Gli eretici d'Italia, vol. II - 09

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_Hic fidus Christi, credite, Martyr erat._
_Utque istæ taceant, satis hoc tua scripta loquuntur:_
_Plus satis hoc Italis exprobrat exilium._
[69] Il dottor C. Schmidt, professore di teologia a Strasburgo, nella
raccolta delle _Vite e opere scelte dei padri e fondatori della Chiesa
riformata_, stampò quelle di Pietro Martire (Elberfeld 1858), e nella
prefazione dice che esso è una delle più segnalate personalità del tempo
della Riforma, avendo esteso la sua attività all'Italia, a Strasburgo,
all'Inghilterra, a Zurigo, alla Francia, fin alla Polonia; e pochi aver
operato tanto per la fondazione e il consolidamento della Chiesa
riformata. Si valse di molte sue lettere, parte stampate, parte giacenti
a Gota, a Zofingen, a Ginevra, e principalmente nella raccolta dr Simler
a Zurigo.


DISCORSO XXV.
GALEAZZO CARACCIOLO.

Colantonio marchese Caracciolo napoletano servì al principe d'Orange
nell'assedio di Firenze, e sostenne varie missioni presso l'imperatore
Carlo V, al quale avea reso pure segnalati servigi nell'occupazione
francese del 1528, onde gli venne in gran favore, e ne fu creato uno de'
sei consiglieri del vicerè di Napoli. Sposò una Carafa, e mortagli sovra
il primo parto, egli concentrò tutto l'affetto sul rimastogli figlio
Galeazzo, e gli cercò sposa Vittoria, erede del duca di Nocera; donde
questi generò quattro figli e due fanciulle.
Galeazzo fu fatto ciambellano, cavaliere della chiave d'oro dell'impero:
e colle cortesi maniere cattivavasi l'universale benevolenza.
Frequentava le conferenze in casa del Valdes con Francesco Caserta,
notando il divario fra l'insegnamento evangelico e le pratiche di Roma,
viepiù da che intese Pietro Martire spiegare l'epistola ai Corintj. Il
quale diceva: «Se alcuno vede in distanza una quantità di persone
muoversi, e girarsi e rigirarsi in diverse direzioni, queste gli pajono
una turba di disennati. Ma se accostandosi s'accorge della melodia che
ispira e regola i loro movimenti, lo spettatore, non solo comincia a
comprendere la loro azione, ma concepisce tal simpatia per questa scena,
ch'egli stesso vuole unirsi ai danzanti. Altrettanto avviene se noi
vediamo taluno cangiare tenor di vita, e operare diverso da tutta la
restante società. Dapprima lo teniamo per disennato o stravagante: ma un
più attento esame della condotta e de' principj suoi ci convince che
armonizza colla parola di Dio e coi dettami dello Spirito Santo. Il
movente delle sue azioni è rivelato, e gli spettatori ne rimangono
talmente compresi, ch'essi medesimi rinunciano agli illusorj piaceri del
mondo, volgonsi con sincero desiderio alla santificazione, e s'accordano
colle persone che prima biasimavano».
Il Caracciolo ben presto entrò nella risoluzione di volgersi a vita di
spirito: ma l'eseguirlo tornava difficile. Il suo grado, il posto alla
Corte, la pubblicità della sua vita esponevanlo agli sguardi di tutti, e
il suo cambiamento desterebbe meraviglia fra le persone, inabili a
comprendere l'efficacia della parola di Dio[70]. Di ciò per altro davasi
minor briga, che d'altri ostacoli. Suo padre Colantonio fondava su lui
superbe speranze d'esaltamento alla sua famiglia: dedito alle pratiche
cattoliche non men che alla Corte, abborriva coteste empie novità, e
nessuna arte trascurò per distorne il figliuolo. La moglie non sapeva
più riconoscere il suo brillante marito nel meditabondo Galeazzo, e
l'accusava di sminuito affetto. La Corte stessa ben presto risolse di
estirpare gli eretici, che colà pendeano al senso degli Ariani e degli
Anabattisti, e coi quali confondeansi tutti i novatori; nè il Caracciolo
era così fino teologante da sapere distinguere, o da poter confutare.
