Gli eretici d'Italia, vol. II - 36

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grandi e il clero n'erano colpiti egualmente, senza privilegio od
eccezione; laonde, mentre esprimeva lo sforzo nazionale contro i
Maomettani e gli Ebrei, era pure uno scaltrimento regio per
assoggettarsi la Chiesa e la nobiltà[291].
Carlo V avea contro i Protestanti emanato decreti severi a segno, che
dovette mitigarli Filippo II, a lui succeduto nel regno di Spagna e ne'
dominj dell'Asia, dell'America e dell'Italia; Filippo II, il cui nome
rappresenta proverbialmente la opposizione contro l'eresia, e in
conseguenza per taluni una generosa come che inesorabile perseveranza,
per altri il colmo della fierezza, unita all'ipocrisia. Nel fatto egli
possedette qualità grandi: vasta capacità, fermo carattere, amore alla
fatica, occupandosi incessantemente negli affari di Stato e nelle
minuzie d'amministrazione: fautore delle lettere, che sotto di lui
ebbero il secol d'oro; come sotto di lui, sebbene non fosse guerresco,
si vinsero alcune delle maggiori battaglie della storia: attento a tutte
le parti dell'immenso impero, ma principalmente amoroso della Spagna e
della forza e gloria di essa, per la quale vi aggregò paesi d'altra
indole, senza badare alle inconciliabili diversità. Nè per avversa
fortuna prostrandosi, nè per prospera inebriando, quando l'ammiraglio, a
cui aveva affidato quella che lo stupore de' contemporanei intitolò
_invincibile armata_, venne annunziargli ch'era stata dispersa dal
turbine, esso proferì soltanto: «Duca, io vi avea mandato contro i
nemici, non contro gli elementi»; e ripigliata la penna continuò a
scrivere. Stava leggendo la vita di suo padre quando gli fu annunziata
la vittoria di Lépanto, che decise se l'Europa sarebbe cristiana o
musulmana; e non che prorompere in esultanze, riflettè: «Don Giovanni ha
molto arrischiato: come ha vinto, così poteva perdere». Pur seppe
rendere omaggio al merito; e quando il duca di Savoja, vinta colle armi
spagnuole la Francia a San Quintino, si presentò per baciargli la mano,
esso lo serrò nelle braccia dicendogli: «Tocca a me baciar la vostra,
che compì opera sì bella».
Ma non coronato di allori come suo fratello don Giovanni, nè generoso
come suo padre, serba nella storia una fisonomia freddamente severa;
forse per troppa conoscenza degli uomini, diffidava, e perciò teneasi
concentrato; volea veder tutto da sè, e perciò esitava a decidersi;
deciso una volta, non recedeva più, scambiando per costanza
l'ostinazione, per giustizia la inesorabilità. Indispettito degli
ostacoli che le libertà locali metteano al suo potere, s'applicò a torle
di mezzo. Credendo l'unità religiosa fondamento necessario dell'unità
politica, e sè medesimo destinato da Dio a rintegrare la religione
cattolica, ogni discrepanza considerava non solo come eresia, ma come
lesa maestà divina ed umana, e tenevasi in obbligo di combatterla, come
fece dapertutto, senza mai scendere a componimento; nell'interno non
rispettò tampoco l'asilo delle coscienze; fuori cercò impadronirsi fin
della Francia e dell'Inghilterra per serbarle cattoliche: e intanto si
vide tolti i Paesi Bassi[292]; esaurì le finanze, scontentò i popoli,
distrusse il prestigio della propria potenza. I re di Francia e
d'Inghilterra, ch'egli avea mirato a spossessare, gli si inimicarono, ed
allearonsi colla Riforma e colla letteratura per denigrarlo allora, e
tramandarlo in esecrazione alla posterità. Certo egli personifica in sè
la Spagna cattolica, monarchica, patriotica; e fu uno dei più efficienti
sulla futura civiltà, perocchè senza di lui la religione cattolica in
Italia e in tutta Europa sarebbe rimasa nulla più che tollerata, cioè
nella condizione dove stava, or fa poc'anni, in Inghilterra o in Prussia
o in Russia.
