Gli eretici d'Italia, vol. II - 23

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[166] Di ciò il Pusey accusava testè i Cattolici nel suo _Eirenicon_:
del che avremo a parlare.
[167] In tutto il processo non v'è menzione di tortura o d'altra sevizie
corporale: solo una volta, a un frate che accusava con insistenza il
Morone, il suo superiore dice che infamie simili non furono dette mai, e
che bisognerebbe sostenerle alla corda.
[168] Uno, interrogato _in quibus articulis habeat pro suspecto_ un
tale, _respondet_: «Perchè io veggo che egli si diletta poco della
predicazione divina, e quando è al divino officio poca riverenza gli
porta». Un altro: «Io non dico che fosse eretico, ma per esser germano e
di costumi barbari, mi dava sospetto; altro non so».
[169] Oggi è esposta stabilmente.
[170] Ortensio Landi, nel _Commentario delle cose notabili e mostruose
d'Italia_, dice: «Fui per schivar Cremona, essendomi detto che altro non
vi udirei che bestemmiar Iddio, maledir la celeste corte, giurare e
spergiurare, e mille brighe al giorno farsi».
[171] Erra dunque il Tiraboschi che, nelle _Memorie storiche di Modena_,
IV, 76, dice che il Morone chiamò i Gesuiti nel 1556.
Nella cronaca modenese di Bartolomeo Lodi inedita, e che va sino al
1596, è narrato come i Gesuiti venissero in città nel 1551, e come
vagassero qua e là, finchè stanza ferma posero a San Bartolomeo nel
1614, ma presto le loro scuole soffogarono le laiche. Del Morone
racconta che nel 1568 ospitò nel vescovado sua sorella marchesa di
Soncino: che del reddito della mensa vescovile, consistente in tremila
quattrocento scudi, egli ritenne la metà quando rinunziò l'uffizio al
Foscarari poi al Visdomini: descrive i funerali fattigli, con orazione
funebre del canonico Fogliani. Narra pure i supplizj o le abjure
inflitte ad eretici. Spesso nascevano discordie tra i canonici, o tra
questi e il vescovo, tanto che nel 1576 l'intero Capitolo fu sospeso. Nè
meno irrequieti mostravansi confraternite e monasteri, sicchè o si
riformarono, o vennero surrogati da altri, fra cui i Minimi furono
imposti dal papa, a mal in cuore del popolo. Nel 1589 si cercò rifare
un'accademia, al modo di quella del Grillenzoni, che adunavasi in casa
Sertorio nella rua del Muro.
Vedi _Una pagina della storia di Modena_, per C. CAMPORI, 1866.
[172] L'anno è certamente sbagliato.
[173] Fu sua spia nella cospirazione ben nota.
[174] Contro la candidatura del Morone fu fatta questa pasquinata:
Sarete voi sì ciechi e sì furfanti
Di Dio nemici e senza discrezione
Che vi facciate papa ancor Morone
Nemico della Vergine e de' Santi?
Non sapete voi pazzi tutti quanti
Che nella fede ha mala opinione,
Che fu vicino a cantar il sermone
Compagno d'Inghilterra e d'altri tali?
Guardate pur che il diavol non vi tenti
Che non v'assalga la fortuna ria,
Che non vi costi poi la vostra insania.
Non vi credete apparecchiar gli stenti,
Sciocchi, e d'Italia farvi una Germania,
E mandare in bordel la preteria.
Lasciate dir ch'ei sia
Pur di Milano, e sia troppo gran svario
Far il pontificato ereditario,
E che sia necessario
Ch'avendo mal guidato un piccol gregge,
Mal possa al mondo poi dar norma e legge.
Ma perchè non si elegge
Vercelli o Borromeo? ecc.
... Io non bramo o desìo
Poichè sfacciatamente se l'allaccia,
Se non che Moron papa non si faccia.
L'Inghilterra significa il Polo. Milanese era stato il papa di prima, e
parente del Morone.
