Gli eretici d'Italia, vol. II - 47
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Un'importante lettera di monsignor Ubaldino (Bandinelli?) al Carnesecchi
da Fontainebleau 28 agosto 1534, molta parte in cifra, esiste nella
Magliabecchiana, classe VII, 51, in cui tra altre cose narra aver
parlato a lungo di monsignor di Parigi, il quale sapeva esser stato
accusato al papa d'aver trattato troppo coi Luterani; «e scusossi del
modo ch'egli avea tenuto in praticar con esso loro, dicendo che non
cedeva a nessuno che fosse miglior ecclesiastico che lui: ma che, dapoi
ch'egli avea veduto quella setta tanto confermarsi e di numero e di
autorità d'uomini, che a volerla batter per forza era quasi impossibile,
e certo pericolosissimo, giudicò si dovesse procedere con una certa
destrezza, e non col gridare _Abbrucia, Ammazza_, che ad ogni modo non
si potea fare: però e' gli aveva ascoltati sempre che glien'erano
capitati alle mani, e con parole amorevoli e buone ragioni s'era
sforzato di ridurli, di certe cose di minor importanza tacendo, in certe
altre riprendendoli gravemente, e con quest'arte aveva avuto adito e
autorità presso di loro quasi come uom di mezzo e senza passione alcuna,
e con questo egli aveva fatto migliori effetti che quelli che eran
voluti andare con tutta la severità, perchè loro sono stati causa di
maggiore ostinazione. Esso aveva ovviato a molti scandali, ed
ultimamente pensava di aver ridotte le cose in modo, che si potesse
sperare qualche composizione: e dissemi certi capi importanti che
ultimamente suo fratello avea ottenuto da que' primi là della setta, e
nominommene più, ma io non mi ricordo se non di Martin Lutero e del duca
di Sassonia. La cosa di più momento era che si riducevano a voler
confessar che il papa fosse il capo della Chiesa, e tener i sette
sacramenti, però con certe limitazioni.....»
In Napoli nel 1536 il Carnesecchi prese usata con Pietro Valdes,
l'Ochino, il Vermiglio, il Caracciolo, poi in Viterbo nel 1541 col
vescovo Vittore Soranzo, il Vergerio, Lattanzio Ragnone di Siena seguace
dell'Ochino, Luigi Priuli vescovo, Apollonia Merenda, Baldassare Altieri
apostato luterano e librajo, Mino Celsi: ebbe dimestichezza con Vittoria
Colonna, Margherita di Savoja, Renata di Francia, Lavinia della Rovere
Orsini, Giulia Gonzaga, alla quale raccomandò due eretici. Scrivendo a
Protestanti, e' li chiamava fratelli, pii, innocenti, nostri, da Dio
eletti: ad essi rimetteva denari; biasimò un signore, che in fin di
morte, fece profession di fede cattolica, mentre lodò la finale costanza
del Valdes, della cui morte si condolse amaramente con lui Jacobo
Bonfadio[432]. La morte di Enrico II attribuiva alle persecuzioni che
fece contro i Riformati, e a giusto giudizio di Dio l'incendio degli
archivj dell'Inquisizione alla morte di Paolo IV.. Con Melantone[433] e
con altri eretici trattò di presenza, e col credito e col denaro
osteggiò l'autorità pontifizia e i frati. Singolarmente palesò opinioni
eterodosse in una lettera al Flaminio sopra la messa, ma citato a Roma
sotto Paolo III nel 1546, seppe farsi assolvere. Di nuovo l'Inquisizione
lo processò mentre stava in Francia, ma il favor della regina Caterina
valse a salvarlo. Tornato in Italia e piantatosi a Venezia, continuava
l'andazzo, onde Paolo IV citollo nel 1557.
Il Carnesecchi avea avuto la fortuna di trovare in Venezia un amico,
qual di rado hanno i profughi e gli accusati; e che non solo il
confortava, ma toglieva a difenderlo, e tenevalo raccomandato al duca.
Quest'era Pero Gelido di Samminiato, ecclesiastico di molta dottrina,
stato già segretario al cardinale di Ferrara, poi dal duca messo suo
residente a Venezia, ove gli scriveva il 25 novembre:
«Del travaglio ch'è stato mosso dalla Inquisizione di Roma a monsignor
Carnesecchi ci dispiace assai, perchè, amandolo come facciamo, li
desidereremmo piuttosto augumento di onori e di comodi che novità di
molestie. Confidiamo nondimeno che egli colla innocenza sua facilmente
remedierà a tutto, e con la prudenza saperà pigliare quelli espedienti
che saranno più opportuni per la sicurezza sua. È ben vero che il
proceder della detta Inquisizione è molto rigoroso, e non basta molte
volte esser netto, come voi sapete, e come crediamo ch'egli sia».
E al 14 aprile 1558:
«Per il negozio del nostro monsignor Carnesecchi abbiamo scritto
caldissimamente al cardinal Caraffa e all'ambasciador nostro, conforme a
quella intenzione che s'è possuta comprendere dalle lettere sue e
vostre: e perchè intendevamo che aveva fatto elezione della persona di
Filippo Del Migliore che andasse a Roma per attendere alla istanza di
questa causa, ce ne siamo contentati molto bene, e di tal nostra
soddisfazione glien'abbiamo dato avviso col fargli lettere ancora al
nostro ambasciadore perchè l'accompagni di tutti quelli ajuti e favori
che gli bisogneranno. Vedremo qual effetto avrà questa espedizione, alla
quale non mancheremo di venir aggiungendo di mano in mano tutto quel
caldo che si ricercherà, secondo che saremo avvertiti; e che potrà
portar la fede e voto mio presso sua santità et a quelli signori, come
molto ben merita il detto monsignore da noi, e ci detta l'affezione che
gli portiamo con la ferma credenza che teniamo dell'innocenza sua».
Il Gelido, ai 9 giugno del 58, scriveva al ducale segretario Bibiena:
«Molto spesso ragiono di lei con monsignor Carnesecchi, il quale è
abbandonato si può dir da ognuno, eccetto da me, il quale tanto lo
potrei mai abbandonare quanto la madre il suo figliuolo, amandolo quanto
si può amare un vero amico; e certo non per benefizj che io abbia
ricevuto o speri ricevere da lui, ma perchè l'ho sempre conosciuto uomo
da bene e bonissimo, e se mai l'ebbi per tale, in questa sua afflizione,
ch'è delle gravi che possano accadere a un uomo, poichè si perde la
robba, l'onore e quasi la vita, finisco di certificarmi che Dio è con
lui, e lo governa, lo consola e lo fortifica: che altrimenti non
potrebbe tollerar questo colpo mortalissimo con tanta costanza d'animo e
quasi con ilarità, come con effetto la tollera. S'è ritirato in una
casa, che fa conto la gli sia un'onesta carcere: conversa co' suoi libri
e co' suoi pensieri per la maggior parte divini, e vôlti alle cose
dell'altra vita, di maniera che questa persecuzione che lo priva della
conversazione degli uomini, l'assuefarà a conversar con gli angeli, e
così verrà a trarsi altro frutto di questo suo esilio, di quello che dal
suo trasse Boezio, o qualsivoglia altro animo di filosofo, perchè altra
consolazione si trova nella filosofia cristiana che nella umana».
E gliene riparla spesso; e il 5 agosto 1559:
«Non potrebbe la s. v. credere, nè io facilmente saprei dire la gran
consolazione che piglia monsignor Carnesecchi leggendo quello che la mi
scrive di lui, e gli pare in questa sua persecuzione aver pur fatto
questo guadagno, d'avere cioè scoperto d'esser amato più che non sapeva
da molti buoni, e particolarmente da lei, ecc.».
