principe uomo e fiera, atteso che son
congiunti negli animi gli appetiti ferini e gli affetti degli uomini.
Che può pensarsi di sì contrario alla legge di Cristo che è legge di
libertà, quanto il dover Cristiani servilmente obbedire al pontefice, al
quale da Cristo fu dato di stabilire leggi ad arbitrio, abrogarle,
dispensarle, aver per sola norma la propria volontà? Governo siffatto
convien egli, non dico solo a Cristiani, che sono posti nella legge
della libertà, e perciò denno astringersi con poche leggi esterne; non
dirò ancora a liberi uomini e a qualsiasi governo di uomini liberi; ma a
qualunque padrone sopra i servi, ai quali comandi per proprio vantaggio,
e di cui si serva come d'organi animati? Tolga Iddio dai Cristiani
quest'empia dottrina. Nè il pontefice stabilisca leggi ad arbitrio, nè
ad arbitrio le cassi o ne dispensi: ma segua le regole della ragion
naturale, dei divini precetti, della carità, che in Dio dirige ogni cosa
al ben comune. E i giurisperiti non pensino il diritto positivo sia
diritto arbitrario, ma che dipende dal diritto naturale, e non è altro
che una determinazione di questo, secondo i tempi, i luoghi, le persone,
lo Stato. Non pensate, o santo padre, che da questa dottrina abbiano i
Luterani preso ansa a comporre que' loro libri della cattività di
Babilonia? E per Iddio, qual maggior cattività e servitù può indursi al
popolo cristiano, che questa, professata da certi giureconsulti? Se
alcuno predicasse agli infedeli che, secondo la religione dataci da
Cristo, il popolo cristiano è governato dal sommo pontefice in modo, che
non solo non abbia veruna podestà superiore in terra (il che facilmente
potrebbe provarsi) ma non sia tenuto ad altra regola che la propria
volontà, non riderebbero essi, e non giudicherebbero un tal governo il
peggior di tutti?»[4]
Il cardinale Angelo Maria Quirini, vescovo di Brescia nel secolo
passato, si propose di richiamare scientificamente gli eterodossi alla
cattolica Chiesa, pubblicando molte opere, fra cui le lettere del
cardinale Polo, accompagnate da commenti, poi varie altre scritture in
occasione del giubileo di Benedetto XIV[5]. Tolse principalmente a
difendere Paolo III[6], provando che volea sinceramente la riforma,
laonde restava levata ogni ragione di staccarsi dalla Chiesa appunto col
pretesto di riforma. I compilatori degli Atti di Lipsia ed altri gli
opposero che la riforma di Paolo III non bastava alla Chiesa; che esso
mostrava desiderarla solo in apparenza; che Paolo IV distrusse quanto il
III avea fatto, sino a mettere all'indice il Consiglio Novemvirale. Il
Quirini rispose, quanto all'ultimo punto, che il Vergerio fu il primo
che ciò asserisse, mentre Antonio Blado l'avea stampato nel 1538 a Roma;
lo Sturm ristampollo a Strasburgo con maligni commenti, siccome poi
fecero esso Vergerio ed altri; e la proibizione cadeva sopra tali
edizioni; nè lo Sleidan, o il Sekendorf, o il Sarpi apposero questa
taccia a Paolo III, sebbene intenti a denigrarlo.
Lo Schölhorn replicò che, quantunque nell'Indice fossesi espresso che
l'edizione proibita era quella dello Sturm, Paolo III medesimo cercò
coprire quel Consiglio; che nessun raccoglitore de' Concilj, (eccetto
Crobbe del 1551 anteriore a quell'Indice) non l'inserì, supponendolo
proibito. Il Quirini ripetè che l'argomento negativo non vale,
essendovene tant'altri esempj; che Paolo III cercò in fatto sopprimerlo
dopo che vide i Protestanti trarne materia di attacchi: nulla conchiude
poi l'averlo molti raccoglitori ommesso, come dalle opere di Lutero è
ommessa la traduzione ch'esso ne fece con impudenti aggiunte. Noi
sappiamo poi che il Mansi, nei supplementi alla Raccolta dei Concilj,
pose benissimo quel _Consilium_, senza credersi d'offendere la Chiesa. E
pare in realtà che quella consulta dovess'essere un atto meramente
interno, e invece comparve subito a stampa, con note velenose, che ben
doveano farla spiacere.