L'Inquisizione in fatto cominciò a perseguitare i novatori e fra gli
altri il Caserta, amico del Caracciolo, che finì sul patibolo.
Come ciambellano, il Caracciolo doveva condursi spesso in Germania, dove
porgeasegli occasione di udire Protestanti, e particolarmente nella
Dieta di Ratisbona (1542), dove si oppugnò la supremazia di san Pietro,
e si sostennero
il matrimonio de' preti, la comunione sotto due specie, ed altri punti.
Ne ritornava egli sempre meglio confermato nella dottrina della
giustificazione, e ancor più dopo una visita che fece a Pietro Martire a
Strasburgo. Reduce a Napoli, esortò gli amici a staccarsi dalla Chiesa
di Roma: e poichè li vide tiepidi, soffocò in sè le affezioni
domestiche, e raccomandandosi sovente a Dio (i suoi ci conservano la
preghiera che suppongono facesse), se ne partì il marzo 1551, avendo
trentacinque anni, e portando duemila ducati. Molti amici aveano
promesso accompagnarlo; ma nol seguirono oltre i confini d'Italia.
Stette alla Corte in Augusta fin quando Carlo V lo mise fuor della
legge; allora passò a Ginevra, ove giunsero poco poi Lattanzio Ragnoni
di Siena, da lui conosciuti a Napoli: e legossi con Calvino ed altri
caporioni, che pensate se carezzavano questo insigne acquisto.
A Napoli tal fuga fu udita con sommo dolore: la famiglia se ne tenne
disonorata; l'Inquisizione fece indagini su' suoi amici: il padre non
tralasciò nulla per richiamarlo; supplicò l'imperatore lo lasciasse
venire impunemente, e gli mandò un salvacondotto di Venezia, in nome
dell'autorità paterna intimandogli tornasse. In fatto padre e figlio
scontraronsi a Verona il 29 aprile 1553, ma per quanto valutasse e
l'affetto e l'autorità paterna, Galeazzo non si lasciò smuovere.
Più tardi, allorchè divenne papa il Carafa suo prozio, Colantonio ne
impetrò che Galeazzo potesse rimanere sul territorio veneto, senza
cessare nessuna pratica religiosa; e gli mandò un passaporto perchè
venisse a Mantova. Ci arrivò infatto il 15 giugno 1555, e subì un nuovo
assalto della tenerezza paterna; non chiedersegli nulla di contrario
alla sua religione; tornasse all'Italia sua; obbedisse al padre in un
punto che nulla ledeva la coscienza; riabitasse colla moglie, coi
figliuoli, nel modo che conveniva al suo grado. Ma egli calcolò che
avrebbe dovuto vivere sotto al papa, presso l'Inquisizione, e preferì le
cipolle d'Egitto alla manna del deserto. Il padre deluso tornossene a
Napoli per la via di Roma: e Galeazzo l'accompagnò quanto il
salvocondotto gli permetteva, per tutto il dominio veneto. In
quell'occasione visitò la duchessa di Ferrara: poi per la Valtellina si
restituì a Ginevra, ove i suoi amici ringraziarono Dio del suo ritorno.
La moglie Vittoria non sapeva rassegnarsi al distacco, e con lettere e
messaggi incessanti lo sollecitava al rimpatrio. Alfine gli chiese
d'almeno vederlo: esibendosi incontrarlo in qualche porto veneto, non
troppo distante dal Regno. E si fissò Lésina, sulla costa di Dalmazia,
sol dalla larghezza del mare Adriatico disgiunta da Vico, feudo suo
paterno. Galeazzo vi comparve puntuale ad aspettarla, ma essa mancò, e
scusandosi con buone ragioni, gli mandò solo i due figliuoli Colantonio
e Carlo. Fosse amore per la donna, o speranza di convertirla e trarla
seco, Galeazzo risolse andarla a raggiungere. Erasi egli fatto cittadino
di Coira, concessione difficilissima a chi non v'abitasse[71]; onde
sicuro tragittossi a Vico, e vi trovò tutta la famiglia.
