Gli eretici d'Italia, vol. II - 32

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classici[250], perchè in fatto riuscivano pericolosi allorchè la loro
bellezza allettava all'oscena felicità, mentre la severità cristiana
chiamava all'ascetismo penitente. Ma stabilitosi il cristianesimo, nelle
scuole si conservò l'antica tradizione letteraria: se anche in alcune si
introdusse qualche autore cristiano, la prevalenza restò ai Gentili,
riprovati per le cose, studiati per la forma.
San Basilio, nel trattato ai giovani _Sul modo di leggere con frutto le
opere de' Gentili_, raccomanda di studiar questi, primo per raccogliervi
esempj di virtù; secondo, perchè quanto di utile e di vero essi
contengono lo dedussero dalle sacre scritture; opinione allora
divulgata. Avrebbe potuto aggiungere che lo studiar in quelli affina il
gusto ed esercita l'intelletto e la critica per adoperarli poi ad usi
santi; ed egli con quest'opuscolo ben meritò impedendo la distruzione
che uno zelo stemperato faceva dei libri profani.
Cassiodoro, raccomandando a' monaci suoi lo studio degli autori profani,
invoca l'esempio non solo di Mosè, che fu istrutto in tutta la sapienza
degli Egizj, ma anche de' santi padri, i quali, «non che decretare si
rigettassero gli studj delle lettere profane, diedero l'esempio del
contrario, mostrandosene espertissimi, come vedesi in Cipriano,
Lattanzio, Ambrogio, Girolamo, Agostino ed altri. Chi dopo l'esempio
d'uomini siffatti oserebbe più esitare?»[251]
Carlo Magno, in una celebre enciclica _De literis colendis_, diretta ai
vescovi ed abati nel 787, raccomandava assai gli studj umani, affinchè
col disimparare a scrivere non si perda anche l'intelligenza
dell'interpretare le sante scritture: perocchè, se son dannosi gli
sbagli di parole, più il sono gli sbagli di senso. Gli esorta quindi a
gareggiar di zelo nell'imparare, onde possano con facilità e sicurezza
penetrare i misteri delle sacre carte. Nelle quali trovandosi figure,
tropi, altri ornamenti, più facile ne coglierà il senso spirituale chi
vi sia preparato dall'insegnamento delle lettere.
In qualche Ordine religioso era vietato al monaco _gentilium libros vel
hæreticorum volumina legere_, ma ne' più era anzi un degli esercizj
prediletti il ricopiarli, e se ne trovano ne' cataloghi di tutte le
biblioteche monastiche. Abbiamo del secolo XI una lettera, in cui Enrico
cherico a uno Stefano descrive il lavorare che si fa nella badia della
Pomposa presso Ravenna, attorno agli studj, annoverando i libri che ne
formano la biblioteca, e loda «la clemenza di Dio, che accresce la
nostra sete di conoscere mediante la sapienza. Non ignoriamo (continua)
potervi esser alcuni superstiziosi o malevoli, che vorranno appuntar
questo venerabile abbate dell'aver messo libri pagani e favole di errore
insieme colla verità divina e colle pagine de' libri santi. Noi vi
risponderemo colle parole dell'apostolo, che ci ha vasi di creta come
vasi d'oro; lo che fu istituito affine di allettare e occupare i varj
gusti degli uomini».
Coloro che disapprovano tali letture, il faceano o nel fervore della
disputa, o per colpire l'abuso, come san Girolamo nel passo succitato:
come sant'Agostino ove, nelle _Confessioni_, si pente che le lacrime di
Didone lo facessero dimenticare di Cristo, o nelle _Ritrattazioni_
d'aver troppo adoprato la parola _Fortuna_ e rammentato le _Muse_. E che
strani pericoli potesse recare lo studio de' classici lo mostra quel
Vilgardo di Ravenna che già mentovammo, di cui uno scrittore del XI
secolo racconta che con soverchia assiduità studiava la grammatica (cioè
i classici) «come sempre ebber costume di fare gli Italiani, a
preferenza del resto». E inorgoglitosi del suo sapere, una notte gli
apparvero i demonj in forma de' poeti Virgilio, Orazio, Giovenale[252],
e con fallaci parole tolsero a ringraziarlo dello studio che in essi
poneva, e gli promisero farlo partecipe della loro gloria. Da queste
seduzioni traviato, cominciò insegnare cose contrarie alla fede,
asserendo dovessero le parole de' poeti esser credute quanto le sacre
scritture. Convinto d'eresia, fu condannato dall'arcivescovo Pietro; e
si trovò che in Italia molti erano infetti dalle medesime opinioni[253].