[175] Aggiungeremo che anche il modenese Bertani sunnominato, domenicano
e cardinale, e illustre teologo, fu appuntato per aver approvato libri
che contenevano proposizioni pericolose; del che egli domandò perdono al
papa.


DISCORSO XXIX.
CELIO CURIONE. LE PASQUINATE.

Da Giacomo Roterio, detto Curione perchè di Chieri, e da Carlotta
Montrolier, dama d'onore della duchessa Bianca di Savoja, nobil casa che
avea possessi in Moncalieri, nacque Celio Secondo, ultimo di ventitrè
figliuoli. Rimasto orfano a nove anni, fu posto a Torino presso la zia
Maddalena, e frequentava l'Università sotto Giorgio Carrara, Domenico
Macaro, Giovanni Breme e il milanese Sfondrato che poi fu cardinale.
Quivi conobbe i libri e le dottrine de' Protestanti, e invaghitosene
concertò di fuggire in Germania con Giovanni Cornelio e Francesco
Guarini. Scoperto in val d'Aosta, il cardinale Bonifazio, vescovo
d'Ivrea, lo fece chiudere nella fortezza di Caprano, e dopo due mesi nel
monastero di san Benigno per esser indirizzato nella vera fede. Ma egli,
impuntandosi viepiù nella sua, burlavasi de' frati; a certe reliquie
ch'e' veneravano sostituì una Bibbia; alfine sottrattosi, girò varie
città, poi fermossi a Milano, e vi ottenne una cattedra. Milano era
allora malmenata dagli Spagnuoli, sicchè molti ritiravansi in campagna,
fra i quali la famiglia Isacchi a Barzago in Brianza, la quale lo
ospitò, e gli diede sposa una figliuola.
Quando gli parve poterlo senza pericolo, il Curione tornò in patria a
raccogliere l'eredità de' fratelli, di cui solo una sorella sopraviveva.
Assistendo in Castiglione alla predica di un Domenicano torinese che
malmenava Lutero, asserendo che in Germania trovasse favore sol per la
licenza di costumi che permetteva, ed esponendone leggermente le
dottrine, Celio gli gridò, «Voi mentite»; e cacciò a mano le opere di
questo. Scontò tale uscita con rigorosissima prigionia a Torino: ma
quivi fingendosi rassegnato alla meritata pena e sofferente, ottenne dal
carceriero gli legasse una gamba sola, poi dall'una all'altra alternasse
la catena; nel qual mutamento riuscì a sostituire una gamba finta, e
così svincolato potè sottrarsi. Sono storielle, riprodotte anche ai
giorni nostri, e colle quali si volle spesso mascherare romanzescamente
la corruzione d'un custode o la sollecitudine di un amico. Ma allora
come adesso se ne levò rumore; il fatto fu attribuito a magia, sicchè il
Curione si credette obbligato a riferirne le miracolaje
circostanze[176], e vantandosi diceva: «Per questo fatto io non feci
voto di visitar Compostella o Gerusalemme, che sono idolatrie; nè di
castità, la quale Dio solo può dare; ma mi consacrai tutto a Gesù
Cristo, unico liberator nostro».
Ricoverossi a Salò; presto ottenne una cattedra a Pavia, e sebbene
trapelasse come sentiva, mai per tre anni non si ardì arrestarlo, perchè
gli studenti vegliavano a sua difesa. Insistendo però il papa acciocchè
il senato milanese togliesse di mezzo quello scandalo, il Curione si
raccolse a Venezia, indi a Ferrara, ove la duchessa Renata gli diede
raccomandazioni, per le quali conseguì a Lucca una cattedra. Ma perchè
il papa non cessava di domandare glielo consegnassero, la repubblichetta
il consigliò di mutar aria. Entrato negli Svizzeri, fu maestro e rettore
alla scuola di Losanna, poi di Basilea nel 1547, donde più non si
scostò, per quante offerte ricevesse. Una volta ardì ritornare a Lucca
per prendervi la moglie e i figliuoli; ma mentre si riposava a Pescia,
ecco il bargello del sant'Uffizio presentarsi per arrestarlo. Egli non
si perde d'animo, ma afferrato un coltello da tavola, profitta della
sorpresa degli sgherri e si salva.
