Gli eretici d'Italia, vol. II - 35

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l'insurrezione armata di questi[276], con armi ed altri mezzi mondani e
coattivi salvando il diritto e la libertà spirituale; mentre in antico
erasi messo il dogma a servizio della forza pubblica, chiesero si
mettesse la forza pubblica a servizio del dogma.
In ciò quanto s'avea torto?
Teorema allora ammesso universalmente era la legittimità di Dio e del
suo culto, e la legittimità della Chiesa nel propagarlo.
Se la società religiosa è fondata sull'unità di dottrine, deve
procacciarla con mezzi esterni nell'ordine esterno, e per conseguenza
prevenire e punire delitti, e più il delitto che ne scalza le
fondamenta, qual è l'eresia.
Nello stato di pruova, la libertà consiste nella facoltà radicale di
scegliere fra l'errore e la verità, fra il bene e il male, con tutti i
rischi d'una tale scelta. È la facoltà di determinarsi a credere e
operare secondo il lume della coscienza, senza subir violenza esterna,
sotto la sola responsabilità della propria scelta davanti alla giustizia
di Dio. Ciò implica l'obbligazione morale di scegliere la verità e
praticare il bene. Or la verità è una: il bene non è il male: il sì non
può esser il no, nè tutte le religioni esser buone, cioè non tutte
eguali per conoscer il vero, possederlo, conservarlo, diffonderlo. Se
così non fosse, che varrebbe la coscienza umana? a che ci sarebbe ella
data? E chiameremo libertà la trista facoltà di vagar di fantasma in
fantasma, e di sperimentare tutti gli errori? Questa indifferenza in
morale e in religione non è piuttosto la negazione più ingiuriosa della
libertà di coscienza?
La libertà morale non è il diritto di far male; è l'atto interiore pel
quale ci determiniamo liberamente a ciò che è bene; contiene la libertà
della elezione e la possibilità del male, escludendo ogni violenza
fisica. Scegliere il bene è il dovere primo dell'uomo: scegliere il male
è un abusare della libertà. Non vi può dunque essere diritto di
scegliere una religione falsa o di propagarla: onde rettamente la Chiesa
cattolica considera tutte le false religioni come abuso della libertà.
Potrebbe ella dunque abbandonarne la scelta alla libera determinazione
degli individui? E non possedendo mezzi di coazione esterna, deve
invocare la podestà secolare?
San Tommaso, domandandosi se possano costringersi gl'infedeli ad
abbracciare la fede, risponde che _nullo modo sunt ad fidem compellendi
ut ipsi credant, quia credere voluntatis est_, cioè che la fede dipende
dalla volontà[277], e sostiene che devonsi tollerare anche i culti degli
infedeli, come Dio tollera certi mali, per non togliere all'uomo la
libertà. In fatti non è vero che chi possiede l'autorità sia obbligato a
impedir tutto il male: di fronte alla coscienza e al libero arbitrio non
può adoprarvi che mezzi irreprovevoli. E il famoso Suarez dava come
sentenza comune de' teologi che «gl'infedeli non apóstati non possono
costringersi ad abbracciare la fede, sebben ne abbiano acquistato
sufficiente cognizione»[278]. Le usanze contrarie alla ragione e a Dio
(dic'egli), non devono dai principi tollerarsi nei sudditi, in generale:
bensì il possono quando altrimenti ne verrebbe un danno notevole; quanto
alle usanze religiose che in sè stesse non sono contrarie alla ragione
naturale devono tollerarsi; e ciò quand'anche siano contrarie alla fede
cristiana, altrimenti sarebbe un imporre la fede per violenza, il che
non è mai permesso.
La Chiesa non ha autorità legittima sopra gli infedeli, sicchè non può
costringerli: e neppur quando fossero suoi sudditi temporalmente,
giacchè la Chiesa non ha ricevuto da Cristo tale autorità sui sudditi
temporali. Il Concilio di Trento statuì che _Ecclesia in neminem
judicium exercet, qui prius per baptismum non fuerit ingressus_[279].
Non si citino fatti parziali d'uomini e di tempi, sibbene le dottrine.
Or queste, chiarite dai supremi maestri, portano che in capo a tutto sta
il diritto di Dio d'esser adorato nella forma ch'egli prescrisse: segue
la missione della Chiesa di condurvi i popoli colla persuasione e colla
cooperazione dell'autorità secolare; sempre con eccezioni opportune e
con applicazioni sapienti secondo l'indole degli infedeli, e sempre
esclusa la violenza e i civili perturbamenti.
