Gli eretici d'Italia, vol. II - 16

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qualche aggiunta, specialmente delle cose di Franza.
_Ai miei carissimi in Cristo e onorati fratelli della Valtellina,
Chiavenna e Piur. Che concilio desiderino gli amatori della renascente
dottrina del Vangelo; e che concilio si celebri tuttavia in Trento._
_Ai fratelli d'Italia. Di un libro di frà Ippolito Chizzuola da Brescia,
1563._
_Risposta ad un'invettiva di frà Ippolito Chizzuola da Brescia, 1565._
_Responsio ad librum Antichristi Rom. Regiomontani 1563._
_Quod Pius Papa IV, licet concilium indixerit, nihil tamen minus in
animo habet, quam profligatam ex Ecclesiis, quæ illum adhuc agnoscunt.
Jesu Christi doctrinam restituere, sed pristinos abusus atque
idolomanias retinere et confirmare auctoritate concilii_ (_De concilio
papæ Pii IV_). Tubinga 1563.
_Vergerii opera adversus papatum._ Era la collezione da lui cominciata,
ma dei tre volumi uscì uno solo di 800 pagine, a Tubinga 1573.
[120] _Catalogo._
[121]
Tubinga 12 marzo 61.
«Ho mandato all'altezza vostra la bolla d'intimazione del Concilio con
alcune mie annotazioni, affinchè, come alquanto tempo, mentr'era del
tutto cieco, fui versato in queste cose papistiche, manifestassi alcuni
luoghi che non facilmente s'intendono. Alcune giova qui ripeterne. Pio
IV, con certo quale apparato viene all'intimazione del Concilio,
premettendo due bolle: una in marzo passato col titolo «Per conservar la
pace, estirpar le eresie e proseguir il Concilio»; l'altra del novembre
col titolo «Per l'indulgenza del felice Concilio generale, che s'ha da
indire e continuare in Trento» e in questa chiama la dottrina nostra
pestifera e perniciosa setta, esiziosa zizzania, falsa e perversa
dottrina degli eretici, prava opinione nella fede: e ripete e inculca
che noi siamo empj eretici, sprezzatori della religione; ci paragona
fino ai Turchi; che gravi ferite recammo alla Chiesa cattolica, e
minaccia voler abbattere le nostre riforme. Con tali complimenti il
padre santo accoglie le nostre chiese, strappate dalle fauci di lui per
grazia di Dio.
«Premesse queste due bolle, promulgò l'intimazione, nella quale ci
carica quasi delle stesse contumelie per grazia sua, e spaccia molte
cose inonestissime e intollerabili. Fra l'altre, dice di voler celebrare
il Concilio generale, quasi tutti i regni e le provincie che dal papato
si separarono, debban volarvi; ma non s'aperse di voler continuare il
vecchio, come disse in due bolle. Volle certamente ingannare, ma loda i
predecessori suoi Paolo III e Giulio III, ciascun de' quali aveva
adunato un ingiustissimo Concilio; anzi Paolo III coll'armi avea tentato
il compimento dell'appena cominciato Concilio: questi egli loda, di
questi vuol continuare i Concilj. E ciò ch'è principale, convoca i suoi
stessi, che a Trento non fanno altro, nulla pronunzian di suo, ma
soltanto le cose che il papa giorno per giorno manda per la posta (_per
dispositos equos_); attentissimo esclude tutti i nostri, ai quali tolse
fin il salvocondotto, dato dal Concilio tridentino. Insomma trae a sè
tutta la cognizione della causa religiosa. E non solo queste enormissime
cose comprende nella sua indizione, ma molt'altre che qui non è luogo e
occasione di riferire.
«Eppure queste, sebben assurdissime, nulla sono se badiamo a quel che
seguì.