Ma conveniva formare il gusto de' giovani sui classici gentili? Dante,
nel XX del _Paradiso_ condannava quel puzzo di paganesimo, benchè si
facesse condurre da Virgilio, e in effetto prendeva dagli antichi il
classico, non il gentilesco. Ma i profani pigliarono poi il sopravento
sugli autori ecclesiastici, tanto che la riazione proponeva di sbandirli
dalle scuole, come insinuatori di sentimenti e passioni anticristiane.
La Chiesa mostrossi men rigorosa, e lo stesso san Carlo non li
proscrisse da' suoi seminarj, solo facendoli in qualche parte emendare,
e suggerendo si unissero agli Uffizj di Cicerone quelli di
sant'Ambrogio, alla sua retorica quella di san Cipriano, e così d'altri
santi padri. E il gesuita Possevino proferì a Lucca un discorso sul modo
di trar profitto dai classici anche per la morale, accoppiandovi le
opere di Pantenio, di Giustino Martire, d'Eusebio, principalmente di
sant'Agostino, i quali diedero interpretazione cristiana alla civiltà
gentilesca; i maestri avessero a mano i santi padri, e se n'ajutassero
per cercare la verità anche ne' profani, e il divario che corre fra la
nebulosa luce di questi e la fulgida del Vangelo; si desuma da Tullio lo
stile, dai Padri la pietà e la dottrina vera; si mettano a parallelo gli
eroi di Grecia e di Roma coi nostri, quali Carlo Magno, san Luigi di
Francia, santo Stefano d'Ungheria, e giù sino a Vasco de Gama e
all'Albuquerque, tanto più che di questi aveansi le imprese narrate in
buon latino dall'Emilio, dal comasco Giovio, dal bergamasco Maffei[254].
Sono principj liberali, più che non gli abbia professati o praticati il
nostro secolo, più che non potesse attendersi dal color religioso e fin
chiesolastico, che prendea l'educazione, quando, anche fuor de'
seminarj, moltiplicavansi le pratiche religiose, frequentavansi i
sacramenti e gli esercizj, introducevansi feste, altarini, cappannucie;
insinuavasi la venerazione per ogni cosa sacra, l'obbedienza
incondizionata al papa, l'orrore per ogni lubricità.
Allora campeggiò lo zelo di molti, vorrei dire di tutti i vescovi, nel
restaurare la disciplina delle proprie diocesi.
Il cardinale Giberti, già datario, e soprannominato padre de' letterati
e dei poveri, nel suo vescovado di Verona pose una stamperia, da cui
fece riprodurre le opere de' santi padri; rese quel clero un modello di
ecclesiastica disciplina, sicchè il Concilio non fece quasi che ridurre
a decreto ciò ch'egli aveva introdotto.
A torto vien attribuita al Contarino, ed è probabilmente del Flaminio
una lettera, inserita nelle raccolte di quel tempo, ove si dice:
«Tenetevi per voi questi vostri mostruosi vescovi con le loro sete, ori,
argenti, tappezzerie, cavalcature, staffieri, per non dir peggio, ne'
quali non si vede altro di vescovo che una gran cherica. A noi fanno di
mestieri vescovi, che per gemme e ori abbiano le sagre lettere, per
delizie la povertà ed i digiuni, per ornamenti un'ardente, casta ed
umile carità, quale a dì nostri fu il santo vescovo Matteo Giberto, di
tante esimie doti dell'animo ornato, che alli antichi si poteva
propriamente paragonare. Visse con tanta celebre opinione di santo
vescovo, che lasciò di sè eterna memoria ed indicibile desiderio».
Gabriele Paleotto, insigne grecista e canonista e gran sostegno del
Concilio di Trento, del quale stese gli atti, fatto cardinale e
arcivescovo di Bologna nel 1566, vi si modellò sugli esempj di san
Carlo, di cui era amico e collaboratore; nella sua diocesi riformò i
costumi e la disciplina, introdusse divozioni, frati, nuove chiese,
opere di carità, un de' primi seminarj: spiegava egli stesso il
catechismo ai bambini, amministrava i sacramenti, albergava tutti i
sacerdoti avveniticci visitava nelle case i poveri, e gl'infermi che
mandava a rimettersi nelle proprie ville; insieme raccoglieva sapienti,
quali l'Aldrovandi, il Pandusio, il Sigonìo. Volendo il papa imporre ai
sudditi una nuova gravezza per sostenere i Cattolici di Francia nella
guerra contro gli Ugonotti, egli si oppose, non curandone lo sdegno e la
punizione (-1597).
