Gli eretici d'Italia, vol. II - 14

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d'uomini corrotti», cioè dissidenti.
Ma egli stesso seminava zizzania, appunto perchè, rotto il freno d'una
autorità, nessuna voleasene. Mal potè dirsela con Lutero. Questi il
sacerdozio considerava come una soperchieria, buona solo a far
degl'istrioni, de' ciarlatani, de' preti di Satana, e voleva fossero
rejetti coloro che avevano ricevuto l'Ordine della gran bestia, mentre
ogni fedele è sacerdote per annunziar la parola, assolvere le colpe,
amministrare i sacramenti. Per contrario il Vergerio, come vescovo, si
occupava assai della sistemazione che sarebbe a dare in Italia alle
comunità religiose; semplificando il culto al più possibile, conservando
l'episcopato, risparmiando le spese, monasteri e canoniche convertendo
in iscuole o vendendo. Aveva anche procurato di essere deputato a
visitar le chiese per tutto il paese de' Grigioni, e organarle: col
Mainardi e col Negri, che poi conosceremo, litigò sopra la confessione e
la presenza reale; e mentre gli altri chinavansi a Zuinglio, credendo
che i sacramenti, istituiti da Dio, si abbiano meramente per segni
esterni, non per le cose stesse, egli compose un catechismo per la
Valtellina, nel senso di Calvino.
Il Gallicio, imputato di aver accolto meno favorevolmente il Vergerio,
se ne scagiona col Bullinger, esponendogli come costui sovvertisse le
Chiese della Rezia e della Valtellina colle sue pretensioni e con dogmi
non conformi ai sanciti; e non soffrendo la superiorità del concistoro
di Coira, volesse concistori proprj pe' suoi Italiani; accusasse il
terzo e il quarto or di anabattista, or di papista; cercasse i nodi nel
giunco, e credesse che il cielo cadrebbe s'egli, come Atlante, nol
sorreggesse colle sue spalle. Democraticamente essere costituita la
Chiesa retica; sicchè non v'è bisogno di visitatore, quale il Vergerio
pretendeva essere. «Se gliene avessimo data la podestà, saremmo stati
uomini egregi. Noi ricevemmo sempre con onoranza il Vergerio, benchè il
suo fasto non possa garbare. Di me non so come si dolga, se non
d'avergli detto in faccia che altro appariva, altro era; fuori, sembrava
tenace della pura dottrina di Cristo e amator della pace, ma all'esame
nol si trovava tale. La frase non è cortese, ma sostengo che è vera».
Qui gli racconta come il Vergerio tenesse per amico Camillo Renato
anabattista, e trattasse da papista uno che predicò doversi le parole
dell'istituzione divina non solo annunziare in pulpito, ma proferirsi
pure alla mensa del pane e del vino. «Anch'io lo lodo, ma troppo spesso
l'ho trovato uomo; e non credo ci vorrà mai bene se noi prendiamo per
signor nostro».
Più risolutamente l'attaccò Celio Secondo Curione, che già gli era stato
amico; e l'accusava di mascherar le sue credenze, e mostrarsi altro agli
Svizzeri, altro ai Grigioni. «Quanto tu mi scrivi (diceva in lettera da
Basilea 1 agosto 1550) del progresso del vangelo in Italia, non mi
riesce nuovo; ma non è vero che gli opuscoli del Vergerio vi
contribuiscano gran fatto. Di ben migliori ne possiede l'Italia, dai
quali attinse lo spirito di salute. Que' del Vergerio non li dirò
cattivi, ma leggeri; e se d'alcuni non si parlasse, si farebbe
tutt'altro che danno alla cosa cristiana. Mi dici ch'egli chiese
d'abitare a Losanna, se pericolasse nella Rezia. Non so che pericoli
egli immagini, giacchè Agostino Mainardo, uom sapientissimo, in
tutt'Italia celebrato, che nell'Italia stessa tante volte lottò
predicando e disputando acerrimamente co' nemici, e spesso dal pontefice
fu cerco con insidie, con arti, colla forza, già da dieci anni insegna a
Chiavenna, fondò quella Chiesa, nè mai da alcuno sofferse violenze, nè
ebbe male se non da falsi fratelli; dai papisti non mai. Il Vergerio non
ha ancor deposta affatto la mitra, cioè adopra arti cortigianesche, e sa
magnificar le cose sue.... Perchè va a zonzo? Perchè non assiste alla
sua Chiesa? Preghiamo il Signore che gli dia spirito e mente di pastor
evangelico».
