Gli eretici d'Italia, vol. II - 31
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Già Hutten, Erasmo, l'Ochino, il Vergerio ci mostrarono qual uso se ne
facesse contro la morale o la fede: sin l'Aretino era e tollerato e
premiato per paura dell'opinione stampata: e questa ben presto divenne
la voce sovrana degli interessi: non buona, non cattiva in sè, ma
onnipotente, e perciò tirannica e irreparabile, sia che esalti o
deprima: toglie d'aver più una fede, una coscienza individuale,
obbligando gli uomini a ricevere le suggestioni altrui, disposti a
prenderne altre domani, con un avvicendamento che distrugge la facoltà
d'averne di vere, cioè personali. Enorme oppressione dell'individuo e
del pensiero libero, che però piace perchè può esercitarla ognuno.
I re cercarono farne tutto lor pro, onde alla fede, al feudalismo, al
cattolicesimo opporre la burocrazia, le scuole, gl'interessi, alfine la
libertà organizzata, cioè la libertà di chi tutto dirige. Ma venne il
tempo che tale ordigno sguizzò dalle loro mani per cader in quelle di
chiunque sappia adulare le passioni del giorno.
La Chiesa avea preveduto il pericolo, e custode com'è della morale e del
diritto, potea non provedervi?
La bolla _in Cœna Domini_ scomunicava gli eretici o chi ne leggesse i
libri, ma non essendo questi distintamente nominati, ne nasceva
incertezza: i varj inquisitori registravanli, man mano che ne aveano
contezza, onde differivano gli uni dagli altri. Prima l'inquisizione di
Spagna nel 1558 pubblicò un catalogo di libri proibiti: l'anno seguente
papa Paolo IV mandò fuori l'_Indice_, che servì di norma ai successivi.
Era diviso in tre parti. La prima, d'autori de' quali riprovavansi tutte
le opere, sebbene d'argomento non religioso: tra' quali autori n'ha
alcuno vissuto e morto nella nostra comunione. La seconda, dei libri
condannati particolarmente: la terza, degli anonimi, dove per regola
generale si vietavano quelli dati fuori senza nome dopo il 1519[230].
Anzi notaronsi settantadue stampatori, ogni opera edita dai quali si
considerasse interdetta: e così le edizioni di qualunque avesse stampato
libri d'eretici. Sono le esagerazioni consuete di chi si trova di fronte
a un pericolo urgente.
Restarono allora proscritti autori che da secoli correvano per le mani;
altri stampati in prima con approvazione, come le Annotazioni di Erasmo
al Nuovo Testamento, che pur Leon X aveva onorate d'un breve; cogli
ereticali poi si appajarono le opere che attenuassero l'autorità
pontifizia a fronte sia dei vescovi, sia de' principi e magistrati
temporali.
Alcune volte ottimi libri furono vietati, pe' commenti appostivi da
editori[231]. Un grandissimo numero son di devozione, orazioni, legende,
offizj, prediche.
Pio V regolò quella materia mediante la _Congregazione dell'Indice_,
alla quale diede norme definitive Benedetto XIV nel 1753, per cautelare
men tosto contro i lavori d'eretici che contro quelli di cattolici, e
togliere i lamenti anche pubblicamente mossi per condanna di buoni.
Lodando la santa sede di aver sempre provisto che i cattivi libri non
pregiudicassero alla fede e alla pietà de' Cristiani, e d'averne a tal
uopo pubblicato l'Indice, prima sotto Pio IV, poi sotto Clemente VIII,
poi sotto Alessandro VII con aggiunte di nuovi, Benedetto XII ne fece un
altro, seguendo le norme che prescrisse nella bolla _Sollicita ac
provida_.
Secondo questa, la Congregazione dell'Inquisizione è composta di
cardinali, cospicui per studj gli uni di teologia, gli altri di scienza
canonica, gli altri di cose ecclesiastiche o di affari: vi s'aggiunge un
auditore di Sacra Rota, un maestro di teologia domenicano, alquanti
consultori del clero secolare e regolare e dotti qualificatori. Quando
un libro sia denunziato, essi vedono se sia a trasmettere alla
Congregazione dell'Indice. Se sì, è dato a un qualificatore o
consultore, che lo legga attentamente, e indichi i luoghi riprovevoli.
La sua relazione è presentata in istampa a ciascun membro di questa
Congregazione; la quale poi ne discute, e proferisce un voto. Ma voto
consultivo, giacchè col libro è trasmesso alla Congregazione de'
cardinali, che pronunziano coi procedimenti stessi; allora tutti gli
atti son presentati al pontefice, senza di cui nessuna condanna è
proferita.
È antica regola che, per libro d'autore cattolico, non basti che un solo
relatore ne proponga la proibizione: ma sia presentato a un altro
revisore, che ignori il nome del primo. Che se questi dissenta, un terzo
revisore esamini; e sulla differenza pronunzino i cardinali.
Taluni si lamentano perchè si decida senza ascoltare l'autore. Ma non
n'è bisogno, giacchè non si giudica della persona, bensì dell'opera; non
di punir lui, ma di ammonire i fedeli del pericolo. Trattasi però
d'autore cattolico di buona fama? Si proibisce il libro colla clausola
_finchè si corregga o si emendi_, se è possibile. Data questa sentenza,
prima di pubblicarla si comunichi all'autore o a qualche suo
rappresentante, indicandogli qual cosa abbiasi a correggere o levare. Se
egli eseguisca tali emende in una nuova edizione, sopprimasi il decreto:
salvo che della prima fossero divulgati molti esemplari. Per un autore
cattolico e di reputazione si vuole sia sentito, o nomini un consultore
che ne sostenga le difese. E sebbene vi sia giuramento di silenzio, il
segretario della Congregazione potrà comunicare gli appunti all'autore,
sopprimendo i nomi del denunziante e del censore. Ma a che buoni questi
riguardi per libro che con dirette eresie intacchi la fede, o leda i
buoni costumi?
A censori è prescritto si assumano persone di pietà e dottrina
riconosciuta, la cui integrità non lasci temere odio o favore: non
credansi destinati a condannar l'opera, ma ad esaminarla equamente;
pesino le opinioni senza affetto di nazione, di famiglia, di scuola,
d'istituto, di parte; ricordino che molte opinioni pajono indubitabili
ad una scuola, a un istituto, a un paese, eppure sono rejette da altri
cattolici senza detrimento della fede. Sovratutto abbiano a mente che
d'un autore non può sentenziarsi se non leggendo intera l'opera,
comparando i differenti passi, e badando all'intenzione di esso; non
proferire sopra una o due proposizioni staccate: giacchè quel che in un
luogo egli dice oscuramente e per transenna, è forse spiegato
abbondantemente altrove.
E deh (soggiunge la Costituzione) si potessero proibire le ingiurie, le
facezie che si lanciano gli uni agli altri! Chi le adopera in quistioni
religiose mal serve alla verità e alla carità. Si reprimano dunque
costoro, che difendono accannitamente una sentenza, non perchè vera, ma
perchè sua, e che recano opinamenti privati come dogmi certi della
Chiesa.
Esso pontefice diede altre norme in una lettera diretta al grande
inquisitore di Spagna, disapprovandolo d'aver messo all'Indice le opere
del cardinale Enrico Noris, mentre grande parsimonia va usata nel
proibire libri di autori illustri, e benemeriti delle buone dottrine. Ci
ha bensì (dice) nell'opera di esso cardinale proposizioni censurabili,
ma di tali non mancano la _Storia_ del Tillemont, nè quella de'
Bollandisti, nè _la Dichiarazione del clero gallicano_ di Bossuet, nè
gli Annali di Lodovico Muratori: eppure, sebbene queste opere venissero
denunziate, i pontefici si astennero dal condannarle, giudicando si
dovesse molto condiscendere alla fama e ai meriti di quegli scrittori,
senza che ne pericolasse la Chiesa, la quale libra i vantaggi e i danni
prima di proferire.
