Gli eretici d'Italia, vol. II - 30

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in quel regno; come anco in Sassonia i teologi, interpretando malamente
il fuoco che si vide il dì degli Innocenti nel cielo per tutte quelle
provincie, predicavano alli popoli che Dio li minacciava, perchè non
custodivano bene la purità del Vangelo rivelata a loro, e che il Papa,
il Turco ed il Moscovita ne farebbono la vendetta, se non si emendavano,
e ciò hanno anche scritto e stampato, con la forma del medesimo fuoco
che ivi pubblicamente si vedeva, ed io n'ebbi una con queste parole a
Wirtemberg: il che scrivo a vostra signoria illustrissima acciocchè
conosca da questo ancora la perversità di costoro, che non si contentano
di ridurre tali segni alle cause naturali senza rivolgersi punto a Dio,
ma gli alterano nel medesimo modo che le Scritture, contro l'autore
d'essi segni e Scritture, cercando con ogni via di confermare
gl'infelici popoli nell'eresia».
[201] Matteo, XXIII, 3.
[202] Marco Mantova Benavides, dotto giureconsulto e professore a
Padova, scrisse un libro _Del Concilio_, dove esamina quali persone
abbiano diritto d'intervenirvi, e che qualità ad esse convengano;
deplora che molti cardinali e prelati sì poco intendano di studj, o
soltanto di filosofia e lettere, anzichè di canoni e scritture; esamina
poi i varj Concilj precedenti, e quistiona se il Concilio sia superiore
al papa. E benchè non risparmiasse i disordini degli ecclesiastici, ebbe
lodi da Paolo III e applausi da Roma.
[203] _Nell'Ordo et modus in celebratione sancti et generalis concilii
tridentini observatus, a r. p._ ANGELO MAZZATELLO _ejusdem concilii
secretario descriptus_, parlando _de congregationibus generalibus_, è
scritto: _Licet unicuique quam maluerit summa libertate opinionem vel
tueri vel destruere, dummodo ea quæ catholicum decet dicatur et tandem
confirmetur. Evenit aliquando ut, aliquo minus catholice loquente, multi
assurgerent conclamantes, Hæc non sunt dicenda, Hæc hæresim sapiunt vel
similia: usque adeo ut nonnumquam aliquibus clara voce dictum fuerit:
Iste est hæreticus, Iste debet a congregatione expelli. Quæ verba fuere
summa ratione ab illustrissimis Legatis reprehensa, ne libertas loquendi
patribus adempta esse videretur_.
[204] GRADONICO, _Brixia sacra_, p. 366.
[205] Mantova, 1567. Questo Zanchino era stato inquisitore nell'Emilia
il 1302, e morì il 1340. Dice: «Per più spedita istruzione del religioso
ed onesto frà Donato di Santa Agata minorita, inquisitore nella
provincia della Romagnola, che, occupato nelle cose divine, e insistendo
agli studj delle sacre carte, non può attendere alla dottrina del
diritto canonico e civile, per poter più di questi pienamente essere
istruito, e sapere quel che convenga senza sviare dalla scienza della
giustizia nelle sentenze o nel processo, io Zanchino di Ugolino, senese
della porta di San Pietro d'Arimino, minimo avocato, figlio spirituale e
devoto di esso signor inquisitore, feci questo compendioso trattato
sopra gli eretici, ecc.» Vedi QUETIF.
Il Campegio fece pure un'opera _De privata potestate rom. pontificis
contra Matthiam Flacium Illyricum_, stampata solo nel 1697. Anche
Vincenzo Patina di Quinzano (-1575) scrisse _Fragmenta contra hæreses_
(Mantova, 1557), e le altre cose lodate.
[206] LAGOMARSINI nelle note al Poggiano, maestro di san Carlo, che fu
poi cardinale.
[207] Principale sostenitore dell'immacolata Concezione fu il ripetuto
cardinal Polo col cardinale Pacecco.