Non fu lui che inventò l'Inquisizione; suo padre morendo aveagli
raccomandato di mantenerla, sicchè non ebbe che a drizzarla contro
l'irruzione dell'eresia, che seminava di pianto, di persecuzioni, di
sangue tutta l'Europa[293]. E il reprimere con supplizj i dissidenti, lo
ripetiamo, era comune nel diritto pubblico d'allora; la solennità che si
dava a quegli ancor più deplorabili che esecrabili spettacoli, attesta
come fossero nell'indole dei tempi e nelle idee dei tanti spettatori:
pubblicavansi perchè si credeano giusti e necessarj. A non toccare se
non ciò che rasenta alla storia italica, pochi giorni prima di quella
battaglia di Pavia dove Francesco I perdette tutto fuorchè l'onore, il
17 febbrajo 1525 a Parigi veniva mandato al supplizio maestro Guglielmo
Joubert, licenziato in legge, convinto d'aver seguìto le dottrine di
Lutero. Avea ventott'anni, e fu condotto sul carro fra immenso popolo
davanti alla chiesa di Nostra Signora, e di là a Santa Genovieffa, dove
fece ammenda onorevole; poi ricondotto sulla piazza Maubert, fu dato al
fuoco, dopo avergli forato la lingua con ferro rovente.
Quando di Francia avventansi accuse al nostro _paese dell'Inquisizione_,
noi, non per raffaccio, ma per memoria, citeremo la notte di san
Bartolomeo, e la sentenza del parlamento di Parigi che condanna al fuoco
come mago l'insigne cancelliere l'Hopital; e l'altra del 1561 che
pronunzia lecito l'uccidere qualunque ugonotto, e che doveasi leggere in
ogni parrocchia tutte le domeniche[294].
Non cominciarono in Ispagna dunque prima che altrove gli spettacolosi
_Atti di fede_. Chiamavansi così le esecuzioni sopra i condannati dal
Sant'Uffizio perchè vi si recitava dal pulpito con semplici formole la
professione di fede; e gli accusati doveano ripeterla. Il maggior numero
lo faceano, sicchè tutto l'Atto risolveasi nell'assolvere gli imputati
ricredentisi, e le più volte non bruciavasi se non la candela che
tenevano in mano; gli ostinati abbandonavansi al braccio secolare.
Il Llorente cita un _auto da fe_ del 1486 a Toledo con settecencinquanta
condannati, ma nessuno a morte; un altro di novecento, pur senza sangue;
in uno furono condannati tremila trecento, di cui ventisette a morte; ma
si rifletta che, oltre l'eresia, erano di competenza del Sant'Uffizio i
peccati contro natura, la sollecitazione in confessione, la bestemmia, i
ladri di Chiesa, perfino il somministrar cavalli e munizioni al nemico
in tempo di guerra; sovratutto le pratiche di maomettismo. Francesco di
San Romano, negoziante di Burgos, intesi a Brema i predicanti, cercò
propagarne le dottrine. Preso ad Anversa dall'Inquisizione, dopo sei
mesi fu rilasciato, condannando solo e bruciando i suoi libri. Non che
ravvedersi, egli s'incalorì, e cercò persuadere Carlo V a riconoscere la
religione riformata; onde preso di nuovo, dopo la spedizione d'Algeri fu
dall'Inquisizione di Valladolid condannato al fuoco. Nell'andare ricusò
prostrarsi a una gran croce di legno, la quale immediatamente fu fatta
dal vulgo in pezzi, da conservare come reliquie, perchè essa avea
respinto le adorazioni d'un eretico. San Romano fu arso vivo, e gli
arcieri imperiali ne raccolsero gli avanzi, e l'ambasciadore
d'Inghilterra ne cercò diligentemente qualche osso. È dato come il primo
spagnuolo che fosse arso per luteranismo.