Di tutte queste cautele fanno strame coloro, che non hanno se non
esecrazione per l'_Indice_, e, v'accerto io, non l'hanno mai veduto. La
Chiesa crede i suoi principj siano giusti, e i meglio atti a prosperare
lo Stato e la famiglia; onde impedisce siano guastati. Altrettanta
autorità non si conferisce allo Stato e alla famiglia? perchè
negherebbesi alla Chiesa? Essa, non potendo impedire il male, bada che
questo produca altro male. A tal effetto adopera armi a lei convenienti:
l'ammonizione e la scomunica. E non si tacia che la legge è meramente di
rimedio: non impedisce colla forza di stampar libri, bensì di leggerli:
ne dà licenza a coloro che crede non ne faranno mal uso[232], appunto
come si fa dell'armi insidiose: non è licenza di far il male, ma di
conoscerlo.
Si dice: il lento procedere della sacra Congregazione dell'Indice rende
inutile la proibizione, giacchè viene dopo che il libro è diffuso, e
fors'anche dimenticato.
Vorreste dunque la proibizione preventiva? Con altrettanta ragione si
priverebbe la giustizia penale delle sue formalità, giacchè per queste
la punizione perde d'efficacia, non seguendo immediatamente al delitto.
La Chiesa, estranea alle repressioni materiali, crede suo dovere
l'annunziare ai Cattolici che dottrine pericolose o esempj infausti sono
esposti ne' libri ch'essa appunta; e a cui essa non vuole, quantunque
tardi, lasciare l'impunità.
Non dal Concilio ma dalla sacra Congregazione dell'Indice venne il
divieto delle Bibbie volgari[233], provvedimento richiesto dalla natura
di quei tempi, poi abrogato da Benedetto XIV: ma chi negherà sia
necessaria una direzione per iscegliere un buon volgarizzamento?
Dai libri lascivi ed osceni erano eccettuati i classici, per riflesso
all'eleganza; e così non venne registrato l'empio Lucrezio, bensì la
traduzione fattane dal Marchetti. Contro del Decamerone già da pezza
declamavano le anime oneste e i confessori; e fra mille altri, Bonifazio
Vannozzi diceva che «questi trattati amorosi, questi discorsi tanto
lascivi hanno aperte di gran finestre all'idolatria, ed all'eresie, ed a
pessimi costumi, ed a corrottissime e licenziosissime usanze tra noi
cattolici. Chi potesse contare quante traviate ha fatto il Decamerone
del Boccaccio, rimarrebbe stupito e senza senso». Rincrescendo però di
privare gli studiosi d'un libro che si reputava modello del bene
scrivere, fu preso il compenso di emendarlo. Il maestro del Sacro
Palazzo segnò i passi da levare o correggere; e una deputazione di
Fiorentini, in cui principale Vincenzo Borghini, acconciò quel libro
quale comparve nel 1573 con approvazione di Gregorio XIII. Gli zelanti
non ne rimasero soddisfatti, e una nuova epurazione fu voluta, alla
quale attese Leonardo Salviati; e non è a dire quanto ridere e declamare
ne facessero i bontemponi e gli umanisti, mettendo questa operazione a
parallelo colle brache onde Paolo IV velò gl'ignudi del Giudizio di
Michelangelo.
I quali ignudi, che fan senso anche oggi agli ammiratori, troviamo
appuntati già dai contemporanei. Un de' quali chiamava Michelangelo
«inventor delle porcherie», riprovando «tutti i moderni pittori, e
scultori; per imitar simili capricci luterani, altro oggi per le sante
chiese non si dipinge o scarpella che figure da sotterrar la fede e la
devozione: ma spero che un giorno Iddio manderà i suoi santi a buttare
per terra simili idolatrie come queste»[234]. E perfino il sozzo Aretino
ne moveva rimprovero al suo adorato Michelangelo: e «Voi in soggetto di
sì alta istoria mostrate gli angeli e i santi, questi senza veruna
terrena onestà, quelli privi d'ogni celeste ornamento.... In un bagno
delizioso, non in un coro supremo si conveniva il fare vostro: onde
saria men vizio che voi non credeste, che, in tal modo credendo,
iscemare la credenza in altrui..... E conciossiachè le nostre anime han
più bisogno dello affetto della devozione che della vivacità del
disegno, inspiri Iddio la santità di Paolo, come inspirò la beatitudine
di Gregorio, il quale volse in prima disornar Roma delle superbe statue
degli idoli, che tôrre, bontà loro, la riverenza all'umili immagini dei
santi».
Or ci venga a contare il Cicognara che quelle nudità sono effetto della
_innocente semplicità_ del Cinquecento[235]. Nell'archivio arcivescovile
di Milano è una lettera di Scipione Saurolo a san Carlo, 6 settembre
1561, ove gli dice come a Paolo III e IV, e così a Marcello II e a molti
cardinali fossero spiaciute le nudità del Giudizio di Michelangelo, il
quale pure «ebbe a dire che lo voleva ad ogni modo conciare, perchè si
teneva di coscienza lassar da poi sè una cosa tale». Perciò gli
trasmette una memoria da presentare al papa, in cui gli riduce a memoria
_quod odio sanctissimo intuenda est pictura Judicii sacræ capellæ suæ
sanctitatis, in quo divinam offendit majestatem, eo quod in eum
nuditatis modum depicta est, in quo omnes vident et multi admiratores
plorant_: e segue dimostrando come la maestà del giudice, l'ornamento di
Maria, i seggi degli apostoli sieno falsati in quella composizione.
_Quis enim vidit Dominum et sanctos sic depictos, sic formatos aut
sculptos in qualibet mundi parte? Quis vidit in pictura Judicii nostri,
sic memorabilis et tremendi, fubulosam Acherontis cymbam repræsentari?_
E lagnasi che per le case e per le cappelle stiano immagini di santi e
della divinità, sucidi, tormentati da chiodi, ecc.; ed augura che il
Borromeo «et sua santità meritino l'onore di risarcire la santa barca,
così da nojosi venti sbattuta e male condotta, et ridurla al porto
sicuro de la salute».
Il Concilio proibì che nelle chiese si mettessero immagini se non
approvate dal vescovo, e dove nulla di falso, di disonesto, di profano,
di superstizioso, di contrario alla verità delle Scritture e della
tradizione; bensì convenissero alla dignità e santità del prototipo,
sicchè la loro vista ecciti pietà, non turpi pensieri. A ciò vigilarono
in fatto i vescovi, e massime san Carlo proibì di ritrar nei santi
persone vive, e di rappresentare teatralmente la passione di Cristo o
azioni di santi.
Molti voleano s'interdicessero i teatri, e ben n'aveano di che se si
guardi a quel ch'erano allora, e più a quel che sono oggi. Non potendo
però sbandire uno spasso così gradito alle moltitudini, si pose almen
freno ai recitanti a soggetto, volendo sottoponessero l'orditura delle
loro rappresentazioni a un deputato del vescovo. Ripiego insufficiente,
che non impediva le basse scurrilità, come la sorveglianza della polizia
odierna non toglie che la scena sia la peggiore scuola d'immoralità,
d'egoismo, di sragionamento. Meglio san Filippo Neri cercò opporvi gli
_Oratorj_, che prima erano sole cantate, poi divennero compiute
rappresentazioni di fatti morali e sacri.