Molte opere di libertà protestante lasciò, fra cui sono una rarità
_Pasquillorum tomi duo_[177], raccolta di pasquinate e satire varie,
edite dall'Oporino nel 1544. Di là venne la reputazione delle
pasquinate, e diversi scritti, si pubblicarono con titoli simili, e
principalmente il _Pasquino in estasi_. A Basilea egli stampò _De
amplitudine regni_ Dei, dove sosteneva che il numero de' salvati è molto
maggiore che quel de' dannati, onde gli fu gridata la croce addosso dal
Bullinger, dal Vergerio, da altri, tacciandolo di pelagiano. Trattò
_Della antica autorità della Chiesa di Cristo_; stese varj opuscoli, fra
cui una «Lettera ai fratelli, i quali pel regno di Babilonia sono
sparsi»; parafrasò l'inizio del vangelo di san Giovanni; pose una
prefazione di dodici pagine a _Le cento et dieci diuine considerationi
del s. Giouani Valdesso ne le quali si ragiona delle cose più utili, più
necessarie et più perfette della christiana professione_, ch'egli forse
avea tradotte, e che, sebbene senza data, pajono stampate dall'Oporino o
dal Guarino[178].
Gran ciceroniano, fe molti lavori filologici, ampliò il dizionario del
Nizolio, pubblicò le opere del famoso ellenista Guglielmo Buddeo; fece
il _Thesaurus linguæ latinæ_ e commenti ad Aristotele: tradusse in
latino venti libri delle storie del Guicciardini[179]. Molte sue lettere
sono a stampa, altre manoscritte nella biblioteca di Basilea, dirette a
regnanti e a primarj riformatori, Bullinger, Musculo, Cardano, Erasto,
Gesner, Sturm, Brenzio, Borrhaus, Vadian, Paleario, Gribaldi, Castalion,
Melantone. Quest'ultimo in una lettera grandemente ne loda il nobile
stile, applicandogli quel verso di Omero:
Σοὶ δ’ἔνι μὲν μορφὴ ἔπεων, ἓνι δὲ φρὲνες ἐσθλαί.
Di Erasmo diceva che _sursum, deorsum, huc atque illuc agebatur... inter
cœlum papisticum et christianum_.
In casa accoglieva giovani italiani, che voleano farsi educare nel
libero culto, fra' quali fu Giovan Battista Bernardini di Lucca. La
figlia Violante diede in moglie allo Zanchi, altro fuoruscito italiano,
e la vide morire nel 1556, e nella biblioteca di Basilea vi son lettere
affettuosissime di lui e dello Zanchi su quella perdita, tutta speranza
di ricongiungersi ad essa. Nella chiesa di Strasburgo le fu posto
l'epitafio: _D. O. M. S. Violanthi Curioni C. S. C. itali f., conjugi
sanctiss.: clariss. ob singularem probitatem, industriam, candorem,
fidem, amorem, admirabilem in longiss. et graviss. morbo constantiam,
patientiam, pietatem incomparabili: Hieronymus Zanchius italus optime
merenti mæstiss. p. tertio puerperio eoque infausto, ad Christum Jesum
quem sincera coluit religione cupidiss. concessit, cum quo vivit beata
illam expectans diem qua suo corpori reddita, integra immortalitate
fruetur. ann. sal._ MDLVI. XIII _nov. ætat. suæ an_. XXII.
Tre altre figliuole, che erano di sedici, diciasette, diciotto anni,
perdette il Curioni nella peste del 1564, e di esse deplora la morte con
cuor di padre in lettere manoscritte, lodandone l'ingegno, le virtù,
l'affetto [180]. Allora condusse la moglie a Zurigo, dove essa, colle
tante famiglie italiane rifuggite, potesse consolarsi parlando la lingua
nativa, dacchè più non poteva usarla colle figliuole. Tornato poi a
Basilea, vide morirsi anche il figlio Orazio, ch'era professore di
medicina a Pisa, e che latinizzò alcuni sermoni dell'Ochino.
