Gli eretici d'Italia, vol. II - 12

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tengono adesso, non bisogna più attender a quel che hanno già
detto e scritto in tanti loro libri, ma a quel che fanno ora in
effetto. E ecco in quelle parole Martino ammetteva gli ordini e
li vescovi, e nondimeno soleva improbar tutte due queste cose
con quella inconstanza che fanno tutti coloro, li quali sono
senza fondamento certo. Ma il bello è che hanno un altro
perfugio. Quando si oppone loro tanta instabilità, fanno de'
libri e presto stampar col nome loro: poi quando vogliono e par
loro a proposito delle sue opinioni di mantenersi il favor
della bestialità del popolo, denegano arditamente d'averli
composti, siccome fanno di quelli articoli, che due volte
mandai alla signoria vostra; quelli che pareano esser stati
mandati al re di Francia, che ora mi hanno negato di averli
scritti.
Ma udite meglio di questi valenti uomini. Io so per molte vie,
che essi certo fecero li articoli predetti, ma perchè riseppero
che i principi e le città eretiche l'aveano avuto per male, le
quali vorriano veder che li loro maestri stessero ben costanti
a diminuire l'autorità della sede apostolica, e non concederle
cosa alcuna di quelle che concedeano li articoli, essi subito
denegarono di averli scritti, e hanno ora divulgato un libro in
lingua tedesca contro li stessi suoi articoli, e contro coloro
che essi dicono, che vi hanno di sopra mentito il nome e finto
eziandio le frasi loro. Sono dico uomini pieni d'imposture, e
di falsità; e nondimeno, monsignor, questi son quelli che in
Germania, nazione inclita, hanno faccia e ardimento di dire, e
lo dicono, che sono molto ben ascoltati se piace a Dio, _visum
est spiritui sancto et nobis_. O tempi, o miseria nostra!
Ma quanto vi stomacheria ad udire particolarmente le altre loro
azioni. Tutto che bisogna dire simillime, voglio adesso lasciar
star le cose maggiori del servo che chiamano arbitrio, delle
opere non necessarie, e le altre loro pertinacie, fondate in
torcere e espressamente corrompere le scritture; cantano i
salmi, una parte in latino quei che son lor preti Pomeraniani,
l'altra tutto il popolo in tedesco, secondo la traduzione
violenta e falsa di Lutero, gli organini la terza; e l'ho
veduto io medesimo quella mattina nella capella del signore che
è nel castello, nel consacrar, oltre le pazze mutazioni in loco
del canone (perchè non vogliono per cosa del mondo aver
intercession di santi) cantano il _pater noster_, e poi con più
alta voce in tedesco le parole della consecrazion; onde è nato
che sono entrate nella bocca de' putti e pazzi e altri, e
cantate per cantilene cotidiane nelle loro stufe e bagni; e tra
le loro perpetue ebrietà, con indignità così grande come
vedete, e vergogna non dirò d'altri che di tutto il mondo che
gli ha sopportati tanto avanti. Parlo con amaritudine e con
incredibil passione, massimamente che, avendoli io conosciuti
per certo tali e peggiori di quel che saprei dire in mille
anni. Ho poi veduto tutta questa nazion che gli corre dietro ad
occhi serrati, e gli ha per profeti santissimi.
Voglio pur dirvene una o due altre: tra l'epistola e
l'evangelio tutto il popolo con queste voci tedesche orrende
grida quanto può nel suo vulgare alcune imprecazioni scellerate
e contumelie disoneste, composte in rima da frà Martino, contro
la Chiesa di Roma e coloro che la reggono, e contro quelli che
perseverano nella sua obbedienza; e questa è la loro modestia e
dottrina evangelica, della quale fanno professione: usar quelli
modi pazzi e empi al tempo che sono per communicarsi e unirsi
con Cristo; perchè solamente quando vi sono comunicanti, li
quali prendono sempre _sub utraque_, precedente però la
confessione auricolare, cantano quella loro che non vogliono
chiamar nè messa nè sacrificio, per non star con li papisti, e
nondimeno vi usano tutti i paramenti e quasi tutto l'ordine che
hanno ordinati li pontefici e la Chiesa.