Ma la musica ha un'altra missione speciale, quella d'accompagnare i
sacri riti. Resa però interamente profana, cioè occupata ad allettar i
sensi e la fantasia, anzichè elevare il sentimento, trastullavasi in
superare difficoltà, in imitazioni e combinazioni disparate, prolazioni,
emiolie, nodi, enigmi, dove le voci umane non figuravano meglio che un
altro istromento, e a cinque, sei, fin otto parti intralciavansi, o non
offrendo senso, od offrendone di giocosi e perfino di osceni. Leon X
aveva chiamato da Firenze Alessandro Mellini per avvezzare i suoi
cappellani a conservare la tonica nel canto de' salmi e la misura
sillabica negli inni. Il Concilio di Trento erasi querelato di tali
profanità, e Paolo IV fece esaminare se o no dovesse tollerarsi la
musica in Chiesa. Quanto all'escludere l'intralcio delle parole, le arie
profane, i testi non ecclesiastici, si cadeva d'accordo, ma i maestri
assicuravano sarebbe impossibile far intendere chiare le parole in un
canto figurato. Parve altrimenti a Pier Luigi Palestrina, che per
esperimento compose la messa papale a sei voci, con melodia semplice,
rispettando l'espressione rituale e adattandola alle varie
significazioni de' cantici e delle preghiere[236]. Uomo pio, alieno
dalle brighe e perciò negletto, sul suo manoscritto, che si conserva,
leggesi _Signore, illumina me_. Così ebbe salvata quest'arte, non
distruggendo e abolendo, come facea la Riforma, ma ravvivando e
santificando. Ancora povero di melodia, possedea però perfettamente il
puro sentimento dell'armonia e della tonalità, e s'altri lo superarono
in arte, nessuno certo nella potenza, nel profondo e semplice accento,
nella mistica tenerezza con cui rivelò i dolori della madre di Dio, le
ambasce del figliuol dell'Uomo, e ci elevò a pregustare le sinfonie, di
cui gli angeli circondano il padiglione dell'Eterno.
Le lotte coi Protestanti aveano dato incremento alla scienza cattolica,
e le opere posteriori al Concilio di Trento furono assai più precise
nella conoscenza del cristianesimo giacchè i dogmi v'erano stati
dibattuti e chiarìti con tanta profondità e precisione.
Non appare che nel medioevo si formassero catechismi, ove, ad uso dei
non teologi, si esponessero i punti essenziali della dottrina. Il
Concilio di Trento ne ordinò uno, affidandolo a san Carlo, che assunse a
compilarlo il vescovo Foscarari, Muzio Calino bresciano, vescovo di Zara
poi di Terni, Leonardo Marino genovese, arcivescovo di Lanciano, tutti
domenicani. Interrotta, l'opera fu ripigliata da esso Calino, Pietro
Galesino milanese, che trattò del decalogo, e Giulio Poggiani pur
milanese di Suna, che espose l'orazione dominicale, e ripulì e unificò
la dicitura di tutti (non già Paolo Manuzio, come suol dirsi), mentre la
parte dottrinale era riveduta da una Congregazione preseduta dal
cardinale Sirleto. Quest'è il _Catechismo Romano_, ammirato per eleganza
e lucido metodo, e che dimostra come la profonda e solida erudizione
sacra non abbia bisogno d'avvilupparsi in argomentazioni e formole da
scuola, e ben si accordi colla esposizione chiara e precisa e colla
sublime semplicità del pensiero. Fu pubblicato in italiano e in latino,
poi diviso per capitoli, infine a domande e risposte nell'edizione
d'Andrea Fabrizio, unendovi una tavola della lezione del Vangelo di
ciascuna domenica, con una tessera di predica, e coi richiami al
catechismo stesso per isvolgerla; inoltre i doveri del parroco sovra i
diversi punti della dottrina, in modo che servisse come corso di
teologia, di sermoni, di meditazioni pei parroci.
In quell'opera si danno per risoluti alcuni punti, che il sinodo avea
lasciato indecisi, o di cui avea solo condannato i contrarj. Perciò i
Gesuiti che, massimamente nel fatto della Grazia, dissentivano dai
Domenicani, non l'aggradirono, e ne pubblicarono altri, fra cui la
_Summa doctrinæ christianæ_ del Canisio[237], e il Bellarmino.
Il catechismo è il libro de' sapienti e degli ignoranti, dove trovasi la
soluzione di tutte le grandi quistioni morali e sociali; donde venga
l'uomo e la specie umana, dove vada, come ci vada: perchè l'uomo è in
terra; dove va quando n'esce; come originarono il mondo, la specie e le
varie stirpi umane; che relazioni ha l'uomo con Dio, co' suoi simili,
colle altre creature: quali doveri nella società, coi superiori, collo
Stato, colle genti. Il catechismo dà a tutto una risposta precisa;
aggiungiamo risposta la più umana, la più generosa[238]. E questo è il
libro della prima infanzia, è il libro unico d'un'infinità di famiglie
ne' paesi più colti del mondo; benchè sia stato di tutti i libri il più
combattuto. Ed a ragione, poichè infonde sin nelle tenere menti
l'objezione decisiva a tutti gli errori religiosi, morali, sociali[239].
Pio IV chiamò a Roma Paolo Manuzio, elegante e dotto stampatore,
affinchè con que' suoi lodatissimi caratteri pubblicasse i santi
padri[240]. Esso Manuzio, dedicando a Carlo Borromeo l'edizione di san
Cipriano (Roma 1563), divisa le cure che egli e altri letterati italiani
posero ad emendarne le opere, parendogli che «in tanta procella, in
tanta distruzione giunga opportuna la voce di Cipriano, sostenitore
meraviglioso della cattolica dignità»[241].
Il raffinamento della civiltà esigeva si emendassero le lezioni
apocrife, certe goffe antifone, alcuni riti burlevoli, introdotti
dall'ignoranza o dalla semplicità, e Leon X ne diede commissione a
Zaccaria Ferreri vicentino. Quando lo spirito ecclesiastico era sì
scarso, e l'amor dell'eleganza preoccupava a segno da far sorridere
all'impulito latino di san Paolo, potea molto sperarsi da quest'uffizio?
Lo Zaccaria avea servito al cardinale Carvajal nel conciliabolo di Pisa,
onde erasi ricoverato a Lione, finchè il papa gli perdonò; ed egli in
tre giorni fece un poema di mille esametri, ove esaltava la felicità del
genere umano sotto un tal pontefice. Messo a riformare gli inni, li
leggeva man mano a Leon X, che gliene faceva congratulazioni; ma se
erano puri di stile, restavano freddi di pietà, ritraendo da Orazio non
solo le parole ma le immagini. Meglio riuscì il Sarbiewski che, per
ordine di Urbano VIII, assunse il medesimo còmpito con maggior
rispetto[242].
Pio V mandò un nuovo breviario, obbligatorio per tutte le chiese che non
ne avessero uno almeno ducentenario; e vi tenne dietro il messale.
Sisto V pubblicò una Bibbia, che unica dovesse avere autorità, e
v'attese egli medesimo col Nobili, l'Agello, il Morino, Lelio Landi,
Angelo Rocca, il cardinale Caraffa, Prospero Martinengo bresciano. Ma
appena uscita, vi si scopersero molti sbagli, onde fu messa all'Indice,
e ritiratine sollecitamente gli esemplari, divenuti così una delle
maggiori rarità bibliografiche. Clemente VIII pubblicò poi quella che fa
testo[243].