Nello Schölhorn _Amœnitates ecclesiæ_, tomo VIII, sta un lungo consulto
di riforme, proposte da una commissione eletta da Ferdinando I
imperatore, colle risposte fattevi dalla curia romana. Inoltre si
conosce un _Consilium quorundam episcoporum Bononiæ congregatorum, quod
de ratione stabiliendæ romanæ ecclesiæ Julio III P. M. datum est_. Porta
la data di Bologna 20 ottobre 1553, ed è firmato _Vincentius de
Durantibus, ep. Thermularum, brixiensis: Egidius Falceta, ep.
Caprulanus: Gherardus Busdragus ep. Thessalonicensis_. Oltrechè forma di
soscrizione non è la consueta de' vescovi, comparve in un'opera
intitolata _Appendix ad fasciculum rerum expetendarum et fugiendarum, ab
Orthwino Gratio editum Coloniæ, a. d. 1555: sive tomus secundus
scriptorum veterum, quorum pars magna nunc primum e mss. codicibus in
lucem prodit, qui Ecclesiæ romanoæ errores et abusus detegunt et
damnant, necessitatemque reformationis urgent; Opera et studio Eduardi
Brown_ Londini, 1690. Anche la provenienza è dunque sospetta, benchè il
Brown asserisca avere trovato esso _Consilium_ fra le opere del
Vergerio, e nelle _Lectiones memorabiles_ del Wolf. I Protestanti se ne
valgono assai, perchè i consigli ivi dati concernono moltissimi riti
delle Chiesa ed anche alcuni dogmi: ma se anche la falsità del documento
non fosse evidente, basta riflettere che la Chiesa su molti punti non
aveva ancora deciso chiaramente, talchè di discuterne restava pieno
diritto; e in secondo luogo, esprimeva voti e sentimenti particolari,
sicchè non proverebbesi altro se non che alcuni, anche prelati, la
pensavano così.
Certo è che Paolo III, assecondando i suoi consultori, riformò la camera
apostolica, la sacra rota, la cancelleria, la penitenzieria; diede
vigore all'Inquisizione, massime allo scopo d'escludere i libri cattivi;
e, dice Natale Conti, se si fossero recati in una catasta tutti i libri
che vennero arsi in diverse parti, sarebbe stato un incendio pari a
quello di Troja, non essendosi risparmiata biblioteca nè privata, nè
pubblica. Nel 1549 monsignor Della Casa pubblicò il primo Indice di
libri proibiti, cui ne seguirono altri, sempre cresciuti: e Pier Paolo
Vergerio, vescovo apostata, vi fece postille, dove ne indicava
moltissimi altri che aveano le colpe stesse, o assai più gravi a suo
giudizio.
Per verità il peggior momento a far riforme è quando sia impossibile il
differirle. Ora solo col tempo potevano ripararsi i guasti fatti dal
tempo; mentre invece ogni dì crescevano l'urgenza le violenze della
distruzione; nei popoli si connaturavano l'abitudine dei riti nuovi e lo
sprezzo dei dogmi vecchi; i figliuoli s'educavano nel nuovo credo; i
principi adagiavansi nei beni tolti alla Chiesa, gli ecclesiastici nelle
blandizie della famiglia. Le stesse riforme, com'è il solito, divenivano
appiglio di nuovi attacchi per opera de' Protestanti, che voleano la
demolizione non l'emenda, e diceano che il papa confessava i disordini,
che dunque era ragionevole la protesta.