Del venere e sabbato (che vo saltando d'una materia in l'altre,
siccome il sdegno me la porge) disse Martino che egli laudaria
che fosse ordinato che due volte alla settimana non solo
astenessimo di mangiar carne, ma digiunassimo compiutamente, ma
che l'imperator avria esso a stabilire, e che in questo mezzo
li Tedeschi disse nol fanno, perchè fu ordinazion di pontefice:
nel che si può evidentemente veder la pravità che io dico del
suo giudicio, e quella tanta rabbia che spira da ogni banda
contro la Chiesa di Cristo. E buona cosa dice a farlo, ma lo
immuta di fatto, essendo già statuito da tanti padri buoni e
santi e comprovato da tante età, acciocchè un imperator a cui
non aspetta di farlo, lo statuisca di novo: e dimostra di non
veder che, volendo levare l'ordinazioni pontificie, leva pur
eziandio quella della elezion dell'impero, della quale costoro
tanto insuperbiscono, e fu pur ordinata da pontefici, benchè a
questo dovria aprire gli occhi altri che Martino.
A molte di queste cose, le quali io udiva con gran tormento,
non volli mai rispondere se non qualche volta due parolette,
per non parere un tronco. Ma a questa che io dirò non mi potei
contenere, quando egli avea benedetto e detto molte cose quasi
per comprovarle tutte, disse: Oggi non abbiamo bisogno di
Concilio per noi, che le nostre ordinazioni son fatte e
stabilite, secondo le quali abbiamo a vivere con li nostri
evangelici; ma la cristianità n'ha bisogno, acciocchè quella
parte che non ha ancora potuto conoscer la verità e li errori,
nelli quali è stata lungamente, la possino vedere e conoscere.
— Per certo (dissi io) questa è pur troppo grande arroganza,
Martino; perchè mi pare che tu abbi questa opinione, che, se la
maggior parte delli uomini buoni, savj e dotti di tutto il
mondo si congregherà a far concilio, sopra li quali in
quell'atto discende senza dubbio lo Spirito Santo, essi non
siano per concludere altro che quello che ora pare a te».
Egli con altrettanta temerità bestiale m'interruppe subito e
disse: — Ben verrò al concilio, e voglio perder la testa se non
difendo le mie opinioni contro tutto il mondo»; e in questo
proposito e furor che era, per mia fe tutto cambiato in faccia,
buttò fuori una parola tale: _Hæc quæ exit ab ore meo, non est
ira mei, sed ira Dei_; e poco appresso un'altra che mi fu ben
cara ad intendere: «Noi abbiamo ben inteso (disse) che sei
stato a trattar col marchese Giorgio Brandeburgense, e che hai
proposto in nome del papa, fra le altre, la città di Mantova
per il Concilio, la quale, aggiunse, sarà bon luogo accomodato;
e in quella o in Verona, od in tale verremo volontieri», e lo
ripetè parecchie volte. E non dico che mi sia piacciuto
intenderlo come opinion di quel furibondo; benchè mi
maravigliai che subito non avesse detto, che il papa non avesse
autorità di statuir loco e indicere il concilio: ma perchè
esistimo che ella sarà opinion del suo principe, col qual solo
mi resta negoziare, già consultato con lui con quelli altri
accademici e consiliarj suoi in queste materie, e son certo che
già hanno fatto consulto tra loro quel che mi dovranno
rispondere. _In summa summarum_ frà Martino a me è parso tale
come l'ho dipinto, e molto più insensato e furioso, e se ad
altro tempo altri l'hanno conosciuto forse grave e fondato, non
si maravigli che egli sia pervenuto a questa perfezion che io
ho scritta, di levità e d'insania, perciocchè è gran cosa il
vedersi aver il consenso, il quale costui ha avuto infinito per
colpa di pravi giudicj di coloro che gli credono, e da alcuni
che nel principio non hanno rimediato: e poi credo io che sia
volontà di Gesù Cristo, che la tragedia di colui finisca in un
tal modo pazzo e infame.
Se questa mia lettera lunga paresse a vostra signoria un poco
immodesta contro questi miei principi, non solamente contro
Lutero, prendetelo in buona parte e attribuitelo a quello
stesso fervore, che mi ha fatto fare volontieri tanto gran
viaggio, in servizio della fede di Gesù Cristo benedetto.
Domando bene di grazia che la non esca in mano d'altrui, che vi
so dire che, per opera di alcuni mali Tedeschi che avete in
Corte, ella sarà subito mandata per Germania, tradotta in
tedesco, e ci concitaria, o per dire meglio cresceria a questi
tempi qualche pericoloso odio. Mi raccomando alla signoria
vostra.