L'8 ottobre 1559 Filippo II, appena tornato dai Paesi Bassi, assisteva a
un solennissimo Atto di fede in Valladolid, il secondo che celebravasi
in Ispagna, e il grand'Inquisitore lesse una formola, per la quale il re
giurava prestare ogni ajuto al Sant'Uffizio ed a' suoi ministri, contro
degli eretici ed apostati, e di quelli che impedissero direttamente o
indirettamente d'eseguirne i decreti. Fra i condannati compariva don
Carlo di Sessa, nobile italiano, chi dice di Verona, chi di Firenze,
onorato da Carlo V per l'ingegno, imparentato per la moglie con primarie
famiglie di Spagna. Irremovibile a persuasioni o minacce, aveva il
giorno prima steso una professione di fede in senso reprobo, che il
Llorente dice aver letta e ammirata per insuperabile energia. Condannato
al rogo, passava davanti al re, al quale rivolto disse: «Come osate voi
farmi bruciare?» E il re: «Se mio figlio fosse tristo come voi, porterei
io stesso la legna al suo rogo». Gli fu posto uno sbavaglio alla bocca,
e giunto al luogo del supplizio, quando gli fu tolto acciocchè potesse
abjurare, esclamò: «Mettete subito il fuoco; se mi lasciate tempo,
dimostrerò che voi correte alla perdizione qualora non operiate come
me».
Dopo questo anno delle grandi procedure contro gli eretici in Ispagna
più non vi si trovano Protestanti nel vero senso, e l'Inquisizione si
esercitò contro Ebrei, Mori, relapsi, streghi. Ma la potenza sua crebbe
a segno, da valer più che l'autorità di Roma: antagonismo che si
manifestò principalmente nel processo contro Bartolomeo Carranza. Questo
domenicano, arcivescovo di Toledo, adoprato da Carlo V in ufficj
gravissimi, massime in Inghilterra, avea mostrato gran fervore contro
gli eretici: primeggiò al Concilio di Trento, da cui ebbe incarico di
redigere il catalogo de' libri proibiti. L'ingegno e l'altezza del posto
gli attirarono l'invidia, e l'accusa allora comune di opinioni
ereticali; pel quale sospetto, Carlo V mal l'accolse quando andò nel
ritiro suo di San Giusto a prestargli l'ultima assistenza. Pure
narrarono ch'e' lo confortasse a fidare unicamente ne' meriti di Cristo:
e dopo spirato, recitò il _De profundis_, a ogni versetto facendo un
commento; preso quindi il Crocifisso, esclamò: «Ecco quello che tutti ci
ha salvati; ogni cosa è perdonata per merito suo, e più non v'è
peccato».
Di tali espressioni, quasi escludessero la cooperazione dell'uomo e
l'intercessione dei santi, fu imputato, e il 22 agosto 1559, chiuso
nelle carceri del Sant'Uffizio a Valladolid, cui presedeva il
grand'inquisitore Valdes. Già il Sant'Uffizio avea messo all'indice i
_Commenti sul catechismo cristiano_, scritti da esso, benchè dedicati a
Filippo II e approvati da una commissione del Concilio di Trento; i cui
membri, non osando resistere a quel tribunale, ritrattarono il datovi
assenso. Pio IV, per quanto rigoroso, credette in ciò si procedesse
troppo severamente, e ne avocò la causa a Roma. Filippo II geloso delle
prerogative dell'Inquisizione, protestò non lascerebbe mai giudicarne
fuori di Spagna. Il papa spedì un legato a latere con due altri giudici
che assumessero quell'esame, ma gli inquisitori seppero trar in lungo
finchè il santo papa Pio V scrivendo lettere sopra lettere per lagnarsi
di non esser tenuto informato sul processo di personaggio di sì gran
conto, e minacciando la scomunica a Filippo II, che persisteva sul
niego, riuscì a trar l'accusa a Roma il maggio 1567. Quivi alloggiò il
Carranza in Castel Sant'Angelo: delegò quattro cardinali, quattro
vescovi, dodici teologi e dottori a vagliarne la causa, e non
dissimulava nè la sua collera verso gl'inquisitori, nè la riconoscenza
pei servigi resi dal Carranza alla Chiesa: e non che proibirne il
catechismo, diceva che, un po' poco che lo spingessero, e'
l'approverebbe di moto proprio.