Il qual Mainardo, al Bullinger scriveva da Chiavenna, il 3 settembre
1553: «Abbiamo inteso che il Vergerio stampa un catechismo a Zurigo, e
lo dedica alla Chiesa della Valtellina, senza che i ministri di quella
n'abbiano contezza. Tal catechismo ebbe dal Brenzio. Tu per le viscere
di Cristo, e per quanto ami la pace delle Chiese nostre, non voler
consentire che, col nome di queste, egli stampi nulla che non concordi
con esse. S'egli non vuol esser dei nostri, perchè pubblica un
catechismo col nome delle nostre chiese?» (Qui ne mostra alcuni errori
intorno all'eucaristia), poi segue: «Ripreso da noi, perchè con quel
catechismo e altri tali libri divulgati, turbasse le chiese che stanno
in pace, e credono rettamente intorno alla Cena, e spargesse dottrine
contrarie a quelle dei predicanti nel nostro paese, rispose esser
interprete, non assertore. Gli replicammo che si faceva assertore nel
catechismo, che voleva fosse ricevuto dalle Chiese.... Stampi quanto
vuole, purchè non faccia menzione delle nostre Chiese, nè mostri che noi
consentiamo con esso. Abbiamo i nostri catechismi conformi al vostro;
non ne vogliamo d'iscritti con altro nome...».
Sia questo un altro saggio dei dissensi, a cui rompevano coloro
ch'eransi staccati dalla cattolica unità. Pertanto il Mainardi esultò
quando il Vergerio partì dalla Valtellina, e «Se ne vada nel nome di
Dio, e non ci sia più a lungo di carico».
Il Vergerio si condusse predicatore e consigliere al principe Cristoforo
di Würtenberg (1553), dal quale fu tutta la vita protetto e sostenuto.
Nel 1554 lo troviamo a Strasburgo, donde si dipartì per paura della
peste; sempre irrequieto, sempre credendo o vantando essere minacciato
da' sicarj del papa.
In Polonia cercò promuover la Riforma, sostenuto dai Radziwil, e
difondere i libri protestanti. Al re Sigismondo Augusto, che parlava
perfetto l'italiano, raccontava come, stando nunzio in Germania, avesse
levata al battesimo quella che allora era moglie di lui; sicchè credeasi
in dovere di venirla a diriger nella fede[117].
Papa Paolo IV subito scrisse per impedirne i guasti in Polonia, e il
Vergerio commentava e derideva quei brevi, augurando che il papa
slanciasse anche alla Polonia _sanctam et summis votis expetendam
excomunicationem_, affinchè fruttasse come quella contro Lutero.
Partitone alla fine del 1557, vi tornò, nè cogli scritti desistette mai
dall'esortare il re alla riforma, e d'oppugnare il Lippomane e Stanislao
Osio[118], vescovo, poi cardinale e caldissimo avversario dell'eresia, e
ne qualifica i libri come la peggior ignoranza e cattiveria ch'abbia
veduto, e ne dice tutte le sconciezze e vituperj, che per verità gli son
ricambiati.
Si estese di fatto in Polonia l'eresia, tantochè, quando Sigismondo morì
nel 1572 assaissimi vi aderivano: anche in Austria procurò diffonderla
il Vergerio, e con lettere e colla presenza.