Per quanto venga generalmente negato[7], documenti recati dal Quirini
nelle sue diatribe alle epistole del cardinal Polo, attestano il sincero
desiderio di Paolo III di radunare il Concilio, pel quale erasi
destinata la città di Trento. Antonio Soriano, residente veneto a Roma,
con singolar misto d'ingenuità e malizia, racconta che «sua santità non
manca di usare ogni diligenza e industria acciocchè, in caso non si
possa del tutto declinare il Concilio, almeno si faciliti. E il
facilitarlo si procura con la via del reverendissimo di Capua, il quale
è cognato di Martin Lutero (?), perchè Martino tolse per moglie una
sorella di detto cardinale, la quale era abbadessa in un monastero: ed
ha mezzo appresso questi capi, come è Filippo Melantone ed altri suoi
complici: ed ha autorità da sua santità di placarli, riducendoli alla
santa Chiesa con promissione di benefizj e vescovadi, e quando bisogni,
di cappelli»[8]. Prima di riuscirvi, Paolo III morì, e dicono negli
estremi si ricordasse del versetto, _Si mei non fuissent dominati tunc
immaculatus essem_. La sconcia bellezza del suo sepolcro pruova che i
rafacci irosi non aveano ancora emendato gli antichi errori[9].
E lo pruova il favore che ottenne un de' più luridi ingegni, uno che può
stare con quanto di più feccioso produce l'età nostra, Pietro Aretino.
Nato il 1492 in un ospedale di Arezzo, vede una statua della Maddalena
che tende le braccia verso Cristo, ed egli v'addatta un liuto, sicchè
ella sembra sonare; fa un sonetto contro le indulgenze: onde è cacciato
di patria, e va a Roma, e a forza di lodare e vituperare, penetra nella
società de' grandi, cerca a tutti, minaccia tutti, e diviene terribile a
prelati, ad artisti, a principi, che per calmarlo gli danno monete,
pensioni, collane, fin lodi. Egli dedica la più turpe delle sue tragedie
al cardinale di Trento: da Giulio III è baciato, e donato di mille
zecchini e del titolo di cavaliere di san Pietro: fa libri, di cui
nemmanco il titolo si oserebbe ripetere, eppure insieme scrive sui sette
salmi, sulla genesi, sull'umanità di Cristo, e vite di santi, e operette
d'ascetismo esagerato, le quali gli meriterebbero tanta riprovazione
quanta le oscene.
La marchesa di Pescara cerca indurlo a occuparsi d'argomenti religiosi,
ed egli il fa; ma ricascava nel suo brago, e a lei scriveva: «Confesso
che mi faccio meno utile al mondo e men grato a Cristo consumando lo
studio in ciancie bugiarde e non in opere vere; ma d'ogni male è cagione
la voluttà d'altrui e la necessità mia; chè, se i principi fossero tanti
chietini[10], quant'io bisognoso, non ritrarrei con la penna se non dei
_Miserere_»[11].
E quando tardano a donargli, minaccia passare fra i Turchi: qui si dà
l'aria di perseguitato, e va a Venezia «dove almeno non è in arbitrio di
niun favorito nè di niuna favorita di assassinare i poverini, ov'è pace,
amore, abbondanza e carità»: vi trova «pane e letizia col sudore
degl'inchiostri»; e il doge Gritti gli «salva l'onore e la vita
dall'altrui persecuzioni».
Povero martire! Queste persecuzioni erano i donativi di che l'aveano
rimpinzato ma non satollo Giovanni dalle Bande Nere e Clemente VII,
Francesco I e Carlo V. E come è deplorabilissimo segno della
prostrazione de' caratteri odierni il tremar davanti a un giornalista,
così di quell'età ci dà tristissimo concetto il vedere costui
accarezzato e donato da principi, da prelati, da artisti, da papi. A
petto a' quali vantavasi: «Procedo alla libera, conosco i ribaldi,
abborrisco gl'ingrati; e non lo vuò dire per modestia, eppure si sa e
non si nega, per sì more offese e sì turche non mancò di battezzata
credenza alla Chiesa: del che fanno fede i libri che di Cristo ho
scritto e dei santi..... Intanto comincio a mettere la penna in tutto il
legendario dei santi, e tosto ch'io abbia composto, vi giuro, caso che
non mi si provegga da vivere, che al sultano Solimano lo intitolo,
facendo in sì nuova maniera la epistola, che ne stupirà ne' futuri
secoli il mondo, imperocchè sarà cristiana a tal segno, che potria
muoverlo a lasciar la moschea per la chiesa».