Oltre pubblicare libri di più regolata devozione,[244] si pensò a
chiarire e assodare la storia. Lutero, come bruciò le bolle
dichiarandole d'autorità incompetente, così bruciò il Diritto Canonico,
asserendo che la somma di esso è questa: «Il papa è Dio in terra,
superiore a tutti i celesti, terrestri, spirituali e corporali: tutte le
cose son proprietà del papa, e nessuno deve osare di chiedergli, _cosa
fai_?» Il fumo di quest'incendj, opposti a quelli del Savonarola,
offuscò la storia, che si trovò ridotta ad aneddoti; e sedici interi
secoli della Chiesa vennero presentati come solidariamente rei di
frodolenza e di menzogna, nelle diatribe de' Protestanti e nelle gravi
_Centurie di Magdeburgo_. Eppure la società cattolica è eminentemente
storica, avendo per vincolo d'unità la tradizione; _quod semper, quod
omnibus, quod ubique._ Mentre dunque si contrapponeva agli eterodossi la
precisa esposizione del dogma, bisognava pur colla storia rivelare e i
fatti, e l'essere della Chiesa, e la potenzialità della virtù dello
Spirito Santo.
Nei secoli credenti erano a ciò bastate le cronache e le legende, ma
queste non reggeano all'età critica, che al sentimento surrogava il
raziocinio. Si pubblicarono legendarj di miglior critica, quelli di
Pietro Natali, di Bonino Mombrizio, di Luigi Lippomano, superati poi da
Lorenzo Surio, indi dai Bollandisti[245]. Ma era desiderata una storia
ecclesiastica, che rivelasse le leggi che governano i fatti, mostrasse
il predominio dell'unità della Chiesa sopra la versatilità degli
avvenimenti, l'imperturbabilità di essa tra i sofismi e le violenze, lo
sviluppo del principio dell'autorità attraverso gli accidenti, e
ribattesse le parziali applicazioni, con cui voleasi oppugnare il
cattolicismo col mostrarlo deviato dalle credenze e dalle pratiche
primitive. In tal senso tutto cattolico e papale lavorò Cesare Baronio,
napoletano di Sora (1538-1609). Avea egli cominciato a narrare alcuni
momenti ecclesiastici a' suoi Filippini, quando, per istanza
principalmente di Filippo Neri, assunse la narrazione completa degli_
Annali Ecclesiastici_[246], traendo la storia fuor delle cronache e
delle legende, sistemandola colla cronologia, dandole unità e decoro, e
facendone così una battaglia sintetica contro gli analitici attacchi di
teologi e di filologi. Non arrivò che al secolo XII. Ignorava il greco;
volea veder in ogni avvenimento l'immediato castigo o la rimunerazione
di Dio, quasi egli retribuisca quaggiù: mai però non iscusa il delitto,
nè esita a disapprovare i pontefici erranti, e «ben ponderate (dice) le
sconvenienze del metterne a nudo le colpe, stimo meglio esporle
francamente anzichè lasciar credere agli avversarj che i Cattolici siano
conniventi alle debolezze dei papi». Della sua buona fede non dubitarono
nemmeno i più avversi[247]; e il suo libro restò la fonte forse più
importante di notizie sul medioevo, allorchè Roma era centro della
civiltà del mondo.
Così la fede della storia veniva opposta allo scetticismo della
discussione; tornava ad associarsi il principio conservativo della
tradizione col progressivo della civiltà; e mentre erasi idoleggiata la
società pagana, si tornava a studiare l'ideale cristiano, l'autorità che
rigenera il mondo.
Già erasi nel 1551 (Venezia per Michele Tramezzini) cominciata la
collezione delle _Lettere edificanti_, relazioni de' missionarj ne'
paesi nuovi, dove la pietà più schietta e operosa avviva le relazioni
più interessanti.
Si raccolsero pure le bolle, e nella prima collezione, apparsa il 1586,
Laerzio Cherubini distribuì cronologicamente le costituzioni pontificie
da Leon Magno fino a Sisto V; la crebbero suo figlio Angelo Maria, poi
Angelo Lantusca e Paolo da Roma; nel _Bollarium Magnum_ del 1727 furono
tirate fin a Benedetto XIII; indi fin a Pio VIII nell'edizione di Andrea
Barberi del 1835. Oggi infinite altre lettere pontifizie vengono in
luce, e i _Regesta pontificum romanorum_ di Jaffe (Berlino, 1852)
aggiungono mille ottocentottantun documenti al Bollario e mille
cinquecentrentasette alla raccolta del Mansi, soltanto dall'anno 882 al
1073; nel XII secolo adducono seimila settecennovantuna bolle, quando il
Bollario ne ha seicento, e mille trecentottantanove il Manso.
Non bastava togliere i vizj dal clero e riprovare gli scandali
antecedenti; bisognava prepararlo col dirigere la vocazione e la
laboriosa cooperazione che deve alla grazia divina chi è chiamato al
sacerdozio. A tal fine era necessario che una educazione speciale
precorresse all'unzione sacramentale; e perciò vennero istituiti i
seminarj. Già sant'Ignazio, d'accordo col cardinale Polo e col Canisio,
aveva istituito il Collegio Germanico. Sul modello di questo venne
eretto il Collegio Romano, una delle principali glorie ecclesiastiche e
scientifiche del mondo cattolico. Fu compito il 10 febbrajo 1565,
raccogliendovi cento giovani delle principali famiglie d'Europa, sotto
la direzione dei Gesuiti, e di là uscirono i pontefici Gregorio XV,
Innocenzo X, XII, XIII, Clemente IX, XI, XII; più di ottanta cardinali,
centinaja di vescovi.
Su quel tipo, il Concilio prescrisse che ogni diocesi avesse un
seminario pe' chierici: attestazione della virtù razionale de' credenti,
del progresso voluto nell'intelletto e nella coscienza; destinati a
formare la milizia che combatta le battaglie di Dio colla scienza non
men che coll'amore; una delle istituzioni più nobili del Concilio;
dovremmo dire delle più efficaci se guardiamo alla rabbia con cui è
osteggiata dai _deliri potenti_. Se ogni capitano ha diritto di formare
i proprj soldati, doveva ai vescovi esser riservata la facoltà di
ordinare i seminarj, esclusa ogni ingerenza laica: ordinarli
all'acquisto delle dottrine più opportune. Queste erano la letteratura,
il canto, il computo ecclesiastico e le altre arti liberali; inoltre la
santa scrittura, i libri ecclesiastici, le omelie de' santi, le forme
de' riti e de' sacramenti. Ai vescovi prescriveasi di stabilirli, e far
che le norme vi venisser osservate mediante frequenti visite[248], ben
vedendo, che «se la gioventù fin da' teneri anni non venga informata
alla pietà e alla religione prima che l'invada l'abito dei vizj, non mai
perfettamente e senza massimo e singolare ajuto di Dio onnipotente
s'otterrà che perseveri nella disciplina ecclesiastica».
Si diede opera a trar agli ecclesiastici anche l'educazione de'
secolari; e vi s'industriarono i Barnabiti, gli Scolopj, i Somaschi, e
più di tutti i Gesuiti. N'aveano naturalmente invidia i maestri laici,
eppure tutti i letterati d'allora vanno d'accordo nel lodare
l'istruzione data da quelli. Non occorre dire che mai non andava
scompagnata dall'educazione, e dirigevasi nell'interesse dell'anima, più
che prima non si vedesse ne' trattati che ne scrissero, fra altri, il
Sadoleto in buon latino[249], e in volgare il cardinale Antoniano.
Un altro de' mille errori che la petulanza accademica prima, poi il
sistematico odio propagarono contro il medioevo fu, ch'esso abbia
distrutto le opere gentilesche. Alle ricantate celie del beffardo
Boccaccio e dell'insulso Benvenuto da Imola opporremo che _tutte_ ci
vennero per mezzo degli ecclesiastici, e sfidiamo a smentirci.