[208] Merito chiamano i teologi la bontà naturale o soprannaturale delle
azioni dell'uomo, e il diritto che egli acquista per esse ai premj
divini, in grazia delle divine sue promesse. Si dà merito di condegnità,
quando c'è una proporzione fra il valor dell'azione e la ricompensa
annessavi: altrimenti non c'è che merito di convenienza (_de congruo_).
Quello non può fondarsi che s'una promessa formale di Dio, questo sulla
fiducia nella sua bontà, mera grazia e misericordia (San Paolo _ad Rom_.
VIII, 48).
Daniele dice a Nabucco: «Riscatta colle limosine i tuoi peccati». Qui
s'avrebbe un altro merito; il perdono delle colpe qual guiderdone delle
buone opere. Così è scritto che Dio fece del bene alle levatrici
egiziane perchè lo temettero (_Exod._ I, 20). Secondo san Giacomo, la
meretrice Raab fu giustificata per le sue buone opere (_Ep._ II, 25). In
questi ed altri casi non v'era condegnità o proporzione fra le opere e
il premio, e nemmen promessa: è la bontà di Dio che non volle lasciarle
senza premio: era merito di convenienza.
L'uomo non può meritar la prima grazia attuale, altrimenti essa sarebbe
premio d'azioni fatte senza di essa e meramente naturali. Nemmeno la
prima grazia abituale può essere meritata _de condigno_; ma può l'uomo
meritarla _de congruo_ per via d'opere buone fatte col sussidio della
grazia attuale. Sant'Agostino insegna che il dono della perseveranza non
può l'uomo meritarlo _de condigno_, perchè Dio non l'ha promesso ai
giusti: ma i giusti posson meritarlo _de congruo_ colle preghiere e la
fiducia.
[209] L'Ochino scrive: «Io mi ricordo che, trovandomi a Roma, il
cardinale Contareno da Spira aveva scritto al papa e a certi cardinali
come infra loro cattolici avevano accettato l'articolo della
giustificazione per Cristo, ma non già confessato alli Protestanti: e
che desiderava sapere se lor pareva che pubblicamente l'accettassero.
Ora il cardinal Fregoso mi disse: Domani si farà concistoro, e si
proporrà lo articolo della giustificazione per Cristo; saremo da
cinquanta cardinali, delli quali almanco trenta non sapranno che cosa
sia questa giustificazione; e degli altri venti la maggior parte la
impugneranno; e se qualcuno la vorrà difendere sarà tenuto eretico».
Sicchè si può vedere che cosa è la nostra chiesa, poichè nel supremo
tribunale, dalli primi capi, si ha a propor per cosa dubbia il primo e
principal articolo della fede, e di più sarà rifiutato».
_Risposta di messer Bernardino Ochino alle false calunnie e impie
bestemmie di frate Ambrosio Cattarino_, 1546.
Gran rumore si mena di tale asserzione, ma a noi non pare vedervi che un
de' paralogismi soliti nelle polemiche. È di fatto che i Padri stavano
indecisi sui termini, paventando di restar sorpresi per qualche parola
sfuggita o frantesa. Nell'epistolario di Reginaldo Polo v'è una lettera
che Nicolò Ardinghello, a nome del cardinale Farnese, scrive al
Contarini; aver il papa ricevuto la conclusione fermata fra sei
deputati, sopra la giustificazione, e non l'aver letta in concistoro
perchè esso Contarini avea raccomandato di tener secrete queste
trattative, onde non turbare la concordia. Sua santità considerava che
le risoluzioni del colloquio non faceano autorità e sono _citra
conclusionem_, ma pure guardasser bene di non lasciarsi sfuggire cosa
cui potessero appigliarsi gli eretici; si cercasse che «le parole debbin
in ogni cosa essere ben chiare e non comuni a più sensi»; che «li
articoli siano boni di senso e chiari nel parlare; nè sotto speranza di
concordia si lasci trasportare non solo ad acconsentire in quanto al
senso ad alcuna determinazione che non sia del tutto cattolica, ma
_etiam_ nella esplicazione delle parole fugga ogni dubbietà, e non
comporti che si pretermetta di esprimere il tutto, e tanto chiaramente
che non vi sia pericolo di esser gabbato dalla malitia degli avversarj».