Pendettero nel medesimo senso gli altri figliuoli Angelo ed Agostino, il
qual ultimo, morto nel 1566, avea scritto la storia de' Saraceni e
dell'America. Eran nati a Lucca e aveano fatto gli studj in Italia col
fratello Leone, il quale sposò Flaminia dei Muralto di Locarno, restò
prigioniero in Francia al tempo delle guerre civili, in Polonia tenne
splendida posizione e fu ambasciadore presso varie Corti.
Celio Secondo morì il 25 novembre 1569, e fu deposto con gonfio
epitaffio[181] nella cattedrale col resto di sua famiglia; dove la
moglie lo raggiunse al 12 maggio del 1587. Spirito di eccessiva
sottigliezza, dicono i suoi correligionarj, non sapeva restringersi alla
semplicità della Scrittura, e lasciava che la sua immaginativa
trascendesse i limiti della rivelazione[182]. Per togliere il sospetto
di antitrinitario, nel suo testamento, che sta manuscritto nella
biblioteca municipale di Basilea, confessa creder in Dio Padre, nel
Figliuolo unigenito suo, e nello Spirito Santo suo, e di abbracciare
Gesù Cristo, vero figliuolo di Dio e vero uomo, come l'unico mediatore
fra Dio e noi.

NOTE
[176] Vedi l'Appendice I a questo discorso.
[177] Vedi l'Appendice II.
L'indice de' libri proibiti segna _Curio Cælius Horatius e Curio Cælius
Secundus_.
[178] L'originale spagnuolo di quest'opera è perduto o smarrito, onde
nel 1855 fu tradotto in quella lingua, com'anche _l'Alfabeto della pietà
Cristiana_. Le _Cento Considerazioni_ furono riprodotte a Halla di
Sassonia nel 1860 con un'erudita vita del Valdes, distinguendo
diligentemente Giovanni da Alfonso. Alfonso sarebbe stato il segretario
di Carlo V, per cui ordine avrebbe anche tradotta in italiano la
_Confessione di Melantone_, e fatto il libro _Pro religione christiana
res gestæ in comitiis Augustæ Vindelicorum habitis_, anno MDXXX;
com'anche la lettera con cui Carlo V si congratula coi Cantoni cattolici
della vittoria di Cappel ove restò ucciso Zuinglio, chiamandoli
_propugnatores invictos adversus eos qui ritus, hactenus summa religione
observatos, invertere, novaqui dogmata invehere conantur_. Fu amico di
Erasmo e di Pietro Martire d'Angera, quanto nemico del Castiglioni; e
autore dei due dialoghi di Mercurio e di Lattanzio.
Giovanni fu forse cameriero del papa: postosi poi a Napoli, scrisse il
dialogo sulla lingua, dove appajono leggerezze e oscenità, mal
compatibili alla _franchezza spagnuola_. Sua cura principale fu lo
studio della sacra scrittura: tradusse dall'ebraico alcuni salmi, opera
perduta: commentò l'epistola di san Paolo ai Romani e la prima ai
Corintj.
L'ultimo storico della letteratura spagnuola (_History of spanish
literature by_ GEORGE TICKNER, Boston 1865) nota errori del Llorente e
del M'Crie intorno al Valdes, non fa cenno del libro del _Beneficio di
Cristo_, e non distingue i due fratelli. Nota che _his religious views
are, no doubt, much more spiritual than was common in his time, and his
political morals generally were more stringent: so that he might,
perhaps, already be regarded as a follower of Luther, if it were not for
his unbounded admiration of the emperor, his avowed deference for the
Church and the Pope, and his expressed belief of the real presence in
the Eucharist_. Sono a vedere le considerazioni che esso Tickner fa
sugli eretici di Spagna e sulla Inquisizione.
[179] Opere del Curioni, annoverate dallo Stupano nella _Oratio de C. S.
Curionis vita_.