Tornando a Roma, «Son fuori da me sempre più (scrive) non per altro che
per dubitare che le smisurate accoglienze con cui il papa abbracciandomi
baciommi con tenerezza fraterna, col concorso di tutta la Corte a
vedermi, non m'incitassero a finir la vita in palazzo, nel quale mi si
diedero stanze da re. Il comune giudicio afferma che, tra ogni meritata
felicità di sua beatitudine, debbe il pastor sommo mettere il mio esser
nato al suo tempo, nel suo paese e suo devoto». Se credessimo a lui, si
pensò fino di ornarlo cardinale: certo a Paolo III scriveva: «Io in
esser fervido ecclesiastico non cedo alla essenza dell'istessa Chiesa, e
fanno di ciò fede, insieme coi salmi e col genesi che di mio si legge,
la vita di Gesù Cristo, e la di Maria Vergine, e la di Tommaso d'Aquino
e la di Caterina santa; volumi da me composti quando si giudicava per i
tradimenti usatimi dalla Corte ch'io piuttosto dovessi scrivere ciò che
mi dettava lo sdegno, che quanto mi consigliava la coscienza»[12].
Monsignor Giovanni Guidiccioni al 30 novembre 1539 scriveva a costui,
scusandosi di non aver potuto ancora far nulla per esso, e soggiunge: «È
capitato qui monsignor Luigi Alamanni, e dopo lui il Cesano, l'uno e
l'altro dei quali, sì per l'amor che portano a vostra signoria, come per
consolar il desiderio mio, hanno avuti meco lunghi e onorati
ragionamenti di lei, conchiudendo in somma che ella ha il cuore pieno
d'amorevolezze, la lingua o la penna che dir vogliamo, piena di verità,
e l'ingegno pieno di bellissimi concetti.... Non mancherò, avanti ch'io
parta, di venire a Venezia solo per visitare e goder due giorni vostra
signoria, la quale nel mio pensiero vedo più illustre che la fama, e più
magnanimo che un re».
Quell'anno l'Aretino avea pubblicato il _Ragionamento del Zoppino fatto
frate.... dove contiensi la vita e la genealogia di tutte le cortigiane
di Roma_: ed è questo libro probabilmente che esso Guidiccioni mandava
al Guttierez, segretario del marchese del Vasto, dicendogli: «Le mando
un'opera, la quale, nella sua sorte oscena, non ha da cedere a niuna
delle antiche, acciocchè POSSA LEGGERLA all'eccellenza del signor
marchese quando averà ozio e voglia di ridere».
Morì costui qual era vissuto, in un postribolo a Venezia il 1557, e pur
troppo dovremmo accostargli un frate domenicano, un vescovo, autore di
lubrici racconti e di massime sporche, il Bandello, se non ci
affrettassimo a toglierci da questo imbratto per narrare come il regno
di Paolo III fu immortalato da istituzioni efficacissime alla riforma
cattolica.
Gaetano Tiene, nobile veneto di Vicenza, buono e placido credente, nel
pregare piangeva, e desiderava «riformare il mondo, ma senza che il
mondo s'accorgesse di lui». A tal uopo, in Santa Dorotea di Roma fondò
l'oratorio del Divino Amore, dove giunse a radunare cinquanta compagni
che ravvivassero lo spirito devoto; poi di simili ne piantò a Venezia, a
Vicenza, a Verona, a Brescia, altrove. Come l'angelo coll'aquila,
s'accordò coll'impetuoso Gian Pietro Caraffa vescovo di Chieti, che,
visto come l'abbandonarsi al cuor suo non gli avesse che cresciuto
inquietudini, cercò la pace in seno a Dio, rinunziando alla mitra. Sul
monte Pincio di Roma, oggi ridente della più smagliante vegetazione e
d'un popolo sereno e festante, allora sterile deserto, al 3 maggio 1524
essi, con un Colle d'Alessandria e un Consiglieri romano, istituirono i
Teatini. Non voleansi più Ordini monastici, e questa novità introduceva
preti, con voto di povertà ma senza mendicare, aspettando la limosina
dalla mano che veste i gigli de' campi, e senza regole strette, sicchè
potessero liberamente attendere ai malati, ai prigionieri e
giustiziandi, e insieme restituire al culto la decenza e il lustro
antico, e l'osservanza dei riti e delle rubriche; indurre frequenza ai
sacramenti; predicare senza superstizioni nè smancerie; convertire
eretici; esercitare la salmodia con canto semplice nel coro, che non era
più aperto in mezzo alla Chiesa, ma posto dietro all'altare e chiuso da
cortine.