Di Dresda, residenza del duca Giorgio di Sassonia alli XII di
novembre MDXXXV».
Il Vergerio era ancor laico, ma in un giorno ricevette da suo fratello
Giambattista, vescovo di Pola, tutti gli ordini e l'unzione come vescovo
di Madrusc in Croazia, donde fu trasferito alla sede di Capodistria sua
patria. Nella _Ritrattazione_ descrive egli per filo e per segno la sua
entrata a vescovo, la benedizione, la cresima, il battesimo di una
campana, il vestir un chierico, la consacrazione della chiesa di Pirano:
funzioni che allora lo commoveano a pietà, dappoi a scherno. Andò al
colloquio di Worms (1540) come messo del re di Francia, ma infatti del
papa[91]: e vi tenne una bellissima orazione _De unitate et pace
Ecclesiæ_ sopra il testo _Labora sicut bonus servus Christi Jesu_,
stampata a Venezia il 1542. Ivi con buoni argomenti e molta unzione
toglie a mostrare come bisognasse, non un Concilio particolare, ma uno
generale. «Voi, o fratelli, (diceva tra altre cose) prendeste in mano la
causa di Cristo e della Chiesa. In prima pensate che vi recaste in mano
il corpo di Cristo e Cristo suo capo; onde, senza ch'io vel dica,
comprendete quanta moderazione d'animo, quanta purezza vi bisogni avere,
e quanto religiosamente e riverentemente trattarle. Ogni fiducia, ogni
speranza riponete in Dio, e non badate a veruna cosa umana, ma solo alle
celesti. Nulla potrete operare se con voi non sia l'autor della fede.
Pensate che l'uomo non è altro che una creatura, nè può confidarsi nelle
proprie forze, e ch'è dono del creatore la fede, che ci dà e la
giustificazione e la salute. Certamente son numerosi gli abusi che si
possono togliere, e confesso che molto meglio faremmo se in un'ora sola
troncassimo tutto quanto impedisce la gloria di Cristo; e così
n'avessimo la forza! ma pel nome e pel sangue di lui vi supplico,
concedete alcuna cosa alla debolezza nostra; concedete che a poco a poco
eliminiamo quel che s'introdusse poc'a poco di non degno dell'imitazione
e della dottrina di Cristo. Non vedete già quanti s'applichino a
migliorar la loro Chiesa? Non crediate che Dio l'abbia fatto invano,
giacchè egli è fuoco che consuma, come disse san Paolo, e lui sperare
che da queste faville gran fiamma divamperà, la quale cacci e distrugga
le tenebre e la notte della Chiesa. Non entrerò qui a discutere coi
teologi de' principj protestanti. Quanto al primo degli articoli
proposti, nessun di essi ha intaccata l'essenza della divinità. Quanto
al secondo sul peccato originale, e agli altri, tenete ben fisso
nell'animo che nè il tempo, nè il luogo comportano lo spettacolo di
alcuna logomachia, nè che vi produciate quasi sulla scena a sfoggiare
l'acume dei vostri ingegni, la possa della vostra eloquenza, la dovizia
della dottrina, la estesa memoria. Troppo grave e seria cosa s'ha da
trattare: sicchè lasciamo via ogni puntiglio di parola, ogni
ostentazione. Quegli antichi che sostennero tali punti furono uomini
dotti e buoni, fors'anche migliori di noi. Se l'età seguente passo a
passo e per occasione potè, fra le buone dottrine insinuare abusi e
superstizioni, io credo che devano svellersi dalle radici, e mondar il
frumento dal lollio; ma osservate diligentemente, e in tutta la loro
forza e pietà quelle prime istituzioni, che certo ebbero buoni
cominciamenti; e se altre furono introdotte da moderni, e se non le
ricevettero dagli antecedenti, anzi dalle stesse mani degli apostoli. I
teologi protestanti sogliono repudiare tutto ciò che non fu
manifestamente insegnato da Cristo e da' suoi discepoli. Eppur delle
dottrine e istituzioni nostre, che alcuni di voi rigettarono, non tutte
sono della medesima qualità; altre più, altre meno pie: altre più, altre
meno alimentano la fede e la pietà verso Dio; ve n'ha di nate di fresco,
ve n'ha di antiche e solide. Il discutere de' singoli articoli è serbato
a quando (e deh sia presto!) io pure, benchè minimo, e tutti quei delle
altre nazioni saremo a ciò convocati. Intanto, come membri del corpo
stesso, cerchiamo le vie d'intenderci, di conciliarci; e fissiamo la
verità in modo, che nessuno pensi o insegni differentemente. Poichè
quegli strani dogmi che alcuni recarono in mezzo, non da altro
provennero che da esser divisa e lacerata la Chiesa, e dalla licenza
dell'insegnare, che ogni sventato si piglia nella confusione de' tempi
presenti. Se così faremo, il Signor nostro sarà con noi, e da lui come
da perenne fonte di tutti i beni emaneranno abbondantemente, invece
delle risse e del rancore, la riconciliazione e l'amore: invece dei
pericoli la sicurezza; invece dell'eterna dannazione la salute e la vita
perpetua».