E il 19:
«Come ho scritto altre volte, monsignor Carnesecchi legge sempre tutto
quello che la molto reverenda s. v. mi scrive nel suo particolare, e con
tanta sua satisfazione e contentezza, che io non basto per esprimerle. E
certo si ha ragione, perchè quello mostra in questa sua fortuna un animo
veramente amico e da vero uomo da bene, e so ben bene che la sa che si
stima più una dragma d'uffizio in certi tempi, che in altri le migliaja
delle libbre. So ben io quanto il suddetto monsignor le resta obbligato,
e quanto innamorato di questa sua affezione in questi tempi. Egli mal
volentieri si contiene di scrivergli, però giudica di far meglio così:
la lassa passar rimettendosi a me, sebbene non possa dir tanto che lo
satisfaccia. E in questo proposito io voglio far intender alla s. v. un
bel caso, stato narrato a me pur jeri da un cappellano del cardinal
Trivulzio, che pur ora è tornato in Francia, et è mio amicissimo.
Costui, venendo meco a ragionar di monsignor Carnesecchi, e dolendosi
de' suoi travagli, mi disse: tu non hai forse più inteso quello ti dirò
adesso. Tu ti dei ricordare che tre anni fa predicò in San Prpl (?) un
frate di san Agostino, chiamato il Montalcino. Costui pose tant'odio a
monsignor Carnesecchi perchè un dì andò a trovarlo in camera, e con buon
modo mostrò al padre che faceva male a parlar del duca di Fiorenza manco
che onoratamente: e perchè egli era uno de' più arrabbiati senesi, che
si potessero immaginare non che trovare, cominciò a levar la voce e dar
del tiranno per la testa, in modo che il Carnesecchi (per quanto m'ha
detto pur oggi, domandato da me di questo fatto, che mai non me n'avea
parlato) m'ha detto che bisognò che li dicesse a lettere di scatola, che
egli era la più solenne bestia che andasse sopra due gambe, e se lo levò
dinanzi. Il frate andò poi più volte a dolersene col cardinal Trivulzio
che era qui legato, e trovando che non ne faceva caso perchè amicissimo
di monsignore, disse che troverebbe modo di rovinarlo. E domandato dal
cardinale quello che pensava fare, rispose che l'Inquisizione era
aperta, e che a monsignor, parlando seco, era scappata di bocca non so
che parole sopra un passo di san Agostino, che sentiva dell'eretico, et
in somma noi troviamo che questo frataccio ha suscitata questa
persecuzione»[434].
Altrove il Gelido si congratulava che una figlia di Filippo Del Migliore
sposasse il nipote di Carnesecchi.
Qui ci casca un'altra prova del quanto in Venezia trovasse propizio
terreno il seme ereticale, attesa la continua pratica con forestieri
d'ogni credenza, il libero costume, le sollecitazioni de' residenti
protestanti, i contrasti colla curia romana[435]. Pero Gelido propendeva
alle novità; e il duca Cosimo gli scriveva da Roma ai 13 dicembre 1560,
in poscritto mettendo di propria mano:
«È comparsa la vostra del 7, piena di tante e sì belle novelle, che ha
servito per veglia e passatempo a molti cardinali».
E all'11 luglio 61:
«Farete bene a non scriver a Roma del poco conto che si tenga della
religione, massime da cotesta gioventù, perchè offizio più del nunzio
che vostro: anzi, in tutto quello che scrivete là andate circospetto,
acciò le lettere vostre per qualche particolare che contenessino non
andassino a cognizione, con poca satisfazione di quei signori e nostra».
In fatto il Gelido teneva informato il granduca di quanto operavano a
Venezia i profughi toscani e lo Strozzi, e suggeriva i mezzi di
conservare in soggezione Siena, congratulandosi con Cosimo che l'avesse
annessa al suo dominio, e così preparasse un regno forte, persuadendosi
che a breve andare lo saluterebbe re di Toscana.
Esso Gelido abbandonò poi Venezia per andare a Ginevra, e a Paolo Geri,
scultore fiorentino accasato in Venezia, scriveva d'essere stato molto
ben accolto a Lione, ove il governatore vuol che intervenga nel
consiglio di quella _villa_: «Or non più io spero che ci rivedremo in
Italia, poichè l'Evangelio mette ogni dì le penne per far un volo fin
costà, e bisognerà che quegli arcivescovi e quegli altri grassi et unti
mutino vita, come si fa e più si farà in questo regno».
Questo all'ultimo ottobre 1562: poi al 24 marzo vegnente da Ginevra
scrive «al Duca di Firenze _in manu propria_»:
«... Arrivai fino a Parigi, dove mi fermai, e per ordine di Madama
(Renata) di Ferrara consultai co' ministri delle Chiese riformate tutto
quello che doveva fare. Intanto si seppe alla Corte il mio arrivo e
disegno. Onde alcuni nostri cervelli fiorentini, che ordinariamente si
tengono alla Corte, cominciarono subito a dire che io non era partito
d'Italia per causa dell'Evangelo, ma per servire in Corte per spia
dell'altezza vostra e del re Filippo, e non solo ne parlarono tra loro,
ma lo persuasero al conte Tornon et al re di Navarra, e come piacque a
Dio protettor degli innocenti, un Fiorentino amicissimo mio, e che mi è
molto obbligato, mi scrisse che io non andassi altrimenti alla Corte fin
che esso non mi parlava, e venne in Parigi dopo due dì, e mi rivelò
tutto il mistero, onde ai ministri non parve ch'io dovessi altrimenti
andar alla Corte, non considerando tanto il pericolo che io potessi
portare, quanto il disonore che ridondava alla causa di Dio, poichè
sarebbe stato stimato che io fossi partito d'Italia non per servir a
Dio, ma per servir a principi et in un modo sì brutto. La qual
considerazione causò che non mi fermai anco appresso Madama di Ferrara,
ma a di lungo, dopo aver parlato con lei e contra sua voglia, me ne
venni a Ginevra, dove, sebbene ho a mendicar il cibo, vivo contentissimo
poichè ci abbonda tanto pane e tanto cibo spirituale, che è il cibo che
non perisce mai. È ben vero che, se la regina si condurrà col re e coi
fratelli del re in Orleans per levarli dalla rabbia del re di Navarra,
de' cardinali, del connestabile e del marchese Sant'Andrea, che hanno
cominciato insieme con monsignor di Ghisa a far il consiglio a parte,
ecc. La suddetta Madama di Ferrara disegna che io vada a lei in Orliens
dove si giudica che sarà il principe di Condè, monsignor Momorensì,
l'ammiraglio, monsignor d'Andalon, il cardinal di Cittiglion, tutti
fratelli, e tutti protettori e difensori della purità della dottrina di
Gesù Cristo. Perchè si vede in piedi una grandissima divisione, e
conseguentemente una guerra civile et intestina in questo regno, se Dio
non ci mette la mano. Io non farò se non quanto sarò consigliato da
questa Chiesa, colla quale mi sono incorporato».
Partecipate varie notizie, fa augurj che a Dio piaccia conservarlo nella
sua grandezza, «e sopratutto darle vera cognizione della verità,
acciocchè la sia ministro e istrumento di Dio per persuadere al papa
che, deposto ogni ambizione ed ogni interesse, voglia una volta che si
vegga e si conosca il vero di questa causa, come farebbe se egli
medesimo volesse congregar un Concilio legittimo nel mezzo di Germania,
trovarvisi in persona, e che davvero si riformasse la Chiesa, onde ne
nascerebbe a lui gloria immortale appo gli uomini, e ne risulterebbe la
salute sua eterna appresso Dio. Et in ogni modo a questo si verrà contra
la voglia et potenza sua et di tutti i principi, perchè, come disse
Gamaliel, la cosa viene da Dio et non dissolvetur»[436].