Quanta fu la prima esultanza del ritrovo, altrettanto il dispiacere di
lui nel non riuscire a trascinar nelle sue opinioni la donna sua, fida
alla religione avita, e risoluta di non abitare paese ove quella fosse
proscritta, e per sempre separarsi da esso se persisteva nell'eresia.
Lasciamo all'immaginazione il distacco, ove mescolavansi gli affetti di
parentela e di patria coi sentimenti religiosi opposti, e lottavano due
convinzioni pertinaci. Col cuore lacerato e chi restava e chi partiva,
si divisero per sempre.
Tragittatosi di nuovo a Lesina, passò rapidamente a Venezia, ove trovò
una lettera di Calvino, che mostravasi sospettoso dell'indugio, e
anelare al pronto suo ritorno, persuaso avrebbe alle affezioni del cuore
preferito la volontà del Signore. «In grande angustia m'avea posto la
vostra gita a Vico; e che cosa non avrei fatto per impedirla? Ma il
Signore vi ha invigorito a resistere alle insinuazioni mondane. La
vostra assenza riuscì penosissima ai vostri nuovi compatrioti». E segue
narrando come avesse dovuto citare avanti al Concistoro Giorgio
Biandrata, Silvestro e Gian Paolo; e quanti scandali nascessero dai
dissensi di costoro e di Valentino Gentili, che disseminavano errori
conformi a quelli di Serveto: che Gentili fu imprigionato; il giovane
Nicolò Gallo di Sardegna rinegò le falsità di cui era accusato. Torni
presto, che spera col suo ajuto ristabilire la pace (19 luglio 1558).
Fu dunque il Caracciolo accolto a Ginevra con grandi dimostrazioni. Poco
dopo consultò Calvino, Pietro Martire, lo Zanchi, se, attesa
l'ostinazione di sua moglie, potesse repudiarla; molto esitarono,
discutendo sul passo della prima lettera ai Corintj, VII, 12; _Se alcuno
ha moglie infedele, ed ella consente abitare con lui, non lascila_: e
malgrado altri passi della Scrittura ove è detto, _Ciò che Dio
congiunse, l'uomo non separi_, prevalse quel di san Matteo XIX, 29:
_Chiunque avrà abbandonato o casa, o fratelli, o padre, o moglie, o
figliuoli pel mio nome, ne riceverà cento cotanti, ed erediterà la vita
eterna_. Dissero essere questo il caso di abbandonare la moglie; onde
esso, a' 10 gennajo 1560, sposò Anna Fremery, da Rouen venuta a Ginevra
per religione. Non fu unione d'amore, ma consonanza di sentimenti;
vissero semplicemente e placidamente a Ginevra; essa andava a fare le
compre, e portava a casa ella medesima le provviste; egli ricusava il
titolo di marchese, contento al semplice nome. Eppure in ogni comparsa
aveva il posto d'onore, ed era riverito non meno che se godesse i titoli
e la fortuna paterna; ogni forestiero lo visitava o invitava, tra' quali
Francesco ed Alfonso d'Este, il principe di Salerno, Ottavio Farnese
duca di Parma. La conversazione rendeva egli dilettevole col narrare i
casi suoi, i viaggi in Germania, e aneddoti sulla Corte di Carlo V.
