Gli eretici d'Italia, vol. II - 37
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Tuttavia fa dar della corda agli altri, e fa un numero per poter poi
fare del resto. Si è dato ordine far venir oggi cento donne delle più
vecchie, e quelle far tormentare, e poi far giustiziare ancor loro, per
poter farne la misura perfetta. Ve ne sono sette che non vogliono veder
il Crocifisso, nè si vogliono confessare, i quali si abbruceranno vivi.
In undici giorni si è fatta esecuzione di duemila anime; e ne sono
prigioni mille seicento condannati; ed è seguita la giustizia di cento e
più, ammazzati in campagna, trovati con l'arme circa quaranta, e gli
altri tutti in disperazione a quattro e a cinque; bruciate l'una e
l'altra terra, e fatte tagliare molte possessioni»[304]; altri furono
messi a remare sulle galere spagnuole.
Luigi Pasquali suddetto, studiato a Losanna, si era sciolto dal legame
matrimoniale per andar nel regno di Napoli ad evangelizzare, e con
Stefano Negrino suo amico fu preso, e con ogni guisa di strapazzi
spedito a Roma; malgrado i patimenti rimase saldo, e rallegravasi di
soffrir per Cristo, e di sentire avvicinarsi l'ora di offrirsi in
sagrifizio al Salvatore, e l'8 settembre 1560 fu strangolato alla
_presenza del papa e de' cardinali_. Avea pubblicato un Nuovo Testamento
in italiano, e varie lettere _melle ac dulcedine evangelico refertissimæ
ac unctionem spirantes_, dice il martirologio protestante.
Il racconto è evidentemente esagerato dallo spirito di partito, e
appoggia su relazioni, nulla più attendibili che quelle di cui ogni
giorno c'ingannano le gazzette; fatto è che allora furono spente le
colonie del principato oltrappennino, cioè Montalto, Volturara, San
Sisto. Per interposizione del vescovo di Bovino si fece grazia agli
abitanti di Castelluccio, Faito, Celle, Monteleone. Parecchi giunsero a
tornare nelle valli alpine o nella Svizzera; altri abjurarono il loro
culto, e furono raccolti in Guardia, ch'era rimasta disabitata, dove fin
ad oggi le donne conservano alcuna traccia del vestire alpino, sottana
di panno rosso, maniche di velluto o panno nero, i capelli intrecciati
con nastro rosso o nero, quale usavasi fin testè nella Val d'Angrogna; e
il loro dialetto tiene del piemontese, come la loro fisionomia e
l'operosità[305].
Nè in Napoli mancarono errori e rigori. La famiglia Bonifazio possedeva
il principato d'Oria, in terra d'Otranto, per dono di re Federico a
Roberto che morì nel 1536, lasciando due figliuoli, entrambi letterati.
Dragonetto, stillando un potentissimo veleno, ne rimase morto. Suo
fratello Giovanni Bernardino ereditò il principato, ove ad Oria erano
uniti Francavilla e Casalnuovo, terre pingui e di abbondante rendita. Ma
il possessore era uno stravagante, viveva affatto in disparte, non
facendosi servire che da due schiave turche: e tutto dedito agli studj.
Aggiungeano che sentisse male della religione, e per ciò e perchè non
andava mai a messa temendo esser molestato dalla Inquisizione, raccolti
denari, finse andar a Venezia, e colle sue turche passò a conoscere i
capi della setta luterana. In fine si stabilì a Vilna in Lituania, un
miglio fuor della città, dopo che delle due serve una impazzò, l'altra
maritossi: avendo a Costantinopoli compro un altro schiavo, questo gli
fuggì in Moldavia, onde egli, senza servitori, «vive per lo più di
latticinj, d'uva, di fichi secchi, d'uva passa, pomi e ravanelli; beve
acqua pura; non abita in stufe, ancorchè paese freddissimo, ma spesse
volte si vede intorno a un po' di fuoco, soffiando per cuocere le sue
minestre, che per lo più son di latte e d'uva, assomigliando più
fornaciajo che altro...... Tutto il suo vestire non giunge al pregio di
due fiorini:.... Il letto e ogn'altra cosa sua non vuol che da altri che
da lui sien tocchi; ha la barba lunga ed unta, magro, e in questo tempo
(1586) può aver da sessanta a settant'anni. È della Confessione
Augustana, la qual non ha mai lasciata, e nimicissimo de' Calvinisti. In
Norimberg fu molto accarezzato: ma non avendo fermezza, in niun luogo si
può fermare lungo tempo»[306].
Nulla trovammo di costui nelle consuete fonti, ma ne conosciamo una
traduzione di Sallustio, impressa il 1550 dal Torrentino a Firenze, poi
una miscellanea _Hymnorum, epigrammatum et paradoxorum quorumdam_ di
lui, stampati a Danzica nel 1599, con una prefazione ove si parla delle
sue vicende, e come morisse in questa città il 1597. Da alcune lettere
di Quinto Mario Corrado s'indurrebbe sia fuggito di patria il secondo
anno di Paolo IV: il suo principato fu tratto al fisco, essendo egli
l'ultimo della famiglia: e re Filippo ne investì san Carlo Borromeo, che
poi lo vendette quarantamila zecchini, e in un sol giorno li distribuì
ai poveri.
Nel 1567 i cherici regolari scopersero a Napoli una nuova setta; la
quale professava i riti, le credenze, le empietà degli Ebrei, aprendo
scuole clandestine. Riferitone al vescovo Mario Caraffa, destinò a
reprimerli Gerolamo Ferro, chierico regolare, Gerolamo Panormitano,
domenicano, Alfonso Salmerone, della Compagnia di Gesù, prete Girolamo
Spinola[307].
D'un altro napoletano ci è dato ricordo, Giovan Maria della Lama medico.
Da più anni esercitava l'arte sua in Vienna, quando nel 1567 mandò una
petizione per mezzo del cardinale Comendone, ove esponea conoscere
d'esser denunziato al Sant'Uffizio per sospetto di cose religiose, e
quantunque sappia non essersi mai scostato da ciò che crede e comanda la
santa madre Chiesa, per potere però viver in pace, e se errò far
penitenza, supplica d'intercedergli dal papa di commettere la causa sua
al nunzio o a chi giudicherà in Vienna, giacchè sarebbe ruina dello
stato suo l'andar a presentarsi in Roma: poter i buoni Cattolici
attestare che, mentre fu in queste parti, si astenne da ogni
conversazione con eretici, e frequentò i sacramenti.
Nè Pio V, nè Gregorio XIII vollero consentirgli la domanda; Sisto V
all'imperatore Rodolfo II, che glielo raccomandava, rispose il 26 marzo
1587, che non son poche nè leggiere le incriminazioni per le quali esso
fuggì d'Italia, colla qual fuga crebbe gl'indizj: non esser possibile
farne il processo, così lontano dai testimonj: pure, se egli confessi le
colpe e abjuri gli errori, manderà facoltà di assolverlo. Intanto
avverte l'imperatore che disconviene dalla virtù e pietà sua il tener a
servigio del suo corpo un uomo sospetto d'eresia e per questa
fuoruscito[308].
In Napoli, delle persone che aveano frequentato le conversazioni di
Vittoria Colonna e di Giulia Gonzaga[309] molte furono citate al vicario
dell'arcivescovo; e Giovanni Francesco d'Alviso di Caserta, e Giovanni
Bernardino di Gargano d'Aversa decapitati ed arsi, e confiscati i loro
beni nel 1564, in onta del privilegio di Giulio III. Se n'empì di
sgomento la città; molti migrarono: le piazze inviarono al duca d'Alcala
vicerè onde sincerarsi se rivivesse il disegno di istituire
l'Inquisizione spagnuola. Furono assicurati del no; sicchè, dice il
sempre servile Giannone, cessò ogni sospetto d'Inquisizione; restando i
Napoletani contentissimi della benignità e clemenza del re[310].