Perchè l'eresia fosse punibile come attentato alla fede, sarebbe
necessario che il Cristiano perseverasse nell'errore, sebben
sufficientemente istruito, e che manifestasse con atti la sua
opposizione all'autorità della Chiesa. Il semplice errore involontario
non è nemmanco colpa agli occhi della morale.
Ma se la Chiesa è la base di tutto l'insegnamento, come legittima
giudice delle controversie, il resisterle diventa colpa. Così dicono i
difensori della coazione. Ma dove la colpa cominci, Iddio solo n'è
giudice.
Soggiungono: «La Chiesa bisogna sia forte quanto basti per difendersi da
se stessa e trionfare. Or non è vero che sia forte abbastanza, giacchè,
contro una religione che combatte gl'istinti pervertiti, che impone
difficili doveri, si alleano tutte le passioni naturali, e trovano nel
cuore di ciascuno un ajuto potente. Inoltre contro assalti sconnessi e
quotidiani, diretti a un punto isolato, mal può reggersi essa, formata
da un accordo perfettamente compaginato di dottrine, di consigli, di
prescrizioni, di fatti storici, così ben incatenati, che pochi possono
abbracciarne l'insieme, e averlo sempre presente. Poi la religione è
fondamento della morale: dunque è dovere de' Governi proteggerla;
altrimenti sarebbe un lasciar distruggere le radici dell'albero; la
fonte che dà l'acqua al paese. Come anche la libertà morale ha i suoi
limiti, cessando quando divien nociva alla società; così la libertà
religiosa dovrebbe cessare quando scuote lo Stato, e viola il ben
morale.
E di fatto il potere civile, considerando l'eresia come misfatto
sociale, la reprimeva; attesa l'unità della fede, allora non iscomposta
in tante sêtte, e guardandosi la Chiesa come una proprietà comune,
largita dal Cielo, non potea restar indifferente agli attacchi recatile.
Il falsificare la fede non doveva dirsi delitto se diceasi tale il
falsificare la moneta? non erano obbligati i Cristiani a conservarla pel
patto contratto nel battesimo? non aveano ogni ragione di non esser
turbati da uno nel possesso della loro fede? Tutte le società anche
etniche ritennero che le dottrine religiose di un corpo doveano essere
difese contro gli insulti degli individui.
Quest'era sentimento universale, e non già della Chiesa. Rotta poi
l'unità della fede, l'eresia cessava d'esser delitto civile, ma la
Chiesa, tenendosi depositaria della parola infallibile, non poteva
dogmaticamente riconoscere all'errore religioso un diritto morale di
libertà, giacchè sarebbe valso quanto pareggiare nella sfera giuridica
l'errore alla verità.
Ne conchiuderemo che non possa la Chiesa essere se non persecutrice?
La Chiesa vuol la giustizia, eppure tollera il peccato, sapendo che «di
necessità avvengono scandali»; consiglia la perfezione, eppur tollera
gravi difetti, non potendo da forze disuguali pretendere eguali
operazioni. Ciò ch'essa nega è che si consideri come perfezionamento la
libertà assoluta del male come del bene, la libera propagazione
dell'errore come della verità; del resto ritiene che, a norma delle
attitudini sociali, bisogni sopportare il male, sempre però come male,
non già secondo principj puri universali. La verità talvolta è costretta
a ceder il luogo, ma non il diritto alla falsità.
La Chiesa, come lascia la libertà di coscienza perchè _de internis non
judicat_, non riconosce la libertà de' culti, illimitata fino al
disprezzo delle verità naturali e delle nozioni morali. Il male, che è
despotismo, pretende distruggere la libertà del bene. Ma il bene, che è
amore, può comportare talvolta la presenza del male; non però la sua
prevalenza o la parità. Qual governo potrebbe sancire l'indifferenza tra
la verità e l'errore? e' si condannerebbe a certa morte.