Meglio amava parlare delle cose divine. A Ginevra pensò stabilire una
Chiesa pei rifuggiti italiani, e vi pose a capo Celso Martinengo da
Brescia, collocandolo sotto la protezione del magistrato. Calvino
dedicogli la seconda edizione de' suoi Commenti sulle epistole ai
Corintj, dicendogli: «Ancorchè voi non cerchiate, alla maniera del
mondo, l'applauso degli uomini, contento d'aver Dio spettatore della
vostra probità, non è giusto che io lasci ignorar ai lettori chi voi
siate, e li frustri della soddisfazione, che dee recar loro l'intender
che un uomo come voi, nato di famiglia chiarissima, abbondantemente
provveduta di cariche eminenti e di beni, avendo moglie nobilissima e
castissima, e da essa una schiera di bellissimi figliuoli, e col
godimento d'una perfetta concordia e pace domestica, in condizione
affatto degna d'invidia, volle, per arrolarsi sotto la bandiera di Gesù
Cristo, abbandonare un'amabile patria, un paese delizioso, un lauto
patrimonio, una casa delle più comode e pompose, spogliarsi direi quasi
dello splendore d'un'alta nascita, sceverarsi dalla dolce compagnia di
padre, moglie, figliuoli, parenti, amici, e rinunziato a tutti i
contenti e gli alettativi che offre il mondo, appagarsi d'arrampicar qui
fra noi, e vivervi col comun popolo, come se nulla il distinguesse. Oh
quanto bramerei che tutti prendessero esempio da voi del rinunziar a se
stessi! locchè è il solido fondamento di tutte le virtù, e propriamente
l'essenza del cristianesimo; nè voi ignorate che poco caso io fo di
quelli che, avendo abbandonata la patria, danno a comprendere alla fin
dei conti di non avervi lasciato le loro cattive affezioni» (20 gennajo
1556).
Ma morto Calvino, il Caracciolo ebbe disgusti e male intelligenze col
consiglio della città, e pensava abbandonarla. Di ciò sarebbesi
pregiudicata nell'opinione Ginevra, che aspirava a divenire la Roma
degli Evangelici: onde si interposero ufficj, pei quali egli rimase[72].
Invecchiando decadde, e soffriva di asma. Considerava rotta ogni
comunicazione colla famiglia, quando gli arrivò un nipote, chierico
teatino, con lettere di Vittoria e di alcun de' figliuoli, cercando
indurlo a tornare a Napoli, o almeno in alcuna parte d'Italia,
offrendogli denaro, e annunziandogli che verrebbe suo figlio Carlo, il
quale, essendosi messo nella carriera ecclesiastica, era per ottenervi
dignità convenienti alla sua nascita. Commosso per affetto e indignato
per ostentazione, alfine Galeazzo buttò le lettere nel fuoco, e dichiarò
non aveva tanto sofferto tutta la vita per poi cambiarsi nella
vecchiaja; nè cercava l'approvazione degli uomini, opposta
diametralmente allo spirito del vangelo. Il Teatino insistette, dalle
preghiere passò ai rimproveri, finchè il magistrato di Ginevra gl'impose
d'andarsene.
Anche un famoso predicatore mosse per convertirlo, ma trovò che, fra le
cure de' medici e le preci della sua Chiesa, era morto il 7 maggio 1556,
di sessantanove anni. La seconda sua moglie sopravvisse di poco, e
abbiamo la lettera che ai capi della Chiesa lucchese in Ginevra essa
dirigeva, congratulandosi del modo rispettoso e risoluto con cui aveano
rigettate le offerte del cardinale Spinola, che gl'invitava a
restituirsi a Lucca e alla Chiesa cattolica[73].
Che il titolo di secondo Mosè fosse dato al Caracciolo dal Beza, ci è
asserito da Nicola Balbani. Questo lucchese, venuto a Ginevra il luglio
1557, elettovi ministro della Chiesa italiana il 25 maggio 4561 e morto
il 1587, tradusse il catechismo di Calvino nel 1566[74], e scrisse la
vita del Caracciolo (Ginevra 1587) che fu tradotta in francese da
Teissier de l'Estang (1681), ristampata a Ginevra il 1554 in inglese e
in latino da Vincenzo Munitoli (1587-1596) poi nel _Musæum Helveticum_
(1717). Il traduttore francese dice che l'originale ormai era rarissimo,
e giovava rinnovarne la memoria alle chiese riformate. «Ginevra, nostra
seconda madre, era tanto poco istrutta di un avvenimento sì raro e sì
bello, benchè passato tutto in essa, ch'era tempo di farle sapere, non
solo che una Chiesa italiana si era formata nella sua cerchia, ma anche
di quali virtù sfavillarono i fedeli di diverse favelle e nazioni, che
Dio qua condusse primi, e indurla a rimettersi a quel primitivo fervore
di pietà, che tanto allettava le oneste persone qua rifuggite».