Ove si noti che i Napoletani non ricusavano l'inquisizione ordinaria
esercitata dai vescovi: anzi nel seggio di Capuana è detto[311]: «Si
faccia deputati, con ordine che devano andare a ringraziare monsignor
arcivescovo illustrissimo delle tante dimostrazioni fatte contro gli
Eretici e gli Ebrei, e supplicarla che voglia esser servito di far
intendere a sua beatitudine la comune soddisfazione che tiene tutta la
città, che questa sorte di persone sieno del tutto castigate ed
estirpate per mano del nostro Ordinario, come si conviene; come sempre
avemo supplicato, giusta le norme de li canoni, e senza interposizione
di Corte secolare, ma santamente procedano nelle cose di religione
_tantum_».
In quel regno l'Inquisizione si continuò ad esercitare per via
ordinaria, cioè dal vicario del vescovo, assistito dal braccio secolare:
ma qualora l'Inquisizione di Roma avesse ottenuto il beneplacito regio,
istruiva processi anche contro regnicoli. Tal fu quello contro il già
detto Caracciolo marchese di Vico, tale uno contro due vecchie catalane,
che non volendo abjurare il giudaismo, furono consegnate al tribunale di
Roma che le condannò a morte. Nel 1583 il cardinale Savelli in nome del
papa domandava, per cose toccanti il Sant'Uffizio, fosse inviato a Roma
Giambattista Spinelli principe della Scalea, e il vicerè ordinava fosse
arrestato e tradotto, se non desse malleveria di venticinquemila scudi
di presentarsi al Sant'Uffizio. Altrettanto nel 1585 con Francesco Conte
capitano dell'isola di Capri; e l'anno seguente con Francesco Amoroso
capitano di Pietra Molara.
Col procedere del tempo, il Sant'Uffizio prese ardimento maggiore nel
regno, e piantava processi senza il beneplacito regio. Vietollo Filippo
III: pure non valse a impedire che, per mezzo dei vescovi, si procedesse
talvolta direttamente, come fu nel 1614 in una famosa causa contro suor
Giulia di Marco da Sepino, terziaria di San Francesco, che col
misticismo copriva strane oscenità; favorita da gran signori e da
Gesuiti.
Regnando Carlo II, erasi istituita a Napoli un'accademia degli
Investigatori, preseduta dal marchese d'Arena, la quale proponeasi di
ravviar la buona filosofia. Diede ombra, e se ne tolse occasione di
ridestare il Sant'Uffizio; e sotto monsignor Gilberto vescovo della Cava
si eresse un tribunale in San Domenico, e iniziaronsi processi,
costringendo alcuni ad abjurare certe loro proposizioni.
Per impedire che mai l'Inquisizione operasse alla spagnuola, la città
nel settembre 1691 aveva istituito una deputazione di cavalieri, scelti
da tutti i seggi della città, che vigilassero contro ogni usurpazione
del Sant'Uffizio. Questi sporsero reclamo al vicerè, ma in quel tempo
ruppesi la guerra per la successione. Dopo la quale, venuto al trono
Carlo Borbone, nel 1746, ad istigazione del tanto lodato Benedetto XIV,
l'arcivescovo Spinelli tentò ancora introdurre il Sant'Uffizio, e
istituiti i magistrati, processò tre persone. Queste appellaronsi alla
suddetta commissione, la quale dall'arcivescovo domandò comunicazione
degli atti che concernevano quei detenuti, e poichè ricusò, portarono
l'affare al trono. Fu anche concitato il popolo colla solita paura del
Sant'Uffizio spagnuolo, onde tumultuò e insolentì contro l'arcivescovo,
e attese il re quando per la strada marina tornava da Portici. Udito di
che si trattava, Carlo smontò di carrozza, entrò nella chiesa del
Carmine, e in ginocchio colla spada nuda toccando l'altare, giurò, non
da re ma da cavaliere, che in Napoli non vi sarebbe mai l'Inquisizione.
E pubblicato un rigoroso editto il 29 dicembre 1746, annunziò sbanditi i
due canonici della curia che aveano tenuto mano a quel processo, ripreso
il vicario, licenziati il notajo e gli attuarj, levata l'iscrizione
_Sanctum Officium_. Il popolo mostrò la sua riconoscenza al re col
regalargli trecentomila ducati.
Allora solo cessarono le operazioni di quel Sant'Uffizio, che di tempo
in tempo avea processato qualche eretico, qualche fatucchiero, e che
ogni anno il giorno di san Pietro mandava delle paniere piene di oggetti
di stregherie e malefizj e superstizioni a bruciare pubblicamente sulla
piazzetta vicina alla cattedrale[312].
A chi conosce la storia, foss'anche solo la contemporanea, non farà
stupore che l'isola di Sicilia anche in fatto d'Inquisizione operasse
tutt'altrimenti da Napoli. Lasciam via le disputate origini apostoliche
delle chiese di quell'isola, ma fin da' primi tempi vi troviamo
amplissimi possessi della Chiesa romana. Il papa v'era anche
metropolita, e solo Leone Isaurico obbligò i Siciliani a dipendere dal
patriarca d'Oriente, istituendo due metropoli, Siracusa e Catania[313],
cui s'aggiunsero poi Taormina, Messina, Palermo. Si mantenne salva dagli
errori degli Ariani, dei Pelagiani, dei Nestoriani, tantochè san Leone,
mandando al Concilio di Calcedonia Pascasio vescovo di Lilibeo, lo dice
_fratrem et episcopum meum, de ea provincia quæ videtur esse securiorem;
e virum de securiore provincia fecimus navigare_[314]. Antichissimi pure
vi sono gli Ordini religiosi, alcuno dei quali sussiste fin oggi senza
interruzione.
Conquistaronla poi i Saraceni, che qualche moderno vuol dipingerci come
tolleranti e autori di gran civiltà, sino a rimproverare i Siciliani
perchè respinsero quel giogo e quella fede. Tali sentenze oggi si
chiamano liberalismo: ma tutta la storia e le leggende attestano quanto
i natii avessero a soffrire in fatto di religione[315]. Il conte Ruggero
normanno, che poi liberò l'isola, la chiama _habitaculum nequitiæ et
infidelitatis_[316]; e Urbano II il 1093 scriveva ai vescovi di
Siracusa: «La gente saracena entrata in Sicilia, quanti trovò cultori
della fede cristiana uccise o dannò all'esiglio od oppresse di
miserabile servitù, in guisa che quasi per trecento anni cessò di
venerare il suo Dio»[317].
Ecco perchè, come Gaufrido Malaterra racconta[318], all'avvicinarsi del
conte Ruggero a Troina, i Cristiani che rimaneano gli corsero incontro
con gran giubilo. Così a Palermo quel conte trovò l'arcivescovo cacciato
dalla cattedrale e ridotto nella povera chiesa di san Ciriaco[319]. Ciò
pruova che Cristiani sopravivevano ancora, comechè oppressi: teneano
qualche chiesa, ebbero fin la permissione di recare il viatico agli
infermi: e doveano esser non pochi ancora, se fu per loro istigazione, e
sulla promessa giurata del loro ajuto che Ruggero sbarcò a Messina, ed
ebbe uno di que' facilissimi trionfi, di cui ribocca la storia di
Sicilia[320].
Venuti in dominio i Normanni, che per politica venerarono i pontefici,
la Sicilia fu tornata al patriarcato romano; moltiplicaronsi chiese e
istituzioni, pure furonvi tollerati gli Ebrei e i Saraceni.