Il Laynez nell'opera _De imputatione justitiæ_ (Trento 1546)
conchiudeva: _His itaque dictis circa ipsam decreti doctrinam, addam me
vehementer desiderare ut, in publica atque ordinaria synodo, huic
negotio justificationis imponatur extrema manus: atque ob id præsertim,
quia cum ego, sicut et alii generales, jam missurus sim permultos
concionatores ad varia Italiæ loca, vellem ut ex præscripta formula idem
omnes de justificatione dicerent._
[210] Sess. XIV, c. 8. È la frase di sant'Agostino, che Dio corona i
proprj doni coronando il merito de' suoi servi.
Vedasi il nostro vol. I pag. 309.
[211] Il dottore Pusey, nella recente famosa sua lettera «La Chiesa
d'Inghilterra porzione della una, santa, cattolica chiesa di Cristo, e
mezzo di restituirne la visibile unità, Irenicon ecc., Londra 1866»
dice: «Quanto alla giustificazione, non v'è un solo capitolo del
Concilio di Trento che noi Anglicani non siamo tutti disposti a
sottoscrivere, nè alcun anatema d'esso Concilio su tal proposito che
contraddica alla dottrina della Chiesa anglicana». E soggiungeva:
«Paragonando la mia credenza con quella esposta dal Concilio di Trento,
fui persuaso che le espressioni di cui si valse, colle spiegazioni di
dottori cattolici, private bensì ma autorevoli fra' Cattolici, non
condannino quel ch'io credo, nè esigono ch'io ammetta cose che non
ammetto... Nulla vi ha che non possa essere spiegato in modo
soddisfacente per noi, qualora tale spiegazione ci venga data con
autorità; cioè non solo da semplici teologi, ma dalla medesima Chiesa
romana».
Ma poi inveisce contro la Chiesa cattolica con pregiudizj vulgari: il
primato del papa deriva non da diritto divino ma da ecclesiastico: vuol
distinguere nella Chiesa un insegnamento _dottrinale_, ch'e' loda e
riconosce, e un _sistema pratico popolare_, fonte di superstizioni e
assurdi e in contraddizione col primo, e che trova quasi autoritario e
idolatrico, e causa perchè i Protestanti stiano lontani dalla Chiesa
cattolica.
Non è così. Il papa crede quel che crede l'infimo de' Cattolici: la
Chiesa, attenta a condannare ogni errore, non tollererebbe certo un
sistema pratico, opposto all'insegnamento dottrinale.
[212] Se con Lutero si ammette che i sacramenti danno la grazia
unicamente coll'eccitar la fede, ne consegue che pari virtù possedessero
anche quelli della legge antica, i quali invece erano puro segno della
grazia, mentre quelli della nuova la contengono e la producono.
[213] La comunione sotto le due specie era domandata con instanza da
molti paesi, ed anche dalla Francia: talchè, nel pericolo di perder un
tanto paese, inclinavasi a condiscendere. Ma li cardinali spagnuoli vi
si opponevano: il cardinale Sant'Angelo diceva sarebbe un dar a'
Francesi un calice di veleno, e ch'era meglio lasciarli morire, che dar
rimedj tali: il cardinale della Cueva, che, se l'autorità della santa
sede il concedesse, egli andrebbe sulla scalea di San Pietro a gridar
misericordia: il cardinale Paceco rifletteva che adesso francesi,
tedeschi, spagnuoli vanno alle medesime chiese, mentre allora, variando
in rito sì principale, si troverebbero separati, e ne verrebbe scisma e
nimicizia. Il cardinale Alessandrino (frà Michele Ghislieri) argomentava
che il papa nol poteva concedere; non perchè glie ne mancasse
l'autorità, ma per incapacità di quei che domandavano tal grazia.
