Gli eretici d'Italia, vol. II - 38

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servirle di famiglia. Chi denunzia un abuso, chi implora una riforma, è
preso di mira, ha taccia di perturbatore: si piglia ombra di quanto in
prima passava inappuntato; una devozione vivissima, un non ordinario
rigore di pratiche religiose somigliano raffacci alle rilassatezza
comune; la cautela ne' modi e nelle parole passa per ipocrisia; la
franchezza per insolenza: fin il tacere s'interpreta per dissimulazione
pericolosa. Sono martirj che non ignora chiunque nell'età nostra sentì o
pensò.
L'Inquisizione estendeasi anche agli Ebrei, non per punirli, ma per
impedire propagassero i loro errori, nè commettessero quegli enormi
delitti, di cui fremevasi allora credulamente, come credulamente si
freme oggi delle stragi del Sant'Uffizio. Il buon Sadoleto, intitolato
il Fénelon italiano, in una lettera al cardinale Farnese si lamenta
perchè gli Ebrei sieno trattati troppo cortesemente a Roma, e protetti
da Paolo III. Ma Paolo IV usò con essi rigorosamente, e volle fossero
ristretti entro il ghetto. Gliene presero ira, e forse ebbero gran parte
nell'eccitare contro di esso papa la plebe romana, che ne abbattè la
statua e bruciò il palazzo dell'Inquisizione.
A Pio IV successe col nome di Pio V frà Michele Ghislieri, alessandrino
di Bosco, di religione rigorosa, d'integerrima vita. Non andava che a
piedi; come generale dei Domenicani redense molti conventi dai debiti;
si segnalò nell'alta Italia per zelo inquisitorio; e l'opposizione che
trovò dapertutto rivela non tanto l'allargarsi delle opinioni riottose,
quanto il ricalcitrare alla violenza. Avuto spia che a Poschiavo, paese
italiano e di diocesi comasca, ma nel civile appartenente ai Grigioni,
si stampassero libri ereticali destinati all'Italia, e che alcune balle
erano state spedite ad un negoziante di Como, frà Michele le sequestrò.
Era vescovo di Como Bernardino Della Croce, ma Carlo V non volea dargli
il _placet_ perchè amico di Paolo III e de' Farnesi: laonde governava il
capitolo comasco, che spalleggiato dal governatore Gonzaga, volea
fossero restituite; e non riuscendo, il popolo ne levò rumore; i
fanciulli presero a pietre frà Michele mentre entrava nel monastero,
posto ne' sobborghi; ond'egli a fatica ricoverossi in casa
dell'Odescalchi, che apparteneva alla compagnia della Croce di Como, e
il governatore gli ordinò andasse a Milano per amor di quiete. Egli
obbedì, ma poichè i canonici andarono a Roma, v'andò egli pure, fu la
prima volta che vide la città che dovea poi divenir sua. Anche a
Morbegno in Valtellina ordì processo di eresia contro Tommaso Planta
vescovo di Coira, senza citarlo, nè nominare i testimonj; sicchè i
Grigioni gli fecero vietare di procedere contro chicchefosse, se non con
loro licenza: e perchè egli, obbedendo sulle prime, rinnovò poi le
processure, il popolo a pena si tenne che non gli mettesse le mani alla
vita.
Ebbe poi ordine d'inquisire Vittore Soranzo vescovo di Bergamo, il quale
in conseguenza fu sospeso, ma dopo due anni rintegrato. Maggiori indizj
trapelavano contro Giorgio dei Conti di Medolago; ma la costui potenza
avrebbe impedito ogni attentato dell'inquisitore, se a questo non fosse
venuto in sussidio Giovan Gerolamo Albani. Per costui opera il Medolago
fu preso: ma la signoria veneta lo fece levare a forza dalle carceri del
Sant'Uffizio, e trasferire nelle sue, nelle quali morì. L'opposizione
allora obbligò il Ghislieri a partire di Bergamo, del che si dava colpa
a Nicolò Da Ponte, nobile veneto, allora proveditore di quella provincia
e più tardi doge, il quale perciò venne in odore di luterano.