NOTE
[70] A pag. 404 del vol. I portammo le congratulazioni, che di ciò gli
faceva il Flaminio.
[71] Giovanni Fabrizio da Coira scriveva al Bullinger il 21 marzo 1558,
raccomandandogli caldamente il marchese: _Rem aggressus est valde
difficilem, et cujus simile exemplum apud nostros non extat, ut is
scilicet in civem recipiatur, qui alibi quam apud nostros subsistere
cogitur. Wen er sich hätte wöllen in Pündten_ (Bunden, _Le tre leghe_)
_niederlassen, väre es besser darzu z' reden_. Altre lettere portano
raccomandazioni per esso, e il suo viaggio in Valtellina, poi in
_Illiricum, ubi censet se uxorem suam inventurum_.
[72] Esiste il processo verbale di ciò nel _Registre tenu par M. Jean
Pirrault: compagnie des pasteurs à Génève_.
[73] Epitaffio del Caracciolo:
_Italiam liqui patriam, clarosque penates,_
_Et lætam antiqua nobilitate domum;_
_Cæsareaque manu porrectos fortis honores_
_Contempsi, et magnas marchio divitias,_
_Ut te, Christe, ducem sequerer, contemptus et exul,_
_Et pauper varia pressus ubique cruce._
_Nam nobis cœli veros largiris honores,_
_Et patriam, et census annuis, atque domos._
_Excepit profugum vicina Geneva Lemanno,_
_Meque suo civem fovit amica sinu._
_Hic licet exigua nunc sim compostus in urna,_
_Nec claros cineres alta sepulchra premant,_
_Me decus Ausoniæ gentis, me vera superbis_
_Majorem pietas regibus esse facit._
Epitaffio di sua moglie:
_Vix, vix undecies repararat cornua Phœbe,_
_Conspicitur tristi funus in urbe novum._
_Anna suum conjux lacrymis venerata maritum,_
_Indomito tandem victa dolore cadit._
_Illa sui cernens properantia tempora Lethi,_
_Dixit, tunc demum funere læta suo:_
_Quam nunc grata venis, quam nunc tua jussa libenter,_
_Mors, sequor, ad sedes nam vehor æthereas,_
_Hic ubi certa quies concessa laboribus, aura,_
_O conjux, tecum jam meliore fruar._
_Pectore quem toto conceperat illa dolorem_
_Sola superveniens vincere mors potuit._
[74] Conosciamo la _Risposta a Pietro Vireto, a Nicolò Balbani et a due
altri heretici, i quali hanno scritto contro il trattato della messa di
Antonio Possevino_. Avignone, Rosso, 1566, in-16º.
Il nostro Caracciolo non è tampoco nominato nella _Biografia
Universale_.


DISCORSO XXVI.
ERETICI A FERRARA. LA DUCHESSA RENATA. OLIMPIA MORATA.

Luigia di Savoja, a ventidue anni rimasta vedova di Carlo d'Orleans duca
d'Augoulême, si ritirò dalla Corte coi figli Margherita e Francesco,
sintantochè quest'ultimo diventò re. Ella fu tacciata d'avarizia, e
d'aver lasciato perdere il Milanese per intascarsi il denaro destinato a
pagare le truppe; amò d'amore il contestabile di Bourbon, famoso
traditore; ma mostrò senno e imparzialità durante la prigionia del re
dopo la battaglia di Pavia. Scrisse un giornale dal 1501 al 1522, in cui
i Protestanti pretesero trovar sentimenti conformi ai loro[75]. Ma quali
sono? La rassegnazione al voler di Dio, il crederlo autore d'ogni ben
nostro, e altri che vanno comuni a tutti i Cristiani. In esso giornale
al 1522 scriveva: «Mio figlio e me, per la Dio grazia, cominciamo a
conoscere gli ipocriti, bianchi, neri, ombrati d'ogni colore, da' quali
Iddio, per la sua clemenza e bontà infinita, voglia preservarci e
difenderci; chè, se Gesù Cristo non mentisce, non v'è generazione più
pericolosa per ogni conto».