Venivano qual solenne protesta contro le negazioni di Lutero questo
ringiovanito clericato, questo raddoppiamento di opere pie, e
l'obbedienza al papa, e la venerazione al Sacramento, che allora si
espose in ostensorj scoperti; ed i suffragi ai morti, pei quali
s'introdusse l'_Ave_ della sera. Nell'infando saccheggio di Roma, i
Teatini correano per le piazze col Crocifisso, mitigando i ladroni e
confortando i soffrenti. Un Tedesco, ch'era stato in Vicenza a servizio
dei Tiene, suppose che Gaetano dovesse posseder grandi ricchezze, e menò
suoi camerati a saccheggiarne la cella, e non trovandovi nulla, lui
spogliarono e oscenamente torturarono, e i maggiori strapazzi usarono a'
suoi compagni. Gaetano partì dalla desolata Roma co' suoi cherici e con
null'altro che il breviario, e a Venezia furono ricoverati in San Nicola
di Tolentino, dove crebbero ben presto. A Milano il cardinale Antonio
Trivulzio fabbricò apposta per essi la chiesa di Sant'Antonio. A Napoli
entrati nel 1533, collocaronsi a Santa Maria della Stalletta, sussidiati
da Antonio Caracciolo conte d'Oppido e da Maria Francesca Longa,
fondatrice dell'ospedale degli Incurabili; ma per ristrettezze stavano
per andarsene, quando il vicerè Toledo affidò loro la parrocchia di San
Paolo (1538). Ivi Gaetano combattè il Valdes, l'Ochino e la restante
compagnia; istituì spedali e il Monte di pietà: morto ch'egli fu, e
santificato come primo riformatore del clero secolare, se ne estese il
culto; molte città lo tolsero a compatrono, e a Napoli gli fu eretta una
statua di bronzo sulla piazza di San Lorenzo, e l'immagine tutte le
porte della città: ben presto i Teatini ebbero da per tutto e scuole e
missioni; e col loro nome (Chietini) si dinotarono, da chi per rispetto,
da chi per dispregio, i cristiani più fervorosi.
Il Caraffa divenne poi Paolo IV. Andrea Avellino, nel fare l'avvocato
avendo sostenuto una bugia, se ne pentì a segno che lasciò il mondo.
Incaricato di mettere riparo a scandali delle monache di Sant'Angelo in
Napoli, s'inimicò un giovinastro che lo fece pugnalare. Guarito delle
ferite, si vestì teatino, e andò a fondare questa religione a Milano, a
Piacenza, a Parma. Vecchissimo, nel cominciare la messa cascò
d'apoplessia. Il suo scolaro Lorenzo Scupoli d'Otranto fu autore del
_Combattimento Spirituale_ (1608), che passa pel miglior libro ascetico
dopo l'Imitazione di Cristo.
Questa novità de' Cherici Regolari ben tosto ebbe imitatori, poichè
s'introdussero i Somaschi, i Barnabiti, i Cherici Minori, i Ministri
degli infermi, i Padri delle scuole pie, e sopratutto i Gesuiti.
Ignazio da Lojola, nobilmente nato il 1491 a Guipuscoa, servì da paggio
ai re cattolici Fernando e Isabella, che aveano assicurato la
nazionalità spagnuola distruggendo la dominazione araba: e divenuto
uffiziale, si distinse non meno per belle forme che per valore nel
respingere dalla patria i Francesi. Ferito all'assedio di Pamplona, e
obbligato al letto, prende a leggere alcune vite di santi, e al lume di
quelle austere virtù scorge la voragine del male e la forza delle
tentazioni, come Lutero; ma mentre questi disperando si sprofonda
nell'abisso della predestinazione, Ignazio ricorre alle opere, e
s'invoglia ad altre glorie che non quelle del mondo, a vive battaglie
contro lo spirito del male. Vota la sua castità a Maria coi riti
cavallereschi ond'altri dedicavansi a una donna: e diveltosi dalla
famiglia, mendicando s'avvia pedestre a Gerusalemme. A stento indotto a
surrogare al sacco un ferrajuolo, e cappello e scarpe, naviga da
Barcellona a Gaeta, fra i ributti serbati a un pezzente, a uno straniero
e in tempo di peste: sfuggendo, appena vedeva ai vilipendj sottentrare
la riverenza. Baciati i piedi di Adriano VI, che non s'immaginava certo
dover costui essergli ben più utile che i re, giunge a Venezia, sozzo,
macilento, rejetto; poi nel pellegrinaggio di Terrasanta, risolve di non
badare più soltanto alla propria santificazione, ma anche all'altrui, e
fondare una nuova cavalleria, che combatta non giganti e castellani e
mostri, ma eretici, idolatri, maomettani; e tratti sei amici nel suo
disegno, fan voto di mettersi all'obbedienza del papa per le missioni.