La frivolezza odierna n'ha bel tema d'invettive contro i tribunali
ecclesiastici. La storia imparziale riflette che, in procedura sì lunga,
estesa, complicata, non è possibile veder un mero intrigo, e total
mancanza di titoli. Il Carranza nel 1539, come qualificatore della
Inquisizione, assistette al capitolo generale de' Domenicani in Roma,
ove fu amico del Flaminio, del Carnesecchi e di altri sospetti. Fra le
sue carte fu trovata una lettera del Valdes, ove, parlando degli
interpreti della sacra scrittura, professava che non bisogna appoggiarsi
sui santi Padri per intenderla; che possiamo esser certi della nostra
giustificazione, e la giustificazione si ottiene mediante la fede viva
nella passione e morte di Nostro Signore.
Se ne' suoi scritti con somma franchezza espone i vizj dominanti senza
riguardo a persone, forse procedeva più esplicito nel parlare; Filippo
II, già suo amorevole, gli divenne avversissimo: se il processo potea
temersi pregiudicato in Ispagna, eccolo trasferito a Roma.
Ma per tradur in latino tutta l'informativa e per raccogliere le notizie
non si richiesero meno di tre anni, poi altri in domande e risposte, e
solo Gregorio XIII nel 1576 pronunziò definitiva sentenza. Il Carranza,
a ginocchi davanti al papa e ai prelati, fece abjura generale delle
dottrine ereticali, e ritrattò quattordici proposizioni mal sonanti ne'
suoi libri; fu confermata la proibizione del suo catechismo; egli,
sospeso dalle funzioni vescovili, starebbe cinque anni a Orvieto in un
convento del suo Ordine, e visiterebbe le sette basiliche di Roma; ma
pochi giorni dopo, al 2 maggio 1576, moriva di settantatrè anni,
dichiarando non avere il minimo rimorso di sentimenti contro la fede;
eppure non imputando d'ingiusta la sentenza del pontefice; il quale gli
facea splendidissime esequie, e un sontuoso monumento con iscrizione
d'illimitate lodi[295]. Sicchè non resta che a deplorare la condizione
tristissima ma inevitabile de' giorni di rivoluzione e di paura. Del
resto i re di Spagna d'allora badavano agli ammonimenti del papa quanto
gli odierni al sillabo: onde sarebbe strano l'imputar ad esso quelle
procedure quanto l'attribuir al pontefice odierno i nostri errori
sull'usura, sul matrimonio, sulla servitù della Chiesa.
La Spagna teneva in dominio bellissime parti dell'Italia nostra. Nel
regno di Napoli era già stabilita l'Inquisizione dai severissimi editti
di Federico II, affidando le condanne ai magistrati secolari. Per
rimedio al costoro rigore e alle mal condotte procedure, Roma cercava
mandarvi inquisitori proprj: gli Angioini, ligi ai papi, molte volte
prescrissero di favorire, e fin di pagare questi venuti da Roma: nel
1305[296] Carlo II ordinò a tutti i baroni e agli ufficiali che dessero
ajuto all'inquisitore frate Angelo da Trani, carcerando e custodendo le
persone sospette, non molestassero i suoi famigli per l'arma che
portano, eseguissero le sentenze ch'egli proferirebbe contro gli eretici
e i costoro beni, mettessero al tormento gl'imputati per cavarne la
verità: nel 1307 incaricava frà Roberto da San Valentino, inquisitore
del regno, di procedere con tutto rigore contro l'arciprete di
Buclanico, il quale, dopo corretto, era ricaduto in errori sopra alcuni
articoli di fede[297].
Gli Aragonesi, succeduti nel dominio, restrinsero di nuovo
l'Inquisizione, e la sottoposero all'assistenza del magistrato secolare.