«V'è gran separazione e quasi divorzio irreconciliabile fra le nostre
chiese e il papa. Son quasi venti anni che nessun legato papale venne
più agli illustri principi nostri: nè, dopochè io da Clemente VII e da
Paolo III fui mandato, credo che altri ci venisse. Ed è da avvertir bene
che, quando fui mandato io, nessuna intimazione erasi ancora pubblicata,
ma trattavasi solo del luogo, della forma, del modo di celebrarlo; onde
la legazione aveva una certa qual moderazione, non era affatto ingrata,
eppur nulla ottennero; gli illustri principi rispondeano press'a poco
quel che rispondono ora, non aver affare col papa; non verrebbero alla
sua intimazione, di far la quale e' non aveva autorità; Cesare avea dato
speranza di celebrar il Concilio in Germania; di questo seguirebber essi
l'autorità, non del papa. Le quali cose avrebbe dovuto aver presenti Pio
IV se voleva mostrar senno. Ma che? Nè volle trarsi in memoria le cose
già fatte, benchè da pochi anni, come fanno i savj: nè pare vi fosse
tra' suoi consiglieri, cancellieri, segretarj, nè fra i trenta cardinali
che sottoscrissero alla bolla, chi lo avvertisse delle cose passate;
giacchè, trascurate o dimentiche queste, dopo sparse per tutto il mondo
le ingiurie acerbissime che disse contro noi e la nostra dottrina,
delegò due suoi prelati che invitassero gli illustri principi al
Concilio. Deh quanta arroganza, quanta impudenza ed imprudenza, perocchè
la sua indizione, la più iniqua dopo che c'è uomini, la più
bestemmiatrice contro Dio e gli uomini, avea divulgata, avea recato la
ferita. Paolo III non poteva, da quelli che non avea vituperato,
impetrar che andassero a Trento per trattar della forma e del modo di
celebrarlo; e costui, dopo aver tutto stabilito da sè, e massime ciò
ch'è più importante, di volerlo celebrar solo fra' suoi, attentamente
rimossi e respinti i nostri, pure osò mandar una legazione, colla quale
gli illustri principi di somma sapienza e pietà e gravità invitasse ed
esortasse a questa così enorme indizione, e si sottomettessero al papa
nel Concilio tridentino, negata la genuina dottrina di Cristo, alla cui
norma riformarono le loro chiese. Perchè a dirittura non gl'invocava al
bacio dei piedi a Roma? Gesù, quanta insolenza! Pur dovea ricordarsi
d'aver testè offese le loro altezze serenissime con somma ingiuria,
affiggendo turpi obbrobrj alla dottrina di cui si professano nutriti e
propagatori, e d'averli chiamati eretici: che cosa potea dir di peggio?
«Mi meraviglio assai dell'imprudentissimo consiglio del papa; mi
meraviglio non vi fosse fra i trenta cardinali e gli altri ministri chi
non gli abbia detto di non mandare questa sconsigliatissima legazione.
Che direbbe mai questa civilissima nostra età quando sapesse il fatto?
Che direbbe la posterità? Gli è come se i legati avessero detto,
Clemente VII e Paolo III domandarono che le vostre altezze venissero al
Concilio prima di pubblicarne l'intimazione, e vi fu risposto non aver
il papa podestà d'intimar il Concilio: ne nacquer offese incomparabili e
guerre gravissime, perocchè foste trattati a ferro e fuoco: or successe
un altro papa, che già pubblicò l'intimazione fatta a suo modo, ed
avvisa che andiate a Trento, non come giudici e definitori della causa,
ma come assistenti e spettatori; mentre il papa per la gola e la lingua
de' suoi mitrati pronunzierà condanna come legittimo giudice contro voi
e la vostra dottrina, e confermerà tutte le cose sue: ciò conviene a voi
fare, cioè sottoporvi all'obbedienza della Santa Sede, non già
abbracciar e difendere una religione varia ed incerta.
«Chi ben faccia mente si chiarirà che tale è il senso delle parole che i
legati del papa spacciarono nella dieta de' grandi principi, e non
vergognaronsi di toccare che sotto gl'illustri nostri principi v'abbia
tanti evangeli quanti capi; calunnia e bugia, che appresero dagli
Stafili e dagli Osii. Ma fortunatamente le vostre altezze risposero
virilmente e cristianamente, eppur con somma modestia, per quanto
imprudentemente provocate.