Nel 1562 volle rivedere i Grigioni, ed esortarli rinnovassero la lega
con Francia, utile assai «perchè il papa, nè Cesare, nè Filippo II
possano aver questo passo dell'Alpi, nè soldati.... Venendovi, corsi
gran pericolo, giacchè il papa in tre luoghi mi aveva disposto agguati,
di che fui avvertito dai fratelli; ma pensando non convenisse dar
indietro, mi esposi al rischio, vestito da mercante, e così campai per
grazia di Dio» (5 aprile 1562). Invitato a una disputa in Coira, ricusò;
impetrò dal re di Boemia denaro onde erigervi uno spedale pei profughi
italiani, ma non si sa che lo effettuasse: voleva piantarvi una
stamperia; ma sempre era contrariato da Fabricius, che ne scrive cose da
fuoco; ed era malvisto _non tam propter religionem, quam propter
arrogantiam fastumque ejus_.
Gli appongono che cambiasse professione, stando ora coi Piccardi, ora
coi Luterani, ora cogli Zuingliani; e il Da Porta lo colloca decisamente
fra quelli che cambiano credenza secondo il colore del paese e di chi
gli dà pane; e per difenderlo, Xist, suo biografo o panegirista, fa
avvertire quanto influisca l'atmosfera in cui versa ciascuno.
Realmente non formulò verun dogma; eppure ciò saria parso conveniente
alla dignità sua di vescovo, della quale valevasi tanto nello stabilire
formalità. De' suoi scritti l'indole può compendiarsi con sue parole.
«Per venti anni, o papato, vissi a te legatissimo e amantissimo, perchè
ero cieco..... Ora tu, celeste padre, mi hai mostrato Gesù Cristo;
volesti fossi tuo legato; adoprami, ti prego, comunque vorrai. Tu
reggimi, e stermina le reliquie della mia carne e dell'umana
prudenza.... Io, qualunque mi sia, sempiterna guerra avrò col papa....
sempre mi sforzai a tutta possa di persuadere a chi nol sapesse che il
papato è mera impostura; onde bisogna che l'uomo se ne strighi, se
desidera esser salvo, e raggiunger la pura e genuina dottrina che il
Figliuol di Dio recò dal seno del Padre».
Ogni tratto palesa dunque rincrescimento di esser vissuto fariseo,
incredulo, idolatra; chiama empietà giudaica e idolatrica la sua entrata
al vescovado, e deplora i proprj peccati. Ma la taccia d'eretico,
datagli da altri Protestanti, non sapeva tollerarla. «Eretico è colui
che per vantaggi temporali, e massime per vanagloria e per primeggiare,
inventa o segue opinioni false o nuove. Chi con cauta sollecitudine
cerca la verità, pronto a correggersi qualora la trovi, non va noverato
fra gli eretici».
Stese qualche libro esegetico; la parafrasi de' sette salmi
penitenziali; sermoni e catechismi per Vicosoprano e la Valtellina; un
_Latte spirituale_; tradusse varj libri di Melantone, di Flacio, e le
_Precedentiae_ del Brenzio. Olimpia Morata, lodandolo come buon
traduttore, l'esortava a italianizzare il catechismo di Lutero e «Di
quanto vantaggio fia ai nostri Italiani e massime alla gioventù, te ne
accorgerai se svolgi quel libro»; e v'insiste, quantunque non ignori la
controversia nata intorno al sacramento. Con Jacobo Andrea e Primo
Truber procurò la traduzione e stampa della Bibbia in slavo e di altri
libri, che a migliaja di copie si disseminarono, tra cui quello _del
Beneficio di Cristo_; e si rallegrava che in pochi anni si fosse
l'evangelo tradotto in cinque lingue; siriaca, ungherese, slava per la
Carintia e la Carniola, croata e romancia. E scriveva al suo principe il
10 settembre 1562, che avendo stampate tante cose in latino, in
italiano, e tradotte dal tedesco, desidera riunirle acciocchè i posteri
capiscano che cos'è il papa: e gliene domanda ducento fiorini. Infatto
si cominciò la raccolta, ma non comparve che il primo volume di
ottocento pagine. E rarissimi or si trovano gli opuscoli suoi, perchè
allora moltissimo i Cattolici adoperavano in abbruciarli[119].