I Napoletani, ai primi anni di Fernando il Cattolico, adombratisi
ch'egli volesse piantarvi il Santo Uffizio alla spagnuola, tanto
fecero[298], che, per mezzo del gran capitano Córdova ottennero promessa
che mai non l'avrebbe posto. Nel 1505 esso gran Capitano, chiesto dal
vescovo di Bertinoro inquisitore apostolico di far carcerare alcune
donne indiziate di eresia, che da Benevento erano fuggite a Manfredonia
per passare in Turchia, scriveva al governatore Foces procurasse averle
in mano, ma ne desse avviso a lui. Il conte di Ripacorsa nel 1507
rimproverava frà Vincenzo da Ferrandino perchè avesse inquisito alcune
persone senza informarlo nè mostrargli la sua commissione[299]. Donde
appare che l'Inquisizione non avea tribunal fisso, e dovea dipendere dal
placito secolare.
Ma quando la spagnuola infierì contro i Moreschi e i Marani, i
Napoletani temettero di nuovo che Fernando volesse introdurla fra loro,
come pareva trapelare da certe sue lettere, che supponeano qui rifuggiti
molti Musulmani profughi dalla Spagna. Con modi rispettosamente robusti
gli rammemorarono l'antica capitolazione, e come non fosse duopo di
straordinarie procedure contro Mori ed Ebrei, essendo qui pochissimi; e
avendo egli mandato alcuni inquisitori, furono ricevuti in tal maniera,
che dovettero partirsene ignominiosamente. Nè quanto il re cattolico
visse, più tentò quel fatto, e il vicerè Cordova vigilò perchè Roma non
eccedesse. Germogliata l'eresia di Lutero, Carlo V, trovandosi in Napoli
nel 1536, promulgò un severissimo editto, con cui interdiceva ogni
commercio e corrispondenza con persone infette o sospette d'eresia, pena
la morte e la confisca. Che le opinioni luterane serpeggiassero a
Napoli, lo vedemmo parlando del Valdes e di Galeazzo Caracciolo. Don
Pietro Toledo vicerè, cui Carlo V nessuna cosa avea raccomandata più che
d'impedire il contagio dell'eresia, non solo la fece combattere da
famosi predicatori e teologanti, frate Angelo da Napoli francescano, frà
Girolamo Seriprando agostiniano, frate Ambrogio da Bagnoli domenicano,
frà Teofilo da Napoli, frate Agostino da Treviso, ma bruciò una gran
catasta di libri che la propalavano, e vietò (1544) l'introdurre
qualunque trattato teologico che fossesi pubblicato negli ultimi
venticinque anni, non approvato dalla santa sede o anonimo, e chiuse le
accademie del Pontano, de' Sireni, degli Ardenti, degli Incogniti, che
sotto coperta di letteratura o di filosofia facilmente scivolavano nel
campo teologico. Poi, spintovi dall'imperatore, desolato degli scompigli
causati in Germania dalla Riforma, e delle concessioni a cui avea dovuto
calare, e anche dal desiderio di deprimere la nobiltà, s'industriò
impiantare nel regno di Napoli l'Inquisizione spagnuola (1546). E prima
per mezzo del cardinale Borgia suo parente indusse Paolo III a vietare
ai laici di trattar di cose di religione, ed a spedire commissarj che
istituissero qualcosa di simile al Sant'Uffizio. Il vicerè vi diede
l'_exequatur_, ma non fece pubblicare la bolla a suon di tromba e nelle
prediche, come di costume; e solo affiggere all'arcivescovado; intanto
fra le piazze insinuando che nulla v'avea di che sgomentarsi, che non
veniva dal governo bensì dal papa, senz'altro fine che di sbrattare la
città se qualche eretico vi fosse.