Da questo discorso e da lettere a lui dirette appare come ancora i
Protestanti credessero non istaccarsi dall'unità cattolica, nè i
Cattolici pretendessero escluderli. Vero è che esso discorso parve ai
Cattolici troppo condiscendente e ambiguo, nè il papa mostrò gradirlo;
anzi presumono che in conseguenza lasciasse di dare al Vergerio la
porpora che gli destinava. Il Vergerio mostrava, è vero, pietà e zelo;
ma per quanto condiscendiamo ai tempi, ci fa meraviglia la sua amicizia
coll'infame Pietro Aretino, fino a scrivergli, «Non v'è persona che
v'abbia amato più di me», e deffinirlo un de' più grandi ingegni del
secolo, e far gran capitale sull'amore e sulla protezione di esso. Le
circostanze della sua vita e di questo viaggio in Germania le ricaviamo
da lettere a questo ribaldo, al quale scriveva il 2 giugno 1539: «Ancora
sono in quel mio humor, che vorrei che faceste un sonetto a Lutero in
quel stile da Pasquino; che questo nome lo faria desiderabile».
E che già d'allora nascessero dubbj sulla fede del Vergerio me ne dà
fumo una lettera di lui da Worms del 26 dicembre 1540, al cardinale di
Brindisi, dove gli racconta le sue pratiche con Bucer, Melancton,
Sturmio, e si duole si dubitasse della sua fede. «Se non volete credere
che lo spirito di Dio e la coscienza mi muova a far ciò che ad un par
mio si conviene, credetelo per le cose temporali, cioè per li pegni che
ho in Italia, patria, fratello, vescovato.... Veramente mi fate torto a
dubitare. Presupponete in me altra imperfezione che io non la difenderò,
perchè io so di averne come gli altri e più: ma non questa di non aver
l'anima netta ed ardente alla difensione della Chiesa; in quel poco che
io posso io la difenderò e combatterò, e non ne parlo più perchè spero
che Dio mi darà grazia di viver, di scriver e di operare, di maniera che
chiarirò il mondo»[92].
Al 25 gennajo 1541 il vescovo d'Aquila da Spira scriveva al cardinale
Farnese in una lettera mezzo latina mezzo italiana, come soleasi:
«È qui il vescovo di Vincestre, vir acris ingenii con gran pompa, et
multum dubitatur ne venerit ad turbandum omnia, vel saltem impediendum.
Est et ille episcopus Vergerius, in domo oratoris regis christianissimi,
qui familiariter vixit cum Melancthone et sociis, et sub umbra pietatis
multa miscet»[93].
Sicuramente v'era chi insussurava il papa avere il Vergerio nella
Germania contratto sentimenti luterani, parlar con poca riverenza della
santa sede, e minacciarla. Certo egli proclamava che i precedenti
avessero mal combattuto Lutero: «Contra di lui scrissero già questa
gente scioccamente, Silvestro, Catarino, Latomo, Nausea: dite dunque un
poco che non so che altro ha da uscire a toccare l'intime viscere di
colui dalla penna di un vescovetto discepolo del cardinale di Trento»,
alludendo, a sè, e forse ai tre libri vulgari, che sappiamo mandò al re
di Francia.