Ben vi furono scrittori ecclesiastici de' primi tempi, e nominatamente
Tertulliano e Arnobio, che declamarono contro lo studio de'
facesse contro la morale o la fede: sin l'Aretino era e tollerato e
premiato per paura dell'opinione stampata: e questa ben presto divenne
la voce sovrana degli interessi: non buona, non cattiva in sè, ma
onnipotente, e perciò tirannica e irreparabile, sia che esalti o
deprima: toglie d'aver più una fede, una coscienza individuale,
obbligando gli uomini a ricevere le suggestioni altrui, disposti a
prenderne altre domani, con un avvicendamento che distrugge la facoltà
d'averne di vere, cioè personali. Enorme oppressione dell'individuo e
del pensiero libero, che però piace perchè può esercitarla ognuno.
I re cercarono farne tutto lor pro, onde alla fede, al feudalismo, al
cattolicesimo opporre la burocrazia, le scuole, gl'interessi, alfine la
libertà organizzata, cioè la libertà di chi tutto dirige. Ma venne il
tempo che tale ordigno sguizzò dalle loro mani per cader in quelle di
chiunque sappia adulare le passioni del giorno.
La Chiesa avea preveduto il pericolo, e custode com'è della morale e del
diritto, potea non provedervi?
La bolla _in Cœna Domini_ scomunicava gli eretici o chi ne leggesse i
libri, ma non essendo questi distintamente nominati, ne nasceva
incertezza: i varj inquisitori registravanli, man mano che ne aveano
contezza, onde differivano gli uni dagli altri. Prima l'inquisizione di
Spagna nel 1558 pubblicò un catalogo di libri proibiti: l'anno seguente
papa Paolo IV mandò fuori l'_Indice_, che servì di norma ai successivi.
Era diviso in tre parti. La prima, d'autori de' quali riprovavansi tutte
le opere, sebbene d'argomento non religioso: tra' quali autori n'ha
alcuno vissuto e morto nella nostra comunione. La seconda, dei libri
condannati particolarmente: la terza, degli anonimi, dove per regola
generale si vietavano quelli dati fuori senza nome dopo il 1519[230].
Anzi notaronsi settantadue stampatori, ogni opera edita dai quali si
considerasse interdetta: e così le edizioni di qualunque avesse stampato
libri d'eretici. Sono le esagerazioni consuete di chi si trova di fronte
a un pericolo urgente.
Restarono allora proscritti autori che da secoli correvano per le mani;
altri stampati in prima con approvazione, come le Annotazioni di Erasmo
al Nuovo Testamento, che pur Leon X aveva onorate d'un breve; cogli
ereticali poi si appajarono le opere che attenuassero l'autorità
pontifizia a fronte sia dei vescovi, sia de' principi e magistrati
temporali.
Alcune volte ottimi libri furono vietati, pe' commenti appostivi da
editori[231]. Un grandissimo numero son di devozione, orazioni, legende,
offizj, prediche.
Pio V regolò quella materia mediante la _Congregazione dell'Indice_,
alla quale diede norme definitive Benedetto XIV nel 1753, per cautelare
men tosto contro i lavori d'eretici che contro quelli di cattolici, e
togliere i lamenti anche pubblicamente mossi per condanna di buoni.
Lodando la santa sede di aver sempre provisto che i cattivi libri non
pregiudicassero alla fede e alla pietà de' Cristiani, e d'averne a tal
uopo pubblicato l'Indice, prima sotto Pio IV, poi sotto Clemente VIII,
poi sotto Alessandro VII con aggiunte di nuovi, Benedetto XII ne fece un
altro, seguendo le norme che prescrisse nella bolla _Sollicita ac
provida_.
Secondo questa, la Congregazione dell'Inquisizione è composta di
cardinali, cospicui per studj gli uni di teologia, gli altri di scienza
canonica, gli altri di cose ecclesiastiche o di affari: vi s'aggiunge un
auditore di Sacra Rota, un maestro di teologia domenicano, alquanti
consultori del clero secolare e regolare e dotti qualificatori. Quando
un libro sia denunziato, essi vedono se sia a trasmettere alla
Congregazione dell'Indice. Se sì, è dato a un qualificatore o
consultore, che lo legga attentamente, e indichi i luoghi riprovevoli.
La sua relazione è presentata in istampa a ciascun membro di questa
Congregazione; la quale poi ne discute, e proferisce un voto. Ma voto
consultivo, giacchè col libro è trasmesso alla Congregazione de'
cardinali, che pronunziano coi procedimenti stessi; allora tutti gli
atti son presentati al pontefice, senza di cui nessuna condanna è
proferita.
È antica regola che, per libro d'autore cattolico, non basti che un solo
relatore ne proponga la proibizione: ma sia presentato a un altro
revisore, che ignori il nome del primo. Che se questi dissenta, un terzo
revisore esamini; e sulla differenza pronunzino i cardinali.
Taluni si lamentano perchè si decida senza ascoltare l'autore. Ma non
n'è bisogno, giacchè non si giudica della persona, bensì dell'opera; non
di punir lui, ma di ammonire i fedeli del pericolo. Trattasi però
d'autore cattolico di buona fama? Si proibisce il libro colla clausola
_finchè si corregga o si emendi_, se è possibile. Data questa sentenza,
prima di pubblicarla si comunichi all'autore o a qualche suo
rappresentante, indicandogli qual cosa abbiasi a correggere o levare. Se
egli eseguisca tali emende in una nuova edizione, sopprimasi il decreto:
salvo che della prima fossero divulgati molti esemplari. Per un autore
cattolico e di reputazione si vuole sia sentito, o nomini un consultore
che ne sostenga le difese. E sebbene vi sia giuramento di silenzio, il
segretario della Congregazione potrà comunicare gli appunti all'autore,
sopprimendo i nomi del denunziante e del censore. Ma a che buoni questi
riguardi per libro che con dirette eresie intacchi la fede, o leda i
buoni costumi?
A censori è prescritto si assumano persone di pietà e dottrina
riconosciuta, la cui integrità non lasci temere odio o favore: non
credansi destinati a condannar l'opera, ma ad esaminarla equamente;
pesino le opinioni senza affetto di nazione, di famiglia, di scuola,
d'istituto, di parte; ricordino che molte opinioni pajono indubitabili
ad una scuola, a un istituto, a un paese, eppure sono rejette da altri
cattolici senza detrimento della fede. Sovratutto abbiano a mente che
d'un autore non può sentenziarsi se non leggendo intera l'opera,
comparando i differenti passi, e badando all'intenzione di esso; non
proferire sopra una o due proposizioni staccate: giacchè quel che in un
luogo egli dice oscuramente e per transenna, è forse spiegato
abbondantemente altrove.
E deh (soggiunge la Costituzione) si potessero proibire le ingiurie, le
facezie che si lanciano gli uni agli altri! Chi le adopera in quistioni
religiose mal serve alla verità e alla carità. Si reprimano dunque
costoro, che difendono accannitamente una sentenza, non perchè vera, ma
perchè sua, e che recano opinamenti privati come dogmi certi della
Chiesa.
Esso pontefice diede altre norme in una lettera diretta al grande
inquisitore di Spagna, disapprovandolo d'aver messo all'Indice le opere
del cardinale Enrico Noris, mentre grande parsimonia va usata nel
proibire libri di autori illustri, e benemeriti delle buone dottrine. Ci
ha bensì (dice) nell'opera di esso cardinale proposizioni censurabili,
ma di tali non mancano la _Storia_ del Tillemont, nè quella de'
Bollandisti, nè _la Dichiarazione del clero gallicano_ di Bossuet, nè
gli Annali di Lodovico Muratori: eppure, sebbene queste opere venissero
denunziate, i pontefici si astennero dal condannarle, giudicando si
dovesse molto condiscendere alla fama e ai meriti di quegli scrittori,
senza che ne pericolasse la Chiesa, la quale libra i vantaggi e i danni
prima di proferire.