Il popolo, sospettando di mala fede il Toledo, levò rumore, e non
valendo le rimostranze, mandate a Pozzuoli per mezzo di Antonio Grisone,
insorse gridando arme, strappando i cedoloni, surrogando agli Eletti del
popolo altri più creduti: i nobili vi si mescolano, aizzandoli e
chiamando fratelli i plebei, come si suole nelle insurrezioni, e
ripudiano l'Inquisizione al grido di «Viva la santa fede», come la
ripudiavano gli Aragonesi al grido di «Viva la libertà». Il Toledo
risoluto di venirne a capo col terrore, esclamava: «Perdio, che a
costoro dispetto porrò il tribunale dell'Inquisizione in mezzo del
mercato»; e citò davanti al reggente della vicaria i capipopolo, che
erano Tommaso Anello sorrentino, plebeo della piazza del Mercato, e
Cesare Mormile, nobile di Porta Nuova; ma tal folla gli accompagnò,
ch'egli dovette dissimulare, e lasciare che in groppa alla chinea di
Ferrante Carafa e di altri signori, fossero portati in trionfo alle
varie piazze: onde rassicurare e ammansire la plebe, mandò il marchese
Caracciolo a quietare coll'occhio e col volto: intanto egli, dando buone
parole e promettendo che, vivo lui, mai non s'introdurrebbe tal
tirannia, chiamava truppe.
Ma un accidente da nulla porge occasione di far sangue, i soldati
spagnuoli assalgono i tumultuanti; questi rispondono colle barricate e
colla campana a martello del campanile di san Lorenzo; i castelli fan
fuoco; la via Toledo e la Catalana si contaminano di carnificina; sono
mandati sommariamente al supplizio alcuni nobili, non maggiormente
colpevoli degli altri ma per dare un esempio, e il Toledo, credendo aver
atterrito, passeggia fieramente la città. Non fu fischiato o urlato; ma
nessuno grande o piccolo gli usò atto di riverenza, nè cavar il
berretto, o piegar il ginocchio come prima: però quando i capipopolo
sparsero voci sinistre, la plebe a fatica si rattenne dal farlo a brani,
gli tolse l'obbedienza, e costituì regolarmente un'_unione di nobili e
popolani a servizio di sua maestà e a comune difesa_, nella quale chi
non entrasse era considerato per traditore della patria; e pigliò le
armi, guidata dal Mormile e da Colantonio Caracciolo, che fu gridato
traditore appena parve condiscendere ad accordi.
Stettesi lunga pezza in attitudine di guerra, nè mancava chi suggerisse
o di darsi al papa, il quale, all'antica ragione di sovranità, univa
allora l'avversione particolare contro gli Spagnuoli, o di chiamare
Pietro Strozzi profugo di Firenze, e i Francesi che allora campeggiavano
a Siena. Ma i più perseveravano nelle forme di soggezione, gridando
Impero e Spagna: all'imperatore fu deputato Ferrante Sanseverino
principe di Salerno, con Placido di Sangro, per rimostrargli che, fra i
capitoli del regno, era di non vi introdurre l'Inquisizione alla
spagnuola: sicchè non guardasse come ribellione contro lui questo
insorgere contro un rigore illegale.
A suggerimento del papa e di san Carlo vi fu deputato anche il famoso
giureconsulto Paolo d'Arezzo, allora prevosto de' Teatini, poi
arcivescovo di Napoli e beatificato; e nelle calde suppliche è notevole
la strana ragione che, essendo colà troppo comuni i giuramenti falsi,
niuno terrebbesi sicuro della vita e dell'avere se dominasse
l'Inquisizione spagnuola.
Ma i baroni a titolo d'obbedienza feudale erano stati domandati dal
vicerè a venir alloggiare nelle caserme degli Spagnuoli: le famiglie
dabbene si ritirarono, sicchè, prevalendo la feccia e i fuorusciti, andò
a scompiglio il paese; chi volea schivare le furie della ciurma,
bisognava la blandisse coll'esagerazione delle parole e colla villania
del vestire e del trattare; intanto che i soldati spagnuoli coglievano
ogni occasione e pretesto di saccheggiare, e da una parte e dall'altra
cercavansi sussidj e munivansi fortezze.