Ai tempi di Guglielmo II trovossi una setta detta dei Vendicosi, cui
capo un tal Adinolfo di Pontecorvo, e fra' molti seguaci suoi è
mentovato il prete Sinnorito. Guglielmo procedette rigoroso contro
costoro; Adinolfo fu impiccato, i suoi discepoli bollati con ferro
rovente, il prete sospeso dal vescovo d'Aquino, malgrado le preghiere e
le lacrime del vescovo e degli abitanti di San Germano. Giovanni Ceccano
che ciò racconta[321] non ispecifica gli errori di costoro, bensì che
commetteano ogni male, ma di notte e non di giorno; neppur certi siamo
se fosse una setta religiosa.
Ai Normanni sottentravano gli Svevi, e indicammo come Federico II fosse
estremamente rigoroso ai Patarini, benchè condannato per eretico e
sospetto d'islamismo. Egli cacciò di Sicilia i Musulmani: ma come
ausiliarj opportuni perchè non ispaventati da scomuniche papali, li
radunò a Nocera de' Pagani presso Napoli. Da lui fu stabilita in Sicilia
l'Inquisizione fra il 1216 e il 1224, e l'archivio se ne conservava nel
Castellamare di Palermo, ma andò bruciato nel 1590 in un incendio che
causò la morte di cinquecento persone. Poi nel secolo passato il vicerè
Caracciolo, distruggendo il Sant'Uffizio, fe gettarne al fuoco quante
carte rimanevano: altre perirono negli incendj che la guerra causò a
Messina nel 1848, a Palermo nel 1860.
Così ci furono sottratte molte notizie, ma sappiamo che, quando l'isola
fu annessa alla Spagna nel 1479, Francesco Filippo de Barberis
inquisitore, andò a domandare a Fernando e Isabella la conferma del
diritto concesso dall'imperatore Federico II agli inquisitori di
appropriarsi un terzo dei beni confiscati agli eretici.
Frate Antonino da Rega domenicano, venne inquisitore a Palermo nel 1487,
e dinanzi agli altari dovettero giurargli obbedienza, il vicerè, il
municipio, gli uffiziali regj. Nel 1513 il Sant'Uffizio ottenne molte
delle attribuzioni di quello di Spagna; del resto in Sicilia l'autorità
papale era demandata ai re, in grazia della famosa Legazione
siciliana[322], sicchè non potea da Roma venir opposizione.
Numerosi Ebrei dimoravano in Sicilia, tollerati fin quando Fernando il
Cattolico, al 21 gennajo 1492, fe pubblicare anche colà il decreto che
li sbandiva, e pretendono che un decimo degli abitanti dell'isola
migrassero allora[323]: ma dovettero pagare tanto capitale, che
fruttasse quanto le tasse che soleano tributare annualmente.
Nel _Codex juris pontificalis auctore Francisco Candini_ (Palermo 1807)
al tom. IV, p. 397 sono esposte le competenze e le procedure degli
Inquisitori. Questi eran nominati col vicerè: dall'uno poteasi appellar
all'altro: giuravano serbar il secreto.
Sulle prime i Siciliani non mostrarono repugnare dall'Inquisizione
spagnuola, sì perchè temeano le opinioni nuove, sì perchè essa operava
mitemente. Come opportuno a impedire le esuberanze de' magistrati, tanti
ricorreano a quel tribunale che si dovette stabilire quali delitti non
vi si poteano portare. Molti, anche baroni, volean esserne officiali
perchè godean privilegio di foro. Gli inquisitori non risedeano
stabilmente nell'isola, ma vi comparivano solo a tempo: però arrolavano
_familiari_ e _foristi_, immuni dalla giurisdizione ordinaria;
accettavano denunzie segrete; agli accusati ricusavano il difensore e il
confronto de' testimonj, e i supplizj eseguivansi rari e senza pompa.
Pure il parlamento elevò la voce contro di questi, come fossero stati e
condannati alcuni non rei, ed estorte confessioni, confiscati beni.
Il re ascoltava i richiami, ma proseguiva, e i vicerè parteggiavano per
una istituzione spagnuola, monarchica e avversa a Roma. Allora poi che
vi si scopersero dei Luterani, il Sant'Uffizio s'applicò a reprimerli, e
prese tal fidanza da operare non solo come indipendente, ma superiore al
Governo[324]. Anzi col procedere del tempo giunse al punto da
scomunicare la gran corte e l'arcivescovo: e il governatore dovette
mandare mille armati contro il palazzo dove i padri inquisitori si erano
fortificati (1602).
Nella tremenda peste del 1624 a Palermo si infervorò la devozione
mediante il voto di celebrare l'immacolata concezione di Maria, festa
che si conservò sempre solennissima, sostenuta da alcuni cavalieri che
pronunziavano il _voto sanguinario_, cioè di sostenere anche colla spada
contro chi si fosse quel privilegio della madre vergine.
Non vi mancò lo spettacolo di Atti di fede, e il primo fu eseguito solo
il 9 settembre 1641 sotto il vicerè Corsetto, bruciando vivi
Giambattista Verron calvinista francese, Gabriello Tedesco, musulmano
battezzato e relapso, e Carlo Tavalara agostiniano laico calabrese, che
spacciavasi pel Messia, e inventò i Messiani.
Nel 1658 fu abbruciato pubblicamente frà Diego La Matina agostiniano,
che condannato dal Sant'Uffizio alla galera, colà pervertiva i suoi
compagni; poi valendosi della straordinaria sua forza, spezzò le
manette, e uccise l'inquisitore venuto a visitarlo. Non più che questi
due soli Atti son ricordati anche dai più ostili; poi nel 1724 il
supplizio di Gertrude Maria Cordovano, pinzochera benedettina, e
Romualdo laico agostiniano di Caltanisetta, rei di quietismo, bruciati
alla presenza del vicerè, de' grandi e de' magistrati. Fin nel 1781 vi
si bruciarono alcune streghe. Allora però Ferdinando IV, con dispaccio
27 marzo 1782, vedendo che quel tribunale non volea recedere dalle forme
sue abituali di processura, per le quali non restava assicurata
l'innocenza, lo aboliva, lasciando ai vescovi l'esercizio della
giurisdizione in materia di fede, sempre però colla licenza del vicerè,
e non mettendo il reo alle strette, ma denunciandogli l'accusa e
assegnandogli il difensore.
Nè le terre del papa restarono immuni da eresie. Fin dal 1521 abbiamo a
stampa senza luogo DIDYMI FAENTINI _adversus Thomam Placentinum pro
Martino Luthero theologo oratio, Ph. Melanctone auctore_, in-4º.
A Roma, quando più pareano prosperar le cose della Compagnia di Gesù un
«tal frate Agostino di nazione piemontese, di professione eremita
agostiniano, di fede in apparenza cattolico, copertamente però finissimo
luterano»[325], pensò giovarsi dell'assenza del papa, ito allora a
Marsiglia (1540), per ispargere l'eresia colle prediche, alle quali,
disinvolto e naturale predicatore com'era, traeva molte persone. Essendo
gli errori mescolati a molte verità, non se n'accorgeano esse, ma
uditolo alcuni gesuiti, «s'avvidero che in costui parlava Lutero, benchè
con lingua tronca, come chi vuol farsi intendere e non osa spiegarsi».
Dubitando il fesse per ignoranza, andarono a trovarlo per sincerarsi
delle sue intenzioni. Esso li rimbrottò d'ignoranza o malignità o
invidia, e continuò peggio: ond'essi pure dal pulpito tolsero a
discorrere delle indulgenze, dell'autorità del pontefice, del merito
della continenza, della necessità delle buone opere. Egli allora ricorse
a un'arte solita, qual fu di gettar su loro il sospetto d'eresie,
denunziando Ignazio come un lupo travestito da pastore, che avea sparso
per le prime accademie d'Europa gli errori, ed ora in Roma con alquanti
pari suoi facea l'ultime pruove: non volessero i Romani lasciarsene
ingannare più che non aveano fatto Alcalà, Salamanca, Parigi, Venezia,
dov'egli, convinto di marcie eresie, avea dovuto sottrarsi al fuoco col
fuggire.