Quell'Albani, valentissimo giureconsulto, godea di alto favore presso la
signoria; ma quando due suoi figliuoli, nella chiesa di Santa Maria
Maggiore, uccisero il conte Brembati, egli, come loro complice, venne
per dieci anni relegato in Dalmazia. Il Ghislieri però, divenuto papa
Pio V, non volle ricevere il Da Ponte, mandatogli ambasciadore dalla
serenissima, e ai figliuoli dell'Albani conferì il titolo di
gentiluomini romani, e al padre il governo della Marca d'Ancona, poi il
cappello cardinalizio che, non senza eventualità di salir papa, portò
degnamente fino ai novantasette anni.
Dapertutto allora si infervorarono le procedure. Ogni causa ha tristi
avvocati, che credono servirla col mostrare ch'essa ha molti nemici; e
in quella generalità di denominazione che esclude la critica e la
discolpa, avvolgono le persone che meno lo meritano. Così allora
avvenne, e nella inflessibilità del suo zelo vedemmo Paolo IV gittare
prigioni il cardinale Morone, i vescovi Egidio Foscarari di Modena,
Tommaso Sanfelice della Cava, Luigi Priuli di Brescia, imputati di
nutrire opinioni ereticali, o mal difendere le ortodosse, mentre non
chiedeano che una riforma, la quale restituisse alla Scrittura
l'autorità, usurpata dalla tradizione, e che si correggessero i costumi.
E dovettero scagionarsi.
Anche don Gabriele Fiamma veneto, canonico lateranese e vescovo di
Chioggia, autore di poesie spirituali, predicando a Napoli il 1562, fu
accusato d'eresie, e al Gonzaga signor di Guastalla scriveva: «Jer sera,
per commissione del cardinale Alessandrino furono pigliati tutti i miei
libri, e notata ogni minima polizza. Questo non m'è grave, venendo la
commissione da quel dabbene e religiosissimo signore e dal santissimo
tribunale dell'Inquisizione: ma ben mi dolgo che gliene sia data
occasione da alcuni maligni ed invidiosi miei emuli»[334].
Fu allora che l'accademia di Modena andò dissipata come dicemmo, e molti
membri di essa migrarono. Il decreto del 1558, per cui tutti i frati che
fossero usciti di convento obbligavansi a tornarvi e sottoporsi al
castigo meritato, indusse molti a fuggire in Olanda e a Ginevra; e se
credessimo a Gregorio Leti[335], più di ducento buttaronsi eretici.
Il Tiepolo, ambasciador veneto a Roma, descrive un Atto di fede eseguito
colà contro quindici persone: sette andarono condannate alle galere come
testimonj falsi: sette eretici abjurarono; uno relapso fu rimesso al
fôro secolare, ed era «don Pompeo de' Monti, di sangue assai nobile,
fratello del marchese di Cortigliano, e stretto parente del cardinale
Colonna»[336]. Ai 27 settembre 1567 descrive l'Atto dove furono bruciati
il Carnesecchi, del quale parleremo poi a disteso, e un frate di
Cividale di Belluno, oltre diciasette che avendo abjurato, furono chiusi
in prigione perpetua o in galera, o multati in denaro per la fabbrica
che dee farsi d'un ospedale per gli eretici. Fra questi contava sei
gentiluomini bolognesi.