Perocchè, o questi tengon per necessario il calice, o no. Se no, a che
volere dare scandalo colla differenza? Se sì, dunque son eretici e
incapaci di grazia. Il ricever il calice credendolo necessario è male
ereticale: e il papa non può dar facoltà di fare il male. Il cardinal
Rodolfo Pio di Carpi rifletteva che, ottenuta questa domanda, Francia ne
poserebbe un'altra, e il matrimonio de' preti, e l'uso della lingua
vulgare ne' sacramenti, ed altre materie, che tutte aveano altrettanta
ragione. In fatti il papa stette al niego.
[214] È perentoria la sentenza della sess. XXIV, cap. _de Reformatione_.
«Coloro i quali, altrimenti che alla presenza del parroco o d'altro
sacerdote, autorizzato dal parroco istesso o dall'ordinario, e di due o
tre testimonj, si attenteranno di contrarre matrimonio, la santa sinodo
li rende del tutto inabili a contrarre in tal guisa, e siffatti
contratti decreta esser irriti e nulli».
Dunque _in faccia alla Chiesa_ non esiste matrimonio se non è contratto
nella forma prescritta da essa; mentre oggi in Italia la legge non
riconosce se non l'atto civile. Che il matrimonio non sia sacramento, ma
semplice contratto civile, lo sostenne principalmente, fra i nostri, il
De Dominis. Contro del quale e del Lannoy cominciò un trattato il famoso
Gerdil, mostrando che la sua natura intima ed essenziale, come la
istituzione, distinguono il matrimonio dai contratti civili e naturali.
Fu pubblicato postumo nel 1803, e riprodotto nel 1860 allorchè tal
quistione rinacque.
[215] Sant'Agostino definisce la Chiesa _populus fidelis per universum
orbem dispersus_. Dopo lo scisma orientale, fu definita l'assemblea di
persone unite dalla professione della fede cristiana e dalla
partecipazione agli stessi sacramenti, _sotto la suprema condotta del
papa, primo vicario di Cristo_. Le parole in corsivo sono taciute dalla
Chiesa greca. La protestante chiamasi congregazione dei santi, in cui il
Vangelo rettamente s'insegna, e rettamente s'amministrano i sacramenti.
_Confessio Augustana_, art. 7. I Sociniani dicono, la Chiesa visibile è
l'adunanza di quegli uomini che tengono e professano la dottrina
salutare. _Catechismo Cracoviano_ pag. 108.
[216] È il preciso opposto del razionalismo del XVIII secolo, e per
esempio di Tollotson o di Buttler, che dicevano: Chi desidera veramente
far la volontà di Dio, non può lasciarsi ingannar da vane pretensioni di
rivelazione. Se gli si propone una dottrina come venuta da Dio, esso _la
giudica_ secondo le cognizioni che possiede della natura divina e delle
sue perfezioni; vi è conforme? la ammette. Altrimenti la repudia, se
anche un angelo calasse dal cielo per fargliela accettare.
[217] G. Volkmar, nel _Zeitschrift für wissenschaftliche Theologie_,
1861, parlando delle epistole canoniche, sostiene che i libri di Enoch
non comparvero se non verso il 132 d. C. In conseguenza le due epistole
di san Pietro e quella di Giuda che li citano son posteriori, e vanno al
145: Papio, che si serve della prima epistola di san Pietro, non potè
scrivere avanti il 155-170: e perciò cade la testimonianza sua a favore
de' libri di san Giovanni. E così via. Ma il libro del profeta Enoch,
opera apocrifa, tenuta molti secoli per perduta, fu scoperto in
Abissinia al fine del secolo scorso, e tradotto s'un manoscritto etiope
della biblioteca Bodlejana (Oxford 1821), e n'è dimostrata
l'anteriorità. Vedi dott. RICARDO LAWRENCE, _Mashasa Enoch Naby the
booky_ ecc., e il Ghiringhello nella _Vita di Gesù Cristo_ p. 413. Il
vero è che l'autenticità dell'epistola di san Giuda non dipende per
nulla dall'età del libro di Enoch, giacchè non lo cita come libro, nè
dice scriptum est: ma cita solo parole che la tradizione attribuiva ad
Enoch, e che poterono passare nell'apocrifo di Enoch, togliendole dalla
stessa tradizione, e fors'anche dalla lettera di Giuda che le avea
registrate.