«Dirò quel che penso. Questa medesima risposta, come costernerà gli
avversarj, massime il papa, così ecciterà e infiammerà gli animi di
tutti i pii, e solleverà somma speranza di ben condurre le cose. È da
ringraziar il padre celeste per Gesù Cristo, che col Santo suo Spirito
sì ben governa le nostre chiese.
«Aggiungerò che or più che mai sospetto di quel che sempre dubitai, che
il papa abbia tutt'altro in animo che il Concilio. Paolo III quando
celebrava il suo conciliabolo, e vedeva venir nessuno de' nostri
principi del sacro impero, il 3 luglio 1546 scrisse agli Svizzeri, che
in Germania non pochi anche fra' principi disprezzavano il Concilio, e
diceano non obbedirebbero ai decreti di esso, onde si doleva che tale
ostinazione lo obbligasse alle armi. Dappoi, quando coll'intercessione e
l'opera di Cesare diede il Concilio, parvegli che chi lo ricusava e
sprezzava, sprezzasse pure l'autorità di questo, e mosse armi
dall'Italia, che congiunte coll'esercito di Carlo V, fecer quella
gravissima guerra che tutti sanno. Or pure sospetto che Pio IV non
voglia imitar Paolo III, vedendo spregiata la sua autorità. Ma non si
dee però cader di cuore; vive Dio; e la sposa del diletto Figliuol suo
Gesù Cristo Signor Nostro che dalle tenebre liberò, non abbandonerà».
[122] Lett. 11 luglio 1561.
[123] Lettera 20 novembre 1560 da Tubinga.


DISCORSO XXVIII.
NOVATORI IN MODENA. LODOVICO CASTELVETRO. IL CARDINALE MORONE.

Quell'esuberanza di vita che godeva l'Italia quando le cento sue città
conservavano l'indipendenza sotto principi proprj, e che formò il
carattere e il vanto, se non la forza della nostra nazione, ci appare
singolarmente in Modena, «città piacevolissima d'aere, d'acqua e di
belle donne, ed ornata di bellissima gioventù, datasi tutta agli studj
delle Muse»[124]. Come ai nostri tempi, così allora fioriva
d'elettissimi ingegni, fra' quali rammenteremo quei soli che s'attengono
al tema nostro. Tommaso Badia (1483-1547) domenicano, fu fatto maestro
nel sacro palazzo da Clemente VII, e come tale adoprato a respinger
l'errore, poi da Paolo III spedito al colloquio di Worms, del quale
diede una relazione al cardinal Contarini; infine ornato della porpora
nel 1542. Il _Tractatus adversus Lutheranorum errores_, che il Rovetta
gli attribuisce forse non è se non gli _Acta in colloquio Vormatiensi_.
Gregorio Cortese, che già lodammo, nato il 1483, educato con diligenza,
fu ai servigi di Giovan De Medici ancora cardinale, poi canonico e
vicario generale in patria, benchè di soli ventun anno; entrato
cassinese nel famoso monastero di San Benedetto di Polirone, e
trovandovisi in dottissima compagnia, coltivò gli studj ed insieme la
pietà, fin a ricusare risolutamente gli inviti di esso cardinale De
Medici; fattovi abate, compì la fabbrica di quel convento e la libreria,
dandone egli stesso il disegno e l'indirizzo, e invitando Rafaello a
dipingervi. Spedito nel rinuovato monastero dell'isola di Lerins in
Provenza, vi stabilì un'accademia, che molti traeva a studiare o ad
ascoltare. Era chiesto anche altrove a metter regola e dare esempj, e al
fine Paolo III lo pose nella congregazione dei nove (tre erano modenesi)
che prepararono il Concilio, e lo fece vescovo d'Urbino.