Di tutte queste cautele fanno strame coloro, che non hanno se non
esecrazione per l'_Indice_, e, v'accerto io, non l'hanno mai veduto. La
Chiesa crede i suoi principj siano giusti, e i meglio atti a prosperare
lo Stato e la famiglia; onde impedisce siano guastati. Altrettanta
autorità non si conferisce allo Stato e alla famiglia? perchè
negherebbesi alla Chiesa? Essa, non potendo impedire il male, bada che
questo produca altro male. A tal effetto adopera armi a lei convenienti:
l'ammonizione e la scomunica. E non si tacia che la legge è meramente di
rimedio: non impedisce colla forza di stampar libri, bensì di leggerli:
ne dà licenza a coloro che crede non ne faranno mal uso[232], appunto
come si fa dell'armi insidiose: non è licenza di far il male, ma di
conoscerlo.
Si dice: il lento procedere della sacra Congregazione dell'Indice rende
inutile la proibizione, giacchè viene dopo che il libro è diffuso, e
fors'anche dimenticato.
Vorreste dunque la proibizione preventiva? Con altrettanta ragione si
priverebbe la giustizia penale delle sue formalità, giacchè per queste
la punizione perde d'efficacia, non seguendo immediatamente al delitto.
La Chiesa, estranea alle repressioni materiali, crede suo dovere
l'annunziare ai Cattolici che dottrine pericolose o esempj infausti sono
esposti ne' libri ch'essa appunta; e a cui essa non vuole, quantunque
tardi, lasciare l'impunità.
Non dal Concilio ma dalla sacra Congregazione dell'Indice venne il
divieto delle Bibbie volgari[233], provvedimento richiesto dalla natura
di quei tempi, poi abrogato da Benedetto XIV: ma chi negherà sia
necessaria una direzione per iscegliere un buon volgarizzamento?
Dai libri lascivi ed osceni erano eccettuati i classici, per riflesso
all'eleganza; e così non venne registrato l'empio Lucrezio, bensì la
traduzione fattane dal Marchetti. Contro del Decamerone già da pezza
declamavano le anime oneste e i confessori; e fra mille altri, Bonifazio
Vannozzi diceva che «questi trattati amorosi, questi discorsi tanto
lascivi hanno aperte di gran finestre all'idolatria, ed all'eresie, ed a
pessimi costumi, ed a corrottissime e licenziosissime usanze tra noi
cattolici. Chi potesse contare quante traviate ha fatto il Decamerone
del Boccaccio, rimarrebbe stupito e senza senso». Rincrescendo però di
privare gli studiosi d'un libro che si reputava modello del bene
scrivere, fu preso il compenso di emendarlo. Il maestro del Sacro
Palazzo segnò i passi da levare o correggere; e una deputazione di
Fiorentini, in cui principale Vincenzo Borghini, acconciò quel libro
quale comparve nel 1573 con approvazione di Gregorio XIII. Gli zelanti
non ne rimasero soddisfatti, e una nuova epurazione fu voluta, alla
quale attese Leonardo Salviati; e non è a dire quanto ridere e declamare
ne facessero i bontemponi e gli umanisti, mettendo questa operazione a
parallelo colle brache onde Paolo IV velò gl'ignudi del Giudizio di
Michelangelo.
I quali ignudi, che fan senso anche oggi agli ammiratori, troviamo
appuntati già dai contemporanei. Un de' quali chiamava Michelangelo
«inventor delle porcherie», riprovando «tutti i moderni pittori, e
scultori; per imitar simili capricci luterani, altro oggi per le sante
chiese non si dipinge o scarpella che figure da sotterrar la fede e la
devozione: ma spero che un giorno Iddio manderà i suoi santi a buttare
per terra simili idolatrie come queste»[234]. E perfino il sozzo Aretino
ne moveva rimprovero al suo adorato Michelangelo: e «Voi in soggetto di
sì alta istoria mostrate gli angeli e i santi, questi senza veruna
terrena onestà, quelli privi d'ogni celeste ornamento.... In un bagno
delizioso, non in un coro supremo si conveniva il fare vostro: onde
saria men vizio che voi non credeste, che, in tal modo credendo,
iscemare la credenza in altrui..... E conciossiachè le nostre anime han
più bisogno dello affetto della devozione che della vivacità del
disegno, inspiri Iddio la santità di Paolo, come inspirò la beatitudine
di Gregorio, il quale volse in prima disornar Roma delle superbe statue
degli idoli, che tôrre, bontà loro, la riverenza all'umili immagini dei
santi».
Or ci venga a contare il Cicognara che quelle nudità sono effetto della
_innocente semplicità_ del Cinquecento[235]. Nell'archivio arcivescovile
di Milano è una lettera di Scipione Saurolo a san Carlo, 6 settembre
1561, ove gli dice come a Paolo III e IV, e così a Marcello II e a molti
cardinali fossero spiaciute le nudità del Giudizio di Michelangelo, il
quale pure «ebbe a dire che lo voleva ad ogni modo conciare, perchè si
teneva di coscienza lassar da poi sè una cosa tale». Perciò gli
trasmette una memoria da presentare al papa, in cui gli riduce a memoria
_quod odio sanctissimo intuenda est pictura Judicii sacræ capellæ suæ
sanctitatis, in quo divinam offendit majestatem, eo quod in eum
nuditatis modum depicta est, in quo omnes vident et multi admiratores
plorant_: e segue dimostrando come la maestà del giudice, l'ornamento di
Maria, i seggi degli apostoli sieno falsati in quella composizione.
_Quis enim vidit Dominum et sanctos sic depictos, sic formatos aut
sculptos in qualibet mundi parte? Quis vidit in pictura Judicii nostri,
sic memorabilis et tremendi, fubulosam Acherontis cymbam repræsentari?_
E lagnasi che per le case e per le cappelle stiano immagini di santi e
della divinità, sucidi, tormentati da chiodi, ecc.; ed augura che il
Borromeo «et sua santità meritino l'onore di risarcire la santa barca,
così da nojosi venti sbattuta e male condotta, et ridurla al porto
sicuro de la salute».
Il Concilio proibì che nelle chiese si mettessero immagini se non
approvate dal vescovo, e dove nulla di falso, di disonesto, di profano,
di superstizioso, di contrario alla verità delle Scritture e della
tradizione; bensì convenissero alla dignità e santità del prototipo,
sicchè la loro vista ecciti pietà, non turpi pensieri. A ciò vigilarono
in fatto i vescovi, e massime san Carlo proibì di ritrar nei santi
persone vive, e di rappresentare teatralmente la passione di Cristo o
azioni di santi.
Molti voleano s'interdicessero i teatri, e ben n'aveano di che se si
guardi a quel ch'erano allora, e più a quel che sono oggi. Non potendo
però sbandire uno spasso così gradito alle moltitudini, si pose almen
freno ai recitanti a soggetto, volendo sottoponessero l'orditura delle
loro rappresentazioni a un deputato del vescovo. Ripiego insufficiente,
che non impediva le basse scurrilità, come la sorveglianza della polizia
odierna non toglie che la scena sia la peggiore scuola d'immoralità,
d'egoismo, di sragionamento. Meglio san Filippo Neri cercò opporvi gli
_Oratorj_, che prima erano sole cantate, poi divennero compiute
rappresentazioni di fatti morali e sacri.