Del resto il Vergerio, oltre che instancabile nella corrispondenza, fu
uno di quelli che più intesero quanto male potesse farsi colle stampe
creando un'opinione falsa e imponendola alle moltitudini, onde si gittò
operosissimo a fare opuscoli, giacchè allora non s'erano ancora
introdotte le gazzette; libretti popolari e mordaci «non cessava mai di
spargere giù nell'Italia, come tarme e tinee, le quali rodano
l'Anticristo» e venivano cerchi con avidità; e molte delle menzogne,
accettate poi dal vulgo degli scrittori, sono dovute alla costui penna,
sia che le inventasse, sia che le diffondesse. Tali la papessa Giovanna,
il turpe attentato di Pier Luigi Farnese, le colpe di Paolo III, le
taccie d'eresia a persone o semplicemente imprudenti o calorosamente
pie; lo sprezzo di molti miracoli, le beffe contro il Concilio
tridentino e i prelati ivi raccolti, e contro il clero e i riti della
Chiesa, ch'egli conosceva meglio come vescovo. Bersaglia la messa
«regina delle idolatrie»; denigra i pellegrinaggi, il culto della
Madonna, massime lauretana; le stigmate di san Francesco, e tutta
l'_idolatria romana_; esagera i disordini de' monasteri; e il suo
biografo dice: «Più arditamente di lui solo Lutero parlò di Roma, più
ironicamente nessuno». Ai papi non diede mai tregua; stampò un _ordo
eligendi pontificis et ratio_ (Tubinga 1556) per cuculiare le cerimonie
della consacrazione de' vescovi, eppure vi riporta quest'orazione che in
esse recitavasi: «Abbondi nel vescovo la costanza della fede, la purezza
dell'affezione, la sincerità della pace; sieno, per tuo dono, splendidi
i passi suoi nell'evangelizzar la pace e i tuoi beni. Dagli, o Signor,
il ministerio della riconciliazione nella parola e ne' fatti; sia il
parlar suo come la predica, non in parole persuasive di umana sapienza,
ma in mostra dello spirito e della virtù. Dagli, o Signore, le chiavi
del regno de' cieli, perchè ne usi, non perchè si glorii della potestà
che gli attribuisci, per edificare non per distruggere..... Sia il servo
fedele e prudente che tu, o Signore, costituisci sopra la tua famiglia
affinchè la cibi a tempo opportuno; sia di zelo non pigro, sia fervente
di spirito, odii la superbia, ami l'umiltà e la verità, nè mai la
abbandoni per lusinghe o per timore; non ponga la luce per tenebre, e le
tenebre per luce; non dica bene il male, e male il bene; tengasi
debitore ai savj e agl'ignoranti».
Queste parole erano state proferite sopra di lui quando gli fu impresso
un carattere, che invano cercava cancellare: quest'erano le parole
applicate a quella gerarchia, per condannar la quale gli basta dire che
sono papi, che chi uno ne conosce li conosce tutti; solo alquanto
condiscende ad Adriano VI perchè mostrava la necessità della riforma; si
diverte alle spalle di Gregorio I, della papessa Giovanna, di Benedetto
XII, del quale racconta che amoreggiò una sorella del Petrarca! Più si
svelenisce contro i moderni Paolo III, Giulio III, Paolo IV, assassino,
inebbriato del sangue de' giusti, de' martiri di Gesù: Pio IV, il
peggiore de' cardinali. «Finchè c'è papi (e spero che saran ben pochi)
non è a sperar bene della Chiesa. O cielo, o terra, o inferno, che più
t'indugi con questo bugiardissimo papato, per trattarlo secondo è
dignità, con tutte le tue ragie e i tuoi unti? Udite cos'è il papato,
udite: il papato è la congregazione e cospirazione di alcuni, sotto un
capo dato dal diavolo. Non v'è dubbio che il diavolo sia stato inventore
del papato».