La calunnia fa sempre effetto, e non che rifuggir dalle prediche de'
Gesuiti, la gente aspettavasi di vederli da un giorno all'altro condotti
al rogo, nè v'era chi osasse difenderli. In prima il santo rassegnossi
alla tempesta: di poi poc'a poco riavutosi, citò l'accusatore al
governator di Roma, ove in contradditorio convinse di bugiardi gli
avversarj, sostenuto da larghe e numerose testimonianze: e uscì sentenza
di piena assoluzione. Anzi quelli che erano stati accusatori vennero
riconvinti d'eresie: e il mal frate piemontese fuggì a Ginevra, ove
gittato l'abito, si fe predicante, e credesi fosse autore del _Summarium
scripturæ_.
Tommaso Lubero, che grecizzò il suo nome in Erasto, da Bologna il 1544
scriveva a un amico, che un frate dell'Osservanza predicando a Imola che
il regno di Cristo si acquista coi meriti nostri, un fanciullo gli
rinfacciò che bestemmiava Dio e Cristo. Il frate replicogli, non sapea
quel che dicesse, nè tampoco il _pater noster_; ma l'altro affacciogli
il detto, _Ex ore infantium et lactentium perfecisti laudem_, e si finì
col mettere il fanciullo in carcere[326].
Polidoro Virgilio da Urbino (1555) autore di varie opere d'alquanta
erudizione e scarsa a critica, accompagnò in Inghilterra il cardinale
Adriano da Corneto, e da Enrico VIII ebbe l'incarico di scrivere una
storia d'Inghilterra, che fu poi stampata a Basilea nel 1534, indi nel
1535 dedicata ad esso re. Vuolsi che di questo adottasse gli errori
benchè ecclesiastico, e che tornato in patria, li conservasse nel
silenzio[327].
Frà Luca Baglione perugino, nell'_Arte del predicare_ (1562), tra molti
atti proprj racconta che, inveendo in una, non dice quale, città contro
gli eretici, un di costoro gli tirò un'archibugiata, da cui Iddio però
preservollo; e un'altra volta assalito da più di quindici sifatti in
istrada, potè difendersene colla sola parola di Dio[328].
Meno trascorreva l'Inquisizione romana, ma pur troppo allora al
gentilesimo delle voluttà e dell'ingegno si credette riparare con quello
della severità e de' supplizj, fin a sminuire e la sicurezza del vivere
e la franchezza del pensare. Già dai tempi di Leon X, poi sempre in
appresso si andava insinuando ai papi che l'eresia bisognava reprimerla
colla forza; che «il fuoco della ribellione non si smorza se non col
gelo del terrore e con la pioggia del sangue»: non già colle
persuasioni, ma colle crociate e coi roghi essersi repressi i Patarini
nel secolo XII.
Nel 1533 fu eretto a Roma un famoso processo, nel quale molti si
ritrattarono. Non così Giovanni Mollio da Montalcino, minorita, che fra
la gioventù dell'Università di Bologna diffondeva le dottrine
zuingliane, con tanta riuscita, che un gentiluomo esibivasi pronto a
levare seimila soldati qualora si recasse guerra al papa[329]. Il Mollio
processato non volle ricredersi, anzi difendeva le sue dottrine e
imputava la tirannide ecclesiastica, dalla sentenza appellandosi al
giudice eterno. Pertanto fu strangolato a Roma, poi arso in Campo di
Fiori con un Perugino.
Sotto Paolo III trattandosi del come riparare all'eresia, il Caraffa,
cardinal teatino, suggerì la prima delle famose Congregazioni di Roma,
quella del Sant'Uffizio, mentre prima operavasi debolmente, dandosi le
cause a giudicare or al maestro del Sacro Palazzo, or al vicario di
Roma, or al collegio de' cardinali o a qualche commissione particolare.
E fu creata colla bolla _Licet ab initio_ del 21 luglio 1542:
preponendovi esso cardinale Caraffa, il Cervini, il Ghislieri, che
divennero papi Paolo IV, Marcello II, Pio V: tanto quel grado era
importante. L'uffizio componeasi di Domenicani; in alcun paese, di
Francescani; mai di Gesuiti, i quali anzi impetrarono ampie facoltà per
assolvere gli eretici[330].
Il Caraffa, divenuto Paolo IV, diede all'Inquisizione insolita vigoria,
volendo che non più dipendesse da ciascun vescovo, ma da essa
Congregazione, autorizzata a giudicare inappellabilmente in fatto
d'eresia di qua e di là dall'Alpi. Laonde pose in ogni città «valenti e
zelanti inquisitori, servendosi anche di secolari zelanti e dotti, per
ajuto della fede, come verbigrazia dell'Odescalco in Como, del conte
Albano in Bergamo, del Muzio in Milano. Questa risoluzione di servirsi
di secolari fu presa perchè, non solo moltissimi vescovi, vicarj, frati
e preti, ma ancora molti dell'istessa Inquisizione erano eretici»[331].
Singolare confessione!
Esso papa, in punto di morte, chiamatisi attorno i cardinali, raccomandò
loro specialmente questo _santissimo tribunale_. Sisto V lo ampliò
portando a dodici i cardinali di questo, e dandogli facoltà per tutto
l'orbe cattolico. Ne è prefetto il pontefice, ed ha giurisdizione sulle
persone di qualsiano grado, condizione, dignità, senza riserva di
privilegi locali o personali: ed obbliga i magistrati ad eseguire i suoi
decreti, sotto pena di scomunica.
Gli competeva d'inquisire gli eretici o sospetti d'eresia e loro
fautori; i maghi, malefici, incantatori, astrologi, che patteggiano col
demonio; chi proferisce bestemmie, qualificate ereticali, sebben fosse
in impeto di rabbia o per ignoranza, e chi si opponga al Sant'Uffizio ed
a' suoi ministri. Sospetto d'eresia è chi lascia sfuggirsi proposizioni
che offendano gli ascoltanti; o fa atti ereticali, come abusare de'
sacramenti, battezzare cose inanimate, per esempio, calamite, carta
vergine, fave, candele; chi strapazza immagini sacre; tiene, scrive o
legge libri proibiti; o si allontana dal vivere cattolico col non
confessarsi, mangiar cibi vietati e simili. Così la poligamia, il furto
di sacre particole, la sollecitazione a peccato in confessione, la finta
santimonia, la lettura di libri ereticali, oltre un'infinità di casi
minori, quali sarebbero il sostenere che la santissima vergine non sia
stata concepita senza la macchia originale, o usar litanie non
approvate, o celebrare messa e ascoltar confessioni senz'esser
sacerdote.
Che le procedure dell'Inquisizione, per quanto ci facciano orrore, non
fossero che le consuete basti a provarlo l'esser pubblicamente stampati
i suoi codici[332], secondo i quali, a ciascun reo è destinato un
procuratore, persona intelligente e di retto zelo, che con lui possa
comunicare e ne faccia le difese; di tutti gli atti e le deposizioni si
tenga protocollo; «i vicarj saranno avvertiti di non permettere che i
notari diano copia degli atti del Sant'Uffizio per qualsivoglia causa,
salvo al reo, e solamente quando pende il processo, senza il nome de'
testimonj, e senza quelle particolarità, per le quali il reo potesse
venir in cognizione della persona testificante»[333].
Allora si esacerbarono i sospetti. E per verità se la Riforma,
filosoficamente considerata, era uno slancio dello spirito umano verso
la libertà, un voler pensare e giudicare secondo la testa propria
intorno a fatti e idee che fin allora si erano accettati dall'autorità,
ne conseguiva che divenissero sospetti tutti i pensatori, in qualunque
senso pendessero. I principi, accortisi che al religioso teneano dietro
sovvertimenti politici, fecero causa comune con quella Roma, che aveano
guardata con gelosia, e dapertutto fu invigorita l'Inquisizione, con
privilegi e indulti si allettavano fraternite d'uomini e donne a
fare del resto. Si è dato ordine far venir oggi cento donne delle più
vecchie, e quelle far tormentare, e poi far giustiziare ancor loro, per
poter farne la misura perfetta. Ve ne sono sette che non vogliono veder
il Crocifisso, nè si vogliono confessare, i quali si abbruceranno vivi.