Benedetto Lomelli riformava la diocesi d'Anagni: la pavese il cardinale
Ippolito De Rossi, dotto insigne e caritatevole, che vi fabbricò
l'episcopio, restaurò la cattedrale, introdusse ospedali, sinodi,
visite, dottrina cristiana. Roberto Nobili di Montepulciano, nipote di
Giulio III, che l'ornò della porpora a quattordici anni, a quindici
promosso bibliotecario della santa Chiesa da Marcello II, era
universalmente chiamato angelo del Signore: assiduo alle orazioni, al
digiuno, al predicare; colle penitenze si logorò tanto, che moriva a
diciotto anni, dicono per non voler ledere la castità.
Angelo Niccolini fiorentino, governatore lodatissimo di Siena e di Pisa
ove poi fu arcivescovo, ambasciadore presso molte Corti, nel conclave
per Pio V poteva divenir papa se non fosse parso troppo familiare col
granduca (-1567).
Rodolfo Pio da Carpi, operosissimo nel combinar paci e nel ben
governare, fu segnalato non meno per grandi virtù che per una splendida
biblioteca e collezione di statue e di medaglie. Il cardinale Alessandro
Farnese moltiplicò in varie parti istituzioni benefiche e pie. Prete
Demetrio Petrone rigenerò Montagano nel Sannio, quella popolazione
corrotta e ignorante inducendo, per penitenza e in proporzione de'
peccati, a piantare alberi fruttiferi ne' campi proprj e negli altrui,
egli stesso ai più poveri fornendo gli alberi e le zappe.
Gaspare dal Fosso, frate paolotto, fatto arcivescovo di Reggio, fu
lodatissimo al Concilio di Trento, donde volendo andarsi per riparare a
semi d'eresia che udiva spargersi nella sua Calabria, i legati lo
indussero a rimanere, dove per la sua prudenza e virtù pareva, dice il
Pallavicino, non pur utile ma necessario. Finito il Concilio, moltissimo
adoprò al meglio della sua diocesi, rifabbricò la cattedrale, quasi
distrutta dall'irruzione de' Turchi; al rito gallicano, ivi
conservatosi, surrogò il latino: prodigossi nella peste del 1576, e
distribuì molte terre della mensa a trentadue famiglie col patto vi
coltivassero fichi e gelsi. Le sue ossa furono violate in una nuova
invasione dei Turchi del 1594.
Fra quei che illustrarono allora la porpora e la mitra menzioneremo il
Rusticucci, uomo perspicace quanto retto; il Salviati, vivo tuttora
nella lode de' Bolognesi; il Sartorio, severissimo capo
dell'Inquisizione. Tommaso Campeggi, che nell'opera _De auctoritate ss.
Conciliorum_ mostra la necessaria dipendenza di questi dal papa, salvo i
casi dati. Clemente Dolera genovese, vescovo di Foligno, combattè gli
errori correnti, e lasciò un _Compendium institutionum theologicarum_,
molto reputato. Tolomeo Gallio di Como aperse alla sua patria inesausti
tesori di beneficenza, fra i quali un collegio, dove i fanciulli della
diocesi dovessero educarsi, non in grammatica solo e rettorica, ma nelle
arti e mestieri; scuole tecniche, quali il secolo nostro le proclama.
Lungo sarebbe ripetere quanti nelle nunziature furono spediti a sfidare
o dissipare le procelle di quel tempo.
Carlo Caraffa, nunzio apostolico, nella _Germania sacra restaurata_
divisa i progressi della Riforma ne' paesi tedeschi, e le sovversioni
che ne seguirono fin alla guerra dei Trent'anni. Giovenale Ancina di
Fossano, amico a Roma de' gran santi e de' gran dotti, si sottrasse alle
dignità per rendersi oratoriano; e cansato più volte l'episcopato, al
fine fu costretto accettare il povero e pericoloso di Saluzzo, ove potè
mostrare zelo e dottrina, finchè il veleno gli accorciò la vita.
Feliciano Scosta da Capitone servita, adoprò assai contro gli Ugonotti;
poi ad istanza di san Carlo e per autorità di Pio V promosso arcivescovo
d'Avignone, campò questa città dalle dottrine e dalle armi dei
Protestanti (1511-77).
Tra gli auditori di Rota si citano, e fan tuttora testo le decisioni del
cardinale Mántica friulano, dell'Arrigone milanese, di Serafino
Olivieri. Tale corredo i pontefici s'eran messo attorno, invece dei
poeti e dei soldati d'un secolo prima.