_Encomio della noce: lavoro giovanile._
_Probo: dialogo._
_Il ragno, sulla providenza di Dio._
_Della immortalità delle anime._
_D'una pia educazione ai figli._
_Parafrasi del principio del vangelo di san Giovanni._
_Paradossi cristiani._
_Esortazione alla religione._
_Orazione sulle buone arti._
_Encomio degli scrittori._
_Encomio di chi muor per la patria: orazioni funebri._
_Orazioni contro Antonio Floribello._
_Dell'antica autorità della Chiesa di Cristo._
_L'istituzione della cristiana religione._
_Della dottrina puerile e delle lettere, libri cinque._
_Grammatica latina. Libro del perfetto grammatico._
_Somma di tutto l'artifizio nel dissertare e nel trattare._
_Compendio della dialettica di Perionio._
_Commentarj contro Perionio._
_Storia della guerra maltese._
_Dei pesi dei Romani._
_Continuazione della guerra sabellica._
_Orazioni di Diogene tradotte dal greco._
_Retorica d'Ermogene._
_Nizolio arricchito._
_Tesoro della lingua latina corretto ed accresciuto._
[180] _Angelæ, Cœliæ, Felici, puellis nobilissimus castissimisque,
quarum ingenium, candor, industria, pudor, pietas, morum elegantia et
sanctitas, grata Deo, multis nota, probata bonis, parentibus jucunda
fuerunt, Cœlius Secundus Curio pater et Margarita Isacia mater itali,
tribus filiabus præstantissimis, dulcissimis carissimisque ut earum quod
mortale fuit in beatæ reparationis spem conderetur, h. m. p. Migrarunt
ad Deum in maxima hujus urbis pestilentia mense aug. anno sal. hum.
MDLXIV ætat. singular. an. XVIII, XVII, XVI._
_Vivit ut exigua lucens in lampada flamma,_
_Sic nos æternum vivimus ante Deum._
_Surgemus vivæ: lacrymas cohibete, parentes,_
_Quum tuba supremum fuderit alma sonum._
[181] _Hospes, mane et disce. Non Cœlius hic, sed Cœlii σωμα, imo σημα:
spiritum Christus habet: cætera nomen veræ pietatis, humanitatis,
insignisque constantiæ. Quum σωμα in שׁמים tunc vere erit Cœlius
Secundus Curio hospes. Si didicisti vale. Reliquit ætat. suæ ann. LXVII.
salut. MDLXIX ad VIII kal. dec._
[182] _Vedasi Vita C. S. Curionis; de mirabili sua e vinculis ac ipsis
diræ necis faucibus liberatione dialogus._ SCHOELORN, _Amæn. eccl._, p.
258.
C. SCHMIDT, _L. S. Curioni, nella Zeitschrift für die historische
Theologie di_ C. W. Niedner 1860, fasc. IV.

APPENDICE I.
_La Fuga._
_Lucio._ O m'inganno, od ho le traveggole, o mi vien incontro il mio
Probo, se pur non è l'ombra sua. Poichè so che fu trattato pessimamente
in questi anni e da questi Caifa. Ma comunque sia, giacchè ha la faccia
di Probo, per Probo il saluterò. Addio, o Probo.
_Probo._ Addio, caro Lucio. Ma dimmi, per Gesù; di che dubitavi al
vedermi?
_L._ Temevo non so che; mi parevi e non parevi.
_P._ O che? Non ho la stessa cappa, la barba stessa, lo stesso volto?
_L._ Stesso affatto; ma deh quanto mutato! uscito di carcere, come sei
lurido e magro.
_P._ Ma l'animo è uguale, neppur d'un briciolo cambiato, se non che la
so più lunga.
_L._ È dunque madre di prudenza la pazienza del soffrire.
_P._ Tu stesso dal mio pericolo sarai scaltrito, se hai tempo d'udire
come son riuscito a svignarmela.
_L._ O dimmelo, per quanto ben mi vuoi. Tornato da di fuori, intesi che
tu per mezzo d'incanti rompesti i ceppi e fuggisti, il che non ti so
dire quanto piacere mi recasse.... L'animo mi presagisce qualcosa
d'insolito e degna di Probo.
_P._ Come fui preso il sai.