In undici giorni si è fatta esecuzione di duemila anime; e ne sono
prigioni mille seicento condannati; ed è seguita la giustizia di cento e
più, ammazzati in campagna, trovati con l'arme circa quaranta, e gli
altri tutti in disperazione a quattro e a cinque; bruciate l'una e
l'altra terra, e fatte tagliare molte possessioni»[304]; altri furono
messi a remare sulle galere spagnuole.
Luigi Pasquali suddetto, studiato a Losanna, si era sciolto dal legame
matrimoniale per andar nel regno di Napoli ad evangelizzare, e con
Stefano Negrino suo amico fu preso, e con ogni guisa di strapazzi
spedito a Roma; malgrado i patimenti rimase saldo, e rallegravasi di
soffrir per Cristo, e di sentire avvicinarsi l'ora di offrirsi in
sagrifizio al Salvatore, e l'8 settembre 1560 fu strangolato alla
_presenza del papa e de' cardinali_. Avea pubblicato un Nuovo Testamento
in italiano, e varie lettere _melle ac dulcedine evangelico refertissimæ
ac unctionem spirantes_, dice il martirologio protestante.
Il racconto è evidentemente esagerato dallo spirito di partito, e
appoggia su relazioni, nulla più attendibili che quelle di cui ogni
giorno c'ingannano le gazzette; fatto è che allora furono spente le
colonie del principato oltrappennino, cioè Montalto, Volturara, San
Sisto. Per interposizione del vescovo di Bovino si fece grazia agli
abitanti di Castelluccio, Faito, Celle, Monteleone. Parecchi giunsero a
tornare nelle valli alpine o nella Svizzera; altri abjurarono il loro
culto, e furono raccolti in Guardia, ch'era rimasta disabitata, dove fin
ad oggi le donne conservano alcuna traccia del vestire alpino, sottana
di panno rosso, maniche di velluto o panno nero, i capelli intrecciati
con nastro rosso o nero, quale usavasi fin testè nella Val d'Angrogna; e
il loro dialetto tiene del piemontese, come la loro fisionomia e
l'operosità[305].
Nè in Napoli mancarono errori e rigori. La famiglia Bonifazio possedeva
il principato d'Oria, in terra d'Otranto, per dono di re Federico a
Roberto che morì nel 1536, lasciando due figliuoli, entrambi letterati.
Dragonetto, stillando un potentissimo veleno, ne rimase morto. Suo
fratello Giovanni Bernardino ereditò il principato, ove ad Oria erano
uniti Francavilla e Casalnuovo, terre pingui e di abbondante rendita. Ma
il possessore era uno stravagante, viveva affatto in disparte, non
facendosi servire che da due schiave turche: e tutto dedito agli studj.
Aggiungeano che sentisse male della religione, e per ciò e perchè non
andava mai a messa temendo esser molestato dalla Inquisizione, raccolti
denari, finse andar a Venezia, e colle sue turche passò a conoscere i
capi della setta luterana. In fine si stabilì a Vilna in Lituania, un
miglio fuor della città, dopo che delle due serve una impazzò, l'altra
maritossi: avendo a Costantinopoli compro un altro schiavo, questo gli
fuggì in Moldavia, onde egli, senza servitori, «vive per lo più di
latticinj, d'uva, di fichi secchi, d'uva passa, pomi e ravanelli; beve
acqua pura; non abita in stufe, ancorchè paese freddissimo, ma spesse
volte si vede intorno a un po' di fuoco, soffiando per cuocere le sue
minestre, che per lo più son di latte e d'uva, assomigliando più
fornaciajo che altro...... Tutto il suo vestire non giunge al pregio di
due fiorini:.... Il letto e ogn'altra cosa sua non vuol che da altri che
da lui sien tocchi; ha la barba lunga ed unta, magro, e in questo tempo
(1586) può aver da sessanta a settant'anni. È della Confessione
Augustana, la qual non ha mai lasciata, e nimicissimo de' Calvinisti. In
Norimberg fu molto accarezzato: ma non avendo fermezza, in niun luogo si
può fermare lungo tempo»[306].
Nulla trovammo di costui nelle consuete fonti, ma ne conosciamo una
traduzione di Sallustio, impressa il 1550 dal Torrentino a Firenze, poi
una miscellanea _Hymnorum, epigrammatum et paradoxorum quorumdam_ di
lui, stampati a Danzica nel 1599, con una prefazione ove si parla delle
sue vicende, e come morisse in questa città il 1597. Da alcune lettere
di Quinto Mario Corrado s'indurrebbe sia fuggito di patria il secondo
anno di Paolo IV: il suo principato fu tratto al fisco, essendo egli
l'ultimo della famiglia: e re Filippo ne investì san Carlo Borromeo, che
poi lo vendette quarantamila zecchini, e in un sol giorno li distribuì
ai poveri.
Nel 1567 i cherici regolari scopersero a Napoli una nuova setta; la
quale professava i riti, le credenze, le empietà degli Ebrei, aprendo
scuole clandestine. Riferitone al vescovo Mario Caraffa, destinò a
reprimerli Gerolamo Ferro, chierico regolare, Gerolamo Panormitano,
domenicano, Alfonso Salmerone, della Compagnia di Gesù, prete Girolamo
Spinola[307].
D'un altro napoletano ci è dato ricordo, Giovan Maria della Lama medico.
Da più anni esercitava l'arte sua in Vienna, quando nel 1567 mandò una
petizione per mezzo del cardinale Comendone, ove esponea conoscere
d'esser denunziato al Sant'Uffizio per sospetto di cose religiose, e
quantunque sappia non essersi mai scostato da ciò che crede e comanda la
santa madre Chiesa, per potere però viver in pace, e se errò far
penitenza, supplica d'intercedergli dal papa di commettere la causa sua
al nunzio o a chi giudicherà in Vienna, giacchè sarebbe ruina dello
stato suo l'andar a presentarsi in Roma: poter i buoni Cattolici
attestare che, mentre fu in queste parti, si astenne da ogni
conversazione con eretici, e frequentò i sacramenti.
Nè Pio V, nè Gregorio XIII vollero consentirgli la domanda; Sisto V
all'imperatore Rodolfo II, che glielo raccomandava, rispose il 26 marzo
1587, che non son poche nè leggiere le incriminazioni per le quali esso
fuggì d'Italia, colla qual fuga crebbe gl'indizj: non esser possibile
farne il processo, così lontano dai testimonj: pure, se egli confessi le
colpe e abjuri gli errori, manderà facoltà di assolverlo. Intanto
avverte l'imperatore che disconviene dalla virtù e pietà sua il tener a
servigio del suo corpo un uomo sospetto d'eresia e per questa
fuoruscito[308].
In Napoli, delle persone che aveano frequentato le conversazioni di
Vittoria Colonna e di Giulia Gonzaga[309] molte furono citate al vicario
dell'arcivescovo; e Giovanni Francesco d'Alviso di Caserta, e Giovanni
Bernardino di Gargano d'Aversa decapitati ed arsi, e confiscati i loro
beni nel 1564, in onta del privilegio di Giulio III. Se n'empì di
sgomento la città; molti migrarono: le piazze inviarono al duca d'Alcala
vicerè onde sincerarsi se rivivesse il disegno di istituire
l'Inquisizione spagnuola. Furono assicurati del no; sicchè, dice il
sempre servile Giannone, cessò ogni sospetto d'Inquisizione; restando i
Napoletani contentissimi della benignità e clemenza del re[310].