Parrebbe da qui che il duca fosse abbastanza connivente cogli eretici:
fatto sta che non ommise opera per richiamar il Gelido, il quale, benchè
già ascrittosi alla Chiesa di Ginevra, tornò in Italia e a Firenze, e
ottenne una pensione dal papa.
Paolo IV avea scomunicato il Carnesecchi in contumacia; Pio IV aveva
ottenuto dal granduca d'averlo a Roma, ove però nel 1561 sì ben si
difese, valendosi principalmente dell'esser bruciate molte carte alla
morte di Paolo IV, che ottenne sentenza assolutoria, riconosciuto buon
cattolico e obbediente alla Chiesa. Ma venuto papa l'austero Pio V,
questi pensò che all'estirpazione dell'eresia convenisse il tor di mezzo
chi n'era principale sostenitore[437]. Pertanto al duca Cosmo scrisse in
latino, di proprio pugno, ai 20 giugno 1566: «Per cosa che sommamente
rilieva all'ossequio della divina maestà e alla cattolica religione,
mandiamo con questa nostra il maestro del sacro palazzo: e se non
fossero stemperati i calori, talmente ci preme quest'affare, che
n'avremmo incaricato il cardinal Paceco. Abbiate ad esso maestro egual
credenza come a noi stessi. Così Dio conservi voi, col figlio e colla
nuora, e benedica i cardinali, come noi di cuore vi diamo l'apostolica
benedizione».
Fosse debolezza o proposito d'ingrazianirsi il papa, fosse fiducia di
vedere il Carnesecchi sguizzarne ancora, Cosimo, che ricevette la
lettera mentre l'aveva seco a pranzo, il consegnò, dicendo che, se, per
l'egual titolo, Pio gli avesse chiesto suo figliuolo, glielo darebbe
incatenato. Il papa ne lo fece ringraziare caldamente, aggiungendo che
«se gli altri principi cristiani in questa parte gli somigliassero e
l'imitassero, le cose della religione andrebbero con più prospero corso,
maggiore ossequio a Dio, e quindi più felice benefizio di tutta la
cristianità»[438].
Le eresie di che era imputato il Carnesecchi sono le seguenti: La
giustificazione per la sola fede; le opere non son necessarie alla
salute, che viene acquistata colla fede; l'uom giustificato però le fa
ogni qualvolta glie ne vien occasione, ma non servono alla vita eterna;
bensì dopo la resurrezione universale otterranno maggior grado di
gloria. Per natura abbiam il libero arbitrio soltanto pel male: e avanti
la Grazia, pel solo peccato. È impossibile osservare i precetti del
decalogo, massime i due primi e l'ultimo, senza efficacissima grazia di
Dio, e grand'abbondanza di fede e speranza, concessa solo a pochissimi.
Non si creda se non alla parola di Dio, tramandata nelle Scritture.
Nessun testimonio si trova delle indulgenze nella Scrittura; e valgono
solo pei vivi, cioè in quanto alle imposte penitenze. Non tutti i
Concilj generali furono congregati nello Spirito Santo: e non ben
accertava se dovessero essere convocati dall'imperatore, dal papa o da
altri. Esitava sul numero de' sacramenti. La confessione non riteneva
d'obbligo, bensì di consolazione. Molto dubitò del Purgatorio, e stimava
apocrifo il II libro de' Macabei dove si dice santo e salutare il
suffragio pe' morti. Nell'Eucaristia credette rimanga la sostanza del
pane, in modo che vi sia presente il corpo di Cristo, ma senza
transustanziazione: opinione di Lutero, donde qualche volta piegò a
quella di Calvino. Gioverebbe comunicar sotto le due specie anche ai
laici. Il sacrifizio della messa non esser propiziatorio, se non in
quanto eccita la memoria della passione di Cristo, e in conseguenza la
fede, per la quale s'impetra la remissione de' peccati. Il papa è il
primo de' vescovi per certa eccellenza, non per autorità; è vescovo di
Roma, nè ha podestà sull'altre chiese se non in quanto il mondo gliela
deferisce per riguardo a Roma; e fu usurpazione l'autorità che si
arrogarono i pontefici, massime quella di conceder indulgenze. Riprovava
alcuni Ordini monastici, come oziosi, e gli Ordini mendicanti come
sottraggano il pane ai poveri; approvava lo zelo di quei che faticavano
per la vigna del Signore, ma lo credeva non secondo la scienza, perchè
nelle prediche troppo raccomandavano le opere. Giudicava spediente che
ai preti si desse moglie. I religiosi non dover nè potere stringersi a
voto di castità, perchè questa è dono di Dio, nè può prometterla se non
chi sia sicuro d'averlo ottenuto: altrettanto dicasi delle monache.
Riprovò i pellegrinaggi: poter ciascuno mangiar quello che gli piaccia,
nè esser peccato trasgredir il digiuno; nè il tener libri proibiti.
Cristo essendo unico mediatore fra Dio e gli uomini, è superflua
l'invocazione de' santi.
«Desti alloggio, ricetto, fomento e denari a molti apostati ed eretici
che per conto d'eresia se ne fuggivano in paese d'eretici
oltramontani[439], e raccomandasti per lettera a una principessa
d'Italia (Giulia Gonzaga) duoi apostati eretici con tanto affetto come
se fossero stati duoi apostoli, mandati a predicar la fede ai Turchi,
come tu confessi: i quali apostati, nel dominio di quella signora
volevano aprire scuola con intenzione di far imparare dai loro teneri
scolaretti alcuni catechismi eretici: i quali poi scoperti, furono
mandati prigioni a questo Santo Uffizio.....
«Fosti consapevole d'una provvisione di cento scudi l'anno che da una
perversa umilissima tua, inquisita ed infamata d'eresia, si mandava a
donna Isabella Brisegna eretica, fuggitiva a Zurigo, e poi a Chiavenna
tra gli eretici.
«Biasimasti ed improbasti, insieme con una persona tua complice, come
superflua e scandalosa la confessione della fede cattolica, fatta
nell'estremo della sua vita da un gran personaggio[440], nella quale tra
le altre cose confessava il papa, e proprio quello che allora sedeva,
esser vero vicario di Cristo e successore di san Pietro: lodando molto
più il Valdes nel fine della sua vita, che 'l detto personaggio.
«Trattasti di avere in Venezia li pestiferi libri e scritti di detto
Valdes da una persona tua complice che li teneva conservati[441], per
farne parte di quelli imprimere e pubblicare, non ostante la proibizione
fatta da questo Sant'Uffizio, o almeno che fossero occultati e nascosti;
insegnando non esser peccato ritener libri proibiti, ma opera
indifferente secondo coscienza: offerendoti ancora esserne diligente
custode, e affermando esser più peccato quanto all'anima bruciarli che
conservarli... e trattasti con quella persona che detti scritti ti
fosser mandati in Venezia per via sicura, sì per desiderio di
conservarli, come anco per liberar quella persona dal pericolo che le
sovrastava tenendoli.
«Hai creduto a tutti gli errori ed eresie contenuti nel libro del
Benefizio di Cristo... Nel corso delle difese concedesti che
affermativamente avevi tenuto secondo Valdes, sino all'ultime
approbazioni e confirmazione del Concilio Tridentino, l'articolo della
giustificazione per la fede, della certitudine della Grazia, e contro la
necessità e merito delle buone opere. E dichiarando tali articoli
intorno la giustificazione, dicesti non saper discernere bene che
differenza fosse tra le opinioni di Valdes e la determinazione del
Concilio, e non essere ancora risoluto se dovevi condannare o no la
dottrina sua in questa parte».