Con eguale stregua tratta i vescovi e i cardinali, «pezzo di carne con
una mitra in capo»; dove non può i fatti, calunnia le intenzioni:
inveisce contro il famoso Reginaldo Polo, quasi abbia scritto soltanto
per isfuggir all'accusa di luterano, o per ambizione di diventar papa, e
conchiude: «Guai a te, cardinal Polo: guai a te! la pagherai». Più
accannisce contro monsignor Della Casa, il quale, indarno pentendosi del
turpissimo capitolo rinfacciatogli ogni tratto, diresse alla Germania
dei versi per iscagionarsi. E nella Magliabecchiana (classe XXXIV de'
manoscritti) troviamo autografa la risposta di monsignor Della Casa al
Vergerio, forse la stessa che fu poi stampata nel 1688.
«Tu ti lamenti (dice) che a Roma si abbia dolore della parlanza e
malevolenza tua. No: o non vi sei conosciuto; o sprezzato così, che
nessuno ti cura». E qui gli mostra la follia delle tante accuse date a
Paolo III; cose ch'egli solo dice, il qual pure non poteva saperle
essendo lontano, e sospetto perchè conosciuto nemico. Invano lui negare
che la vita di questo sia scritta da esso, poichè egli la propaga, la
vende. E qui comincia a legger le colpe del Vergerio contro gli amici,
il fratello, la moglie, la patria, la religione, la taccia di bugiardo,
d'aver finto lettere e commissioni; _negant tibi quicquam credi oportere
a quoquam: vanitatis, levitatis, mendacii te convictum defendunt. Profer
igitur eas literas: manum, signum proba_». E racconta che il cardinale
Tournon, passando in Francia per la Svizzera, scese una sera a
un'osteria affatto ignobile, e poichè l'ostiere lacero e in canna il
salutò come persona nota, gli chiese chi fosse, e seppe ch'era il
Vergerio. Il cardinale prese a rimproverarlo, e il Vergerio commosso il
pregò a trarlo seco in Francia, pronto a dir quel ch'egli volesse sulla
religione della Germania e della Svizzera; ma il cardinale non gli
credette.
Difende da lui il cardinale Polo. Nega assolutamente il fatto di Pier
Luigi Farnese, e cerca scusarsi dei versi. _Si qui sunt paulo minus
casti libelli, per jocum aliquibus in adolescentia scripti, eos tu cui
tibi comodum fuerit adscribito: quæ dubia erunt in pessimam partem
rapito, multa de tuo addito; quos de versiculis illis, qui de furni
laudibus inscripti jam olim sunt, fecisse te video: quamquam illos,
annis ab hinc quinque et viginti editos, alterius ejusdem nomine
inscriptos legisse me memini, tu Jo. Casæ attribuis, quem tunc et
affirmare soles ornate politique scribere et versibus posse et soluta
oratione...._ E del Vergerio ricorre la vita, da nemico, imputandolo di
denari frodati, di delitti d'ogni sorta. Non credansi: ma neppur si
credano quelli ch'egli appone a noi; si esamini; singolarmente non gli
si presti fede ove dice che gli Italiani sprezzano e ingiuriano i
Tedeschi, de' quali amplia le lodi; ma nega quel ch'essi dicono degli
Italiani, confondendoli con coloro che van fuori a sparger errori,
pregiudizj, empietà. E appunta il Vergerio, che gli Italiani aveano
respinto da sè come il mare vomita un cadavere, spacciò che non poteva
tollerare, egli così santo, i vizi e le scelleraggini degli Italiani, e
per questo abbandonò le prospere sue fortune, e venne in Germania onde
aver libertà di credenza. Il che avviene di molti Romani, che stimando
sè e il proprio ingegno molto sopra del vero, lagnansi di non esser
chiamati a Roma e ai sommi onori: e quando non si vedono onorati quanto
vorrebbero, mettonsi a declamar contro il papa e i primati, e vengono a
vantarsi in Germania dove sono sconosciuti, magnificando i comodi e gli
onori che lasciarono per la religione. Ma almeno facessero qualche
eccezione pei buoni, che pur si trovano in Italia.