Ove si noti che i Napoletani non ricusavano l'inquisizione ordinaria
esercitata dai vescovi: anzi nel seggio di Capuana è detto[311]: «Si
faccia deputati, con ordine che devano andare a ringraziare monsignor
arcivescovo illustrissimo delle tante dimostrazioni fatte contro gli
Eretici e gli Ebrei, e supplicarla che voglia esser servito di far
intendere a sua beatitudine la comune soddisfazione che tiene tutta la
città, che questa sorte di persone sieno del tutto castigate ed
estirpate per mano del nostro Ordinario, come si conviene; come sempre
avemo supplicato, giusta le norme de li canoni, e senza interposizione
di Corte secolare, ma santamente procedano nelle cose di religione
_tantum_».
In quel regno l'Inquisizione si continuò ad esercitare per via
ordinaria, cioè dal vicario del vescovo, assistito dal braccio secolare:
ma qualora l'Inquisizione di Roma avesse ottenuto il beneplacito regio,
istruiva processi anche contro regnicoli. Tal fu quello contro il già
detto Caracciolo marchese di Vico, tale uno contro due vecchie catalane,
che non volendo abjurare il giudaismo, furono consegnate al tribunale di
Roma che le condannò a morte. Nel 1583 il cardinale Savelli in nome del
papa domandava, per cose toccanti il Sant'Uffizio, fosse inviato a Roma
Giambattista Spinelli principe della Scalea, e il vicerè ordinava fosse
arrestato e tradotto, se non desse malleveria di venticinquemila scudi
di presentarsi al Sant'Uffizio. Altrettanto nel 1585 con Francesco Conte
capitano dell'isola di Capri; e l'anno seguente con Francesco Amoroso
capitano di Pietra Molara.
Col procedere del tempo, il Sant'Uffizio prese ardimento maggiore nel
regno, e piantava processi senza il beneplacito regio. Vietollo Filippo
III: pure non valse a impedire che, per mezzo dei vescovi, si procedesse
talvolta direttamente, come fu nel 1614 in una famosa causa contro suor
Giulia di Marco da Sepino, terziaria di San Francesco, che col
misticismo copriva strane oscenità; favorita da gran signori e da
Gesuiti.
Regnando Carlo II, erasi istituita a Napoli un'accademia degli
Investigatori, preseduta dal marchese d'Arena, la quale proponeasi di
ravviar la buona filosofia. Diede ombra, e se ne tolse occasione di
ridestare il Sant'Uffizio; e sotto monsignor Gilberto vescovo della Cava
si eresse un tribunale in San Domenico, e iniziaronsi processi,
costringendo alcuni ad abjurare certe loro proposizioni.
Per impedire che mai l'Inquisizione operasse alla spagnuola, la città
nel settembre 1691 aveva istituito una deputazione di cavalieri, scelti
da tutti i seggi della città, che vigilassero contro ogni usurpazione
del Sant'Uffizio. Questi sporsero reclamo al vicerè, ma in quel tempo
ruppesi la guerra per la successione. Dopo la quale, venuto al trono
Carlo Borbone, nel 1746, ad istigazione del tanto lodato Benedetto XIV,
l'arcivescovo Spinelli tentò ancora introdurre il Sant'Uffizio, e
istituiti i magistrati, processò tre persone. Queste appellaronsi alla
suddetta commissione, la quale dall'arcivescovo domandò comunicazione
degli atti che concernevano quei detenuti, e poichè ricusò, portarono
l'affare al trono. Fu anche concitato il popolo colla solita paura del
Sant'Uffizio spagnuolo, onde tumultuò e insolentì contro l'arcivescovo,
e attese il re quando per la strada marina tornava da Portici. Udito di
che si trattava, Carlo smontò di carrozza, entrò nella chiesa del
Carmine, e in ginocchio colla spada nuda toccando l'altare, giurò, non
da re ma da cavaliere, che in Napoli non vi sarebbe mai l'Inquisizione.
E pubblicato un rigoroso editto il 29 dicembre 1746, annunziò sbanditi i
due canonici della curia che aveano tenuto mano a quel processo, ripreso
il vicario, licenziati il notajo e gli attuarj, levata l'iscrizione
_Sanctum Officium_. Il popolo mostrò la sua riconoscenza al re col
regalargli trecentomila ducati.
Allora solo cessarono le operazioni di quel Sant'Uffizio, che di tempo
in tempo avea processato qualche eretico, qualche fatucchiero, e che
ogni anno il giorno di san Pietro mandava delle paniere piene di oggetti
di stregherie e malefizj e superstizioni a bruciare pubblicamente sulla
piazzetta vicina alla cattedrale[312].
A chi conosce la storia, foss'anche solo la contemporanea, non farà
stupore che l'isola di Sicilia anche in fatto d'Inquisizione operasse
tutt'altrimenti da Napoli. Lasciam via le disputate origini apostoliche
delle chiese di quell'isola, ma fin da' primi tempi vi troviamo
amplissimi possessi della Chiesa romana. Il papa v'era anche
metropolita, e solo Leone Isaurico obbligò i Siciliani a dipendere dal
patriarca d'Oriente, istituendo due metropoli, Siracusa e Catania[313],
cui s'aggiunsero poi Taormina, Messina, Palermo. Si mantenne salva dagli
errori degli Ariani, dei Pelagiani, dei Nestoriani, tantochè san Leone,
mandando al Concilio di Calcedonia Pascasio vescovo di Lilibeo, lo dice
_fratrem et episcopum meum, de ea provincia quæ videtur esse securiorem;
e virum de securiore provincia fecimus navigare_[314]. Antichissimi pure
vi sono gli Ordini religiosi, alcuno dei quali sussiste fin oggi senza
interruzione.
Conquistaronla poi i Saraceni, che qualche moderno vuol dipingerci come
tolleranti e autori di gran civiltà, sino a rimproverare i Siciliani
perchè respinsero quel giogo e quella fede. Tali sentenze oggi si
chiamano liberalismo: ma tutta la storia e le leggende attestano quanto
i natii avessero a soffrire in fatto di religione[315]. Il conte Ruggero
normanno, che poi liberò l'isola, la chiama _habitaculum nequitiæ et
infidelitatis_[316]; e Urbano II il 1093 scriveva ai vescovi di
Siracusa: «La gente saracena entrata in Sicilia, quanti trovò cultori
della fede cristiana uccise o dannò all'esiglio od oppresse di
miserabile servitù, in guisa che quasi per trecento anni cessò di
venerare il suo Dio»[317].
Ecco perchè, come Gaufrido Malaterra racconta[318], all'avvicinarsi del
conte Ruggero a Troina, i Cristiani che rimaneano gli corsero incontro
con gran giubilo. Così a Palermo quel conte trovò l'arcivescovo cacciato
dalla cattedrale e ridotto nella povera chiesa di san Ciriaco[319]. Ciò
pruova che Cristiani sopravivevano ancora, comechè oppressi: teneano
qualche chiesa, ebbero fin la permissione di recare il viatico agli
infermi: e doveano esser non pochi ancora, se fu per loro istigazione, e
sulla promessa giurata del loro ajuto che Ruggero sbarcò a Messina, ed
ebbe uno di que' facilissimi trionfi, di cui ribocca la storia di
Sicilia[320].
Venuti in dominio i Normanni, che per politica venerarono i pontefici,
la Sicilia fu tornata al patriarcato romano; moltiplicaronsi chiese e
istituzioni, pure furonvi tollerati gli Ebrei e i Saraceni.
Ai tempi di Guglielmo II trovossi una setta detta dei Vendicosi, cui
capo un tal Adinolfo di Pontecorvo, e fra' molti seguaci suoi è
mentovato il prete Sinnorito. Guglielmo procedette rigoroso contro
costoro; Adinolfo fu impiccato, i suoi discepoli bollati con ferro
rovente, il prete sospeso dal vescovo d'Aquino, malgrado le preghiere e
le lacrime del vescovo e degli abitanti di San Germano. Giovanni Ceccano
che ciò racconta[321] non ispecifica gli errori di costoro, bensì che
commetteano ogni male, ma di notte e non di giorno; neppur certi siamo
se fosse una setta religiosa.