Il Contarini diceva a esso papa: «Padre santo, io ho in tal conto il
Cortese, che mi trarrei il cappel rosso di capo per porlo a lui, il
quale molto meglio di me servirebbe la santa sede in questo grado». Il
Sadoleto gli attestava, in nessuno trovarsi meglio le condizioni di buon
sacerdote: ingegno, consiglio, eloquenza, dottrina, e, ciò che meglio a
cristiano conviene, pietà, continenza, religione. Pertanto Paolo III
l'ornò cardinale nel 1542, con universale applauso: ma la fievole salute
gl'impedì d'adempiere alle tante incombenze onorevoli, e morì il 1548.
Le lettere sue, oltre il merito letterario, spirano candore, pietà e
zelo pel vantaggio altrui; nel trattar coi Protestanti, cercava
riguadagnarli colla dolcezza, disapprovando quelli che contro loro
scrivevano non dirò con ingiurie e scurrilità, ma neppure con ischerzi e
celie, dovendo chi indaga la verità mostrarsi mite e modesto
sull'esempio di Cristo, il quale non volle tampoco che Pietro
minacciasse a chi dicea mal di lui[125]. E in fatti nell'opera sua
contro Ulrico Valenio, ove dimostra che san Pietro fu veramente a Roma,
porge esempio di posata polemica e ragionata[126].
Reputazione ancor più estesa ottenne Jacobo Sadoleto, nato in Modena ai
12 luglio 1477 da famiglia civile, dov'erano comuni il sapere e la
virtù, e da padre illustre professor di dritto. Nelle belle lettere
innamoratosi di Virgilio, ancor fanciullo fece un poema _De Cajo
Curtio_; in giurisprudenza a Ferrara ebbe maestro il Leoniceno; in
filosofia si applicò ad Aristotele quando veniva di moda Platone; a Roma
adottò per motto _Sedulus animus spectati mores_, ed entrato a servizio
del cardinale Oliviero Caraffa, che lo fece prete, acquistò la stima del
Bembo, del Fregoso, del Beroaldo, del Valeriano, del Navagero: e morto
il Caraffa, passò a servigio del cardinale Fregoso, che possedeva molti
libri e manoscritti, raccoglieva i grandi artisti d'allora, e a cui
Sante Paguini dedicò la grammatica ebraica.
Leon X, salito papa, lo volle segretario col Bembo, acciocchè le sue
lettere uscissero vergate dai più eleganti scrittori in latino e in
italiano. In tal posto il Sadoleto potè viemeglio mettersi a contatto
de' grand'uomini; frequentava le accademie, coltivava la poesia; e
proveduto di soli trecento scudi, pur n'avanzava per comprare qualche
manuscritto, qualche anticaglia: esultando allorchè il papa gli
regalasse un cammeo, un bronzo, una curiosità bibliografica, ne lo
ringraziava in versi. Quando dal Fredi fu disepolto il famoso gruppo del
Laocoonte, il Sadoleto lo celebrò con un poema, e il Bembo gli diceva:
«Cento volte lessi il vostro _Laocoonte_. Mago stupendo, non solo voi
fate riviver l'immagine paterna, ma la statua stessa mostrate ai nostri
sguardi. Non ho mestieri d'andar a Roma per vederla: l'ho sottocchio».
Papa Adriano nulla capiva di tali gusti, sicchè, allorquando vide le
minute del Sadoleto disse: _Sunt literæ unius poetæ._ Pertanto il
Sadoleto se n'andò, come tanti altri fecero allora, conducendosi a
Carpentras, di cui Leon X l'avea destinato vescovo. Caricò i suoi tesori
sopra un vascello, ma la peste gittatasi a bordo, tutta la ciurma morì,
e il carico prezioso andò disperso; _tot labores quos impenderamus,
græcis præsertim codicibus conquerendis undique et colligendis, mei
tanti sumptus, meæ curæ, omnes iterum jam ad nihilum reciderunt._ Ben
presto da Clemente VII fu richiamato a Roma nel 1524; ma vedendo mal
avviarsi le cose per la costui oscillante politica, se ne partì venti
giorni prima del sacco memorando.