E ben presto Pietro Paolo sentissi o stanco o scoraggiato della poca
riuscita; e di Francia scrisse a Ottonello Vida, deplorando i progressi
del luteranismo e la scarsa cura che s'avea della vigna del Signore;
pensando alle parole del Vangelo _Che giova all'uomo se guadagni
l'intero mondo e perda l'anima?_ risolvea di voltare le spalle alle
sperate fortune, e «Sarà meglio ch'io venga a coltivare quelle poche
viti ch'io ho su quel confine tedesco (voleva dir l'Istria) e veder di
circondarle con una buona siepe, e tenerle difese per poterne cogliere
qualche frutto da offerire a Dio; che altri si risolvino a voler mettere
in lavoro tutta la vigna insieme».
Il Vida lo confortava a questo partito[94], e in effetto il Vergerio si
ritirò alla patria e al vescovado suo, e cominciò un opera _Adversus
apostatas Germaniæ_. Ma, o nel leggere i libri da confutare ne restasse
egli stesso cattivato, o il suo mal contento lo portasse a una critica
iraconda, fatto è che cominciò ad introdurre novità; non solo
allontanare monasteri di frati da quelli di monache, ma dalle chiese tor
via certe immagini, principalmente di san Cristoforo e san Giorgio, e le
tavolette di grazie ricevute, negando il patrocinio speciale dei santi
su certe malattie; fece condur sopra un asino colla mitera in capo tre
che asserivano un'apparizione della Madonna, ed altri spedienti che
seppero d'empietà. Forse il parteggiare egli per una delle fazioni che
allora divideano la sua città fece maggiormente diffondere le voci
sinistre sulla fede di esso: ma non v'è dubbio che tenea relazione cogli
eresiarchi di Germania e con Margherita regina di Navarra, calda
promulgatrice delle novità: della quale al poeta Luigi Alamanni
scriveva: «Nè la signora marchesa di Pescara, nè la signoria vostra, che
sapete tanto bene tutti due in vive voci, e tanto bene nei scritti
vostri dir ciò che volete, nè il cardinale nostro illustre Polo, nè
tutta Roma, predicandomi l'altezza e la bellezza dell'animo e
dell'ingegno e il fervor dello spirito acceso in Cristo, e la carità
ardente della serenissima regina di Navarra me ne avete saputo dire
tanto, quanto io nel vero ho trovato jeri, che sua maestà degnò di fare
che io udissi un pezzo quelle sue rare voci: il qual giorno mi ha
portato una letizia inenarrabile; e senza dubbio la maggiore che io abbi
avuto già molto tempo».
E altra volta: «Benedetto Dio, padre del Signor Nostro Gesù Cristo, il
qual, secondo la sua misericordia grande, ha suscitato in questa nostra
età piena di errori e di tenebre, quando più se ne avea bisogno, uno
spirito, un lume, una verità così chiara, che possono mostrare altrui,
dove tra molte spine e molti impedimenti di questo secolo sia il cammino
espedito e sicuro di pervenire alla immortal beatitudine, che egli ha
preparato a chi lo ama: e che dagli ultimi termini d'Italia dove mi fece
nascere, mi ha fatto venir, ora che ho il giudizio manco infermo, nel
centro della Francia a trovare e conoscer questo fuoco che mi disghiacci
e scaldi nel suo servizio: questo lume che mi tenghi fermo sul buon
sentiero: questa forza di spirito e di carità che mi tiri con
l'intelletto là su alla cognizione di quella eredità e gloria
incorruttibile, incontaminata, immarcessibile»[95].
Esso Alamanni aveagli portato una lettera di quella regina, della quale
accusandole ricevuta, esclamava: «Quanto è vera quella dottrina, che Dio
gli suoi eletti giustifichi per grazia! Della qual dottrina ancor serbo
memoria, e la serberò finchè io viva, di aver udito alcuna fiata parlare
vostra maestà tanto bene, quanto io abbia ancora udita alcuna altra
persona di molte che in diverse provincie ne ho udite».
Eguali sentimenti manifestava in due lettere a Vittoria Colonna. «Io non
ho maggior bene nè maggior consolazione che questa regina, nata con
quelle sue amorevolissime parole e con que' suoi modi meravigliosi a
scaldar nel servigio di Dio i più freddi cuori del mondo. A me avviene
questo, che io sto otto o dieci giorni che non comparisco alla Corte, e
vivo in qualche bella solitudine, attendendo a coltivar l'animo mio e
spargervi dentro la parola divina; e poi vado dove è l'ardor della
carità di sua maestà, e sento ch'egli scalda quel seno e lo fortifica e
lo fa crescere e produrre il frutto, che è la cognizione di Dio e di
quel ch'io sono, e un desiderio fervente di mettermi a servir lui solo».