L'imperatore a fatica s'indusse a concedere udienza ai deputati; intimò
si deponessero le armi in mano del vicerè; e la città scoraggiata
obbedì, implorò misericordia; pure ottenendo che i casi d'eresia fossero
giudicati dagli ecclesiastici ordinarj. Trentasei eccettuati
dall'amnistia già erano fuggiti; il Mormile con altri ricoverò in
Francia, ben visto e proveduto. Gianvincenzo Brancaccio, che lasciossi
cogliere, fu decapitato: l'imperatore di nuovo dichiarò _fedelissima_ la
sempre rivoltosa città, e le impose centomila scudi di amenda.
I processi d'eresia si erigevano dal vicario di Napoli per via
ordinaria; e una bolla del nuovo papa Giulio III vietò che traessero
dietro la confisca, cassando anzi le pronunziate fin allora, e volendone
applicati i beni a i più prossimi parenti[300]: i colpevoli erano
diretti a Roma, donde, fatta l'abjura e le penitenze imposte, erano
rimandati a casa.
Non però i rigori si smettevano, e notammo già e noteremo molti che
andarono profughi. Qui ricordiamo Francesco Romano, già agostiniano, che
occultamente diffuse nella natìa Sicilia gli errori di Zuinglio, poi
fuggì in Germania, e tornato a casa nel 1549, sponeva la logica di
Melantone, le epistole di san Paolo, e fu creduto anch'egli autore del
noto libro sul Benefizio di Cristo. Citato al Sant'Uffizio, fuggì, poi
venne spontaneo a costituirsi, si disdisse, e ottenne perdono, mediante
molte penitenze e pubblica abjura nelle cattedrali di Napoli e Caserta,
e confessò d'avere molti proseliti, fra cui varie dame titolate. Più
tardi Scipione Tettio, autore d'una dissertazione _De Apollodoris_,
lodata dagli eruditi, pubblicò non sappiamo quali opere, con false
opinioni sulla divinità; onde fu condannato alle galere. Lo racconta il
De Thou, che essendo a Roma nel 1574, ignorava se ancor vivesse. Anche
Pompeo Algeri da Nola fu mandato al fuoco.
Dei Valdesi altrove parlammo: i quali anche in Roma si erano diffusi,
dove Gregorio IX li perseguitò, e molti ne pose a Monte Cassino[301]: e
nel processo che già sponemmo del 1387, quelli del Piemonte annunziavano
il loro pontefice stare nella Puglia, donde erano mandati a loro i
maestri. Infatti nella provincia della Calabria Citeriore, ove
l'Apennino declina al Tirreno, ai piedi della cresta del Bitonto, nel
circondario di Paola e mandamento di Cetraro sta in poggio il paesello
di Guardia, di 1500 abitanti agricoli, che parlano e vestono
diversamente de' circonvicini. Spesso si confonde dagli storici con
Guardia Lombarda, comune del Principato Ulteriore; che può aver avuto
anch'esso quell'aggettivo perchè popolata da Piemontesi, che
consideravansi lombardi. Narrano gli scrittori valdesi, e nominatamente
il Giles, che, verso il 1315, un gentiluomo calabrese (probabilmente Ugo
dal Balzo, siniscalco di re Roberto) imbattutosi in un'osteria di Torino
con alquanti Valdesi, e udito come le loro valli riboccassero di
popolazione, offrì di dar loro alcune terre di Calabria; ed avendo essi
mandato ad esaminarle, e trovandovi letizia di cielo, di pascoli, di
frutti, di vigneti, d'ulivi, vi stabilirono una colonia, a patto di
pagar un tributo, e del resto regolarsi a comune senza render conto a
chichessia, e soprattutto poter seguitare i loro riti. Di ciò si fece
istromento autentico, confermato poi da Ferdinando d'Aragona. Alla città
di Montalto aggiunsero un borgo, che fu detto degli Ultramontani: e dopo
cinquant'anni cresciuti di numero, ne eressero un altro, lontano un
miglio, detto San Sisto, dove fu una delle chiese riformate più celebri;
e via via i borghi di Vaccarizzo, Rose, Argentina, San Vincenzo; poi la
Guardia sulle terre dei marchesi Spinelli di Fuscaldo.