Preso, il Carnesecchi avea mandato avviso che i libri proibiti ch'erano
fra' suoi, fossero gettati in un pozzo. Il suo processo, del resto
congenere a quel che già recammo del Morone, è curioso per le molte
particolarità che se ne raccolgono intorno ad esso Morone, al Polo, al
Foscarari, al Priuli, al Geri, al Flaminio, alla Giulia Gonzaga, alla
Vittoria Colonna, alla Merenda, ad altri di quella scuola. Il duca
Cosimo ne seguiva l'andamento; e il Babbi ambasciador suo a Roma, il 20
giugno del 67 gli scriveva:
«Avantieri, coll'occasione della cavalcata di Milano, scrissi
all'eccellenza vostra illustrissima come si doveva jeri alla Minerva
condannare alcuni Luterani, come si fece fino a dieci. Fra' quali non fu
alcun nobile, se non un Mario Galeotto napolitano, quale abjurò; fu
confinato in carcere per cinque anni, e privo in perpetuo, non poter in
tutto il tempo di sua vita andar a Napoli. E fra essi fu uno aretino de'
Tesini (?), quale ha moglie e figli in Calabria e possessi, e fu
condannato al fuoco, e questa medesima mattina se n'è fatta
l'esecuzione. Gli altri furono tutti plebei, e persone che non sanno nè
leggere nè scrivere, e fra essi sono un aquarolo, e uno che lavorava al
torno, che furono confinati in Galia (?) ed alcuni murati in prigione a
vita. Mi disse jersera il governatore di Roma che il Carnesecchi porta
gran pericolo della vita, sebbene il processo suo non è ancor maturo, e
ha un gran bisogno d'ajuto: quando campi la vita, sarà murato in luogo
che non si rivedrà mai più, essendosi trovato, fra le scritture sue,
minute di lettere che scriveva pel mondo quando fu creato questo buon
papa, detestando questa santa elezione, e dicendo molto male di lui e di
tutto il Collegio. Certo è che lui è eretico marcio, e avendo il papa
così mala opinione di lui, oltre ai suoi demeriti, certo è che va a
pericolo grande della vita, e credo che tutti gli avvisi e favori che
gli si facciano siano buttati via, non ammettendo il papa cosa alcuna
che gli si proponga in favore e sgravio suo: e presto se ne doverà
venire al fine, che Dio l'ajuti, che certo n'ha molto bisogno»[442].
E al 2 luglio 1566:
«Con l'ordinario di Genova scrissi a vostra eccellenza illustrissima,
alla quale lassai di dire come sua santità parlò in concistoro che
voleva mandar un monitorio penale a tutti i deputati sopra
l'Inquisizione per tutta Italia, che volessimo denunziarle tutte quelle
persone che avevano sospetto d'eresia, volendo lei medesima riandar ogni
cosa, e proveder contro a quei che saranno denunziati. E in tanto venne
jer sera appunto da Napoli quel maestro di casa di Violanta da Gonzaga,
e si dubita assai che fra lui e monsignor Pier Carnesecchi non ne
nominino molti»[443].
In fatto il processo diventava sempre più serio, e a seguitarlo ci è
scorta la legazione del Serristori[444]. Il 5 luglio, questi annunzia
come il Carnesecchi fosse giunto la notte avanti, e messo nella prigione
del Sant'Uffizio; al 9 soggiungeva esser inutile il raccomandarlo. «Io
ho ritratto... che non ci è verso alcuno per ora ad ajutarlo: e ciò che
le e. v. facessero non gioverìa cosa alcuna, ma sì bene imbratterebbe in
gran parte quella candidezza e gran volontà «che con l'opere hanno
mostro contro questa pestilenza d'eretici: per il che appresso s. s.
sono tenute in concetto de' più cattolici principi che sieno in
cristianità».
Un calabrese va a dirgli che monsignor Carnesecchi gli si raccomanda,
temendo non si procedesse contro lui a qualche castigo vituperoso, o
anche della vita, avendo confessato tutto quel che poteva dire contro di
sè, senza far danno ad altri, avendo avuta due volte la tortura. Ciò
avea saputo da un barone del regno, uscito dall'Inquisizione. Ma di quei
casi poter intendersene poco, essendovi scomuniche gravosissime a chi
parlasse di cose attinenti al Sant'Uffizio.
Il Serristori esalta il gran merito de' principi toscani d'averlo subito
consegnato, benchè da sì gran tempo buon servitore della casa loro: ma
il cardinal Paceco sconsiglia sempre dal pigliarvi interesse finchè non
sia pronunziata la sentenza. Si lagna che il Carnesecchi siasi mostrato
molto leggero; che questa è la quinta sentenza: «Hannogli trovato
grandissima quantità di lettere della signora donna Julia, e hanno
intercetto più lettere che scriveva costà della confidenza che aveva nel
favore delle e. v. L'aver preso e accettato la difensione credo che
l'aggravi molto, e saria stato forse meglio che si fosse umiliato, e
avesse confessato e conosciuto l'errore».
I principi ne scrissero al papa, che rispose, se sapessero a che stato
trovavansi le cose di lui non l'avrebbero raccomandato, e temeva che
n'andasse della vita; non poter usare connivenza, trattandosi di causa
famosissima, ed essendo la quarta volta che costui era inquisito e
giudicato: al tempo di Pio IV aver esso detto un monte di bugie, eppur
n'era stato assolto: e che, se il principe di Toscana fosse a Roma,
rimetterebbe volentieri questo giudizio alla coscienza di lui. Avesse in
mano un uccisore di dieci uomini, glielo concederebbe, ma sul
Carnesecchi non poter nulla, standone il giudizio in man de' signori
cardinali: se si avesse riguardo a grado o nobiltà, non si sarebbero
fatte tante esecuzioni anche di signori: se poi quella causa andava
tanto per le lunghe, la colpa era del Carnesecchi.
E poichè il duca persisteva a raccomandarlo, i cardinali gli esibivano
di far esaminare egli stesso il processo; e l'assicuravano si facea
tutto il possibile per favor suo[445].
Al 23 e 30 maggio il Serristori già annunzia che «la sola discussione
sul Carnesecchi è se deva darsi alla corte secolare sì o no; e della
vita sua si sta in timore perchè non ha cervello, e crede leggero il
proprio errore: e di donna Giulia parla come fosse una santa».
In fine confesso e convinto, fu esposto sulla piazza della Minerva, dove
gli venne letta la sentenza, pronunziata dai cardinali di Trani, di
Pisa, Paceco e Gàmbara. La lettura durò due ore, comprendendo pratiche
cominciate fin dal 1540, e fu dichiarato meritevole del fuoco, e dato
alla curia secolare. Il bargello lo levò dal ginocchiatojo, gli pose una
sopravesta a fiamme, e lo menò in una stanza dove fu degradato, indi
chiuso in Tordinona.
Moltiplicaronsi suppliche al papa pel perdono, ed egli rispondeva
essergli impossibile, se pur non si pentisse. A tal uopo sospese dieci
giorni l'esecuzione: i frati furon attorno al condannato per
convertirlo, ma egli rispondeva, voler Dio ch'egli morisse, e così voler
egli pure, e disputava in sinistro senso fin col Cappuccino che il
confortava. Alfine venne decapitato ed arso, senza segno di pentimento,
anzi volendo mettersi guanti e biancheria nuova sotto al funesto
sanbenito[446].