Tipo del riformatore cattolico, l'arcivescovo Carlo Borromeo sei volte
convocò il clero milanese in sinodi diocesani, de' quali stampò gli
_Atti_; vera carta costituzionale, ove l'universalità della Chiesa è
applicata al governo di ciascuna diocesi; corpo di disciplina, ammirato
tuttora anche fuori, e dall'assemblea del clero francese fatto
ristampare e diffondere a sue spese nel 1657.
Moltissimo carico egli si fa della dignità e del contegno de' preti e
del vescovo nel vestire, nel conversare, nell'abitare, nella tavola. I
suffraganei suoi si facessero mandare una volta l'anno una predica da
ciascun parroco, e se nol vedessero migliorare, vi spedissero un
predicatore. I morti si seppelliscano in campagna, cinta di muro; si
tenga cura delle biblioteche. Vuol ponderazione nel riconoscere le
antiche reliquie e nell'accettarne di nuove o nuovi miracoli; pose
ritegni ai troppi che andavano in pellegrinaggio o per devozione, o per
penitenza: bonissime norme ai predicatori tanto per le materie e la
forma de' discorsi, quanto pel modo di porgere; e al suo clero ripeteva
quel della Scrittura, _Maledictus homo qui facit opus Dei negligenter_:
volevalo oculato su' costumi de' fedeli, sino a tener in ogni parrocchia
un registro della condotta di ciascuno. Anzi rintegrò le prische
penitenze pubbliche, nel suo rituale raccogliendo quelle comminate in
antico a varj peccati[255]. E fra le penitenze enumera il vietare le
vesti di seta e d'oro, i conviti e le caccie; il far limosine, o
mettersi pellegrini o servi in ospedali, o visitare carcerati, o
chiudersi alcun tempo in monasteri, o pregare in Chiesa a braccia tese,
o tenervisi bocconi, o flagellarsi, o cingersi il cilizio.
Instancabile a cercare della estesissima sua diocesi qualunque angolo
più invio e remoto, oltre destinarvi visitatori generali e particolari,
gran fatica egli sostenne, e consigli, comandi, esempj adoprò per
rimettere l'uso quasi dimenticato de' sacramenti e la decenza nelle
chiese, più ch'altro simili a taverne, senza campane o confessionali o
pulpiti o arredi; introdurre devozioni e riti e un regolato cerimoniale;
ripristinare l'adempimento de' legati pii; istituire parrocchie ove
prima un solo prete attendeva a vastissimi territorj; circoscrivere
meglio le pievi, con vicarj foranei in corrispondenza colla curia; i
preti abituare al pulpito, su cui prima non salivano quasi che frati;
misurare i diritti di stola bianca e nera; rendere regolari i registri
di battesimi, matrimonj, morti; svellere le superstizioni, sincerare le
legende di santi e di miracoli. Istituì le _Compagnie della dottrina
cristiana_, ove la festa oltre le verità della fede, s'insegnasse, anche
a leggere e scrivere; e con espresso divieto ai membri di esse di
cercare rendite o vantaggi temporali per questo titolo. Zelò
l'osservanza delle feste, sin mandando a togliere la roba a contadini
che in esse aveano lavorato; niuna donna di qualsia stato o condizione,
entri in Chiesa, nè accompagni le processioni se non con velo non
trasparente o zendado o altro panno, di tal modo che stiano coperti
realmente tutti i capelli. Niuno v'entri con cani da caccia o sparvieri,
nè con archibugi, balestre, arma d'asta o simili, nè le appoggi alle
porte o ai muri di Chiesa, nè le deponga ne' sagrati o negli atrj[256].
I principi vogliano escludere i ciarlatani, gli zingari, i giuochi, le
smodate spese; vietino le taverne al possibile, e vi si possa dar
mangiare e bere, ma non alloggiare.
Al commercio dei libri si vigili con cautele rigorose; non si tengano
Bibbie vulgari, nè opere di controversia cogli eretici, senza licenza;
non si lascino andar i fedeli ne' paesi ereticali, nemmeno a titolo di
mercatura o d'imparare la lingua; si favorisca in ogni modo il
sant'Uffizio. Istituì gli Oblati di sant'Ambrogio, preti con voto di
speciale obbedienza all'arcivescovo, perchè accudissero alle parrocchie
più faticose e povere, e dessero esercizj e missioni, e istruissero i
giovani ne' seminarj. I frati Umiliati, arricchitisi colle manifatture
della lana, possedeano nel solo Milanese novantaquattro case, capaci di
mantenere cento frati ciascuna, e non ne conteneano due; onde quelle
rendite di venticinquemila zecchini, godute da pochissimi, erano fomite
di schifosa depravazione. Carlo volle ridurli a disciplina, ma un di
essi gli sparò una fucilata; di che il papa prese ragione per abolire
l'Ordine, e delle rendite di esso dotare collegi e seminarj, massime di
Gesuiti.