Margherita, figlia di madre tutt'altro che rigorosa, moglie d'un fiacco
ignorante, il duca d'Alençon, poi del re di Navarra, compose novelle che
starebbero bene al Boccaccio. Dopo il 1521 ascoltò volentieri Jacobo
Lefèvre, uno de' primi in Francia a sostenere che bisognava ricorrere
direttamente alla Bibbia, e interpretarla a proprio senno. Margherita
prese a leggerla, e poichè ella tanto poteva su tutta la politica di
Francesco I, sperò trarlo coi Riformati; l'indusse a venire ascoltare i
sermoni del Lefèvre, da' quali egli parve tocco non meno che Luigia di
Savoja.
Ma non che Francesco nè Luigia coltivassero queste velleità, anzi
cominciarono le persecuzioni, colla fierezza che abbiam veduto.
Margherita invece si fissò nella nuova fede, ed eccitò grave scandalo
ne' Cattolici col suo _Specchio dell'anima peccatrice_, ove tutto
attribuisce alla Grazia, non discorrendo nè di confessione, nè
d'indulgenze, nè di purgatorio[76].
Alla scuola di costei e de' primi Riformati, che conobbe a Nerac e a
Parigi, bevvè gli errori di Calvino Renata (1510-1576), figlia di Luigi
XII e d'Anna di Bretagna, alla quale sarebbe toccata la corona di
Francia se la legge salica non escludesse le donne. I sublimi natali e
il coltissimo ingegno, se non i pregi del corpo, la designavano a
sublimi nozze: fu promessa a Carlo V, a Enrico VIII d'Inghilterra, a
Gioachino marchese di Brandeburgo, e ragioni politiche vi
s'attraversarono sempre: la domandò pure il contestabile di Borbone;
infine fu fidanzata ad Ercole II d'Este duca di Ferrara (10 luglio
1527), nella speranza che tale parentela assicurerebbe alla Francia il
possesso del Milanese. Egli le regalò gioje per centomila zecchini;
ricchissimamente le nozze celebraronsi a Parigi il 28 giugno 1528: e
appena cessate le micidiali desolazioni recate all'Italia dal sacco di
Roma e dalla carestia, gli sposi vennero a Ferrara, e si stabilirono
alla magnifica e deliziosa villa del Belvedere sul Po, ridente di
pitture del Dosso, e della quale non rifinano di dire coloro che la
videro prima che andasse distrutta.
Quei duchi, gareggianti cogli altri dinasti a far primeggiare il piccolo
Stato, voleano abbellita la loro città non meno d'edifizj, quadri,
biblioteche, che di valenti ingegni, carezzati da essi, festeggiati dal
popolo: compravansi manoscritti antichi, recitavansi antiche commedie,
assegnavansi case, doti, cattedre nella fiorente Università a letterati
d'ogni paese; Pandolfo Colenuccio comico, l'erudito Guarini, Calcagnini,
Mainardi, Brasavola, l'antiquario Costanzo Landi, Lilio Gregorio Giraldi
che dedicò la sua Storia de' poeti alla Renata; Alessandro Sessi, autore
delle _Numinum et heroum origines_. Nell'accademia degli Elevati,
fondata da Alberto Lollio, ed in altre venivasi a improvisare, sia
versi, sia dissertazioni. E come Venezia d'eruditi e Firenze d'artisti,
così Ferrara abbellivasi di poeti, sino a far dire al satirico che
n'avea tanti[77], quante rane il suo territorio. Il ferrarese Bojardo
conte di Scandiano, che traduceva dal greco Erodoto, faceva egloghe
latine, e commedie di forza comica, coll'_Orlando innamorato_ avea
preparato tutte le invenzioni, che leggiamo svolte con incomparabile e
pericolosa leggiadria dal ferrarese Ariosto, professava:
Chi vuol andar attorno, attorno vada,
Vegga Inghilterra, Ungheria, Francia, Spagna:
A me piace abitar la mia contrada.