Il residente veneto ai 27 settembre 1567 scriveva alla signoria:
«Fu fatto domenica l'atto solenne della Inquisition nella Minerva, con
intervento di tutti i cardinali che qui si trovano, secondo che sua
santità nel concistoro precedente li aveva esortati, eccetto il
cardinale Boncompagno, che non vi volse andar per rispetto d'un suo
da Fontainebleau 28 agosto 1534, molta parte in cifra, esiste nella
Magliabecchiana, classe VII, 51, in cui tra altre cose narra aver
parlato a lungo di monsignor di Parigi, il quale sapeva esser stato
accusato al papa d'aver trattato troppo coi Luterani; «e scusossi del
modo ch'egli avea tenuto in praticar con esso loro, dicendo che non
cedeva a nessuno che fosse miglior ecclesiastico che lui: ma che, dapoi
ch'egli avea veduto quella setta tanto confermarsi e di numero e di
autorità d'uomini, che a volerla batter per forza era quasi impossibile,
e certo pericolosissimo, giudicò si dovesse procedere con una certa
destrezza, e non col gridare _Abbrucia, Ammazza_, che ad ogni modo non
si potea fare: però e' gli aveva ascoltati sempre che glien'erano
capitati alle mani, e con parole amorevoli e buone ragioni s'era
sforzato di ridurli, di certe cose di minor importanza tacendo, in certe
altre riprendendoli gravemente, e con quest'arte aveva avuto adito e
autorità presso di loro quasi come uom di mezzo e senza passione alcuna,
e con questo egli aveva fatto migliori effetti che quelli che eran
voluti andare con tutta la severità, perchè loro sono stati causa di
maggiore ostinazione. Esso aveva ovviato a molti scandali, ed
ultimamente pensava di aver ridotte le cose in modo, che si potesse
sperare qualche composizione: e dissemi certi capi importanti che
ultimamente suo fratello avea ottenuto da que' primi là della setta, e
nominommene più, ma io non mi ricordo se non di Martin Lutero e del duca
di Sassonia. La cosa di più momento era che si riducevano a voler
confessar che il papa fosse il capo della Chiesa, e tener i sette
sacramenti, però con certe limitazioni.....»
In Napoli nel 1536 il Carnesecchi prese usata con Pietro Valdes,
l'Ochino, il Vermiglio, il Caracciolo, poi in Viterbo nel 1541 col
vescovo Vittore Soranzo, il Vergerio, Lattanzio Ragnone di Siena seguace
dell'Ochino, Luigi Priuli vescovo, Apollonia Merenda, Baldassare Altieri
apostato luterano e librajo, Mino Celsi: ebbe dimestichezza con Vittoria
Colonna, Margherita di Savoja, Renata di Francia, Lavinia della Rovere
Orsini, Giulia Gonzaga, alla quale raccomandò due eretici. Scrivendo a
Protestanti, e' li chiamava fratelli, pii, innocenti, nostri, da Dio
eletti: ad essi rimetteva denari; biasimò un signore, che in fin di
morte, fece profession di fede cattolica, mentre lodò la finale costanza
del Valdes, della cui morte si condolse amaramente con lui Jacobo
Bonfadio[432]. La morte di Enrico II attribuiva alle persecuzioni che
fece contro i Riformati, e a giusto giudizio di Dio l'incendio degli
archivj dell'Inquisizione alla morte di Paolo IV.. Con Melantone[433] e
con altri eretici trattò di presenza, e col credito e col denaro
osteggiò l'autorità pontifizia e i frati. Singolarmente palesò opinioni
eterodosse in una lettera al Flaminio sopra la messa, ma citato a Roma
sotto Paolo III nel 1546, seppe farsi assolvere. Di nuovo l'Inquisizione
lo processò mentre stava in Francia, ma il favor della regina Caterina
valse a salvarlo. Tornato in Italia e piantatosi a Venezia, continuava
l'andazzo, onde Paolo IV citollo nel 1557.
Il Carnesecchi avea avuto la fortuna di trovare in Venezia un amico,
qual di rado hanno i profughi e gli accusati; e che non solo il
confortava, ma toglieva a difenderlo, e tenevalo raccomandato al duca.
Quest'era Pero Gelido di Samminiato, ecclesiastico di molta dottrina,
stato già segretario al cardinale di Ferrara, poi dal duca messo suo
residente a Venezia, ove gli scriveva il 25 novembre:
«Del travaglio ch'è stato mosso dalla Inquisizione di Roma a monsignor
Carnesecchi ci dispiace assai, perchè, amandolo come facciamo, li
desidereremmo piuttosto augumento di onori e di comodi che novità di
molestie. Confidiamo nondimeno che egli colla innocenza sua facilmente
remedierà a tutto, e con la prudenza saperà pigliare quelli espedienti
che saranno più opportuni per la sicurezza sua. È ben vero che il
proceder della detta Inquisizione è molto rigoroso, e non basta molte
volte esser netto, come voi sapete, e come crediamo ch'egli sia».
E al 14 aprile 1558:
«Per il negozio del nostro monsignor Carnesecchi abbiamo scritto
caldissimamente al cardinal Caraffa e all'ambasciador nostro, conforme a
quella intenzione che s'è possuta comprendere dalle lettere sue e
vostre: e perchè intendevamo che aveva fatto elezione della persona di
Filippo Del Migliore che andasse a Roma per attendere alla istanza di
questa causa, ce ne siamo contentati molto bene, e di tal nostra
soddisfazione glien'abbiamo dato avviso col fargli lettere ancora al
nostro ambasciadore perchè l'accompagni di tutti quelli ajuti e favori
che gli bisogneranno. Vedremo qual effetto avrà questa espedizione, alla
quale non mancheremo di venir aggiungendo di mano in mano tutto quel
caldo che si ricercherà, secondo che saremo avvertiti; e che potrà
portar la fede e voto mio presso sua santità et a quelli signori, come
molto ben merita il detto monsignore da noi, e ci detta l'affezione che
gli portiamo con la ferma credenza che teniamo dell'innocenza sua».
Il Gelido, ai 9 giugno del 58, scriveva al ducale segretario Bibiena:
«Molto spesso ragiono di lei con monsignor Carnesecchi, il quale è
abbandonato si può dir da ognuno, eccetto da me, il quale tanto lo
potrei mai abbandonare quanto la madre il suo figliuolo, amandolo quanto
si può amare un vero amico; e certo non per benefizj che io abbia
ricevuto o speri ricevere da lui, ma perchè l'ho sempre conosciuto uomo
da bene e bonissimo, e se mai l'ebbi per tale, in questa sua afflizione,
ch'è delle gravi che possano accadere a un uomo, poichè si perde la
robba, l'onore e quasi la vita, finisco di certificarmi che Dio è con
lui, e lo governa, lo consola e lo fortifica: che altrimenti non
potrebbe tollerar questo colpo mortalissimo con tanta costanza d'animo e
quasi con ilarità, come con effetto la tollera. S'è ritirato in una
casa, che fa conto la gli sia un'onesta carcere: conversa co' suoi libri
e co' suoi pensieri per la maggior parte divini, e vôlti alle cose
dell'altra vita, di maniera che questa persecuzione che lo priva della
conversazione degli uomini, l'assuefarà a conversar con gli angeli, e
così verrà a trarsi altro frutto di questo suo esilio, di quello che dal
suo trasse Boezio, o qualsivoglia altro animo di filosofo, perchè altra
consolazione si trova nella filosofia cristiana che nella umana».
E gliene riparla spesso; e il 5 agosto 1559:
«Non potrebbe la s. v. credere, nè io facilmente saprei dire la gran
consolazione che piglia monsignor Carnesecchi leggendo quello che la mi
scrive di lui, e gli pare in questa sua persecuzione aver pur fatto
questo guadagno, d'avere cioè scoperto d'esser amato più che non sapeva
da molti buoni, e particolarmente da lei, ecc.».