[218] La distinzione de' libri in antico e nuovo Testamento fu fatta da
Tertulliano, appoggiandosi a san Paolo che scrive: _In lectione veteris
Testamenti: idoneos ministros nos fecit novi Testamenti._ Ad Corint.
III, 14, 6. Il greco dice διαθήκη, voce equivalente all'ebraica
_berith_, che significa o taglio o alleanza o economia. Quarantasei sono
i libri del Vecchio Testamento, cioè _Genesi, Esodo, Levitico, Numeri,
Deuteronomio, Giosuè,_ il libro de' _Giudici, Rut,_ il primo e secondo
di _Samuele_, il primo e secondo de' _Paralipomeni_, il libro d'_Esdra_,
il libro di _Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe,_ il _Salterio_, i
_Proverbj_ di Salomone, l'_Ecclesiaste_, il _Cantico de' Cantici_, la
_Sapienza_, _l'Ecclesiastico, Isaia, Profezie e lamentazioni di Geremia,
Baruc, Ezechiele, Daniele, Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea,
Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zacaria, Malachia,_ primo e secondo de'
_Macabei_.
I libri del Nuovo Testamento son ventisette: cioè _I quattro evangeli, I
fatti apostolici, Le quattordici epistole di Paolo, Le sette lettere
cattoliche,_ una di san Giacomo, due di san Pietro, tre di san Giovanni,
una di san Giuda o Taddeo, l'_Apocalisse_.
Questa serie è data già dal Concilio III Cartaginese del 397, e
riprodotta dal tridentino, che non pose divario pe' libri
deuterocanonici.
[219] _Ad Ephes._ v, 27; _Apoc._ XXI, 27.
[220] Nel vangelo di san Matteo XII, 32 si dice che «a quello che avrà
parlato contro lo Spirito Santo non fia rimesso nè in questo secolo nè
nel futuro». Dunque ci ha peccati che saranno rimessi nell'altra vita.
Sant'Agostino, oltre quel che ne riferiamo alla nota 7 del discorso XV,
ha un trattato _de cura pro mortuis gerenda_: nella Città di Dio S. XXI,
c. 24 scrive: _Pro defunctis quibusdam vel ipsius ecclesiæ vel quorundam
piorum exauditur oratio:_ nell'Enchiridion § 29, c. 110: _Cum sagrificia
sive altaris, sive quarumcumque eleemosynarum pro baptizatis defunctis
omnibus offeruntur, pro valde bonis gratiarum actiones sunt: pro non
valde malis, propitiationes sunt; pro valde malis, etiamsi nulla sunt
adjumenta mortuorum, qualescumque vivorum consolationes sunt._
Vedi VINCENZO DE VIT, _Come si possa difendere la Chiesa cattolica nelle
sue preghiere pei defunti, incriminate dagli eterodossi._ Prato 1863.
[221] Sess. XXV, cap. 3. _Et quamvis in honorem et memoriam sanctorum
nonnullas interdum Missas Ecclesia celebrare consueverit, non tamen
illis sacrificium offerri decet, sed Deo soli qui illos coronavit; unde
nec sacerdos dicere solet o offero tibi sacrificium, Petre vel Paule,
sed Deo de illarum victoriis gratias agens, eorum patrocinia implorat:
ut ipsi pro nobis intercedere dignentur in cœlis, quorum memoriam
facimus in terris._
[222] Eppure uno dei campioni d'allora, il Gerson, così poco favorevole
al primato romano, dichiara eretico _eum qui negaret statum papalem
institutum esse a Deo supernaturaliter et immediate, tamquam habentem
primatum monarchicum et regalem in ecclesiastica hierarchia._ (_De statu
ecclesiæ_ cons. 1). È forse la formola più comprensiva, e da preferirsi
anche a quella del Bellarmino.