Il Casa, vecchio e caduto dalla speranza di «mutare il cappello verde in
rosso», si ritirò a Narvesa componendovi sonetti pieni di disinganno e
diceva di sè: «Peccai da giovane, m'accusano da vecchio».
All'ira del Vergerio divengono sovente bersaglio i moderati, i neutrali,
i tepidi, che mentre disapprovano le idolatrie papistiche, pur non osano
abbracciare il vangelo; vogliono riforme, ma solo ove ad essi pare. «La
Italia (diceva) è più avanti che qualcheduno non pensa. Ella ha per
dentro e anche di fuori de' bravi spiriti, li quali, colla lingua e con
la penna, non fanno altro che mostrar Gesù Cristo morto in croce per gli
suoi eletti, e questa è la luce, la quale può meglio mostrare quali sono
gli abusi e quali le superstizioni e quale la porta di uscirne fuori,
che non possono quelle XII carte dove sono dipinte le querele dei
Tedeschi»[120]. Pure giudicava che per l'Italia non fosse ancor venuto
il momento della Riforma: dolevasi che i tanti dotti nostri non
sapessero staccarsi dagli autori mondani e gentileschi, per istudiar
solo lo spirito di Dio; minaccia che la collera del Signore e la
disgrazia peseranno sui suoi compatrioti finchè stiano servili al
papato; e crede potrebbe qui pure immegliarsi e correggersi la Chiesa
qualora si cambiassero i costumi. «Non un anno passerebbe che voi, o
miei compatrioti, sareste divenuti ottimi; migliorati di corpo, e di
spirito; fondati nel bene, deposte le nimicizie, i rancori, le malizie,
la lussuria, il giuoco, la bestemmia, l'usura e tutti i vizj. Qual è la
cagione per cui l'Italia è piena di scissure, partiti, bordelli, bische,
garzoni scandalosi, ladri, assassini? Perchè vi risiede la falsa
religione e l'idolatria che tutti i vizj seco strascina; mentre il vero
insegnamento cristiano reprime tali vizj e li svelle, o almeno
gl'indebolisce e diminuisce? Non si alleghino i supplizj e le galere che
l'Anticristo vi oppone, non il sovvertimento che ne verrebbe; la grazia
di Dio basta a tutto. Quanti siamo cacciati di patria per la verità!
ebbene, che ci manca? La Dio grazia viviamo come fossimo in patria».
Linguaggio ripetuto tante volte, e fin ad oggi, malgrado la contraria
esperienza.
Sopratutto egli osteggiò il Concilio di Trento. L'opuscolo _Cur et
quomodo christianorum concilium debeat esse liberum et de conjuratione
papistarum_, che credesi opera di Lutero, stampata il 1537, fu
riprodotta il 1557 con prelazione del Vergerio; che confessa essere
stato lui che, come legato pontifizio, avea predicato quel Concilio, e
di quell'opuscolo bruciate quante copie potè, avrebbe bruciato anche
l'autore se avesse potuto. Nel _Concilium non modo tridentinum sed omne
papisticum perpetuo fugiendum esse omnibus piis_ (1553) già avea
raccolte tutte le ben note objezioni; nega sia libero, attesochè egli ne
fu scacciato, e cacciato pure Giacomo Nachiante vescovo di Chioggia, e
Girolamo Villeno domenicano, perchè aveano avversato quel passo del
Decreto che dicea doversi le tradizioni accettare colla stessa
venerazione come il vangelo; fa temere si manchi alla promessa
franchigia, e ne coglie occasione di mostrar tutti gli abusi
introdottisi nella Chiesa. E quanto spacciavasi pei trivj contro il
Concilio, egli raccolse in molti opuscoli, ai quali poi attinse
largamente frà Paolo Sarpi. Contro a quel sinodo ed ai papi incita
l'imperatore e i principi, solleticandone le gelosie e le passioni; si
erigano superiori ai pontefici; prescrivano ciò che giova a correggere i
costumi e gli errori, e facciansi obbedire.