Nel suo vescovado dimenticò il lusso di Roma; soccorreva, educava quei
poveri montanari; distribuiva legna all'inverno, grano nella carestia;
frenò gli Ebrei usuraj; si oppose alle prepotenze, e con ciò ottenne
stima dai Francesi, ma non accettò le esibizioni di Francesco I che se
lo voleva a' fianchi. L'ammiraglio di Brion e il conte di Fürstenberg,
guidando i Francesi contro la casa di Savoja, rompevano addosso a
Carpentras, che coll'armi respinse que' brutali. Irritati, essi
cacciaronsi sopra la città per castigarla, come si dice nel linguaggio
de' prepotenti; ma il Sadoleto si presenta a loro, e col suo carattere e
col suo nome la salva. Intanto scriveva _Dell'educazione de' figliuoli_,
operetta che ancora può leggersi con frutto, ma dove non possiamo non
avvertire la poca parte che attribuisce alla religione positiva, egli
prelato e così pio. Occupavasi anche di opere scritturali per recare
ajuto alla religione dapertutto pericolante, e scriveva a Lazaro
Bonamico: _Ego opus habeo nunc in manibus ex eo genere quod est in
sacris literis positum. Studeo enim pro mea parte ferre opem christianæ
religioni, cum ea fere ubique periclitetur, quemadmodum imprimis quidem
et debeo et opto._
In fatto, ricordandosi della sua condizione, il Sadoleto attendeva alle
cose sacre, studiava san Paolo ed agitava le quistioni d'allora. Quando
pubblicò l'interpretazione del Salmo 14, Erasmo gli scriveva d'esser
incantato dalla facilità e semplicità della dizione, unita a somma
pietà, e soggiungeva: «Se di tali operette ci mandi Roma, confido che
molti acquisteranno migliore stima della vostra città, vedendo esservi
uomini che i libri arcani non solo eloquentemente, ma anche con santità
e pietà sanno trattare». E al Calvi librajo: «M'è in delizia l'opuscolo
del Sadoleto; e osservando quell'aureo fiume di dicitura, comprendo
quanto il mio rigagnolo sia torbido e meschino, e d'or innanzi mi
sforzerò di foggiar il mio stile su questo esempio»[127].
E quando, sulla tanto discussa epistola di san Paolo ai Romani, stampò
un commento a Lione nel 1535, Erasmo, lodandone l'ammirabile nitidezza
della lingua e la copia ciceroniana, congiunta ad affetto da vescovo,
temeva che non tutti l'approverebbero nè lo lasceriano senza appunti.
Facile induzione in tempi di discordie.
Si disse non credeva il purgatorio, ma serbiam di esso una lettera al
cardinale Cortese, ove dice: _Opus jam elucubratum in manibus habeo,
nondum expolitum sed tamen ejusmodi, ut ex eo intelligi possit quid ego
habeam de Purgatorio persuasi atque certi. Quæ res omnium maxime, hoc
perturbatissimo tempore, ab Ecclesiæ (ut scis) hostibus oppugnatur. In
quo ego catholicæ suffragor Ecclesiæ: quod sane in omnibus meis et curis
et actionibus semper est propositum_[128]. Parve anche odorare di
semipelagiano intorno alla Grazia, e staccarsi da sant'Agostino; onde il
suo libro fu proibito, per istanza del Badia, il quale, sebben suo
concittadino, non gliene scrisse tampoco, di che egli «doleasi fin a
morte, e quasi non poteva alzare il viso»[129]. Ricorse alla facoltà
teologica della Sorbona, e questa pure vi fece appunti e domandò
spiegazioni; ma avendo interposto il cardinale Contarini e mandato
apologia, la Corte di Roma approvò il suo libro, forse a patto che in
nuova edizione modificasse i passi incriminati, che in fatto trovansi
variati nelle posteriori[130].