[223] BOSSUET, _Hist. des variations_, lib. XV.
[224] Dianzi a Trento celebrò il terzo centenario di quel sinodo, e a
Roma fu coniata una medaglia coll'iscrizione CONCILIVM MAGNVM TRIDENTI
INCOATVM AN. MDXLV ABSOLVTVM ANNO MDXLIII ECCLESIÆ SALVS. RX AN.
MDCCCLXIII TRIDENTI TERTIIS FESTIS SÆCVLARIBVS.


DISCORSO XXXI.
LA RIFORMA MORALE E DISCIPLINARE.

Ogni albero dee portar frutti, ogni dottrina esercitare efficacia sugli
atti degli uomini; altrimenti non evita lo sprezzo, destinato alla
sterile in Israele. Se primario uffizio del sacerdote è combattere il
vizio e la miscredenza, duopo è ch'egli possieda molta dottrina, e
insieme porgasi modello di virtù. La superbia di non volere dar ragione
ai dissidenti non distolse i Cattolici dal confessare la depravazione
insinuatasi nel clero, e volere l'emenda morale, e che il sentimento
religioso prevalesse alla classica idolatria nelle arti, nelle dispute,
nelle lettere, nella vita. Nessuna sessione del Concilio passò senza
decreti di riforma per restituire, come la chiarezza della dottrina,
così la purezza delle opere. Furono dichiarati per l'avvenire irriti e
nulli i matrimonj clandestini, o senza la presenza del parroco e di
testimonj, prescrivendo a tal uopo di premettervi le tre pubblicazioni;
vietato l'ordinare chi non possedesse benefizio o patrimonio sufficiente
a sostentarsi; condannati i questori e spacciatori d'indulgenze, le
quali non devono pubblicarsi che dai vescovi; siano gratuite la
collazione degli Ordini, le dispense, le dimissorie; obbligata la
residenza, e perciò impedita la pluralità di benefizj curati; su questi
nessuno sia messo prima dei venticinque anni, nè a dignità in chiesa
cattedrale prima dei ventuno, e previo sempre un esame; con decoro e
disinteresse si compia il sagrifizio dell'altare[225]: delle rendite di
cattedrali e collegiate un terzo si eroghi in giornaliere distribuzioni
a quei che intervengono agli uffizj; i vescovi ogni anno, o al più ogni
due, visitino le chiese della loro diocesi, esaminando quanto vi
occorre, e provedendo, oltre la cura delle anime e la correzione de'
costumi, che sugli edifizj e agli arredi sacri si facciano i necessarj
restauri; abbiano ciascuno un seminario, e ne' sinodi provinciali e
diocesani estirpino i resti delle superstizioni e delle indecenze.
Così non rendevansi santi i pastori, opera più che d'uomo; ma veniva
appurata e chiarita la coscienza del loro debito pastorale; e la scelta
e gli uffizj e tutte le relazioni fra sacerdoti e fedeli erano
ricondotte sotto l'impero di sante leggi. Anzi, al vedere quei decreti,
si direbbe che i pii riformatori si fossero lusingati di tornare il
mondo all'apostolica purità, neppure evitando gli eccessi che possono
guastar le cause migliori. Nel fatto una tale riforma toglieva alla
falsa i pretesti, e secondo la frase del padre Ventura, «ne distrusse
teologicamente l'impero».