Tornati in Italia, e agitando le ampie tese de' patrj cappelli, in
Lombardia predicano penitenza in quell'italiano spagnolesco, in cui i
nostri erano troppo avvezzi a udire minacce e improperj. A Roma
cercavano convertire male femmine, istituivano ricoveri per le pentite o
le pericolanti, il che facilmente si prestava alle risa de' bajoni e
alle calunnie degli ipocriti.
È solito de' tempi di partiti attribuire ad uno i vizj più opposti alle
sue qualità. Si prese dunque sospetto che costoro fossero eretici
mascherati, di quella setta degli Illuminati (_Alumbrados_) che in
Ispagna pretendeano avere l'immediata intuizione de' misteri.
L'Università di Parigi se ne adombrò; e il libro degli Esercizj
Spirituali côlto fra le perquisite carte d'Ignazio, parve d'esuberante
fervore, onde egli fu condannato alle staffilate[13]: anzi erasi
divulgato che cotesti cherici fossero stati arsi dall'Inquisizione.
Altrettanto si ripetè a Venezia. Ma essi aveano una dote che manca agli
eretici, l'obbedienza; e il nunzio pontificio e Gian Pietro Caraffa ne
compresero la virtù, della quale davano pruova assistendo
agl'incurabili, e predicando la penitenza nei contorni di Vicenza e
Verona. Paolo III, trovatili dotti e pii, gli ammise al sacerdozio,
preparati con rigorosi esercizj, e ricevette da Ignazio il disegno d'un
Ordine nuovo. Il clero superiore era scaduto per abitudini troppo
disformi dalla ecclesiastica austerità; il basso si conformava a quegli
esempj, nè veniva preparato alle grandi lotte contro l'errore: degli
Ordini monastici alcuni destavano scandalo fra ozj opulenti; altri beffe
per la povertà degenerata in sudiceria, per la semplicità ridotta a
rustichezza, per lo stesso zelo ingenuo, dissonante a tempi di dubbio e
di controversia. Ora Ignazio ne proponeva uno, diretto ad assodar la
fede e propagarla colle prediche, cogli esercizj spirituali,
coll'assistere a prigionieri e malati, e chiamato dei _Cherici della
Compagnia di Gesù_ (1540). Ignazio, designato generale, la sua milizia,
che prima era ristretta a sessanta persone, diffuse bentosto per tutta
la cristianità; ed egli la governava senza che uscisse mai dal collegio
di Roma, fuorchè due volte per ordine del papa: una, onde rimettere gli
abitanti di Tivoli in pace coi loro vicini di Sant'Angelo; una, per
riconciliare il duca Ascanio Sforza con Giovanna d'Aragona sua moglie. I
famosi _Esercizj_ stese egli «per mettere in cuore di tutti lo zelo per
l'eterna salute propria e degli altri», insegnando un metodo agevole a
ciascuno di meditare sopra di sè e sopra la redenzione e gli adorabili
misteri della condotta di Dio verso gli uomini. San Carlo dichiarò aver
tratto da quelli le norme per avviarsi all'apostolica perfezione, e ne
faceva ogni giorno soggetto di meditazioni: Paolo III gli approvò colla
bolla speciale _Pastoralis officii_.
Accortosi di quanto vantaggio potesse tornargli questa milizia,
incondizionatamente devota, il papa di privilegi la favorì nel fondare
case e collegi, talchè quando Ignazio morì, contavansi più di mille
Gesuiti, distribuiti in dodici provincie: Portogallo, Germania alta e
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