_L._ Pur troppo il so; e che Satana, come altre volte, ora istiga i
satelliti suoi contro i servi di Cristo per estinguer la verità.
_P._ Così è; ma vincerà la verità. Dopo avermi menato per varie
prigioni, non parendo mai abbastanza in sicuro, mi chiuser in una più
difesa del Carcere Tulliano. Sta di mezzo fra il tinello e due altre
camere, ove dormono in una il capo, nell'altra i guardiani. Qua a tarda
notte per lunghi corridoj mi conducono, e mi serrano i piedi con ceppi
di legno di grossezza enorme. Allora essi a domandare, cercare,
consultare, che far di me; io con gemiti e suppliche pregar Dio
assiduamente che, se alla gloria sua giovasse, mi togliesse dalle mani
degli empj. Fattolo parecchi giorni, Gesù Cristo mi assistette e
m'aperse la via, che subito senza timore io pigliai.
_L._ Qui non vedo entrarvi arti magiche, seppur Cristo è avverso ai
prestigi.
_P._ Udrai. Ero in custodia d'un giovane. Cominciai a pregarlo che mi
liberasse dal ceppo un de' piedi; bastava bene che fossi attaccato per
l'altro: io non sono un Briareo dalle centomani, nè Dedalo da potere o
portar via un tanto peso, o fendere l'aria. Egli, che non era d'indole
cattiva, si lasciò persuadere, e mi sciolse un piede.
_L._ O che, speravi forse con un sol piede smuovere quel peso?
_P._ Non ci siamo ancora. Così passa uno, passa un altro giorno, e io
m'accingo all'altra parte. Avevo indosso la camicia di lino, e direi
meglio di limo. Cavatala, ne riempii la calza del piede libero, sicchè
pareva una gamba vera, e v'aggiustai la sua scarpa. Occorreva qualcosa
di sodo perchè la gamba s'irrigidisse: ed io a strologare, finchè vedo
una canna sotto alcuni sedili. Stesa la mano quanto potei, giacchè stavo
sull'ammattonato, la presi e l'introdussi a modo nella finta gamba: poi
tirata la vera sotto la cappa, e sostituita quella, cominciai a provare
se m'avvenisse secondo il desiderio.
_L._ E che non succede se Dio lo voglia?
_P._ Ben la pensi: perocchè Paolo dice: Chi resiste alla volontà di lui?
_L._ Ma ancor non comprendo a che mirassi.
_P._ Or lo saprai. Al domani sulle venti ore torna a me quel giovane, e
mi domanda come va. — Non malaccio, rispondo, se tu mi permettessi di
cambiar la gamba serrata con quest'altra, e riposarla a vicenda. Egli
assente.
_L._ Oh bella! davvero me la godo. Ma poi, chiuse le tante porte, con
tante guardie, per lunghi e ignoti corridoj, come cavartela?
_P._ O Lucio, le vie di Dio son molte. Non dicevi or ora che nulla
succede che Dio non voglia? S'abbuja. Recasi la cena. Io, benchè fra
speranza e timore, per non dar sospetto mangiucchiai. Si va a dormire.
Resto solo. In prima da una porta all'altra vado a taciti passi,
m'accosto, mi fermo, tengo il fiato, tendo l'orecchio per udire se
dormissero, se alcuno parlasse o si movesse. Come accertai che tutto era
queto, levo la gamba finta, rimetto la camicia, e m'accingo a partire,
ma prima imploro il Signore brevemente.
_L._ Da buon cristiano. Poichè il Signore in san Matteo avvertì a non
pregar lungo, e il dottor delle genti esecrò la βαττολογιαν. Hai fatto
un voto, come si suole ne' pericoli?
_P._ Certo sì, e il maggiore e più santo de' voti.
_L._ Forse di religione.
_P._ Di che religione parli?
_L._ O non sai che ve n'ha di Francescani, Domenicani, Benedettini, e di
seicento altre religioni?
_P._ Paolo m'insegnò che Cristo non è diviso, e i Cristiani non sono
battezzati nel nome d'alcun uomo. Cristo medesimo avea predetto che ogni
regno diviso perirebbe.