La costui armonia sonava ancora nelle orecchie, con quella di Bernardo
Tasso che preludeva alla superiore di Torquato. Bartolomeo Riccio
verseggiava sulla gloria: satire faceva il Manzolli; endecasillabi
catulliani il Flaminio: altri versi latini i due Strozzi; Marcello
Palingenio Stellato (cioè Pietro Angelo Manzioli della Stellata) lo
_Zodiacus vitæ_, poema dove non risparmia i frati, i preti nè i
pontefici, eppure nella prefazione si sottomette ai giudizj della
Chiesa. Quando Paolo III passò da Ferrara, rappresentaronsi gli _Adelfi_
di Terenzio, recitandovi i figliuoli della Renata, e facendo Anna da
amoroso, Leonora da giovinetta, Alfonso da giovane, Luigi da schiavo,
Lucrezia da prologo.
Per verità, le lodi agli ultimi Estensi di Ferrara furono in parte
postumamente prodigate per raffaccio al succeduto dominio papale: e a
dir vero queste letizie non erano che della Corte, mentre il paese
andava spopolandosi, guasto da gravi inondazioni, eppure costretto a
nuove imposte, e a severissimi divieti dalla caccia fin col minacciarsi
morte ai violatori.
Quella Corte soleva piacersi di quistioni teologiche. Una che si
dibatteva internamente era quella dell'immacolata concezione di Maria
Vergine, sostenuta dai Francescani, impugnata da alcuni Domenicani; il
che non è imputabile all'Ordine nè alle persone, attesochè, la Chiesa
non avea ancor definito, onde dicea sant'Antonino, _non sit determinatum
per Ecclesiam Virginem esse conceptam in peccato originali, vel non:
propter quod, absque præjudicio salutis, licet unicuique tenere alteram
opinionem quæ sibi placeat_[78]. Ercole duca di Ferrara volle sentire
discuterne; e l'opinione contraria fu argomentata da Vincenzo Bandelli,
che fu poi generale dei Domenicani, mentre san Bernardino da Feltre
propugnava l'immacolato concepimento. Nulla si conchiuse, ma il Bandelli
pubblicò una relazione della disputa, che fu proibita da Sisto IV come
ingiuriosa ai difensori del privilegio.
Ciò accadeva nel 1476: l'anno dopo, Sisto IV lasciò tenerne novamente
discussione in sua presenza, e contro Francesco da Brescia, generale dei
Francescani, silogizzò ancora il Bandelli, il quale poi stampò nel 1494
un uffizio, da sostituire a quello approvato da Sisto IV dell'immacolata
concezione, ove sosteneva che Maria fu concepita nel peccato originale,
e fu santificata dopo la sua animazione. Anche nel 1494, in presenza del
duca Ercole, fu tenuto a Ferrara un sinodo di tutti i frati della
provincia sotto il maestro Gioachino Torriano, con molti dotti, alla cui
testa Giovan Pico della Mirandola; sostenendovi tesi principalmente quel
che poi fu il cardinale Cajetano, contro cui altre volte disputò frà
Bartolomeo Spina.
Questo gusto delle discussioni religiose crebbe quando vi capitò la
Renata, desiderosa di emulare la regina Margherita, e di fare di Ferrara
quel ch'essa della Navarra, il nido de' pensatori settarj. Dotta di
storia, di lingue, di matematica, di teologia, e sapendo discorrere
senza annojare; aveva imparato astrologia dal napoletano Luca Guarino:
parlava così bene italiano come francese: di corpo infelice, pure
maestoso, di spirito sottile e dilicato[79]: prese a secretario Bernardo
Tasso; e irata ai pontefici Giulio II e Leon X pe' torti che aveano
fatti a suo padre in tante maniere, ne rinnegò la potestà e dimenticò
l'obbedienza, giacchè non potea far peggio perchè donna. Quando essa
ringravidò la terza volta, il francese poeta Marot in un'elegia la
felicitava d'aver concepito _in tempi sì fortunati_, e le prometteva la
ruina del papa e della santa sede, nemica alla casa di lei. La troviamo
lodata come _santissima anima_ dal Brucioli nella dedica della Bibbia;
per gran religione dal Belussi nella giunta alle _Donne illustri_ del
Boccaccio, da Gianfrancesco Virginio bresciano nel dedicarle le sue
_Lettere_, che al Fontanini, giudice arcigno, parvero seminate di frasi
eterodosse, e la _Parafrasi_ sulle Epistole di san Paolo.