E il 19:
«Come ho scritto altre volte, monsignor Carnesecchi legge sempre tutto
quello che la molto reverenda s. v. mi scrive nel suo particolare, e con
tanta sua satisfazione e contentezza, che io non basto per esprimerle. E
certo si ha ragione, perchè quello mostra in questa sua fortuna un animo
veramente amico e da vero uomo da bene, e so ben bene che la sa che si
stima più una dragma d'uffizio in certi tempi, che in altri le migliaja
delle libbre. So ben io quanto il suddetto monsignor le resta obbligato,
e quanto innamorato di questa sua affezione in questi tempi. Egli mal
volentieri si contiene di scrivergli, però giudica di far meglio così:
la lassa passar rimettendosi a me, sebbene non possa dir tanto che lo
satisfaccia. E in questo proposito io voglio far intender alla s. v. un
bel caso, stato narrato a me pur jeri da un cappellano del cardinal
Trivulzio, che pur ora è tornato in Francia, et è mio amicissimo.
Costui, venendo meco a ragionar di monsignor Carnesecchi, e dolendosi
de' suoi travagli, mi disse: tu non hai forse più inteso quello ti dirò
adesso. Tu ti dei ricordare che tre anni fa predicò in San Prpl (?) un
frate di san Agostino, chiamato il Montalcino. Costui pose tant'odio a
monsignor Carnesecchi perchè un dì andò a trovarlo in camera, e con buon
modo mostrò al padre che faceva male a parlar del duca di Fiorenza manco
che onoratamente: e perchè egli era uno de' più arrabbiati senesi, che
si potessero immaginare non che trovare, cominciò a levar la voce e dar
del tiranno per la testa, in modo che il Carnesecchi (per quanto m'ha
detto pur oggi, domandato da me di questo fatto, che mai non me n'avea
parlato) m'ha detto che bisognò che li dicesse a lettere di scatola, che
egli era la più solenne bestia che andasse sopra due gambe, e se lo levò
dinanzi. Il frate andò poi più volte a dolersene col cardinal Trivulzio
che era qui legato, e trovando che non ne faceva caso perchè amicissimo
di monsignore, disse che troverebbe modo di rovinarlo. E domandato dal
cardinale quello che pensava fare, rispose che l'Inquisizione era
aperta, e che a monsignor, parlando seco, era scappata di bocca non so
che parole sopra un passo di san Agostino, che sentiva dell'eretico, et
in somma noi troviamo che questo frataccio ha suscitata questa
persecuzione»[434].
Altrove il Gelido si congratulava che una figlia di Filippo Del Migliore
sposasse il nipote di Carnesecchi.
Qui ci casca un'altra prova del quanto in Venezia trovasse propizio
terreno il seme ereticale, attesa la continua pratica con forestieri
d'ogni credenza, il libero costume, le sollecitazioni de' residenti
protestanti, i contrasti colla curia romana[435]. Pero Gelido propendeva
alle novità; e il duca Cosimo gli scriveva da Roma ai 13 dicembre 1560,
in poscritto mettendo di propria mano:
«È comparsa la vostra del 7, piena di tante e sì belle novelle, che ha
servito per veglia e passatempo a molti cardinali».
E all'11 luglio 61:
«Farete bene a non scriver a Roma del poco conto che si tenga della
religione, massime da cotesta gioventù, perchè offizio più del nunzio
che vostro: anzi, in tutto quello che scrivete là andate circospetto,
acciò le lettere vostre per qualche particolare che contenessino non
andassino a cognizione, con poca satisfazione di quei signori e nostra».
In fatto il Gelido teneva informato il granduca di quanto operavano a
Venezia i profughi toscani e lo Strozzi, e suggeriva i mezzi di
conservare in soggezione Siena, congratulandosi con Cosimo che l'avesse
annessa al suo dominio, e così preparasse un regno forte, persuadendosi
che a breve andare lo saluterebbe re di Toscana.
Esso Gelido abbandonò poi Venezia per andare a Ginevra, e a Paolo Geri,
scultore fiorentino accasato in Venezia, scriveva d'essere stato molto
ben accolto a Lione, ove il governatore vuol che intervenga nel
consiglio di quella _villa_: «Or non più io spero che ci rivedremo in
Italia, poichè l'Evangelio mette ogni dì le penne per far un volo fin
costà, e bisognerà che quegli arcivescovi e quegli altri grassi et unti
mutino vita, come si fa e più si farà in questo regno».
Questo all'ultimo ottobre 1562: poi al 24 marzo vegnente da Ginevra
scrive «al Duca di Firenze _in manu propria_»:
«... Arrivai fino a Parigi, dove mi fermai, e per ordine di Madama
(Renata) di Ferrara consultai co' ministri delle Chiese riformate tutto
quello che doveva fare. Intanto si seppe alla Corte il mio arrivo e
disegno. Onde alcuni nostri cervelli fiorentini, che ordinariamente si
tengono alla Corte, cominciarono subito a dire che io non era partito
d'Italia per causa dell'Evangelo, ma per servire in Corte per spia
dell'altezza vostra e del re Filippo, e non solo ne parlarono tra loro,
ma lo persuasero al conte Tornon et al re di Navarra, e come piacque a
Dio protettor degli innocenti, un Fiorentino amicissimo mio, e che mi è
molto obbligato, mi scrisse che io non andassi altrimenti alla Corte fin
che esso non mi parlava, e venne in Parigi dopo due dì, e mi rivelò
tutto il mistero, onde ai ministri non parve ch'io dovessi altrimenti
andar alla Corte, non considerando tanto il pericolo che io potessi
portare, quanto il disonore che ridondava alla causa di Dio, poichè
sarebbe stato stimato che io fossi partito d'Italia non per servir a
Dio, ma per servir a principi et in un modo sì brutto. La qual
considerazione causò che non mi fermai anco appresso Madama di Ferrara,
ma a di lungo, dopo aver parlato con lei e contra sua voglia, me ne
venni a Ginevra, dove, sebbene ho a mendicar il cibo, vivo contentissimo
poichè ci abbonda tanto pane e tanto cibo spirituale, che è il cibo che
non perisce mai. È ben vero che, se la regina si condurrà col re e coi
fratelli del re in Orleans per levarli dalla rabbia del re di Navarra,
de' cardinali, del connestabile e del marchese Sant'Andrea, che hanno
cominciato insieme con monsignor di Ghisa a far il consiglio a parte,
ecc. La suddetta Madama di Ferrara disegna che io vada a lei in Orliens
dove si giudica che sarà il principe di Condè, monsignor Momorensì,
l'ammiraglio, monsignor d'Andalon, il cardinal di Cittiglion, tutti
fratelli, e tutti protettori e difensori della purità della dottrina di
Gesù Cristo. Perchè si vede in piedi una grandissima divisione, e
conseguentemente una guerra civile et intestina in questo regno, se Dio
non ci mette la mano. Io non farò se non quanto sarò consigliato da
questa Chiesa, colla quale mi sono incorporato».
Partecipate varie notizie, fa augurj che a Dio piaccia conservarlo nella
sua grandezza, «e sopratutto darle vera cognizione della verità,
acciocchè la sia ministro e istrumento di Dio per persuadere al papa
che, deposto ogni ambizione ed ogni interesse, voglia una volta che si
vegga e si conosca il vero di questa causa, come farebbe se egli
medesimo volesse congregar un Concilio legittimo nel mezzo di Germania,
trovarvisi in persona, e che davvero si riformasse la Chiesa, onde ne
nascerebbe a lui gloria immortale appo gli uomini, e ne risulterebbe la
salute sua eterna appresso Dio. Et in ogni modo a questo si verrà contra
la voglia et potenza sua et di tutti i principi, perchè, come disse
Gamaliel, la cosa viene da Dio et non dissolvetur»[436].