_L._ O festi voto di visitar San Giacomo di Compostella o la Madonna di
Loreto, dove son appesi tanti voti di condannati?
_P._ Cristo vietò di cercar lui fuor di sè, giacchè egli è dapertutto
principalmente nel petto dell'uomo, che Paolo chiama tempio di Dio.
_L._ Ma molti stimano sommo il pellegrinaggio di Terrasanta, e il papa
non ne dispensa facilmente. Poichè quella terra fu tocca coi piedi
proprii di Cristo.
_P._ Vero; ma egli per bocca del profeta dice: Il cielo è mia sede; la
terra è sgabello de' piedi miei. Nè vedo che vi tornino migliori quei
che vengono di là. Cielo non animo muta chi trapassa il mare, disse il
poeta.
_L._ Se non fu di castità, non so qual altro voto potessi fare.
_P._ Sebben non l'ignori, pure giacchè il vuoi, ti rispondo che la
castità può l'uomo prometterla, ma Dio solo mantenerla. Ed è temerità e
follia prometter quello che non si può attenere. Ed anche nel matrimonio
può la castità serbarsi, ove si serbì la fede e l'integrità maritale.
_L._ Insomma che voto fu il tuo?
_P._ Votai me e le cose mie a Cristo Gesù liberator nostro, pregandolo
d'or innanzi non mi lasciasse trascinar dalle mie passioni, ma col suo
spirito mi traesse a sè; e come il vasajo della creta, così egli di me
usasse alla gloria sua.
_L._ O voto veramente cristiano, che tutti femmo nel mistico lavacro e
pochi manteniamo, offrendo invece a Dio quei voti che pendono alle
pareti...
_P._ Dall'orazione sorgo leggero; cerco a sinistra il tinello, e qui un
primo lampo mi balenò, poichè la porta che strideva sui cardini s'aperse
così silenziosamente come se fosse immota.
_L._ E non avesti tampoco bisogno di chiave?
_P._ No: era chiusa solo col paletto di dentro. Esco adunque; pel
salotto vo tentone, finchè per un'altra porta m'imbattei nella scala;
discendo, e trovo la porta chiusa con saldissimo chiavaccio.
_L._ In somma tenevi il lupo per l'orecchie.
_P._ Sì, se Cristo non mi avesse ajutato. Risalgo la scala, e nel
montare mi s'offre una finestra, la cui altezza argomentai dai gradini,
poichè la notte era così buja, che non potevo veder il piano del
cortile: da questo alla finestra non v'avea più di diciotto piedi, onde
risolto d'avventurarmi, prima gettai la cappa perchè mi riparasse, poi
io dietro.
_L._ E nulla t'accadde nel salto?
_P._ Nulla, per Dio grazia. Subito vo dritto alla porta di mezzo, se mai
fosse chiusa solo a stanga di dentro, come si suole: ma invece vi era e
catenaccio e chiave. Allora giro per l'orto e tento i muri, ma invano.
Già avevo perduto un'ora, e stanco e più morto che vivo, non cercavo più
di camparmi ma d'uscir di vita. E perchè sorridi?
_L._ Perchè me lo narri dopo uscito dal pericolo. Poi mi sovvien quel
motto «Il lupo intorno alla fonte gira». E a te pure non giova ricordar
cose tali. Ma io vorrei che ciò sapesser questi saducei, a gloria di Dio
e loro ignominia.
_P._ Sì, se si convertissero: ma il fuoco non s'estingue con legna e con
olio, anzi s'attizza.
_L._ S'ha dunque a lasciarli?
_P._ Lo credo, finchè il Signore li stermini col fiato della sua bocca.
Perocchè è vicino il tempo che chi nuoce nuoccia di più, chi è lordo e
più s'imbratti, chi è giusto divenga più giusto e santo. Nè il padre
celeste lascerà che noi siamo tentati al di là di quel che possiamo.
_L._ Ma mi struggo d'udire con che mezzi superasti la cresta del muro,
giacchè non potevi di meno: cioè ascender quanto eri disceso dalla
finestra.