Se ciò indica quanto si estendessero i sospetti, ci rivela insieme
l'indole del Sadoleto, il quale fu intitolato dai Francesi il Fenelon
della rinascenza. Infatti egli ebbe più volte a scagionarsi, senza però
cangiarsi, del mostrare coi Protestanti un'indulgenza, tanto più
virtuosa in quanto non nasceva da indifferenza, essendo anzi egli
zelantissimo a difendere e diffondere la verità. Oltre le relazioni che
vedemmo con Erasmo, egli si tenne in corrispondenza coi caporioni della
parte avversa; al Cocleo scriveva: «Mi piace il far vostro, così dolce e
moderato: non esasperiamo gli eretici». E soggiungeva: «Non so come
m'abbia creato la natura, ma non posso odiare uno per la sola ragione
ch'e' dissente dalla mia opinione». E parlando della sua mitezza verso
lo Sturm: _Decet nos istorum (hæreticorum) insolentiam non exasperare
convitiis, quo in genere maxime exultant ipsi, sed mansuetudine
retundere, quod proprium officium christiani hominis est._ A Giorgio
duca di Sassonia scriveva: _Nunc tibi mitto oratiunculam quandam meam...
ea continet sane modestam (mihi ut videtur) et cuilibet recte judicanti
probabilem sanctæ romanæ Ecclesiæ et totius sacerdotii defensionem,
adversus probrosas et pene quotidianas Lutheranorum vituperationes....
Ego irritare neminem prorsus volo, nec severe contentiones: hortator
enim sum pacis et auctor. Id scribere opto, quod nec Lutherani iniquo
omnino animo ferant, et Catholici accipiant æquissimo_[131]. Melantone
gli inviava tutte le sue pubblicazioni, ed esso diceva: «Se avessi a far
solo con Melantone, domani la pace saria stabilita nella Chiesa, ma con
Lutero è un altro cantare». E ad esso Melantone ebbe a scrivere una
lettera sì benevola, che questi la mostrò a' suoi amici; e Lutero a
lodar il Sadoleto, lodarlo gli eretici; lodarlo anche Giovanni Faber,
vescovo di Vienna, il quale però soggiungeva: «Vi confesso ingenuamente
che il linguaggio sì melato che voi usaste con Melantone rallegrò più
d'un Luterano, non dico tutti; mentre afflisse e conturbò molti
Cattolici. Voi credeste forse che la vostra lettera resterebbe secreta.
V'ingannò il buon cuore; la sciorinano a tutti, l'accompagnano di
commenti ingiuriosi alla vostra dignità. Vi credeste più prudente di san
Paolo, che di ritorno dal terzo cielo, raccomandava a Tito d'evitare
l'eretico»[132].
E il Sadoleto risponde: «Se scrissi a Melantone non fu per farmene un
amico, ma perchè speravo col linguaggio affettuoso cattivarlo, e che
così ci sarebbe più facile recuperare gli animi dei traviati. Sì,
dimenticai la mia dignità, perchè trattavasi della gloria di Dio, della
salute de' fratelli, della pace della Chiesa. Ebbi torto: peccai, come
voi dite, perchè non conoscevo abbastanza l'uomo a cui scriveva; volevo
colla dolcezza cristiana ricondurre all'ovile un de' fratelli smarriti.
Se lodai Melantone letterato, elegante scrittore, abile professore, non
volli difendere l'errore ch'e' sostiene. Perchè non potrei scrivergli?
Gli Israeliti non teneano commercio co' pubblicani?»