A queste terre ricoverarono poi molti Valdesi di Provenza, perseguitati
quando la Corte pontificia risedeva ad Avignone, e fabbricarono
Montelione, Faito, La Cella, la Motta; verso il 1500 altri passarono ad
abitare nella città di Volturara[302]. Colà vissero quieti tollerati e
tolleranti, fino ad andare alla messa, e far battezzar i loro figliuoli
da preti cattolici; usando pochissime forme esterne di culto, non
urtavano le popolazioni vicine: grati ai signori dei luoghi, perchè
quieti e pagavano; ogni due anni riceveano la visita d'un _reggitore_ e
d'un _coadjutore_ dalle valli Alpine, che venivano distinti d'abito, e
fingendosi fabbri, mercanti, medici, facendosi conoscere da un
particolar modo di bussar alla porta. Privi di lettere, nè disputavano
sulle loro credenze, nè cercavano divulgarle. Se non che i loro fratelli
delle valli subalpine, quando si riformarono a foggia di Protestanti,
spedirono in Calabria alcuni «per rimettervi ogni cosa in buono
stato»[303], e forse allora solo vennero indotti a ritirarsi dalle
assemblee cattoliche, cui prima s'accomunavano, e mandarono a Ginevra
Marco Usegli, chiedendo dottori. In fatto venne Luigi Pasquale di Cuneo,
già soldato di Savoja, che fece proseliti anche nelle vicine terre della
Basilicata, Faito, le Celle, la Castelluccia. Il cardinale Alessandrino
e come capo dell'Inquisizione a Roma, e dopo fatto papa inviò
predicatori, e nominatamente Gian Antonio Anania di Taverna cappellano
in casa Spinelli, che primo gli avea indicato quel pericolo (1561), e
Cristoforo Rodrico gesuita, con ampia podestà: ma le minaccie rimasero
senza frutto, non volendo essi nè violare i riti antichi, nè staccarsi
da luoghi sì belli. Pertanto si ebbe ricorso al braccio secolare; e il
duca d'Alcala vicerè spedì Annibale Moles giudice di vicaria e molti
soldati, che, secondando i missionarj e il marchese Spinelli,
costringevano andare alla messa, i disobbedienti colpendo nei beni e
nella persona.
Spinti alla disperazione, essi impugnarono le armi, e ricoveratisi nelle
foreste dell'Apennino, prima alla spicciolata, poi in giuste battaglie
combatterono; alfine disfatti si ricoverarono in Calabria alla Guardia
che avea postura favorevole, mura e due corsi d'acqua. Il marchese,
nelle cui terre si trovava la Guardia, mandò colà cinquanta uomini,
fingendo fossero delinquenti che voleva relegare in quella fortezza; i
quali penetrati, trassero fuori le armi, s'impadronirono dei posti, e
sopraggiunti altri armati, incatenarono tutti gli avversarj. Allora
furono sottoposti a fieri giudizj, e i renitenti a supplizj
studiatamente atroci. Serrati in una casa tutti, veniva il boja, e
pigliatone uno, gli bendava gli occhi, poi lo menava in una spianata
poco distante, e fattolo inginocchiare, con un coltello gli segava la
gola e lo lasciava così: di poi, con quella benda e quel coltello
insanguinati, ritornava a prendere un secondo, e farne altrettanto. Ce
lo narra un contemporaneo, che fa perirne a tal uopo fin al numero di
ottantotto. «I vecchi vanno a morire allegri; i giovani vanno più
impauriti. Si è dato ordine, e già sono qua le carra, e tutti si
squarteranno, e si esporranno di mano in mano per tutta la strada che fa
il procaccio fino ai confini della Calabria; se il papa ed il signor
vicerè non comanderà al signor marchese (di Buccianico) che levi mano.
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