In alcuni scritti usò d'un'ironia così ben sostenuta, d'aver illuso
molti. Tali sono le «Due lettere d'un cortigiano, nelle quali si
dimostra che la fede e l'opinione di Roma è molto più bella e più comoda
che non quella dei Luterani. — Terza lettera d'un cortigiano, il quale
afferma che a suo parere la messa del papa è più bella che la comunione
che si fa in alcun loco della Germania. — Quarta... nella quale gli dice
che si comincia ad accorgere che la dottrina, ch'ei chiama luterana, sia
la buona e la vera, e che quella del papa sia la corrotta e la falsa».
Van sul tono istesso le _Tre azioni del secretario pontificio_, che
suppone pubblicate intorno al Concilio, tutte spirito, ma senza
atticismo di lingua nè di pensieri; canzonando vescovi e sinodo, e
voltando in riso la paura di guerra, sia col Turco, sia co' Protestanti,
quasi fossero invenzioni papistiche.
Al duca Alberto di Prussia, che lo chiamava _amice singulariter
dilecte_, da Tubinga il 18 gennajo 1565 scrive: «Poichè il papa intimò
il Concilio, i nostri principi non v'andranno, nè manderanno, ed è ben
fatto. Ma io stabilii d'andarvi, e chiesi un salvocondotto. Che se lo
spirito di Dio mi comandi altrimenti, e mi tolga quest'occasione di
manifestar per me la gloria di Dio, stabilii darmi tutto a Cristo e alla
quiete, e detto addio agli affari, prepararmi alla morte, che spero
m'aprirà la vita eterna. Vostra altezza si meraviglierà udendo in quali
luoghi io desideri dispormi a dar l'anima a Dio. Le chiese dei Valdesi
piacciono al mio spirito; onde vi andrò, m'innesterò in quelle appresso
la Posnania, o nel vostro ducato. Vedo quelle Chiese pacifiche e non
sconvolte dalle dissensioni come le altre; onde ve le raccomando». Altre
volte gli mandava una lettera in cui dissuadeva i Veneziani d'aderire al
Concilio; lettera la migliore (dic'egli) che avesse scritta. Una più
ampia del marzo seguente mettiamo in nota[121].
Eppure i nostri non aveano disperato di ricuperarlo, e il nunzio Delfino
cercò indurlo a venire al Concilio, e con lui s'affiatò nel Würtenberg,
ma il Vergerio proruppe in escandescenze contro il Casa e gli altri suoi
persecutori. Anche al cardinal Gonzaga espresse una volta il desiderio
di tornar a casa, di cooperare alla pacificazione della Chiesa, ma senza
cenno di ritrattarsi: onde il cardinale nè tampoco gli rispose. Infatti
egli scrive che il papa _quaerit cum Germania aliquam concordiam, quam
ob causam præcipue agitur ut Tridentum accedam. Sed ridicula est papæ
cogitatio nam concordia in hac causa sanciri nulla potest, quod est
certissimum: sed nihilominus audiendi sunt adversarii_[122].
Ippolito Chizzuola di Brescia fece una _Risposta alle bestemmie
contenute in tre scritti di Paolo Vergerio contro l'indizione del
Concilio_ (Venezia 1562). Costui avea predicato in senso ereticale a
Venezia, onde gl'inquisitori lo obbligarono a ritrattarsi; tanto
asserisce il Vergerio, che diresse «ai fratelli d'Italia» uno ripicchio
fierissimo contro di esso: altri contro il Muzio giustinopolitano, suo
compatrioto e condiscepolo; altri contro altri; perocchè e la sua
apostasia e le polemiche gli procacciarono una folla di avversarj.