Ai 28 maggio 1569 un altro Atto, in presenza di ventidue cardinali, dove
quattro impenitenti furono dannati al fuoco; dieci abjurarono, tra'
quali Guido Zanetti di Fano. Costui nel 1537, essendo a Londra, comprò
molti libri d'eretici, e bevutone le massime, tornò in Italia l'anno
dopo, prese usata con varj eretici di qui e di fuori, e vantavasi d'aver
la maggiore raccolta di libri eterodossi che fosse in Roma. Udendo poi
che a Curia Sabella erano stati presi varj eretici, fuggì a Napoli nel
1545, donde a Venezia, benevolmente accolto e sussidiato da Donato
Rullo, e frequentava Latanzio Ragnone ed altri apostati. Passò quindi in
Sassonia, conobbe l'elettore, il duca Giovanni Federico e il landgravio
d'Assia, e fingendosi un capitano di Enrico VIII d'Inghilterra, prese
servigio nel loro esercito contro l'imperatore. Girando la Germania,
conobbe i principali eresiarchi, visitò più volte la tomba di Lutero,
rivide Venezia, poi l'Inghilterra, e v'assistette al ristauramento della
religione cattolica, fatto dalla regina Maria e dal cardinale Polo.
Reduce in Italia, non cessò la domestichezza col Carnesecchi, con
Endimio Calandra, Pietro Martire, l'Ochino ed altri. Informatone il
Sant'Uffizio, sotto Pio IV fu arrestato a Venezia il 23 febbrajo 1561,
ma per istanze fatte dalla regina Elisabetta alla Repubblica, fu
disciolto. Sopravenuti nuovi e maggiori indizj alla Inquisizione romana,
il luglio 1566 fu preso a Padova, e condotto a Roma, confessò trentotto
capi d'eresia, professati fino dal 1537, onde fu condannato. Avendo però
fatto pubblica abjura il 20 maggio 1559 in Santa Maria sopra Minerva,
dategli penitenze, il giorno stesso che il Cellario fu messo a morte,
egli restò condannato alla prigione (dice il residente veneto) «parte
perchè dicono che per lui si ha avuto notizia di molte cose importanti,
parte perchè non è mai stato abjurato, e però non si può aver per
relapso, se ben ha continuato nell'errore tanti anni, e li canoni non
levano la vita a chi è incorso in errore per la prima volta».
Verso il 1568 molte lettere, nella corrispondenza del Bullinger,
raccontano dell'Inquisizione atrocità, quali la voce pubblica le
esagera. A Mantova essersi arrestato un parente del duca, e poichè
questo ne sollecitava la liberazione, avergli l'inquisitore risposto che
non riconosceva alcun duca nel suo uffizio: bensì mostravagli le chiavi
del carcere; se voleva, nel togliesse per forza: egli nol rilascerebbe
mai. A Roma (dicono) non va giorno che non si bruci, si soffochi, si
decolli; piene tutte le prigioni, e se ne devono fabbricare di nuove
sempre. Dopo bruciato il Carnesecchi, arrestaronsi il barone Bernardo di
Angola e il conte di Pitigliano, che sollecitati a lungo, alfine
abjurarono, e il primo fu condannato a carcere perpetuo, e alla multa di
ottomila coronati; l'altro a mille, e chiuso per sempre in una casa di
Gesuiti. Che a Valenza un nobile, denunziato per opinioni religiose, e
dopo lunga detenzione messo alla tortura, spirò fra i tormenti; del che
indignati, i cittadini insorsero, assalirono i preti, qual trucidando,
quale cacciando. Che a Milano un nobil giovane, accusato di luterano e
condannato alla forca, ebbe sentenza d'esservi tratto a coda di cavallo;
mezzo strangolato, perseverando a non ricredersi, fu arso a lento fuoco,
poi esposto ad essere sbranato dai cani[337].
Al 24 febbrajo 1585 il residente veneto a Roma informava d'una
_pubblicazione_ di diciasette inquisiti dal Sant'Uffizio, presenti molti
cardinali e grandissimo numero di persone. Degli inquisiti tre furono
mandati al fuoco come relapsi in manifeste eresie: altri come
fattucchieri e stregoni, che abusavano de' sacramenti per loro
scellerità, furono sentenziati alla pubblica esposizione, altre al
carcere e altre pene. Fra i condannati «alla morte di vivo fuoco»
contava Jacobo Paleologo di Chio, già domenicano, che errò lungamente
per Germania; in Transilvania fu rettore del ginnasio di Clausenburg, e
adottò gli errori di Buduy, unitario talmente eccessivo, che Fausto
Soccino medesimo lo riprovò. Arrestato per richiesta di Gregorio XIII,
fu il Paleologo menato a Roma, come fu vicino al patibolo domandò tempo
per riconciliarsi e venne ricondotto in prigione, ove si crede sarà
fatto morire senza il fuoco vivo. Degli altri due, uno fu strozzato,
come relapso ma pentito; l'altro «come pertinace morì nel fuoco a poco a
poco, con una continua fermezza alla presenzia di gran parte di questa
città».