Allorquando Calvino staccossi da Ginevra, il Sadoleto credette opportuno
di scrivere ai Ginevrini, l'aprile 1539, deplorando i sovvertimenti che
recato avea la Riforma nella loro città, dianzi così colta e
ospitaliera; geme sui loro mali, e nella persuasione che i novatori non
potran trionfare se non per mezzo della rivolta e col conquasso delle
libertà civili e religiose; magnifica la grandezza dell'unità cattolica,
che con un'unica croce, un unico simbolo vinse il mondo, che sempre
senza interruzione insegnò le medesime verità, da san Girolamo fin a
Paolo III: stupenda unità, alla quale deve rifuggire chiunque s'intitola
cristiano, quand'anche i pastori non fossero sempre stati dolci e miti
di cuore come Cristo; che importa se il sole è velato a intervalli,
purchè rimanga sempre lo stesso? Il giorno del finale giudizio
(soggiungeva), due anime compariranno davanti al giudice supremo. Una
dirà: «Mio Dio, nata e cresciuta in seno alla vostra Chiesa, tenni i
suoi precetti quali gli avevo ricevuti dalla vostra bocca. Venner a me
novatori, colla Bibbia alla mano, cercando sommuovere il mio cuore,
svilendo il papato, insultando alla madre nostra, predicando la
disobbedienza e la rivolta: io stetti fermo nella fede de' miei padri,
nella credenza de' nostri dottori, negli insegnamenti de' nostri
pastori. Lo sfarzo d'alcuni pontefici, lo scandalo de' lor costumi, il
fasto delle dignità offuscarono bensì i miei occhi, ma io gli obbedii
senza giudicarli, io pover'anima, improntata in fronte col peccato.
Signore, eccomi a invocare meno la vostra giustizia che la
misericordia».
L'altra dirà: «Al veder i nostri preti superbi e ricchi, spesso coperti
d'oro e di peccati, montai in collera: io vissuto nella meditazione
della tua santa parola, rimasto indigente in una Chiesa, ove le mie
fatiche e il mio sapere m'avrebber dovuto elevare alle dignità, n'ebbi
dispetto, e presi la penna contro i pastori per distruggerne l'autorità:
ne assalii la dottrina, intaccai la liturgia, il digiuno, le astinenze,
la confessione; esaltai la fede e depressi le opere; domandai il tuo
sangue, e l'offersi in olocausto pe' miei peccati».
Il giudice eterno che dirà? Se v'è una Chiesa, l'anima fedele non potè
peccare, mantenendone i segni, i simboli e la parola: se anche questa
Chiesa, avesse mai potuto errare, il Signore potrebbe condannare chi
fallì solo per amore ed obbedienza? Ma l'anima che inorgoglisce sol nel
proprio sentimento, che ha per patrono soltanto il proprio interno, qual
ne sarà la sorte?
E finiva esortandoli a tornar alla verità. «Se i costumi nostri vi
stomacarono, se alcuni di noi colle colpe offuscarono la fronte
immacolata di questa Chiesa, voi potete odiar noi, ma non la nostra
parola e la nostra fede, essendo scritto, Fate ciò ch'essi diranno».
L'orazione, tutta piena di sottili interpretazioni di san Paolo, è
troppo lunga perchè divenisse popolare: e tanto meno essendo latina, e
finita d'artifizi retorici e di sottigliezze scolastiche: pure va fra
quanto di meglio nelle contenzioni d'allora io abbia veduto.
Non è in tempi di commozione che alle voci concilianti s'ascolti. Si
pensava a fargli rispondere, ma tant'era la reputazione del Sadoleto,
che niuno l'osava: onde Calvino, benchè allora espulso, offrì la sua
penna, e fece una risposta famosa. In quella espone i dogmi suoi, come
antichi: appartener egli alla chiesa di san Basilio, di san Crisostomo,
di sant'Ambrogio, di sant'Agostino; e cerca infirmar l'autorità di
«quest'uomo, fin dalla puerizia imbevuto nell'arti romane, in quella
officina d'astuzie e di tranelli».
Passando incognito da Ginevra, il Sadoleto cercò dove abitasse Calvino:
gli fu indicata una modesta casa e avendo battuto, il riformatore venne
egli stesso ad aprirgli in abito dimesso. Conversarono lungamente, ma
l'uno non potè convincer l'altro, e Calvino gli protestò che,
nell'osteggiar la Chiesa di Roma, non avea preso consiglio dal sangue e
dalla carne, ma dal puro desiderio di glorificar Dio e difendere la
fede.
Il Sadoleto ha più d'una lettera a Federico Fregoso arcivescovo di
Salerno dissuadendolo, dallo studiar troppo l'ebraico, o almeno di
preferirvi il greco e il latino[133]. Le ragioni che adduce non
contenterebbero certo gli ermeneutici, ma provano che vi si badava.