Per quanto lo vanti il suo biografo, sappiamo che, fino in quel bollore
di passioni, pareva eccessivo declamatore, e di modi sconvenevoli alla
sua dignità. Cercavano porgli qualche freno i suoi partigiani, ma chi
bada ai consigli della moderazione nel vivo delle risse? Fiero,
implacabile a chi lo toccasse; non si fa scrupolo di mentire; fomenta
gl'istinti più abjetti; asserisce che il cardinale Alessandro Farnese
promettea sparger tanto sangue tedesco, che il suo cavallo vi potesse
andar a guazzo; che il papa avea dato commissione al Lippomani di
persuadere l'imperatore a uccidere l'elettore di Sassonia e il
landgravio d'Assia cadutigli prigionieri, e reca fin la lettera
originale. Or viene a narrare che, una donna a Glarona avendo
insudiciato di feci l'altare, i cantoni papisti muovon guerra agli
Evangelici, e certamente l'Anticristo v'accorrerà colle sue armi. Tutta
Germania prorompe a guerra? Sono i Papisti che la incitano; son gli
Evangelici che trovansi costretti a difendersi; e il papa somiglia a
quei che mettono il fuoco per saccheggiare; onde gavazzare nel lusso,
suscita guerra dapertutto, evoca i Barbari a invader la Germania, e la
sua satanicità chiamerà perfino i Moscoviti a depredar tutto il
Settentrione e l'Inghilterra[123]. Eppure e' non vuol che si intitolino
libelli infamatorj i suoi, perchè l'infamia di Roma era già nota a tutto
il mondo!
Spirito strettamente pratico, e sproveduto di generalizzazione, trattava
la religione come un affare giuridico, citando la Bibbia come un codice,
sottilizzando senza veruna elevazione.
Uomo di negazioni e nulla più; violento nell'abbattere, era inetto a
costruire, affettando odio contro l'errore più che amore per la verità;
molti lo sprezzavano come un garbuglione che usasse frode sin nelle
lettere; Erasmo ne dice male; Celio Curione trattavalo da plagiario,
quasi avesse come sue offerto opere altrui al principe di Würtenberg per
entrargli in Corte: gli apostati italiani sempre lo guatarono con
diffidenza, e pensavano aspirasse tornare al papismo; e in fatto
vacillava talmente nelle credenze, che l'apologista suo Gian Rinaldo
Carli potè sostenere non si scostasse mai fondamentalmente dalla Chiesa
nostra; e un suo ritratto girava coll'iscrizione _Nunzio del papa,
legato di Cristo_.
Per giunta intrigava nella politica; lo vedemmo sollecitare i Grigioni a
far lega coi Francesi contro la Spagna; eppure stando in Valtellina
mestò con don Ferrante Gonzaga governatore di Milano per ricuperar
questa valle alla Spagna; e allo stesso scriveva il 21 aprile 1550:
«Oltre di quest'impresa, io potrò esser buono alle cose appartenenti
alla religione, per l'amicizia che tengo con que' dotti di Lamagna; e
quando, o per via di un Concilio o per altra, si trattasse qualche
accordo ed assestamento, vostra eccellenza vedrebbe ciò che saprei
fare». Molti principi di Germania lo protessero: Eduardo VI
d'Inghilterra gli mandava «qualche ajuto onde possa continuar a far la
guerra al diavolo»; e sempre lo assistette il nipote Lodovico,
consigliere del duca Alberto.
A cinquantanove anni pensò prender moglie: tutto era stabilito: farebbe
da madrina la contessa Maurica, profuga d'Italia; il duca aumentava di
qualcosa il suo trattamento; ma non consta che il matrimonio si
effettuasse. Già nel 1558 lagnavasi di cattiva salute, peggiorata poi
dagli strapazzi dell'ultimo viaggio in Polonia. Ricorse alle acque e ad
altre cure; da un lato desiderava intervenire al famoso colloquio di
Passy nel 1561, dall'altro vagheggiava ritirarsi fra i Valdesi o
Piccardi della Boemia, ma questi voti di quiete presto dissipava per
lanciarsi di nuovo nella mischia. Infine morì il 4 ottobre 1565 a
Tubinga, e gli amici narrarono che conservò fino all'estremo mirabil
costanza; che agonizzasse fra orribili spasimi e muggiti e rimorsi,
scrisse il famoso Glaber, che lo assistette, e che poi si convertì al
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