Una delle debolezze umane è il supporre che le cose camminarono sempre
del passo medesimo: col che arrivano a svisare anche le più chiare
massime coloro che son talmente superbi d'appartenere al loro secolo, da
non intendere il pensiero de' secoli precedenti. Libertà di culto è un
altro de' ritornelli dell'età nostra, e vi siam tanto abituati che ne fa
meraviglia abbia altre volte potuto trovar opposizione. Eppure, nel
secolo ove la tolleranza derivava necessariamente dall'incredulità, il
legislatore delle libertà rivoluzionarie, Rousseau, scriveva: «C'è una
professione di fede meramente civile, di cui tocca al sovrano fissar gli
articoli, non come dogmi di religione, ma come sentimenti di
sociabilità, senza i quali è impossibile esser buon cittadino nè suddito
fedele. Sebbene non possa obbligar nessuno a crederli, il sovrano può
sbandir dallo Stato chi non li crede; sbandirlo, non come empio, ma come
insocievole, come incapace d'amar sinceramente le leggi, la giustizia;
d'immolar se occorre la sua vita al suo dovere. Che se alcuno, dopo aver
pubblicamente riconosciuto questi dogmi, si conduce come non li
credesse, sia PUNITO DI MORTE; ha commesso il peggior delitto; ha
mentito in faccia alla legge».
E Voltaire: «Chi si eleva contro la patria religione merita morte». È
vero ch'egli alludeva a Cristo.
E talmente quel principio è moderno, che la famosa Dichiarazione dei
diritti dell'89 asserì soltanto la libertà del pensare, dicendo che
«nessuno dev'essere molestato per le sue opinioni, anche religiose,
purchè la loro manifestazione non turbi l'ordine stabilito dalla legge».
In conseguenza dove _la legge stabilì_ il culto cattolico ogni altro ne
resta escluso.
La libertà de' culti può ritenersi come un'istituzione di diritto
positivo umano, e limitata ai bisogni della società politica in una data
situazione o pei diritti acquistati col pacifico possesso. In ciò può
benissimo venire la Chiesa alle transazioni, a cui è obbligata una
istituzione che dee vivere in tempi e in situazioni le più diverse; e se
non basta l'udirla, nella uffiziatura del venerdì santo, pregare pei
catecumeni, gli Eretici, gli Scismatici, i Giudei, i Pagani, giacchè il
Salvator di tutti è morto per tutti, i pronunziati de' pontefici moderni
e sopratutto di Pio IX mostrano fin dove essa spinge questa
tolleranza[280].
Fuor della Chiesa non v'è salute. — Questa massima eccita scandalo ad
alcuni, collera ad altri, preoccupazione a tutti. Ma quanto è certa nel
principio, altrettanto è misteriosa nell'applicazione. In fatti, chi è
fuor della Chiesa, e in conseguenza escluso dalla salute? Qual uomo
vanterassi capace di scandagliare questo, ch'è il più gran secreto
dell'ordine soprannaturale? Sappiamo che Giuda è dannato: ma Lutero? ma
Voltaire?[281] Secondo i Padri, Dio non giudicherà a norma del Vangelo
quei che il Vangelo non conobbero. Qualcuno può appartenere all'anima
della Chiesa senza esser parte del suo corpo, e viceversa, nè v'è chi
possa distinguerli: standoci innanzi tre misteri; la Grazia di Dio, la
coscienza dell'uomo, le tenebre della morte; cioè quel che il cielo ha
di più fecondo, la terra di più libero e impenetrabile, e la profonda
separazione fra il tempo e l'eternità.
Tutto ciò rende inaccessibile all'occhio umano e impossibile quaggiù
l'applicazione di quella massima; adoriamo la giustizia, ma non
giudichiamo i misteri; tutto temendo per noi secondo la fede, tutto
sperando per gli altri secondo la carità.
Queste teoriche son antiche quanto la Chiesa, ma non sempre attuate: e
la tolleranza, virtù eminentemente civile, che nell'uomo di credenza
diversa non ci lascia considerare se non il fratello e il concittadino e
a Dio riserva il giudizio della coscienza, chi praticavala nell'età di
mezzo? Al rinascimento, lo stesso Savonarola disputando contro gli
astrologi esclamava: «O stolti, empj ed insensati astrologi, contro di
voi non è a disputare altrimenti che col fuoco»[282]. Lutero, non pago
alle invettive, invocava le spade regie contro i dissidenti; e ancor si
mostra a Dresda la mannaja che i Luterani adopravano contro i
dissidenti, dov'è scritto: _Hüt dich, Calvinist_. I principi protestanti
ricusavano risolutamente la tolleranza; poichè, essendosi arrogata la
podestà sopra le cose religiose, una sola religione doveano volere, per
non indebolire il governo; e Calvino che non vuol separazione della
Chiesa dallo Stato, invocava contro i dissidenti la pena di morte,
attesochè nessuno può ricusare di riconoscere l'autorità de' principi
sopra la Chiesa senza attentare contro la monarchia, ch'è stabilita da
Dio[283]; e faceva bruciare Serveto, flagellare, bandire altri. Fino il
soave Melantone augura che qualche uomo forte voglia acquistarsi gloria
coll'assassinare Enrico VIII[284]; ed approvava affatto quei supplizj:
_Vult Deus blasphemias et perjuria severissime puniri, et punit ipse
alastoras, illos impiorum dogmatum auctores, cum magistratus officium
suum negligunt; ac tunc quidam simul et magistratus et imperia delet...