_P._ Quali mezzi se non i divini? Con nessun altro potevo levarmi in
alto.
_L._ Forse apristi qualche porticina col favor di Dio?
_P._ Neppur ciò. Mentre fra queste difficoltà mi disperavo, sorse una
stella d'insolita luce, talchè dava ombra a guisa della luna. E perchè
non la credessi la stella di venere, la notte non era a mezzo corso;
poichè quando m'assisi sulla cresta del muro sonò la settima ora, ed era
d'inverno. Di quella stella non so se presi più allegrezza o spavento.
Certo col suo lume mi scopriva, se mai alcun custode guardasse. Ma
dormivano la grossa, ed io vigilando alla mia salute, credetti dover
profittare del lume celeste. Adunque tornai a esaminar il muro quant'era
lungo, finchè all'angolo m'accôrsi era unito a un altro roso dal tempo e
rotto, talchè potevo co' piedi e colle mani arrampicarmi. Cominciai
dunque a salire, ma appena alzato di terra, il sasso a cui m'appigliavo
cascò meco con gran fracasso.
_L._ E non ti fiaccasti nessun membro?
_P._ Nessuno, o Lucio, e mi sedetti come in morbido letto. Ben mi
balzavano tutte le viscere, parendomi veder gente accorrer allo
strepito, mentre invece nessun si mosse. Stetti alcun tempo a orecchi e
occhi tesi, e come non vidi nessuno avvicinarsi, con maggiore sforzo
m'arrampico, e finalmente accavalcio il muro. Poi pian piano scivolo
dall'altra parte, e coll'ajuto di Dio mi ricovero alla casa di Filosseno
Nuceo, uom dotto e pio quanto sai, e benevolo a me e a tutti i buoni.
Son questi gli incanti con che mi salvai, ossia Cristo mi salvò.
_L_. Non vedo in che questa tua liberazione differisca da quella di
Pietro apostolo. Giacchè anche per te pregavamo quanti adoriam Cristo; e
te lo spirito di Dio eccitò, quando neppur sognavi di fuggire. Ma una
tal liberazione nessun mai ha udita. E chi dubiterà che quella luce non
fosse lo splendor dell'angelo?..... ecc.

APPENDICE II.
_Le Pasquinate._
A Roma nel rione Parione, dov'è il palazzo Orsini, che nel 1791 i
Braschi comperarono per cinquantamila scudi, sta sulla cantonata della
piazza una statua monca, senza naso, nè braccia, nè gambe. Lodovico
Castelvetro, nella _Ragione di alcune cose segnate nella canzone di
Annibal Caro_, riferisce aver udito dal Tibaldeo che a Roma visse un
sartore arguto, di nome maestro Pasquino, nella cui bottega in Parione
convenivano molti bajoni, ed anche cortigiani, ambasciadori, cardinali,
a tartassar il terzo e il quarto. I motti e i frizzi correano poi per la
città, e anche quelli d'altri s'attribuivano a maestro Pasquino. Era
costui morto da poco tempo, quando presso la sua bottega si sterrò una
statua, guasta, ma che giudicossi un capolavoro, e che figurasse
Alessandro, o Menelao che sostiene il cadavere di Patroclo. I bizzarri
dissero ch'era Pasquino risorto, e cominciarono attaccar a quella le
satire.
Il fatto non è esatto, poichè sappiamo che, al tempo del Tibaldeo, già
quella statua stava eretta sopra un piedistallo presso al palazzo
Orsini, il quale fu bensì ricostruito dal Sangallo verso il 1512, ma
esisteva da ducento anni: e par probabile quel torso fosse scoperto nel
cavarne le fondamenta, lungo tempo prima del maledico sartore. I capi
rioni attaccavano a quella statua gli avvisi municipali, essendo in
luogo centrale e frequentato, poi anche l'autorità ecclesiastica le
indulgenze, le pastorali, ecc., finchè anche i maligni cominciarono
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  • Gli eretici d'Italia, vol. II - 56
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