Ma la musica ha un'altra missione speciale, quella d'accompagnare i
sacri riti. Resa però interamente profana, cioè occupata ad allettar i
sensi e la fantasia, anzichè elevare il sentimento, trastullavasi in
superare difficoltà, in imitazioni e combinazioni disparate, prolazioni,
emiolie, nodi, enigmi, dove le voci umane non figuravano meglio che un
altro istromento, e a cinque, sei, fin otto parti intralciavansi, o non
offrendo senso, od offrendone di giocosi e perfino di osceni. Leon X
aveva chiamato da Firenze Alessandro Mellini per avvezzare i suoi
cappellani a conservare la tonica nel canto de' salmi e la misura
sillabica negli inni. Il Concilio di Trento erasi querelato di tali
profanità, e Paolo IV fece esaminare se o no dovesse tollerarsi la
musica in Chiesa. Quanto all'escludere l'intralcio delle parole, le arie
profane, i testi non ecclesiastici, si cadeva d'accordo, ma i maestri
assicuravano sarebbe impossibile far intendere chiare le parole in un
canto figurato. Parve altrimenti a Pier Luigi Palestrina, che per
esperimento compose la messa papale a sei voci, con melodia semplice,
rispettando l'espressione rituale e adattandola alle varie
significazioni de' cantici e delle preghiere[236]. Uomo pio, alieno
dalle brighe e perciò negletto, sul suo manoscritto, che si conserva,
leggesi _Signore, illumina me_. Così ebbe salvata quest'arte, non
distruggendo e abolendo, come facea la Riforma, ma ravvivando e
santificando. Ancora povero di melodia, possedea però perfettamente il
puro sentimento dell'armonia e della tonalità, e s'altri lo superarono
in arte, nessuno certo nella potenza, nel profondo e semplice accento,
nella mistica tenerezza con cui rivelò i dolori della madre di Dio, le
ambasce del figliuol dell'Uomo, e ci elevò a pregustare le sinfonie, di
cui gli angeli circondano il padiglione dell'Eterno.
Le lotte coi Protestanti aveano dato incremento alla scienza cattolica,
e le opere posteriori al Concilio di Trento furono assai più precise
nella conoscenza del cristianesimo giacchè i dogmi v'erano stati
dibattuti e chiarìti con tanta profondità e precisione.
Non appare che nel medioevo si formassero catechismi, ove, ad uso dei
non teologi, si esponessero i punti essenziali della dottrina. Il
Concilio di Trento ne ordinò uno, affidandolo a san Carlo, che assunse a
compilarlo il vescovo Foscarari, Muzio Calino bresciano, vescovo di Zara
poi di Terni, Leonardo Marino genovese, arcivescovo di Lanciano, tutti
domenicani. Interrotta, l'opera fu ripigliata da esso Calino, Pietro
Galesino milanese, che trattò del decalogo, e Giulio Poggiani pur
milanese di Suna, che espose l'orazione dominicale, e ripulì e unificò
la dicitura di tutti (non già Paolo Manuzio, come suol dirsi), mentre la
parte dottrinale era riveduta da una Congregazione preseduta dal
cardinale Sirleto. Quest'è il _Catechismo Romano_, ammirato per eleganza
e lucido metodo, e che dimostra come la profonda e solida erudizione
sacra non abbia bisogno d'avvilupparsi in argomentazioni e formole da
scuola, e ben si accordi colla esposizione chiara e precisa e colla
sublime semplicità del pensiero. Fu pubblicato in italiano e in latino,
poi diviso per capitoli, infine a domande e risposte nell'edizione
d'Andrea Fabrizio, unendovi una tavola della lezione del Vangelo di
ciascuna domenica, con una tessera di predica, e coi richiami al
catechismo stesso per isvolgerla; inoltre i doveri del parroco sovra i
diversi punti della dottrina, in modo che servisse come corso di
teologia, di sermoni, di meditazioni pei parroci.
In quell'opera si danno per risoluti alcuni punti, che il sinodo avea
lasciato indecisi, o di cui avea solo condannato i contrarj. Perciò i
Gesuiti che, massimamente nel fatto della Grazia, dissentivano dai
Domenicani, non l'aggradirono, e ne pubblicarono altri, fra cui la
_Summa doctrinæ christianæ_ del Canisio[237], e il Bellarmino.
Il catechismo è il libro de' sapienti e degli ignoranti, dove trovasi la
soluzione di tutte le grandi quistioni morali e sociali; donde venga
l'uomo e la specie umana, dove vada, come ci vada: perchè l'uomo è in
terra; dove va quando n'esce; come originarono il mondo, la specie e le
varie stirpi umane; che relazioni ha l'uomo con Dio, co' suoi simili,
colle altre creature: quali doveri nella società, coi superiori, collo
Stato, colle genti. Il catechismo dà a tutto una risposta precisa;
aggiungiamo risposta la più umana, la più generosa[238]. E questo è il
libro della prima infanzia, è il libro unico d'un'infinità di famiglie
ne' paesi più colti del mondo; benchè sia stato di tutti i libri il più
combattuto. Ed a ragione, poichè infonde sin nelle tenere menti
l'objezione decisiva a tutti gli errori religiosi, morali, sociali[239].
Pio IV chiamò a Roma Paolo Manuzio, elegante e dotto stampatore,
affinchè con que' suoi lodatissimi caratteri pubblicasse i santi
padri[240]. Esso Manuzio, dedicando a Carlo Borromeo l'edizione di san
Cipriano (Roma 1563), divisa le cure che egli e altri letterati italiani
posero ad emendarne le opere, parendogli che «in tanta procella, in
tanta distruzione giunga opportuna la voce di Cipriano, sostenitore
meraviglioso della cattolica dignità»[241].
Il raffinamento della civiltà esigeva si emendassero le lezioni
apocrife, certe goffe antifone, alcuni riti burlevoli, introdotti
dall'ignoranza o dalla semplicità, e Leon X ne diede commissione a
Zaccaria Ferreri vicentino. Quando lo spirito ecclesiastico era sì
scarso, e l'amor dell'eleganza preoccupava a segno da far sorridere
all'impulito latino di san Paolo, potea molto sperarsi da quest'uffizio?
Lo Zaccaria avea servito al cardinale Carvajal nel conciliabolo di Pisa,
onde erasi ricoverato a Lione, finchè il papa gli perdonò; ed egli in
tre giorni fece un poema di mille esametri, ove esaltava la felicità del
genere umano sotto un tal pontefice. Messo a riformare gli inni, li
leggeva man mano a Leon X, che gliene faceva congratulazioni; ma se
erano puri di stile, restavano freddi di pietà, ritraendo da Orazio non
solo le parole ma le immagini. Meglio riuscì il Sarbiewski che, per
ordine di Urbano VIII, assunse il medesimo còmpito con maggior
rispetto[242].
Pio V mandò un nuovo breviario, obbligatorio per tutte le chiese che non
ne avessero uno almeno ducentenario; e vi tenne dietro il messale.
Sisto V pubblicò una Bibbia, che unica dovesse avere autorità, e
v'attese egli medesimo col Nobili, l'Agello, il Morino, Lelio Landi,
Angelo Rocca, il cardinale Caraffa, Prospero Martinengo bresciano. Ma
appena uscita, vi si scopersero molti sbagli, onde fu messa all'Indice,
e ritiratine sollecitamente gli esemplari, divenuti così una delle
maggiori rarità bibliografiche. Clemente VIII pubblicò poi quella che fa
testo[243].