Dedit vero et Genevensis reipublicæ magistratus insanabilis blasphemiæ
adversus filium Dei, sublato Serveto, pium et memorabile ad omnem
posteritatem exemplum_[285]. E seguitava: «Grazie al Figliuol di Dio che
fu spettatore e giudice del nostro combattimento, e che ne sarà la
rimunerazione. La Chiesa pure vi dovrà esser riconoscente. Io sono
affatto del vostro parere, e tengo per certo che le cose essendo state
fatte con regola, i vostri magistrati operarono secondo il diritto e la
giustizia facendo morire il bestemmiatore». Teodoro Beza scriveva un
libro a sostenere essere _libertas conscientiarum diabolicum dogma_, e
l'articolo trentasei della Confessione Elvetica porta: _Stringat
magistratus gladium in omnes blasphemos, coerceat et hæreticos_[286].
Enrico VIII ed Elisabetta scrivevano tiranniche ordinanze col sangue de'
Cattolici, come Maria e Filippo II con quello degli Eretici. Tagliata la
testa a Maria Stuarda, il conte di Kent esclamava: «Possano perir così
tutti i nemici del Vangelo». Ferdinando d'Austria colle stragi
d'Ungharesi e Boemi dissidenti vendicava stragi precedenti di costoro.
Insomma inviperiva una lotta, nella quale chi non uccidesse, sarebbe
ucciso.
Uno dei tristi effetti del protestantismo fu appunto lo sbigottire i
custodi della verità, in modo che credettero necessario il rigore per
tutelarla, e così crebbero le severità; se non che, mentre in antico,
per la confusione dei due poteri, era la stessa l'autorità che
riconosceva il delitto di lesa religione e che vi infliggeva il castigo,
si costituì un tribunale ecclesiastico, di persone competenti in fatto
di quistioni religiose, le quali decidono sul fatto, e domandano la
punizione al braccio secolare.
L'Inquisizione (già il narrammo nel Discorso V) fu introdotta in
Linguadoca come spediente politico per reprimere l'implacabile animosità
de' popoli separati dalla Loira, ed assodare nella Francia quella
nazionalità, che altre genti vagheggiano a qualsiasi costo. La
spiegazione de' suoi atti trovasi nelle circostanze de' tempi, e nello
stato delle opinioni. Stabilito un sistema, qual meraviglia se i modi e
d'intenderlo e d'applicarlo erano quelli di ciascuna età? E tanto più
d'un'età come il medioevo, che procedeva non per teoriche ma per fatti.
Che se nessuno negherà che si potesse farlo co' modi convenienti,
nessuno pure negherà che nell'applicazione siasi trasceso. La
dominazione spirituale ben si fonda sopra il volontario consenso degli
intelletti; e quando ricorre deliberatamente alla forza materiale, dà
indizio d'un indebolimento già sentito. Ogni autorità minacciata suol
esacerbare i rigori, e colla necessità della difesa giustificare la
persecuzione; e quel tribunale fu esteso come una legge marziale, per
frenare eresie che sovvertivano l'ordine sociale. Dove mancassero
eretici, vegliava essa sui costumi e sulla disciplina, puniva le
bestemmie, la bigamia, le superstizioni, lo sparlare del clero, e
principalmente le fatucchierie, quando di queste divulgossi la credenza.
Ma nuovo agone le aperse lo irrompere della riforma religiosa, in tempo
che generalmente credeasi diritto lo stabilire, o conservare l'unità
religiosa mediante la forza, e impossibile che due culti potessero
esercitarsi in un paese ed oltraggiarsi a vicenda.