Parrebbe da qui che il duca fosse abbastanza connivente cogli eretici:
fatto sta che non ommise opera per richiamar il Gelido, il quale, benchè
già ascrittosi alla Chiesa di Ginevra, tornò in Italia e a Firenze, e
ottenne una pensione dal papa.
Paolo IV avea scomunicato il Carnesecchi in contumacia; Pio IV aveva
ottenuto dal granduca d'averlo a Roma, ove però nel 1561 sì ben si
difese, valendosi principalmente dell'esser bruciate molte carte alla
morte di Paolo IV, che ottenne sentenza assolutoria, riconosciuto buon
cattolico e obbediente alla Chiesa. Ma venuto papa l'austero Pio V,
questi pensò che all'estirpazione dell'eresia convenisse il tor di mezzo
chi n'era principale sostenitore[437]. Pertanto al duca Cosmo scrisse in
latino, di proprio pugno, ai 20 giugno 1566: «Per cosa che sommamente
rilieva all'ossequio della divina maestà e alla cattolica religione,
mandiamo con questa nostra il maestro del sacro palazzo: e se non
fossero stemperati i calori, talmente ci preme quest'affare, che
n'avremmo incaricato il cardinal Paceco. Abbiate ad esso maestro egual
credenza come a noi stessi. Così Dio conservi voi, col figlio e colla
nuora, e benedica i cardinali, come noi di cuore vi diamo l'apostolica
benedizione».
Fosse debolezza o proposito d'ingrazianirsi il papa, fosse fiducia di
vedere il Carnesecchi sguizzarne ancora, Cosimo, che ricevette la
lettera mentre l'aveva seco a pranzo, il consegnò, dicendo che, se, per
l'egual titolo, Pio gli avesse chiesto suo figliuolo, glielo darebbe
incatenato. Il papa ne lo fece ringraziare caldamente, aggiungendo che
«se gli altri principi cristiani in questa parte gli somigliassero e
l'imitassero, le cose della religione andrebbero con più prospero corso,
maggiore ossequio a Dio, e quindi più felice benefizio di tutta la
cristianità»[438].
Le eresie di che era imputato il Carnesecchi sono le seguenti: La
giustificazione per la sola fede; le opere non son necessarie alla
salute, che viene acquistata colla fede; l'uom giustificato però le fa
ogni qualvolta glie ne vien occasione, ma non servono alla vita eterna;
bensì dopo la resurrezione universale otterranno maggior grado di
gloria. Per natura abbiam il libero arbitrio soltanto pel male: e avanti
la Grazia, pel solo peccato. È impossibile osservare i precetti del
decalogo, massime i due primi e l'ultimo, senza efficacissima grazia di
Dio, e grand'abbondanza di fede e speranza, concessa solo a pochissimi.
Non si creda se non alla parola di Dio, tramandata nelle Scritture.
Nessun testimonio si trova delle indulgenze nella Scrittura; e valgono
solo pei vivi, cioè in quanto alle imposte penitenze. Non tutti i
Concilj generali furono congregati nello Spirito Santo: e non ben
accertava se dovessero essere convocati dall'imperatore, dal papa o da
altri. Esitava sul numero de' sacramenti. La confessione non riteneva
d'obbligo, bensì di consolazione. Molto dubitò del Purgatorio, e stimava
apocrifo il II libro de' Macabei dove si dice santo e salutare il
suffragio pe' morti. Nell'Eucaristia credette rimanga la sostanza del
pane, in modo che vi sia presente il corpo di Cristo, ma senza
transustanziazione: opinione di Lutero, donde qualche volta piegò a
quella di Calvino. Gioverebbe comunicar sotto le due specie anche ai
laici. Il sacrifizio della messa non esser propiziatorio, se non in
quanto eccita la memoria della passione di Cristo, e in conseguenza la
fede, per la quale s'impetra la remissione de' peccati. Il papa è il
primo de' vescovi per certa eccellenza, non per autorità; è vescovo di
Roma, nè ha podestà sull'altre chiese se non in quanto il mondo gliela
deferisce per riguardo a Roma; e fu usurpazione l'autorità che si
arrogarono i pontefici, massime quella di conceder indulgenze. Riprovava
alcuni Ordini monastici, come oziosi, e gli Ordini mendicanti come
sottraggano il pane ai poveri; approvava lo zelo di quei che faticavano
per la vigna del Signore, ma lo credeva non secondo la scienza, perchè
nelle prediche troppo raccomandavano le opere. Giudicava spediente che
ai preti si desse moglie. I religiosi non dover nè potere stringersi a
voto di castità, perchè questa è dono di Dio, nè può prometterla se non
chi sia sicuro d'averlo ottenuto: altrettanto dicasi delle monache.
Riprovò i pellegrinaggi: poter ciascuno mangiar quello che gli piaccia,
nè esser peccato trasgredir il digiuno; nè il tener libri proibiti.
Cristo essendo unico mediatore fra Dio e gli uomini, è superflua
l'invocazione de' santi.
«Desti alloggio, ricetto, fomento e denari a molti apostati ed eretici
che per conto d'eresia se ne fuggivano in paese d'eretici
oltramontani[439], e raccomandasti per lettera a una principessa
d'Italia (Giulia Gonzaga) duoi apostati eretici con tanto affetto come
se fossero stati duoi apostoli, mandati a predicar la fede ai Turchi,
come tu confessi: i quali apostati, nel dominio di quella signora
volevano aprire scuola con intenzione di far imparare dai loro teneri
scolaretti alcuni catechismi eretici: i quali poi scoperti, furono
mandati prigioni a questo Santo Uffizio.....
«Fosti consapevole d'una provvisione di cento scudi l'anno che da una
perversa umilissima tua, inquisita ed infamata d'eresia, si mandava a
donna Isabella Brisegna eretica, fuggitiva a Zurigo, e poi a Chiavenna
tra gli eretici.
«Biasimasti ed improbasti, insieme con una persona tua complice, come
superflua e scandalosa la confessione della fede cattolica, fatta
nell'estremo della sua vita da un gran personaggio[440], nella quale tra
le altre cose confessava il papa, e proprio quello che allora sedeva,
esser vero vicario di Cristo e successore di san Pietro: lodando molto
più il Valdes nel fine della sua vita, che 'l detto personaggio.
«Trattasti di avere in Venezia li pestiferi libri e scritti di detto
Valdes da una persona tua complice che li teneva conservati[441], per
farne parte di quelli imprimere e pubblicare, non ostante la proibizione
fatta da questo Sant'Uffizio, o almeno che fossero occultati e nascosti;
insegnando non esser peccato ritener libri proibiti, ma opera
indifferente secondo coscienza: offerendoti ancora esserne diligente
custode, e affermando esser più peccato quanto all'anima bruciarli che
conservarli... e trattasti con quella persona che detti scritti ti
fosser mandati in Venezia per via sicura, sì per desiderio di
conservarli, come anco per liberar quella persona dal pericolo che le
sovrastava tenendoli.
«Hai creduto a tutti gli errori ed eresie contenuti nel libro del
Benefizio di Cristo... Nel corso delle difese concedesti che
affermativamente avevi tenuto secondo Valdes, sino all'ultime
approbazioni e confirmazione del Concilio Tridentino, l'articolo della
giustificazione per la fede, della certitudine della Grazia, e contro la
necessità e merito delle buone opere. E dichiarando tali articoli
intorno la giustificazione, dicesti non saper discernere bene che
differenza fosse tra le opinioni di Valdes e la determinazione del
Concilio, e non essere ancora risoluto se dovevi condannare o no la
dottrina sua in questa parte».