Udimmo la Olimpia Morata deplorare la morte di Fannio. Nato a Faenza da
oscuri parenti, cominciò egli a studiare la Scrittura seriamente sopra
una traduzione, e ostentando i benefizj della parola di Dio, ne
disputava in tal guisa, che fu preso prigione dal Sant'Uffizio. Quivi
intenerito da colloquj colla moglie e la famiglia, ritrattossi e fu
messo in libertà. Ma ben tosto ne sentì tal rimorso, che risolse di
farne amenda col professare apertamente le nuove dottrine, e mosse per
la Romagna predicando senza velo; se gli fosse impedito di annunziare in
pubblico il Vangelo, sì lo faceva in secreti colloqui con chi volesse
ascoltarlo, beato quando potesse alcun convertire. Arrestato a
Bagnacavallo, fu condannato alle fiamme. Se non che mandato a Ferrara,
ebbe occasione di convertire altri, meno tormentato che non sotto i
Domenicani, talora veniva trattato meglio, talora peggio; quando solo,
quando in compagnia; pur sempre costante a soffrire per Cristo. Molti
andavano ad ascoltarlo, ed esso esortavali alla libertà de' figli di
Dio. La moglie, le sorelle tentarono di nuovo distrarlo dalle sue
convinzioni, ma egli rispondeva: «Il Signore non vuole ch'io rineghi lui
per il bene della mia famiglia».
Quando a Paolo III succedeva Giulio III, venne l'ordine di metter a
morte Fannio. A quel che gli recò l'annunzio, diede un abbraccio, e
ringraziandolo, «Io accetto con gioja la morte, caro fratello, per la
causa di Cristo»: e continuò a edificare i compagni coll'esporre la
felicità di un tal morire. Domandato a chi affidasse i suoi figli:
avesse compassione di essi e della sua cara moglie, rispose: «Li lascio
al miglior de' custodi, Nostro Signor Gesù Cristo». Offertagli la vita
se si disdicesse, professò non desiderare di sfuggir alla morte. E
continuava spiegando diversi passi della Scrittura, recitando sonetti
suoi sopra la giustificazione, e chiesto come mai fosse sereno mentre
Cristo soffrì le ambasce dell'agonia, «Cristo (ripigliava) nell'orto e
sulla croce soffrì le torture dell'inferno al quale noi eravamo
condannati. Ma dopo che egli tolse i peccati nostri, a me non resta che
a rallegrarmi, sicuro che la morte del mio corpo sarà passaggio ad
un'eterna vita».
Così parlava poco prima d'esser condotto sulla pubblica piazza di
Ferrara. Presentatogli un Crocifisso, disse: «Vi prego di non turbarmi
presentandomi un Cristo di legno, mentre io l'ho vivente nel mio cuore».
A ginocchi pregò divotamente e ardentemente Iddio di illuminare le
offuscate menti dell'ignorante moltitudine. Egli stesso accomodò il
capestro col quale doveva essere strozzato, e morì col nome di Gesù
sulle labbra, nel settembre 1550. Il suo cadavere fu bruciato dove ne
avvenne la morte.
Gli scritti che lasciò danno testimonio delle sue opinioni, colle
objezioni degli avversarj e le risposte di lui. E sono due trattati
delle proprietà di Dio, due della confessione, due del modo di conoscere
Gesù e il fedele dall'empio; cento sermoni sopra gli articoli della
fede, dichiarazioni sui salmi, dichiarazione su san Paolo, dispute
contro l'Inquisizione, consolazioni ai suoi parenti sopra i casi suoi,
avvisi delle cose della sua vita[338].