Trattossi pure di quella de' principi, ma vivo contrasto opposero gli
ambasciatori; onde bisognò limitarsi ad esprimere che confidavasi
restituirebbero alla Chiesa le ragioni sue, non ne esigerebbero gabelle
o decime, indurrebbero i sudditi a riverire il clero, non
permetterebbero che ufficiali e inferiori magistrati violassero le
immunità della Chiesa e delle persone; sudditi e principi obbediranno
alle costituzioni del papa e de' Concilj, e a quelle che tutelano la
libertà ecclesiastica; non pretenderanno di sottoporre all'_exequatur_
le bolle pontifizie; l'imperatore, i re, i principi e tutti venereranno
le ragioni ecclesiastiche, in modo che i cherici possano stare alla
residenza ed esercitare i loro ufficj senza impacci e con edificazione
del popolo: scomunicato chi usurpasse beni o ragioni di Chiesa.
Principale studio doveasi porre ad impedire la diffusione dell'errore, e
qui affacciavasi innanzi tutto la vigilanza sui libri.
La libertà illimitata pel bene compete alla Chiesa, perchè è azione di
Dio sull'uomo; ma nell'individuo che opera sull'altro la libertà non può
esser tale se non regolata. La ragion pura domanda che la verità
trionfi: la ragion pratica domanda che se ne scelgano le vie, si rimuova
la violenza per far luogo alla convinzione. La libertà e la verità sono
fatte una per l'altra; ma non si può andare dalla libertà alla verità,
come vogliono i Protestanti, bensì dalla verità alla libertà, gloria de'
figliuoli di Dio, cercando il bene colla maggior possibile libertà, non
la libertà senza il bene.
Questo vuolsi tener a mente nel discutere sulla libertà de' libri, ove
spesso la quistione politica è anteposta alla quistione morale. Finchè i
libri erano una rarità, poco si pensava a mettervi freno, eppure sembra
che i Pagani abbian sporto petizione al senato di Roma di distruggerne
alcuni, e nominatamente Cicerone _De natura Deorum_, perchè offrivano
troppi argomenti ai Cristiani onde battere la religione antica[226]. Fin
dall'età de' martiri si ponevano in avviso i fedeli contro le scritture
degli eretici, essendo conforme alla legge divina il preservare dal
contagio, il non esporsi alla tentazione senza necessità, il non
distrarsi in cose vane[227]; e poichè molti appunto si divagavano per
amor del bello, da un Concilio di Cartagine nel 400 fu concesso ai
vescovi di leggere i libri degli eretici, perchè li doveano confutare,
ma non i gentileschi. È evidente la ragione di tal operare, come del
contrario quando i libri pagani più non furono di pericolo alla fede,
mentre lo erano gli ereticali. E questa è legge di difesa e cautela,
come del questore che proibisce l'armi insidiose o la vendita de'
veleni. E per prudenza o de' principi o de' prelati a volta a volta si
videro proibiti alcuni libri, altri bruciati: anche cataloghi se ne
fecero dalle Università di Lovanio e di Parigi: ma era naturale che
crescesse la paura de' libri quando la scolastica era flagellata dai
classici, e gli umanisti di Germania aveano iniziato la guerra
teologica. Però un divieto generale e minaccia della scomunica non si
trova fin quando Leon X, condannando Lutero, vietò anche tutti i libri
di esso. Una costituzione del 1554 di Paolo IV proscrisse in generale i
libri di magia e d'altre superstizioni, i lascivi ed osceni, i libri
d'eresiarchi, non quelli d'eretici; neppur le traduzioni di scrittori
sacri fatti da questi, purchè nulla contengano d'erroneo. Per leggere la
Bibbia vulgare ci vorrà la permissione, e così per le controversie con
eretici.
E qui a noi, intrepidi difensori della stampa anche ne' giorni più
pericolosi, l'intollerante secolo conceda di dire che non si è forse
abbastanza considerata l'importanza sociale della scoperta di essa, la
più decisiva della civiltà. Nel medioevo la coscienza cristiana e le
costituzioni germaniche aveano restituita all'uomo la personalità, che
era stata assorta nella splendida cittadinanza romana, e ne vennero
quelle istituzioni così caratteristiche, il monacismo, la cavalleria, la
feudalità, le corporazioni d'arti e mestieri. I quali elementi si
andavano ravvicinando, per combinarsi anzichè distruggersi, e formare lo
Stato moderno, ove le varie società sussistessero una accanto all'altra:
allorchè in mezzo al lento lavoro fu gittata la stampa, che creava
l'opinione, la diffondeva, la imponeva.