Entrata la discordia, si trascende da tutte le parti e in tutti i tempi:
ogni rivoluzione che non riesca a distruggere il potere lo rende più
duro e severo; i partiti non hanno viscere; creansi una falsa giustizia,
e come in nome di questa la Convenzione mandò a morte migliaja di
Francesi per salvar lo Stato; così allora si facea per salvar la Chiesa;
quelli morivano gridando «Viva la libertà»; questi gridando: «Viva la
Bibbia»; e in nome della religione e della misericordia si rinnovarono
gli orrori dell'impero romano, si precorsero quelli della rivoluzione
francese. Ma la fierezza di quei supplizj al cui racconto oggi
raccapricciamo, era allora usuale quanto oggi il calunniare. Anzi
l'Inquisizione rendea le pene meno efferate, per un ultimo rispetto
all'immagine di Dio; e chi vedevale applicare potea compiangere una
vittima non era offeso dalla straordinarietà del supplizio.
V'assistevano Filippo II come Francesco I, e con essi tutta la Corte:
prova che non erano mostri eccezionali.
Quando nel Concilio di Trento il cardinale di Lorena dipingeva così
eloquentemente la desolazione della Francia, cozzi e battaglie in ogni
canto, demolite le chiese, trucidati i religiosi, profanati i
sacramenti, arse le immagini e reliquie de' santi e le biblioteche,
profanati i sepolcri de' re e dei vescovi, espulsi i pastori, conculcata
la regia autorità e le leggi, usurpate le rendite pubbliche, tutto il
popolo in sedizione, sedici eserciti un contro l'altro armati, e a
Tolosa uccisi diecimila uomini in un sol fatto d'armi, il padre perendo
da una parte, dall'avversa il figliuolo; quando egli minacciava di mali
simili anche gli altri Stati, attesochè, se Francia s'agita tutta Europa
ne guizza; quando ciò diceva quel gran signore e gran prelato, molti per
certo dovettero congratularsi che con vie di rigore si fosse dall'Italia
tenuta lontana tanta jattura, e colla punizione di pochi colpevoli
evitato lo sterminio di tanti innocenti; che, come il medesimo cardinale
congratulavasi, all'Italia si fosse conservata la pace mercè della
Spagna, la quale robustamente ne reggeva il timone.
Fu in questo senso che un gagliardissimo pensatore savojardo, Giuseppe
De Maistre, fece l'apologia dell'Inquisizione di Spagna, perchè
risparmiò a quella penisola i torrenti di sangue che la Riforma e le
conseguenti discordie civili costarono al resto d'Europa. Dicendo
_apologia_ ho usurpato un luogo comune de' retori, giacchè egli
medesimo, per quanto audace, quasi non osi pronunziarlo in testa
propria, fa dire da _taluno_ che «il Sant'Uffizio con una sessantina di
processi in un secolo ci avrebbe risparmiato lo spettacolo di un monte
di cadaveri, che sorpasserebbe l'altezza delle Alpi, e arresterebbe il
Reno e il Po».
Chi fremesse a queste parole, si ricordi che già prima Vittorio
Alfieri avea detto che «la Spagna colle poche vittime immolate
dall'Inquisizione, risparmiò torrenti di sangue».
È una proposizione da utilitario, la quale non può esser accettata da
noi che domandiamo la giustizia avanti tutto; pure nessun uomo leale
potrà non paragonare tali processi ed eccidj a quelli onde fu orrida
l'età nostra, nel meriggio della civiltà, nell'ostentazione di
umanità[287]; non sentire che certi esaltamenti di sensibilità nel
secolo della ghigliotina e dello stato d'assedio puzzano d'ipocrisia; ma
troppo è doloroso al Cattolico che possano apporsi alla Chiesa
procedimenti, i quali scagionino odierne atrocità secolari.
Quando però un moderno[288] viene ad asserire sul serio che
«l'Inquisizione puniva non l'azione esterna, non la manifestazione
pubblica delle opinioni, ma il pensiero dell'animo, ed in questo
veramente eccedeva di là dei confini d'ogni giurisprudenza», noi lo
pregheremmo a indicarci in qual modo l'Inquisizione conoscesse il
_pensiero dell'animo_, e se non sia azione esterna la manifestazione
pubblica.
Vero è che una scuola eccedente, in questi ultimi anni, sorse a
difendere non solo, ma ad approvare i procedimenti dell'Inquisizione.