Un'altra al cardinale Contarino, tutta versa sulla similitudine fra il
corpo umano e il corpo della Chiesa, per conchiudere che tutti i membri
si dovrebbero amar fra loro, mentre poca carità vi è, e molta ipocrisia.
«Credo che vostra signoria reverendissima, che è tutto il mio bene, e
conosce tutti i miei pensieri, mi intenda di cui parlo, se ben parlo
quasi in enigma per questa volta. Faccia Dio ch'io abbi tanta pazienza
onde io taccia, e non mi ponghi a dolere con più chiare e più alte
parole che queste non sono».
E scrivendo a Camilla Valenti di Mantova, la loda d'essersi messa a
studiare il latino per leggere le sante scritture. Al tempo stesso loda
Ottonello Vida d'essersela presa contro un di Lubiana che predicava il
luteranismo, e soggiunge: «Vi dico con gran dolore che, dappertutto dove
vado, vi è molta di quella merce sassonica, con tuttochè si abbi in
molti luoghi usata gran severità di fuochi per consumarla; ed insomma le
cose in ogni luogo vanno peggiorando». Donde possiam indurre una lunga
lotta fra le inclinazioni e le convenienze; pure riuscì a trar nelle sue
opinioni anche il fratello Giambattista vescovo di Pola.
Nunzio papale presso la signoria veneta era venuto nell'agosto 1544 il
famoso monsignor Giovanni Della Casa, eletto quell'anno arcivescovo di
Benevento, e che pure nel 1547 non aveva ancor ricevuto gli ordini
minori. Particolarità caratteristica de' tempi, come l'aver egli scritto
quell'osceno capitolo sul Forno, egli prelato, egli autor del
Galateo[96]. Denunziatogli il Vergerio, esso il citò a Venezia, ma
quegli protestò non dovere un vescovo esser giudicato da un vescovo, ed
appellò al Concilio: seguitando intanto a predicare in modo, che il
dotto Egnazio, il quale l'ospitava in Venezia, lo mandò via di casa.
Ai 17 dicembre 1545, il Casa scrive al suo padrone cardinale Farnese:
«Sentendo io che il vescovo di Capodistria non solo ardeva di stare in
questo dominio, ma anco seguitava le sue pazzie, non mi è parso di
tollerarglielo, ed ho mandato un notaro a Brescia che gli presenti il
monitorio che vostra signoria reverendissima mi mandò già. Il qual
notaro non è ancora tornato. Io non mancherò di seguitar nella difesa
della giurisdizione e di ovviare alle eresie come ho fatto fin qui, se
vostra signoria reverendissima non mi comanda altrimenti».
Ai 13 novembre 1546 al cardinale camerlingo Sforza:
«Quanto al memoriale che vostra signoria reverendissima mi ha mandato di
messer Ambrosio Luscho di Capodistria contra del vescovo Vergerio, me ne
ho voluto diligentemente informare dal mio auditore, e in somma trovo
che tutte le imputazioni contenute in esso sono materie vecchie e
specificate nella inquisizione e processo formato contro di lui, ed in
gran parte ancora fondate sopra le attestazioni ben triplicate di questo
buon dottore: il qual, per aver fatto di continuo in questa causa non
manco l'uffizio dell'instigatore che di testimonio, per queste e altre
cause, come nel processo si potrà vedere, consterà chiaramente quanta
fede se gli debba prestare. E per tal rispetto, attenendomi alla
avvertenza, che per la sua parte mi dà vostra signoria illustrissima, mi
son ritenuto di ricercare la retenzion sua, e massime perchè in ogni
caso saria oltremodo difficile d'ottenerla, e in ciò senza dubbio ne
bisognerebbe appresso questi signori il caldo di sua santità. Imperò non
avendo lui, da poi che s'è incominciato il processo, innovato altro, in
questa parte senza nuova commessione non passerò più oltra. E perchè la
possi ancor vedere in che stato si ritrovi il processo, e di ciò
informarne sua santità, ne le mando con questa una breve informazione,
non lasciando d'avvertirla che, se si ha da procedere secondo il tenor
del Breve e commissione apostolica, per la quale n'è commesso qui il
formar del processo _usque ad sententiam enclusive_, facilmente potria
correr tempo assai prima che sia in essere di poterlo mandare costì,