Preso, il Carnesecchi avea mandato avviso che i libri proibiti ch'erano
fra' suoi, fossero gettati in un pozzo. Il suo processo, del resto
congenere a quel che già recammo del Morone, è curioso per le molte
particolarità che se ne raccolgono intorno ad esso Morone, al Polo, al
Foscarari, al Priuli, al Geri, al Flaminio, alla Giulia Gonzaga, alla
Vittoria Colonna, alla Merenda, ad altri di quella scuola. Il duca
Cosimo ne seguiva l'andamento; e il Babbi ambasciador suo a Roma, il 20
giugno del 67 gli scriveva:
«Avantieri, coll'occasione della cavalcata di Milano, scrissi
all'eccellenza vostra illustrissima come si doveva jeri alla Minerva
condannare alcuni Luterani, come si fece fino a dieci. Fra' quali non fu
alcun nobile, se non un Mario Galeotto napolitano, quale abjurò; fu
confinato in carcere per cinque anni, e privo in perpetuo, non poter in
tutto il tempo di sua vita andar a Napoli. E fra essi fu uno aretino de'
Tesini (?), quale ha moglie e figli in Calabria e possessi, e fu
condannato al fuoco, e questa medesima mattina se n'è fatta
l'esecuzione. Gli altri furono tutti plebei, e persone che non sanno nè
leggere nè scrivere, e fra essi sono un aquarolo, e uno che lavorava al
torno, che furono confinati in Galia (?) ed alcuni murati in prigione a
vita. Mi disse jersera il governatore di Roma che il Carnesecchi porta
gran pericolo della vita, sebbene il processo suo non è ancor maturo, e
ha un gran bisogno d'ajuto: quando campi la vita, sarà murato in luogo
che non si rivedrà mai più, essendosi trovato, fra le scritture sue,
minute di lettere che scriveva pel mondo quando fu creato questo buon
papa, detestando questa santa elezione, e dicendo molto male di lui e di
tutto il Collegio. Certo è che lui è eretico marcio, e avendo il papa
così mala opinione di lui, oltre ai suoi demeriti, certo è che va a
pericolo grande della vita, e credo che tutti gli avvisi e favori che
gli si facciano siano buttati via, non ammettendo il papa cosa alcuna
che gli si proponga in favore e sgravio suo: e presto se ne doverà
venire al fine, che Dio l'ajuti, che certo n'ha molto bisogno»[442].
E al 2 luglio 1566:
«Con l'ordinario di Genova scrissi a vostra eccellenza illustrissima,
alla quale lassai di dire come sua santità parlò in concistoro che
voleva mandar un monitorio penale a tutti i deputati sopra
l'Inquisizione per tutta Italia, che volessimo denunziarle tutte quelle
persone che avevano sospetto d'eresia, volendo lei medesima riandar ogni
cosa, e proveder contro a quei che saranno denunziati. E in tanto venne
jer sera appunto da Napoli quel maestro di casa di Violanta da Gonzaga,
e si dubita assai che fra lui e monsignor Pier Carnesecchi non ne
nominino molti»[443].
In fatto il processo diventava sempre più serio, e a seguitarlo ci è
scorta la legazione del Serristori[444]. Il 5 luglio, questi annunzia
come il Carnesecchi fosse giunto la notte avanti, e messo nella prigione
del Sant'Uffizio; al 9 soggiungeva esser inutile il raccomandarlo. «Io
ho ritratto... che non ci è verso alcuno per ora ad ajutarlo: e ciò che
le e. v. facessero non gioverìa cosa alcuna, ma sì bene imbratterebbe in
gran parte quella candidezza e gran volontà «che con l'opere hanno
mostro contro questa pestilenza d'eretici: per il che appresso s. s.
sono tenute in concetto de' più cattolici principi che sieno in
cristianità».
Un calabrese va a dirgli che monsignor Carnesecchi gli si raccomanda,
temendo non si procedesse contro lui a qualche castigo vituperoso, o
anche della vita, avendo confessato tutto quel che poteva dire contro di
sè, senza far danno ad altri, avendo avuta due volte la tortura. Ciò
avea saputo da un barone del regno, uscito dall'Inquisizione. Ma di quei
casi poter intendersene poco, essendovi scomuniche gravosissime a chi
parlasse di cose attinenti al Sant'Uffizio.
Il Serristori esalta il gran merito de' principi toscani d'averlo subito
consegnato, benchè da sì gran tempo buon servitore della casa loro: ma
il cardinal Paceco sconsiglia sempre dal pigliarvi interesse finchè non
sia pronunziata la sentenza. Si lagna che il Carnesecchi siasi mostrato
molto leggero; che questa è la quinta sentenza: «Hannogli trovato
grandissima quantità di lettere della signora donna Julia, e hanno
intercetto più lettere che scriveva costà della confidenza che aveva nel
favore delle e. v. L'aver preso e accettato la difensione credo che
l'aggravi molto, e saria stato forse meglio che si fosse umiliato, e
avesse confessato e conosciuto l'errore».
I principi ne scrissero al papa, che rispose, se sapessero a che stato
trovavansi le cose di lui non l'avrebbero raccomandato, e temeva che
n'andasse della vita; non poter usare connivenza, trattandosi di causa
famosissima, ed essendo la quarta volta che costui era inquisito e
giudicato: al tempo di Pio IV aver esso detto un monte di bugie, eppur
n'era stato assolto: e che, se il principe di Toscana fosse a Roma,
rimetterebbe volentieri questo giudizio alla coscienza di lui. Avesse in
mano un uccisore di dieci uomini, glielo concederebbe, ma sul
Carnesecchi non poter nulla, standone il giudizio in man de' signori
cardinali: se si avesse riguardo a grado o nobiltà, non si sarebbero
fatte tante esecuzioni anche di signori: se poi quella causa andava
tanto per le lunghe, la colpa era del Carnesecchi.
E poichè il duca persisteva a raccomandarlo, i cardinali gli esibivano
di far esaminare egli stesso il processo; e l'assicuravano si facea
tutto il possibile per favor suo[445].
Al 23 e 30 maggio il Serristori già annunzia che «la sola discussione
sul Carnesecchi è se deva darsi alla corte secolare sì o no; e della
vita sua si sta in timore perchè non ha cervello, e crede leggero il
proprio errore: e di donna Giulia parla come fosse una santa».
In fine confesso e convinto, fu esposto sulla piazza della Minerva, dove
gli venne letta la sentenza, pronunziata dai cardinali di Trani, di
Pisa, Paceco e Gàmbara. La lettura durò due ore, comprendendo pratiche
cominciate fin dal 1540, e fu dichiarato meritevole del fuoco, e dato
alla curia secolare. Il bargello lo levò dal ginocchiatojo, gli pose una
sopravesta a fiamme, e lo menò in una stanza dove fu degradato, indi
chiuso in Tordinona.
Moltiplicaronsi suppliche al papa pel perdono, ed egli rispondeva
essergli impossibile, se pur non si pentisse. A tal uopo sospese dieci
giorni l'esecuzione: i frati furon attorno al condannato per
convertirlo, ma egli rispondeva, voler Dio ch'egli morisse, e così voler
egli pure, e disputava in sinistro senso fin col Cappuccino che il
confortava. Alfine venne decapitato ed arso, senza segno di pentimento,
anzi volendo mettersi guanti e biancheria nuova sotto al funesto
sanbenito[446].
Il residente veneto ai 27 settembre 1567 scriveva alla signoria:
«Fu fatto domenica l'atto solenne della Inquisition nella Minerva, con
intervento di tutti i cardinali che qui si trovano, secondo che sua
santità nel concistoro precedente li aveva esortati, eccetto il
cardinale Boncompagno, che non vi volse andar per rispetto d'un suo
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