Noi l'abbiam combattuta ne' suoi momenti di forza, e n'abbiam affrontato
le invettive; ciò ne dia qualche diritto a dir delle verità, che la
scuola avversa troverà a disapprovare, come quelli disapprovavano le
opposte; sempre confondendo la spiegazione d'un fatto colla sua
apologia. Perocchè, dacchè prevalse la pratica della tolleranza anche
dove non costituisce ancora il diritto, vengono dalla ciurma
scribacchiante obbrobriati coloro che propongono, non giustificazione,
ma spiegazione alle vecchie immanità; mentre atteggiansi da eroi coloro
che declamano senza lealtà contro istituzioni di cui più non si ha a
temere, o echeggiano senza critica coloro che posero quei rigori a
carico della religione.
Noi non siamo qua nè ad imputare i Protestanti nè a scolpare i
Cattolici; da storici cerchiamo ed esponiamo la verità, e riflettendo
che la persecuzione era propria del tempo, come dicono propria del
nostro la tolleranza, e che il furore de' persecutori ne attesta la
sincerità; compiangendo i fatti, ricorriamo al principio che è
infallibile; e ricordiamo che nel Concilio di Trento non v'è parola nè
d'Inquisizione, nè di roghi; al miscredente s'intima _anathema sit_,
cioè la scissione dello spirito da una società di spirito; ma l'umanità
ogni qualvolta prosegue un gran disegno, divien prodiga di sangue.
Avanti tutto bisogna distinguere l'Inquisizione romana da quella di
Spagna. E poichè la Spagna molto si lega alle sorti d'Italia in quel
tempo, ed è considerata come l'assassina del libero pensare, non è fuor
di proposito il dirne qualche parola. Quel regno erasi fatto uno e
grande col salvare dai Mori il cattolicismo, per modo che questo si era
identificato colla causa della nazionalità: i re vestivano un carattere
religioso, e la regina Isabella aveali circondati di forme cattoliche:
in America venivano venerati come propagatori del cristianesimo; la
prerogativa regia era sempre rinfiancata dall'autorità religiosa. Vinti
dopo sette secoli di lotta i Mori, ne restavano reliquie e fautori e
falsi convertiti che tramavano coi nemici del paese e della religione;
onde a reprimerli si ricorse ai rigori eccezionali che anch'oggi vediamo
praticarsi in paesi conquistati, o domi recentemente. S'istituirono
dunque tribunali che perseguitassero i Mori come nemici della nazione, e
insieme vigilassero sulla credenza vera, punendo i travianti non solo
come eterodossi, ma come rei di lesa nazionalità.
Questo «Sant'Uffizio dell'Inquisizione», tribunale marziale contro i
residui della dominazione straniera, trascese come fan sempre le
nazionali vendicazioni. Espulse da esso, migliaja di famiglie moresche
approdarono a Genova e ad altri porti d'Italia in tale sfinimento, che
molti soccombettero alla fame e al freddo, costretti sin a vendere i
figliuoli per pagare il naulo; e diffusero qui il morbo marano. Anche
molti ebraizzanti di Spagna e di Portogallo erano rifuggiti in Savoja, a
Genova, in Toscana, a Venezia, a Ferrara, a Mantova, ad Urbino, e
Gregorio XIII ammoniva que' governi a provedervi e vigilarli[289].