I Riformati, che ci conservarono il nome de' loro martiri, descrivono la
fierezza de' supplizj subiti da Domenico Cabianca bassanese, da frà
Giovanni Mollio professore di Bologna già detto. Pomponio Algeri di
Nola, arrestato a Padova, fece una luminosa difesa, allegando la
Scrittura e le Decretali contro gli errori della Chiesa romana; ma per
quanto i Veneziani bramassero salvarlo attesa la sua valentìa, fu
condannato ad arder vivo. Stando in carcere a Venezia, descrisse in una
bella lettera, la spirituale consolazione concessagli[339]. Francesco
Gamba di Como, convinto d'essere stato a Ginevra ed aver partecipato
alla sacra cena coi Riformati, fu condannato alla forca; prima
forandogli la lingua acciocchè non parlasse.
Goffredo Varaglia cappuccino piemontese, andato per convertire i
Valdesi, si lascia convertire invece da loro; addetto al legato papale a
Lione, lo abbandona per passare a Ginevra, donde muove a predicare il
Vangelo nella Val d'Angrogna. Côlto, fu tradotto a Torino, e ucciso il
29 marzo 1588; e nel suo processo è detto, tante essere le persone a lui
consenzienti, che l'Inquisizione non avrebbe abbastanza legna per
bruciarle.
Bartolomeo Bartoccio, che ritirato a Ginevra, professava in pace la
Riforma, come mercante capitava a Genova, dove conosciuto, fu arrestato
e arso a Roma, e morendo esclamava _Vittoria, Vittoria_.
A Piacenza nel 1553, Paolo Palazzo cantore, propenso ai Luterani, fu
tratto in carcere a San Domenico, e dopo alquanti giorni liberato per
favore di molti. Nel 1557 l'inquisitore carcerò Matteo Dordono e
Innocente Nibbio notaj, che pentiti, fecero pubblica amenda e penitenza,
e tornarono _con gran disonore_ a casa. Taddeo Cavalzago, citato per
luterano, fuggì a Ginevra, sicchè restò bandito. Prete Simone ch'era
vissuto seco lungamente, arrestato e cercando fuggire di carcere si
ruppe una coscia, e dovette far penitenza de' suoi errori. Alessandro
Cavalgio fu preso per aver tratto di convento una sorella e maritatala.
Altri assai nobili si scopersero fautori dell'eresia, e ne pagarono il
fio; molti esularono, e i loro beni furono attribuiti al principe. Nel
1558, prete Riccio, che avea conversato, mangiato, bevuto con Luterani e
ajutatili a fuggire, s'un palco fu sferzato dall'inquisitore frà Valerio
Malvicino, e dovette palesare quanto aveva operato contro i decreti del
sommo pontefice; seco due altri cittadini: Giuseppe De Medici, pure
sferzato, confessò ciò che avea creduto o fatto di contrario alla
cattolica fede; e un notajo Giuseppe, di avere scompisciato la pila
dell'acquasanta, ferito di spada alcune divote immagini e le braccia e
coscie di san Rocco[340].
Somiglianti processure potremmo indicare in tutte le città d'Italia, e
ce ne verrà la trista opportunità. In Lombardia si rese tremendo frà
Pietro Angelo da Cremona; tra le cui vittime ricordano Francesco
Cellario di Mantova figlio di Galeazzo, minorita dell'Osservanza, che
già era stato inquisìto a Pavia. Milano era sottoposta alla Spagna, che
cercò introdurvi la sua inquisizione; ma la città deputò alti personaggi
al re, al Concilio di Trento, al papa, e ottenne di non aggiungere
questo agli altri mali ond'era oppressa. Bensì vi fu piantata
l'Inquisizione alla romana, ed una compagnia di quaranta cavalieri,
portanti una croce in petto e aventi a capo il padre inquisitore, nel
giorno di san Pietro Martire adunavasi nel suo oratorio, e al vangelo
tutti sguainavano le spade, in segno di zelo e di costanza nel tener
pura e propagare la fede e obbedire ciecamente al Sant'Uffizio; durarono
fino al 1770. Compagnie consimili si formarono dapertutto, e con zelo
indiscreto non solo investigavano l'eretica pravità, ma la trascuranza
delle pratiche religiose; fiutavano le cucine al venerdì; sofisticavano
ogni parola sfuggita ai professori; insomma avviavano ai procedimenti
delle polizie odierne; superiori a queste solamente in quanto
supponevano andarne di mezzo non l'interesse momentaneo d'un principe o
d'una fazione, ma la salute delle anime.