Oltre pubblicare libri di più regolata devozione,[244] si pensò a
chiarire e assodare la storia. Lutero, come bruciò le bolle
dichiarandole d'autorità incompetente, così bruciò il Diritto Canonico,
asserendo che la somma di esso è questa: «Il papa è Dio in terra,
superiore a tutti i celesti, terrestri, spirituali e corporali: tutte le
cose son proprietà del papa, e nessuno deve osare di chiedergli, _cosa
fai_?» Il fumo di quest'incendj, opposti a quelli del Savonarola,
offuscò la storia, che si trovò ridotta ad aneddoti; e sedici interi
secoli della Chiesa vennero presentati come solidariamente rei di
frodolenza e di menzogna, nelle diatribe de' Protestanti e nelle gravi
_Centurie di Magdeburgo_. Eppure la società cattolica è eminentemente
storica, avendo per vincolo d'unità la tradizione; _quod semper, quod
omnibus, quod ubique._ Mentre dunque si contrapponeva agli eterodossi la
precisa esposizione del dogma, bisognava pur colla storia rivelare e i
fatti, e l'essere della Chiesa, e la potenzialità della virtù dello
Spirito Santo.
Nei secoli credenti erano a ciò bastate le cronache e le legende, ma
queste non reggeano all'età critica, che al sentimento surrogava il
raziocinio. Si pubblicarono legendarj di miglior critica, quelli di
Pietro Natali, di Bonino Mombrizio, di Luigi Lippomano, superati poi da
Lorenzo Surio, indi dai Bollandisti[245]. Ma era desiderata una storia
ecclesiastica, che rivelasse le leggi che governano i fatti, mostrasse
il predominio dell'unità della Chiesa sopra la versatilità degli
avvenimenti, l'imperturbabilità di essa tra i sofismi e le violenze, lo
sviluppo del principio dell'autorità attraverso gli accidenti, e
ribattesse le parziali applicazioni, con cui voleasi oppugnare il
cattolicismo col mostrarlo deviato dalle credenze e dalle pratiche
primitive. In tal senso tutto cattolico e papale lavorò Cesare Baronio,
napoletano di Sora (1538-1609). Avea egli cominciato a narrare alcuni
momenti ecclesiastici a' suoi Filippini, quando, per istanza
principalmente di Filippo Neri, assunse la narrazione completa degli_
Annali Ecclesiastici_[246], traendo la storia fuor delle cronache e
delle legende, sistemandola colla cronologia, dandole unità e decoro, e
facendone così una battaglia sintetica contro gli analitici attacchi di
teologi e di filologi. Non arrivò che al secolo XII. Ignorava il greco;
volea veder in ogni avvenimento l'immediato castigo o la rimunerazione
di Dio, quasi egli retribuisca quaggiù: mai però non iscusa il delitto,
nè esita a disapprovare i pontefici erranti, e «ben ponderate (dice) le
sconvenienze del metterne a nudo le colpe, stimo meglio esporle
francamente anzichè lasciar credere agli avversarj che i Cattolici siano
conniventi alle debolezze dei papi». Della sua buona fede non dubitarono
nemmeno i più avversi[247]; e il suo libro restò la fonte forse più
importante di notizie sul medioevo, allorchè Roma era centro della
civiltà del mondo.
Così la fede della storia veniva opposta allo scetticismo della
discussione; tornava ad associarsi il principio conservativo della
tradizione col progressivo della civiltà; e mentre erasi idoleggiata la
società pagana, si tornava a studiare l'ideale cristiano, l'autorità che
rigenera il mondo.
Già erasi nel 1551 (Venezia per Michele Tramezzini) cominciata la
collezione delle _Lettere edificanti_, relazioni de' missionarj ne'
paesi nuovi, dove la pietà più schietta e operosa avviva le relazioni
più interessanti.
Si raccolsero pure le bolle, e nella prima collezione, apparsa il 1586,
Laerzio Cherubini distribuì cronologicamente le costituzioni pontificie
da Leon Magno fino a Sisto V; la crebbero suo figlio Angelo Maria, poi
Angelo Lantusca e Paolo da Roma; nel _Bollarium Magnum_ del 1727 furono
tirate fin a Benedetto XIII; indi fin a Pio VIII nell'edizione di Andrea
Barberi del 1835. Oggi infinite altre lettere pontifizie vengono in
luce, e i _Regesta pontificum romanorum_ di Jaffe (Berlino, 1852)
aggiungono mille ottocentottantun documenti al Bollario e mille
cinquecentrentasette alla raccolta del Mansi, soltanto dall'anno 882 al
1073; nel XII secolo adducono seimila settecennovantuna bolle, quando il
Bollario ne ha seicento, e mille trecentottantanove il Manso.
Non bastava togliere i vizj dal clero e riprovare gli scandali
antecedenti; bisognava prepararlo col dirigere la vocazione e la
laboriosa cooperazione che deve alla grazia divina chi è chiamato al
sacerdozio. A tal fine era necessario che una educazione speciale
precorresse all'unzione sacramentale; e perciò vennero istituiti i
seminarj. Già sant'Ignazio, d'accordo col cardinale Polo e col Canisio,
aveva istituito il Collegio Germanico. Sul modello di questo venne
eretto il Collegio Romano, una delle principali glorie ecclesiastiche e
scientifiche del mondo cattolico. Fu compito il 10 febbrajo 1565,
raccogliendovi cento giovani delle principali famiglie d'Europa, sotto
la direzione dei Gesuiti, e di là uscirono i pontefici Gregorio XV,
Innocenzo X, XII, XIII, Clemente IX, XI, XII; più di ottanta cardinali,
centinaja di vescovi.
Su quel tipo, il Concilio prescrisse che ogni diocesi avesse un
seminario pe' chierici: attestazione della virtù razionale de' credenti,
del progresso voluto nell'intelletto e nella coscienza; destinati a
formare la milizia che combatta le battaglie di Dio colla scienza non
men che coll'amore; una delle istituzioni più nobili del Concilio;
dovremmo dire delle più efficaci se guardiamo alla rabbia con cui è
osteggiata dai _deliri potenti_. Se ogni capitano ha diritto di formare
i proprj soldati, doveva ai vescovi esser riservata la facoltà di
ordinare i seminarj, esclusa ogni ingerenza laica: ordinarli
all'acquisto delle dottrine più opportune. Queste erano la letteratura,
il canto, il computo ecclesiastico e le altre arti liberali; inoltre la
santa scrittura, i libri ecclesiastici, le omelie de' santi, le forme
de' riti e de' sacramenti. Ai vescovi prescriveasi di stabilirli, e far
che le norme vi venisser osservate mediante frequenti visite[248], ben
vedendo, che «se la gioventù fin da' teneri anni non venga informata
alla pietà e alla religione prima che l'invada l'abito dei vizj, non mai
perfettamente e senza massimo e singolare ajuto di Dio onnipotente
s'otterrà che perseveri nella disciplina ecclesiastica».
Si diede opera a trar agli ecclesiastici anche l'educazione de'
secolari; e vi s'industriarono i Barnabiti, gli Scolopj, i Somaschi, e
più di tutti i Gesuiti. N'aveano naturalmente invidia i maestri laici,
eppure tutti i letterati d'allora vanno d'accordo nel lodare
l'istruzione data da quelli. Non occorre dire che mai non andava
scompagnata dall'educazione, e dirigevasi nell'interesse dell'anima, più
che prima non si vedesse ne' trattati che ne scrissero, fra altri, il
Sadoleto in buon latino[249], e in volgare il cardinale Antoniano.
Un altro de' mille errori che la petulanza accademica prima, poi il
sistematico odio propagarono contro il medioevo fu, ch'esso abbia
distrutto le opere gentilesche. Alle ricantate celie del beffardo
Boccaccio e dell'insulso Benvenuto da Imola opporremo che _tutte_ ci
vennero per mezzo degli ecclesiastici, e sfidiamo a smentirci.
Ben vi furono scrittori ecclesiastici de' primi tempi, e nominatamente
Tertulliano e Arnobio, che declamarono contro lo studio de'
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