Sisto IV, al primo momento che re Fernando il Cattolico introdusse il
Sant'Uffizio, ne manifestò così forte disgusto, che non solo respinse,
ma arrestò l'ambasciatore spagnuolo; onde a vicenda il Cattolico arrestò
il suo, e richiamò i suoi sudditi dagli Stati pontifizj. Sisto da poi
piegò, come sono spesso costretti a fare i pontefici, e confermò il
Sant'Uffizio nel 1478; ma tocco dai lamenti che gli pervenivano sulla
durezza de' primi inquisitori, dichiarò surretizia quella bolla, ammonì
essi inquisitori, e determinò non procedessero se non d'accordo coi
vescovi, nè si estendesse il Sant'Uffizio alle altre provincie del
regno; destinò un giudice d'appello papale, a cui potessero gravarsi i
maltrattati; e molte sentenze cassò o addolcì. Per quanto esso
Ferdinando e sua moglie Isabella e il loro successore Carlo V
procurassero eludere quest'intervenzione della Santa Sede, resta memoria
di condannati, a cui quei giudici fecero restituire o i beni o l'onor
civile, cercarono salvarne almeno i figliuoli dall'infamia e dalla
confisca, e spesso imposero agli inquisitori d'assolvere in segreto
alcuni accusati, per sottrarli alle pene legali e alla pubblica
ignominia. Giulio II e Leone X dispensarono alcuni dal portare il
sanbenito, cioè il sacco di penitente; tolsero d'in sulla tomba d'altri
i segni di riprovazione: Leone scomunicò l'inquisitore di Toledo nel
1519 ad onta di Carlo V, e voleva riformare radicalmente
quell'Inquisizione sottoponendola ai vescovi; ma Carlo V ne lo stornò
affacciandogli il solito spauracchio di Lutero, per tema del quale il
papa lasciò dimenticare quanto avea fatto contro l'Inquisizione. Più
tardi essendo condannato il dottissimo Vives come sospetto di
luteranismo, Paolo III lo proferì innocente, e lo pose vescovo delle
Canarie. Il famoso latinista Marcantonio Mureto, chiesto in patria al
rogo come eretico, fu accolto in Roma ad insegnare all'ombra papale.
Questi fatti raccogliamo da una storia violentemente ostile e perciò
divulgata, quella del Llorente. Come nella odierna rivoluzione italiana
si destinarono uomini apposta a frugar non solo negli archivj dei
governi vinti, ma fin nella religione de' domestici carteggi dei
principi cacciati, e pubblicar tutto quanto potesse tornare a loro
disdoro, così Giuseppe Buonaparte, intrusosi re di Spagna, commise al
Llorente di far uno spoglio delle carte del Supremo Consiglio e
dell'Inquisizione. Costui, ligio ai padroni stranieri, vi si applicò con
fervore, e mandò alla gualchiera tutti i processi, eccettuati que' soli
che, al suo corto vedere, avessero qualche attacco colla storia per la
celebrità degli inquisiti e dei fatti; conservò pure i registri delle
risoluzioni del Consiglio Supremo, le ordinanze reali, le bolle e i
brevi di Roma. Lo confessa egli stesso nella _Storia dell'Inquisizione_,
che sopra siffatti materiali compaginò, con malafede e rancore, o dirò
meglio colla sommessione codarda che all'opinione dominante prestano
questi prezzolati; e fu lodata e divulgata quando al governo imperiale
importava di fare abborriti e vilipesi l'autorità di Roma, il
patriotismo spagnuolo e i clericali che sosteneano la patria
indipendenza. Con quell'atto vandalico l'autore tolse il modo di
sincerare altri fatti storici, fuor quelli che a lui giovava di
conservare, e oggimai non è letterato o erudito spagnuolo di coscienza
che non ripudii quel lavoro antinazionale. In Italia, invece, giura
ancora su di esso la ciurma, che inetta a pensare e giudicare da sè,
accetta i giudizj belli e fatti dai manipolatori della così detta
opinione.
Per toccare solo di ciò che concerne l'Italia, il Llorente non poteva
dissimulare l'opporsi di Roma ai rigori dell'Inquisizione, e gli appelli
che accettava alla propria curia, e le assoluzioni: nol poteva, atteso
che sussistono i lamenti ufficiali che gliene moveano Ferdinando e
Isabella. Che fa egli dunque? Si butta sulle intenzioni, ed asserisce
che Roma operava così per guadagnare denari. A questo modo si scrivono
gazzette, non istorie[290].
Già del suo tempo lo storico fiorentino Segni accorgevasi che
l'Inquisizione spagnuola «fu istituita per tôrre ai ricchi gli averi e
ai potenti la stima. Piantossi dunque sull'onnipotenza del re, e fa
tutto a profitto della potestà regia, a scapito della spirituale. Nella
prima sua idea e nel suo scopo è un istituzione politica; è interesse
del papa mettervi ostacoli, come fa tutte le volte che può; ma
l'interesse del re è di mantenerla in continuo progresso». E che sia
vero, il re di Spagna nominava il grande inquisitore; approvava gli
assessori, fra cui due dovevano togliersi dal Consiglio Supremo di
Castiglia; il tribunale dipendeva dal re, che così rimaneva padrone
della vita e della roba de' sudditi, e che della cassa dell'Inquisizione
faceva un fondo di riserva proprio, a segno che più volte
agl'inquisitori non avanzava tampoco quanto bastasse per le spese; e i
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