San Carlo, da Roma il 10 dicembre 1563, scrive al doge di Genova che
procuri l'arresto di frate Antonio da Cortemiglia conventuale,
grandemente sospetto d'eresia. In questa città l'Inquisizione era già
stabilita nel 1253, quando mandò a morte maestro Luco. Tre anni dopo,
frate Anselmo capo inquisitore pubblicò certe provvisioni contro gli
eretici, le quali volea facessero parte degli statuti della repubblica,
e perchè i consoli ricusavano, egli obbligolli, minacciando di scomunica
la città. Più tardi vi fe scuola Lucilio Vanini, e pare da lui
apprendesse Cesare Conte pittore, che catturato dal Sant'Uffizio il
1632, moriva nelle segrete del palazzo ducale.
I buoni uomini della valle di Chamonix, a' piedi del Monbianco, nel 1462
condannarono al fuoco diverse persone, accusate d'eresie, d'apostasia,
di magia, e una donna che avea avuto commercio carnale col demonio, fu
fatta sedere per tre minuti s'una lastra rovente, poi data al fuoco. A
Ciambery i frati mendicanti non poteano andar in volta senza sentirsi
fischiare e fin battere.
Altra lettera di san Carlo del 15 aprile 1575 ci informa che il vescovo
di Vercelli fu tacciato d'eresie per una pastorale dove esortava il suo
popolo all'orazione della sera: ma attesta de' buoni sentimenti di esso,
e si consola che l'accusa siasi volta contro uno scritto, giacchè le
parole dette a voce possono facilmente riferirsi alterate; e ritiene che
il santo padre non solo non l'imputerà, ma cercherà gli autori
dell'accusa per punirli.
L'Inquisizione ne' paesi del Piemonte fu moderata da Emanuele Filiberto,
volendo che le sentenze non sortissero effetto se non col concorso del
senato, dopo udito il pubblico ministero, ma la prescrizione cadde in
dimenticanza. Esso Emanuele Filiberto fece prescrizioni minute e
rigorose per l'osservanza de' precetti della Chiesa: si trasferiscano in
città i monasteri femminili sparsi in campagna; non si permettano
canzoni lascive nè contro l'onore e lo stato degli ecclesiastici: al
tempo stesso che metteva un economato pei benefizj vacanti, e facea gli
ecclesiastici concorrere alle pubbliche gravezze.
In Sardegna, Valente arcivescovo di Cagliari verso il 687, in un'opera
_De erroribus hodierna tempestate grassantibus_, tolse a provare che
erasene sempre conservata immune quell'isola[341]. E tale durò: ma verso
il 1560 s'ha memoria d'un processo fatto a Sigismondo Arquer
cagliaritano, avvocato del fisco, per opinioni religiose, d'ordine
dell'arcivescovo Parraques; risultò innocente, pure non si desistette
dal perseguirlo, ond'egli credette cercar salvezza in Ispagna. Ma quivi
come luterano dogmatizzante venne preso dall'Inquisizione di Toledo, e
morto con altri nell'Atto di fede del 1571. Abbiamo di lui _Sardiniæ
brevis historia et descriptio_[342], alla cui fine si legge che colà
_sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud
monachos, inveniatur qui latinam intelligat linguam. Habent suas
concubinas, majoremque dant operam procreandis filiis quam legendis
libris._
Sarebbero queste parole la causa o l'impulso del suo processo?