Istromento della pubblicità non era stata sin allora che la parola,
fosse nelle Chiese, fosse nelle Università; or ecco surrogarsene un
nuovo, molto più diffuso e più comune. Avvegnachè pel discorrere si
richiedono una certa superiorità e occasione e luogo e coraggio: la
stampa invece è un agente meccanico, di cui ponno servirsi tutti e
sempre, anche il codardo e l'ignorante, non occorrendovi probità, non
zelo, non eloquenza, non cautele oratorie, nè rispetto all'udienza, nè
pudore, nè tampoco un apparato scenico. Ognuno dice quel che vuole, e
come lo vuole, e quando lo vuole: l'impotente, il maligno, il vile che
vuol ferire senza farsi scorgere, lo sfacciato che vuol asserire senza
vergogna di smentita, aveano trovato il loro campo, e come far prevalere
l'utile al giusto, gl'interessi al diritto, purchè l'osassero.
Alle prime non se ne conobbe che l'utilità: come vedemmo[228], i papi
accolsero la stampa sotto il loro manto, quale una benedizione del
Cielo: i dotti l'applausero come un mezzo di popolarizzare la coltura;
ma intanto a migliaja di copisti, più o meno eruditi, surrogavasi il
torchio inintelligente: al libro, che un autore elaborava unico in tutta
la vita, e che tramandavasi alla posterità, sottentrava l'improvvisa
composizione, destinata a brevissima vita; gustato di quel nettare,
presto se ne divenne ubriachi: la propagazione de' classici tentò
ripiantare la civiltà pagana, non ancora sulle ruine, ma in competenza
della cristiana: le dispute vennero divulgate e perpetuate. Gli Egiziani
aveano detto a Platone che la scoperta della scrittura fu il primo
attentato contro il carattere santo del pensiero[229]. Nel senso
medesimo potè dirsi che la stampa diè il crollo all'edifizio feudale ed
ecclesiastico, e così attenuò il diritto personale, tanto prezioso per
chi rispetta sè stesso, offrendo un poderosissimo mezzo
all'accentramento, all'audacia, alla scaltrezza, onde conformare tutte
le menti sul modello che piacesse a chi o esercitava o dirigeva questo
grande pressojo.
La stampa era ben lungi dall'aver acquistata la onnipotenza che poi, che
oggi: ma subito se ne insignorì quella umana inclinazione che volge ad
attaccare ciò, che, per qualsiasi titolo, è rispettato. Allora ogni
dovere da compiere diventa un peso incomportabile; ogni autorità è una
tirannia; ogni disordine d'applicazione è una condanna delle
istituzioni: ogni male inevitabile è colpa di chi non lo toglie; e
toglierlo si potrebbe facilmente, e procurare un paradiso sulla terra,
della quale gli sconcerti non provengono che dagli uomini.
In conseguenza i primi attacchi la stampa diresse contro i monaci e gli
ecclesiastici, perchè erano custodi dell'ordine e della coscienza
individuale contro la tirannide dell'opinione generale che essa voleva
imporre, e che dichiarava pregiudizj i sentimenti anche più nobili, le
più libere ispirazioni della coscienza. A tal uopo la beffa o il
raziocinio si camuffarono col vizio che apponevano alla Chiesa, cioè
l'ipocrisia, fingendo voler la correzione e la riforma, mentre miravano
alla distruzione: non minacciavano il dogma come tale, non rinfacciavano
all'autorità ecclesiastica di esistere, bensì di non essere sincera, di
pretendere l'obbedienza e il sagrifizio con mezzi immorali, e sviando
dalla divina istituzione.
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