Ricordiamo volontieri com'ella abbondasse in carità, e massime coi
Francesi che dalle guerre tornavano derelitti e sofferenti; e se alcuno
le rimostrava come in tali spese eccedesse, «Che volete? (rispondeva);
e' son francesi, di mia nazione, e sarebbero sudditi miei s'io avessi
avuto barba al mento».
Fosse bizzarria o convinzione, ella formò della Corte ferrarese un
focolare di pratiche anticattoliche; vi imbandiva grasso ne' giorni di
vigilia; teneva assemblee religiose nel palazzo di San Francesco, e
probabilmente vi facea celebrare la messa di sette punti, quale erasi
inventata alla Corte di Navarra, cioè: 1º senza comunione pubblica; 2º
senza elevazione dell'ostia; 3º senza adorazione delle specie; 4º senza
oblazione del pane e del vino; 5º senza commemorazione della Madonna e
dei santi; 6º senza frazione del pane all'altare; 7º da prete
ammogliato.
Oltre Aonio Paleario, Pietro Vergnanini, Francesco Porto cretese, Lisia
Fileno, ella ricoverò Girolamo Bolsec carmelitano francese, che
appuntato per prediche troppo libere, gittò la tonaca, menò moglie, e
praticò la medicina: dappoi avendo ingannata la duchessa e fattosene
calunniatore, ne fu cacciato; a Ginevra professò opinioni per cui ne fu
respinto, e scrisse libri violenti contro i caporioni della Riforma.
Essendo stato arrestato a Firenze Lodovico Domenichi per avere fatto
stampare la _Nicomediana_ di Calvino, la Renata ne scrisse al granduca
da Consandolo, il 20 marzo 1552, com'altra volta in favore di Sebastiano
Dedi da Castrocaro.
Più memorabile è l'asilo ch'essa diede a Calvino. Perseguitato in
Francia dalla Sorbona, nel 1536 ricoverò presso la Renata col nome di
Carlo d'Esperville, e giovane eppur sempre grave e serio, di scienza
profonda, di molta unzione nel discorso, traeva profitto dal suo
apostolato, e un tratto sperò riuscire in Italia a meglio che non
avessero potuto Lutero e Zuinglio. Veniva con lui da segretario l'ora
detto Marot, che tradusse in versi i salmi, i quali furono cantati nelle
rivoluzioni d'allora, come la marsigliese nelle nostre[80]. Altri pure
capitavano a Ferrara, per religione spatrianti. Madama di Soubise,
governante della Renata, teneva seco la figliuola Anna di Partenay e il
figlio Giovanni, che poi col titolo di sire di Soubise fu de' capi degli
Ugonotti in Francia. I fratelli Giovanni e Chilian Sinapi tedeschi,
riformati e amici di Lutero, il primo de' quali avea convertito e
sposata la ferrarese Francesca Bucironi (1538), erano venuti a
quell'Università insegnando il greco, ed istillavano massime eterodosse
ai tre figli della Renata. La quale per compagna alla sua figliuola,
diede Olimpia, figlia di Fulvio Pellegrino Morato, già tinta del colore
stesso.
Ercole II era figlio di Alfonso I e della famosa Lucrezia Borgia, e
fratello di Ippolito cardinale, vescovo di Ferrara, di Milano e di non
so quanti luoghi, che per poco non fu papa dopo Giulio III, e che
fabbricò la villa d'Este famosa a Tivoli, e protesse i letterati al modo
che sa chi conosce le vicende dell'Ariosto e il motto divulgato. Ercole
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