perchè il vescovo, tuttavolta che voglia domandare la pubblicazione
degli esami fatti a offesa e difesa, con le sue convenienti dilazioni e
altre osservanze _quae sunt de processu, et praecedere debent
sententiam_, non se li potran denegare; onde che per tal modo questa
espedizione anderia in longo, e forse con più satisfazion del vescovo
che del papa. Però vostra signoria reverendissima, parendole, sarà
contenta parlarne con sua santità, acciocchè possi deliberare, e darne
modo di abbreviare questa espedizione, _non obstante tenore commissionis
prædictæ_, come saria che per Breve o per lettere mi commettesse che io
fra quindici o venti giorni dovessi mandar costì questo processo in _quo
statu reperitur_, e inoltra fare un monitorio al vescovo, che infra
certo termine perentorio, si dovesse personalmente presentare ai piedi
di sua santità, ad effetto che si possi espedire la sua causa, _mediante
justizia sub pœnis confessi criminis hæreticæ pravitatis et privationis,
ecc._, avvertendo però vostra signoria reverendissima che io tengo per
certo che il vescovo non sia per venire a nessuna via a Roma».
E in poscritta del 21 maggio al cardinale Farnese: «Io mi sforzerò di
mandare il processo del vescovo di Capodistria con questo altro
corriere: e a sua signoria ho detto che, per finire il suo travaglio,
non è modo più breve che la venuta sua a Roma. Eccolo assicurato,
dandogli la fede mia _etiam nomine proprio_, che delle maldicenze non si
terrà conto, nè se ne farà menzione, e insieme gli ho offerto il viatico
del mio, pigliando occasione da alcune raccomandazioni che mi son state
fatte di questa causa. Egli si raccomanda molto efficacemente e con
molta sommessione, e supplica che, avanti che sia costretto a venire, si
faccia dare un'occhiata al processo, che spera che la sua innocenza
apparirà così bene _etiam primo aspectu_, che esso potrà soprassedere di
questo disagio di venire a Roma, e non è possibile che io lo levi di
questo, ecc.».
Anche il papa insisteva per aver sottocchi il processo del Vergerio, ma
il Casa esortava il cardinale Farnese ad impedirlo, «perchè in questo
processo è una parte che contiene maldicenza, e specialmente un
particolare di quella calunnia che fu data al duca di Castro sopra il
vescovo di Fano: per la qual particolarità, quand'io mandai a vostra
signoria reverendissima il detto processo ne levai la parte della
maldicenza; acciocchè Nostro Signore non avesse a sentire questa
calunnia, se forse non l'ha sentita fin qui».
A questo modo s'ingannano i grandi!
In altre lettere il Casa avvisa d'aver inviato il processo a Roma entro
una cassa di panni, diretta al guardaroba.
E al monsignor eletto di Pola il 6 ottobre 1548: «Sopra il vescovo di
Capodistria io avrei desiderio che quella causa si finisse, ed egli è
ben risoluto di non venire a Roma, e vassi attaccando ora a uno e ora a
un altro, com'io veggo per lettere di molti che me lo raccomandano».
E al cardinale Farnese il 17 novembre.
«Ragionando io in Collegio (cioè nel senato di Venezia) sopra la
provincia d'Istria quanto alle eresie, fu molto ben caricato ed
incolpato il vescovo, dicendo il principe che, per quanto si diceva,
egli n'era principio e fomento..., e che mio offizio era di provvederci.
Io narrai a sua sublimità le diligenze fatte ed il processo formato e
mandato a Roma, e sua signoria nol voleva fare. A che sua serenità mi
replicò che io procedessi con interdetti..., e che non mi mancheria modo
di convertirlo e correggerlo. Veda ora vostra signoria illustrissima se
la vuol farmi dar facoltà di farli comandamento in forma sub poenis et
censuris che 'l venga a Roma in termino, e non venendo, procedere, ecc.,
ecc.».
Annibale Grisoni ne avea fatto il processo: istrioto, prete e
commissario apostolico, dato dal Papadopoli per gran dotto, dal
Vergerio, per «inettissimo bargello de' papi».
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