Ai Normanni sottentravano gli Svevi, e indicammo come Federico II fosse
estremamente rigoroso ai Patarini, benchè condannato per eretico e
sospetto d'islamismo. Egli cacciò di Sicilia i Musulmani: ma come
ausiliarj opportuni perchè non ispaventati da scomuniche papali, li
radunò a Nocera de' Pagani presso Napoli. Da lui fu stabilita in Sicilia
l'Inquisizione fra il 1216 e il 1224, e l'archivio se ne conservava nel
Castellamare di Palermo, ma andò bruciato nel 1590 in un incendio che
causò la morte di cinquecento persone. Poi nel secolo passato il vicerè
Caracciolo, distruggendo il Sant'Uffizio, fe gettarne al fuoco quante
carte rimanevano: altre perirono negli incendj che la guerra causò a
Messina nel 1848, a Palermo nel 1860.
Così ci furono sottratte molte notizie, ma sappiamo che, quando l'isola
fu annessa alla Spagna nel 1479, Francesco Filippo de Barberis
inquisitore, andò a domandare a Fernando e Isabella la conferma del
diritto concesso dall'imperatore Federico II agli inquisitori di
appropriarsi un terzo dei beni confiscati agli eretici.
Frate Antonino da Rega domenicano, venne inquisitore a Palermo nel 1487,
e dinanzi agli altari dovettero giurargli obbedienza, il vicerè, il
municipio, gli uffiziali regj. Nel 1513 il Sant'Uffizio ottenne molte
delle attribuzioni di quello di Spagna; del resto in Sicilia l'autorità
papale era demandata ai re, in grazia della famosa Legazione
siciliana[322], sicchè non potea da Roma venir opposizione.
Numerosi Ebrei dimoravano in Sicilia, tollerati fin quando Fernando il
Cattolico, al 21 gennajo 1492, fe pubblicare anche colà il decreto che
li sbandiva, e pretendono che un decimo degli abitanti dell'isola
migrassero allora[323]: ma dovettero pagare tanto capitale, che
fruttasse quanto le tasse che soleano tributare annualmente.
Nel _Codex juris pontificalis auctore Francisco Candini_ (Palermo 1807)
al tom. IV, p. 397 sono esposte le competenze e le procedure degli
Inquisitori. Questi eran nominati col vicerè: dall'uno poteasi appellar
all'altro: giuravano serbar il secreto.
Sulle prime i Siciliani non mostrarono repugnare dall'Inquisizione
spagnuola, sì perchè temeano le opinioni nuove, sì perchè essa operava
mitemente. Come opportuno a impedire le esuberanze de' magistrati, tanti
ricorreano a quel tribunale che si dovette stabilire quali delitti non
vi si poteano portare. Molti, anche baroni, volean esserne officiali
perchè godean privilegio di foro. Gli inquisitori non risedeano
stabilmente nell'isola, ma vi comparivano solo a tempo: però arrolavano
_familiari_ e _foristi_, immuni dalla giurisdizione ordinaria;
accettavano denunzie segrete; agli accusati ricusavano il difensore e il
confronto de' testimonj, e i supplizj eseguivansi rari e senza pompa.
Pure il parlamento elevò la voce contro di questi, come fossero stati e
condannati alcuni non rei, ed estorte confessioni, confiscati beni.
Il re ascoltava i richiami, ma proseguiva, e i vicerè parteggiavano per
una istituzione spagnuola, monarchica e avversa a Roma. Allora poi che
vi si scopersero dei Luterani, il Sant'Uffizio s'applicò a reprimerli, e
prese tal fidanza da operare non solo come indipendente, ma superiore al
Governo[324]. Anzi col procedere del tempo giunse al punto da
scomunicare la gran corte e l'arcivescovo: e il governatore dovette
mandare mille armati contro il palazzo dove i padri inquisitori si erano
fortificati (1602).
Nella tremenda peste del 1624 a Palermo si infervorò la devozione
mediante il voto di celebrare l'immacolata concezione di Maria, festa
che si conservò sempre solennissima, sostenuta da alcuni cavalieri che
pronunziavano il _voto sanguinario_, cioè di sostenere anche colla spada
contro chi si fosse quel privilegio della madre vergine.
Non vi mancò lo spettacolo di Atti di fede, e il primo fu eseguito solo
il 9 settembre 1641 sotto il vicerè Corsetto, bruciando vivi
Giambattista Verron calvinista francese, Gabriello Tedesco, musulmano
battezzato e relapso, e Carlo Tavalara agostiniano laico calabrese, che
spacciavasi pel Messia, e inventò i Messiani.
Nel 1658 fu abbruciato pubblicamente frà Diego La Matina agostiniano,
che condannato dal Sant'Uffizio alla galera, colà pervertiva i suoi
compagni; poi valendosi della straordinaria sua forza, spezzò le
manette, e uccise l'inquisitore venuto a visitarlo. Non più che questi
due soli Atti son ricordati anche dai più ostili; poi nel 1724 il
supplizio di Gertrude Maria Cordovano, pinzochera benedettina, e
Romualdo laico agostiniano di Caltanisetta, rei di quietismo, bruciati
alla presenza del vicerè, de' grandi e de' magistrati. Fin nel 1781 vi
si bruciarono alcune streghe. Allora però Ferdinando IV, con dispaccio
27 marzo 1782, vedendo che quel tribunale non volea recedere dalle forme
sue abituali di processura, per le quali non restava assicurata
l'innocenza, lo aboliva, lasciando ai vescovi l'esercizio della
giurisdizione in materia di fede, sempre però colla licenza del vicerè,
e non mettendo il reo alle strette, ma denunciandogli l'accusa e
assegnandogli il difensore.
Nè le terre del papa restarono immuni da eresie. Fin dal 1521 abbiamo a
stampa senza luogo DIDYMI FAENTINI _adversus Thomam Placentinum pro
Martino Luthero theologo oratio, Ph. Melanctone auctore_, in-4º.
A Roma, quando più pareano prosperar le cose della Compagnia di Gesù un
«tal frate Agostino di nazione piemontese, di professione eremita
agostiniano, di fede in apparenza cattolico, copertamente però finissimo
luterano»[325], pensò giovarsi dell'assenza del papa, ito allora a
Marsiglia (1540), per ispargere l'eresia colle prediche, alle quali,
disinvolto e naturale predicatore com'era, traeva molte persone. Essendo
gli errori mescolati a molte verità, non se n'accorgeano esse, ma
uditolo alcuni gesuiti, «s'avvidero che in costui parlava Lutero, benchè
con lingua tronca, come chi vuol farsi intendere e non osa spiegarsi».
Dubitando il fesse per ignoranza, andarono a trovarlo per sincerarsi
delle sue intenzioni. Esso li rimbrottò d'ignoranza o malignità o
invidia, e continuò peggio: ond'essi pure dal pulpito tolsero a
discorrere delle indulgenze, dell'autorità del pontefice, del merito
della continenza, della necessità delle buone opere. Egli allora ricorse
a un'arte solita, qual fu di gettar su loro il sospetto d'eresie,
denunziando Ignazio come un lupo travestito da pastore, che avea sparso
per le prime accademie d'Europa gli errori, ed ora in Roma con alquanti
pari suoi facea l'ultime pruove: non volessero i Romani lasciarsene
ingannare più che non aveano fatto Alcalà, Salamanca, Parigi, Venezia,
dov'egli, convinto di marcie eresie, avea dovuto sottrarsi al fuoco col
fuggire.