Mentre noi andiamo spigolando con improba fatica avrebbe un'abbondante
messe chi potesse cercare gli archivj del Sant'Uffizio a Roma. Ai giorni
nostri furono spalancati per violenza due volte; durante il dominio
francese dopo il 1810, poi nella rivoluzione del 1848, eppure nessuno
seppe trarne profitto per la storia e per la verità. Finchè ad altri ciò
sia concesso, ci siam valsi e ci varremo di frà Caracciolo, che
scrivendo una vita di Pio IV, rimasta manoscritta, potè aver sottocchio
i processi di quel tribunale. Perpetuo lodatore di questo, e inesorabile
cogli erranti, qui gli cediamo le parole perchè riferisca molti fatti,
che in tono diverso noi abbiamo divisati. Parlato dunque di quanto
avvenne in Venezia e a Milano, prosegue:
«Como, come più vicino a' paesi settentrionali, solea essere tragetto di
eretici, perciocchè da Germania mandavano balle di libri eretici, come
si scuoprì poi nel 1549 per mezzo del Santo Ufficio di Roma, e di frà
Michele Ghisliero, perciocchè si trovarono molte balle di libri mandate
da Germania per spargerle in Como, Cremona, Vicenza, Faenza, San
Ginesio, e in Calabria: al che fu rimediato opportunamente dal Santo
Officio di Roma con porre in ogni città valenti e zelanti inquisitori,
servendosi anco talora di secolari zelanti e dotti per ajuto della fede,
come dell'Odescalco in Como, del conte Albano in Bergamo, del Muzio in
Milano, Pesaro, Venezia e Capo d'Istria, ecc. Questa risoluzione in
servirsi de' secolari fu presa, perchè non solo molti vescovi e vicarj e
frati e preti, ma anco molti delli stessi inquisitori erano eretici,
come confessò il Vergerio, quando nella prima esamina fu malamente
assoluto da loro.
«Furono per molti anni in Bergamo alcuni principali eretici, o veri, o
sospetti, processati di eresia: _in primis_ Vittorio Soranzo vescovo di
Bergamo, il suo vicario, il prevosto chiamato don Nicolò Assonica, e
altri di minor conto; il vescovo in particolare fu tenuto per eretico
fino, e fu quello, che ebbe ardire di mandar gente armata per carcerare
frà Michel Ghisliero, allora inquisitore in quelle parti, il quale aveva
solennemente formato un processo contro di lui, molto prima sospetto.
Questo vescovo già un pezzo fa aveva incominciato ad infettare la sua
città e diocesi, e se il Santo Ufficio di Roma non l'avesse fatto
processare, non bastava forza veruna a reprimerlo, perciocchè era egli
potentissimo in Venezia e in Bergamo; ma il Santo Officio per mezzo di
frà Michele lo processò, e avutolo nelle mani lo carcerò nel castel
Sant'Angelo; alla fine convinto d'eresia fu privato del vescovado, e si
morì in Venezia infelicemente. N'ebbe tanto piacere il cardinal teatino
(Caraffa), che costui fosse stato processato, che di qua cominciò a
porre affezione a frà Michele Ghisliero, e ad esaltarlo in modo tale,
che di poi fu papa.