Di nuovo Paolo III lo chiamò a Roma nel 1536; e ornatolo della porpora,
lo pose tra quelli che stesero il _Consilium delectorum
cardinalium_[134].
Più volte dovette egli accompagnare i papi o viaggiar per affari:
venerato dapertutto, e attivissimo malgrado la tenue salute. Scriveva a
Carlo Gualteruzzi il 20 marzo 1544 come desiderasse ritirarsi dal
vescovado, «oltre che tutti i disegni e desiderj miei son oggi più che
mai fossero, allontanati dalle cure di queste cose e mareggi nostri
mondani e volti allo studio e contemplazione delle cose divine, al qual
esercizio spero nella benignità di Dio, ch'io potrò fare qualche miglior
frutto, e per me e per altri, o a questi o altri tempi, che far qui
nell'altre mie azioni non mi è stato concesso».
Finalmente morì a Roma il 18 ottobre 1547.
Altri begli ingegni ornavano allora Modena, fra' quali menzioneremo
Ercole Rangone, che fu vescovo di Rovigo, poi della patria sua e
cardinale (1530): Pietro Bertani, de' Predicatori, adoprato dal papa in
affari scabrosissimi; fatto vescovo di Fano, poi cardinale; Antonio
Fiordibello, uom di moltissime lettere, versato in ambascerie e nel
Concilio, e segretario del cardinale Polo, che recitò un'orazione _De
auctoritate ecclesiæ_ davanti a Filippo e Maria regina quando la
religione cattolica venne ripristinata in Inghilterra. Panfilo Sassi fu
portento di memoria: e avendo un poeta da colascione recitato certi
versi in lode d'un podestà, il Sassi levossi tacciandolo di plagiario,
ed avergli involato versi suoi, e per pruova li recitava; onde grande
stupore e mortificazione nel povero ciclico, finchè si rivelò la burla.
Legato a principi e nobili, al tumulto aulico preferiva il ritiro e lo
studio, talvolta lesse Dante e Petrarca commentandoli, con gran concorso
di persone. Potremmo aggiungere il famoso legista Cesare Castaldo,
Camillo Coccapani, Fulvio Rangone, il poeta Molza, e quel che vale per
cento, lo storico Sigonio.
Fra questi era assiduo Giovanni Grillenzoni, che, scolaro devotissimo
del Pomponazio, di questo raccolse le lezioni, neppur omettendo gli
scherzi onde talvolta le condiva. «Io non so, se altra patria sia tanto
obbligata ad alcun suo cittadino privato per esempj e per cose civili
ben fatte, quanto Modena è obbligata a Giovanni Grillenzone. Erano sette
fratelli, tra' quali egli non era il maggiore nè il minore; cinque
avevano moglie e figliuoli, e alcuni erano reputati, ed erano di natura
fieri e bizzarri, e incomportabili; e nondimeno tanta fu l'autorità sua
verso i fratelli, che fece, che, dopo la morte del padre loro, che fu
dell'anno di Cristo 1518, stettero tutti con la moglie e co' figliuoli
in una casa, vivendo in comune con somma concordia, senza pure una
parola acerba tra loro avervi, infino all'anno 1551, nel qual anno,
morto lui, che era il legame che riteneva i fratelli insieme, si
divisero separando ciascuno sè dagli altri. Ciascuna donna aveva la sua
fante, che serviva alla camera, e eranvi le fanti, che servivano tutta
la casa per far mangiare e bucato e simili cose, e ciascuna delle donne
prendeva il reggimento della casa la sua settimana a vicenda, comandando
alle predette fanti, e ciascuna faceva far pane e bucato la sua
settimana. Mangiavano in una sala capace i sette fratelli e le cinque
donne ad una tavola, e i figliuoli maggiori; ma i minori, che non erano
meno di quarantacinque o di cinquanta, in quel tempo medesimo ad una
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