La calunnia fa sempre effetto, e non che rifuggir dalle prediche de'
Gesuiti, la gente aspettavasi di vederli da un giorno all'altro condotti
al rogo, nè v'era chi osasse difenderli. In prima il santo rassegnossi
alla tempesta: di poi poc'a poco riavutosi, citò l'accusatore al
governator di Roma, ove in contradditorio convinse di bugiardi gli
avversarj, sostenuto da larghe e numerose testimonianze: e uscì sentenza
di piena assoluzione. Anzi quelli che erano stati accusatori vennero
riconvinti d'eresie: e il mal frate piemontese fuggì a Ginevra, ove
gittato l'abito, si fe predicante, e credesi fosse autore del _Summarium
scripturæ_.
Tommaso Lubero, che grecizzò il suo nome in Erasto, da Bologna il 1544
scriveva a un amico, che un frate dell'Osservanza predicando a Imola che
il regno di Cristo si acquista coi meriti nostri, un fanciullo gli
rinfacciò che bestemmiava Dio e Cristo. Il frate replicogli, non sapea
quel che dicesse, nè tampoco il _pater noster_; ma l'altro affacciogli
il detto, _Ex ore infantium et lactentium perfecisti laudem_, e si finì
col mettere il fanciullo in carcere[326].
Polidoro Virgilio da Urbino (1555) autore di varie opere d'alquanta
erudizione e scarsa a critica, accompagnò in Inghilterra il cardinale
Adriano da Corneto, e da Enrico VIII ebbe l'incarico di scrivere una
storia d'Inghilterra, che fu poi stampata a Basilea nel 1534, indi nel
1535 dedicata ad esso re. Vuolsi che di questo adottasse gli errori
benchè ecclesiastico, e che tornato in patria, li conservasse nel
silenzio[327].
Frà Luca Baglione perugino, nell'_Arte del predicare_ (1562), tra molti
atti proprj racconta che, inveendo in una, non dice quale, città contro
gli eretici, un di costoro gli tirò un'archibugiata, da cui Iddio però
preservollo; e un'altra volta assalito da più di quindici sifatti in
istrada, potè difendersene colla sola parola di Dio[328].
Meno trascorreva l'Inquisizione romana, ma pur troppo allora al
gentilesimo delle voluttà e dell'ingegno si credette riparare con quello
della severità e de' supplizj, fin a sminuire e la sicurezza del vivere
e la franchezza del pensare. Già dai tempi di Leon X, poi sempre in
appresso si andava insinuando ai papi che l'eresia bisognava reprimerla
colla forza; che «il fuoco della ribellione non si smorza se non col
gelo del terrore e con la pioggia del sangue»: non già colle
persuasioni, ma colle crociate e coi roghi essersi repressi i Patarini
nel secolo XII.
Nel 1533 fu eretto a Roma un famoso processo, nel quale molti si
ritrattarono. Non così Giovanni Mollio da Montalcino, minorita, che fra
la gioventù dell'Università di Bologna diffondeva le dottrine
zuingliane, con tanta riuscita, che un gentiluomo esibivasi pronto a
levare seimila soldati qualora si recasse guerra al papa[329]. Il Mollio
processato non volle ricredersi, anzi difendeva le sue dottrine e
imputava la tirannide ecclesiastica, dalla sentenza appellandosi al
giudice eterno. Pertanto fu strangolato a Roma, poi arso in Campo di
Fiori con un Perugino.
Sotto Paolo III trattandosi del come riparare all'eresia, il Caraffa,
cardinal teatino, suggerì la prima delle famose Congregazioni di Roma,
quella del Sant'Uffizio, mentre prima operavasi debolmente, dandosi le
cause a giudicare or al maestro del Sacro Palazzo, or al vicario di
Roma, or al collegio de' cardinali o a qualche commissione particolare.
E fu creata colla bolla _Licet ab initio_ del 21 luglio 1542:
preponendovi esso cardinale Caraffa, il Cervini, il Ghislieri, che
divennero papi Paolo IV, Marcello II, Pio V: tanto quel grado era
importante. L'uffizio componeasi di Domenicani; in alcun paese, di
Francescani; mai di Gesuiti, i quali anzi impetrarono ampie facoltà per
assolvere gli eretici[330].
Il Caraffa, divenuto Paolo IV, diede all'Inquisizione insolita vigoria,
volendo che non più dipendesse da ciascun vescovo, ma da essa
Congregazione, autorizzata a giudicare inappellabilmente in fatto
d'eresia di qua e di là dall'Alpi. Laonde pose in ogni città «valenti e
zelanti inquisitori, servendosi anche di secolari zelanti e dotti, per
ajuto della fede, come verbigrazia dell'Odescalco in Como, del conte
Albano in Bergamo, del Muzio in Milano. Questa risoluzione di servirsi
di secolari fu presa perchè, non solo moltissimi vescovi, vicarj, frati
e preti, ma ancora molti dell'istessa Inquisizione erano eretici»[331].
Singolare confessione!
Esso papa, in punto di morte, chiamatisi attorno i cardinali, raccomandò
loro specialmente questo _santissimo tribunale_. Sisto V lo ampliò
portando a dodici i cardinali di questo, e dandogli facoltà per tutto
l'orbe cattolico. Ne è prefetto il pontefice, ed ha giurisdizione sulle
persone di qualsiano grado, condizione, dignità, senza riserva di
privilegi locali o personali: ed obbliga i magistrati ad eseguire i suoi
decreti, sotto pena di scomunica.
Gli competeva d'inquisire gli eretici o sospetti d'eresia e loro
fautori; i maghi, malefici, incantatori, astrologi, che patteggiano col
demonio; chi proferisce bestemmie, qualificate ereticali, sebben fosse
in impeto di rabbia o per ignoranza, e chi si opponga al Sant'Uffizio ed
a' suoi ministri. Sospetto d'eresia è chi lascia sfuggirsi proposizioni
che offendano gli ascoltanti; o fa atti ereticali, come abusare de'
sacramenti, battezzare cose inanimate, per esempio, calamite, carta
vergine, fave, candele; chi strapazza immagini sacre; tiene, scrive o
legge libri proibiti; o si allontana dal vivere cattolico col non
confessarsi, mangiar cibi vietati e simili. Così la poligamia, il furto
di sacre particole, la sollecitazione a peccato in confessione, la finta
santimonia, la lettura di libri ereticali, oltre un'infinità di casi
minori, quali sarebbero il sostenere che la santissima vergine non sia
stata concepita senza la macchia originale, o usar litanie non
approvate, o celebrare messa e ascoltar confessioni senz'esser
sacerdote.
Che le procedure dell'Inquisizione, per quanto ci facciano orrore, non
fossero che le consuete basti a provarlo l'esser pubblicamente stampati
i suoi codici[332], secondo i quali, a ciascun reo è destinato un
procuratore, persona intelligente e di retto zelo, che con lui possa
comunicare e ne faccia le difese; di tutti gli atti e le deposizioni si
tenga protocollo; «i vicarj saranno avvertiti di non permettere che i
notari diano copia degli atti del Sant'Uffizio per qualsivoglia causa,
salvo al reo, e solamente quando pende il processo, senza il nome de'
testimonj, e senza quelle particolarità, per le quali il reo potesse
venir in cognizione della persona testificante»[333].
Allora si esacerbarono i sospetti. E per verità se la Riforma,
filosoficamente considerata, era uno slancio dello spirito umano verso
la libertà, un voler pensare e giudicare secondo la testa propria
intorno a fatti e idee che fin allora si erano accettati dall'autorità,
ne conseguiva che divenissero sospetti tutti i pensatori, in qualunque
senso pendessero. I principi, accortisi che al religioso teneano dietro
sovvertimenti politici, fecero causa comune con quella Roma, che aveano
guardata con gelosia, e dapertutto fu invigorita l'Inquisizione, con
privilegi e indulti si allettavano fraternite d'uomini e donne a
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