«In Modena gli eretici fecero più faccende che in nissuna parte
d'Italia. Quivi fu il vicario del cardinal Morone, chiamato Bianco de
Bonghis, molto sospetto d'eresia. Vi fu Antonio Gadaldino libraro
modenese, eretico marcio con tutta la sua famiglia. Vendè costui molti
volumi _Del beneficio di Cristo_, libro pernicioso, che insegnava la
giustificazione _ex sola fide et ex merito Christi imputativo_ alla
luterana. Questo è quel libro così caro agli eretici, che fu da loro
stampato molte volte, e il detto Gadaldino non solo lo vendè, ma anco lo
ristampò. Vi fu Bonifazio Valentino modenese eretico, a cui scrisse
Adriano, segretario del cardinal di Fano, una lettera di condoglianza
per la morte di Lutero, e per la morte di due frati in Modena, chiamati
frà Reginaldo, e frà Alasio eretici. Il Santo Officio ebbe in mano
questa lettera, e processò il detto Adriano segretario. Questo Bonifacio
manteneva commercio con i Tedeschi eretici, da' quali aveva appreso
lettere, ed egli fu che infettò la terra di Nonantola. Vi fu Alessandro
Milano modenese, luterano anch'egli; vi fu un frà Bernardo Bertoli,
predicatore pernicioso, mandato a Modena a predicare per opera di Luigi
Priuli e dal cardinal Polo e dalla marchesa di Pescara. Fu detto ch'era
discepolo del cardinal Polo, per il che tutti tre ne furono processati,
e il detto frà Bernardo ne stette carcerato in Roma, ed abjurò. È vero
che Morone fu inquisito anch'egli come vescovo di Modena, perchè
l'avesse mandato a predicare nella sua Chiesa; ma esso si salvò
scusandosi che il cardinal Polo ed il Priuli gliel'avevano approbato. In
Modena fu parimente dal cardinal Morone mandato a predicare un frà
Bartolomeo Pergola. Costui, per opera del Soranzo vescovo di Bergamo fu
invitato a Roma, che andasse a parlare a Morone: Morone l'invitò a
pranzo, ragionò con lui, e lo conobbe per luterano: ebbe in Roma il
libro _Del beneficio di Cristo_ da un certo Guido da Fano: predicò molte
eresie a Modena, ma poi Morone l'indusse a ritrattarsi. Di questo
Pergola fa menzione il Muzio in una lettera che scrisse al cardinal di
Carpi e al cardinal di Napoli, cioè al nostro Caraffa sommo inquisitore,
ed a Lattanzio Fosco suo auditore, avvisando loro che costui, che era
frate de' conventuali di San Francesco e valente predicatore, era
capitato quell'anno a Pesaro, e che nove anni prima, cioè nell'anno
1542, quando appunto in Roma fu fondato il Santo Officio, aveva
predicato cose scandalose in Modena, ma che si scusava dicendo che il
suo predicare era stato approbato dal Miranda, lettore di teologia, e
dal Beccadello inquisitore; con tuttociò fu fatto ritrattare in pulpito:
e il Muzio facendo buon giudizio di lui, non gli fu data altra pena, che
privarlo per nove anni della predica. Il cardinal Cortese modenese,
ancorchè religioso benedettino di grande stima per bontà e per lettere,
fu nondimeno senza rispetto alcuno inquisito dal Santo Officio per aver
letto e approvato il libro _Del beneficio di Christo_. Fu anche in
Modena un prete Domenico Morando, maestro di casa del cardinal Morone,
eretico e fautore degli eretici: vi fu un Francesco Camerone, e un
chiamato Farzirolo modenese, processati di eresia: vi fu il prete
Gabriel Faloppia, eretico luterano pessimo, e un altro detto il Gozapino
calzolaro, e D. Girolamo Regio prete modenese, eretici, e Ludovico
Castelvetri modenese eretico, che se ne fuggì in Germania. Vi fu
un'accademia tutta infetta, de' quali era capo un cappellano di Morone
eretico, detto don Girolamo di Modena: vi furono Giovanni Borgamazza e
Giovanni Bertano modenesi eretici; mastro Giovanni Maria Manelli con
altri molti sospetti di eresie. Erano costoro di tanto numero e potere,
che mandavano ajuto di denaro a quei di Germania. Qui finisco di dire
della città di Modena, di cui fu vescovo il cardinal Morone sospetto,
processato, e carcerato tant'anni per molti e gravi capi di eresia, se
bene fu assoluto poi a tempo di Pio IV. Circa quel libro _Del beneficio
di Christo_, oltre quello che n'ho detto di sopra, fu il suo autore un
monaco di San Severino in Napoli siciliano, e discepolo di V. Valdes; fu
revisore di detto libro il Flaminio, anch'egli gravemente infetto; fu
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