Traversando la val Camonica, ove da alcun tempo non si pagavano le
decime, Carlo non dà la benedizione, e que' popolani ne restano
sgomenti; nella valle retica della Mesolcina fa processare severamente
eretici e maliardi[257]: illusioni che (al par di certe esorbitanti
pretese di giurisdizione, come d'avere forza armata a sua disposizione,
di far eseguire le sentenze della sua curia anche contro laici[258] i
quali non vivessero da buoni cristiani) vorremo perdonare ai tempi,
piuttosto proclamando come profondesse ogni aver suo coi poveri, e a
sovvenire di corporale e spirituale assistenza gl'infermi d'una
terribile peste allora scoppiata, e che oggi ancora in tutta Lombardia è
intitolata peste di san Carlo: tanto prevalse l'idea della carità a
quella del disastro.
Molto egli si valse di Carlo Bescapè barnabita milanese, che poi vescovo
di Novara vi fondò il seminario, e scrisse opere di diritto
ecclesiastico e la vita di esso san Carlo. Col quale e come lui operò il
beato Paolo d'Arezzo teatino, a correggere la depravatissima sua diocesi
di Piacenza, poi quella di Napoli; dove ancora servono di modello per le
visite diocesane le istruzioni dell'arcivescovo Annibale da Capua.
Giovan Francesco Bonomo, patrizio cremonese, nel suo vescovado di
Vercelli sostituì l'uffizio romano all'eusebiano, fabbricò il seminario
affidandolo ai Barnabiti, istituì un Monte di pietà colla propria
sostanza; tra gli Svizzeri e i Grigioni a tutela della fede mise in
pericolo anche la vita, e introdusse i Gesuiti a Friburgo, i Cappuccini
ad Altorf; poi andò nunzio apostolico all'imperatore, indi nelle
Fiandre, sempre zelando la causa cattolica. Delegato da Gregorio XIII a
visitare la diocesi di Como, vi stampava delle prescrizioni[259], dove,
fra evangeliche maniere ed elevati intenti, appajono esagerazioni, che
viepiù risaltano or che è cessata la prevalenza ecclesiastica. I vescovi
non abbiano cortine e tappeti a fiori, non lauta mensa, non elegante
suppellettile, non vasellame d'argento, col quale potrebbero mantenere
dei poveri; lor precipuo uffizio è il predicare, nè possono mancarvi
senza potente motivo. Nel triduo avanti Pasqua il vescovo sieda in
confessionale per ascoltare chi si presenti: ogni due anni compia la
visita diocesana, non ricevendo a tavola che tre piatti, oltre cacio e
frutta; dia facile udienza a tutti, anzi v'incoraggi i poveri; veda e
spedisca da sè quanto può. Ogni maestro faccia in man di lui la
professione di fede[260]; le feste si osservino coll'astenersi da opere
servili e dagli stravizzi. Ogni anno si intimi la scomunica a chi non
denunzia fra quindici giorni qualunque eretico o sospetto; si pubblichi
la costituzione di Pio V contro chi offendesse le fortune o le persone
del sant'Uffizio; e ogni settimana il vescovo si affiati
coll'inquisitore e con alcuni teologi e avvocati sovra il processare gli
eretici. Chi bestemmia Dio o la Beata Vergine sia punito in venticinque
zecchini, il doppio se ricada, e cento alla terza volta, oltre il bando
e l'infamia. Se non gli ha, stia colle mani legate al tergo, genuflesso
tutt'un giorno di festa al limitare della Chiesa; se ricade, sia per le
strade battuto a verghe; alla terza volta, foratagli la lingua con un
acuto, indi condannato in perpetuo al remo. Crescono le pene se il reo è
chierico; altre a chi bestemmia i santi; e si pubblichino indulgenze ai
denunziatori e ai giudici. I parroci visitino ogni settimana le case per
conoscere i bisogni spirituali e temporali, e raccolgano i viglietti
della comunione pasquale.
La prebenda de' parroci si migliori col prelevare dai benefizj
inutilmente goduti da cardinali o prelati. Freno all'avarizia de'
curiali; via i borsellini che soleano appendersi ai confessionali; via i
sepolcri elevati in Chiesa; non si nieghi sepoltura per mancanza di
denaro, nè si varii secondo le fortune il suon delle campane o la
grandezza della croce. Se le donne in chiesa lascino dal denso velo
apparire pur un capello, sia colpa riservata al vescovo. Questo ponga
ben mente che nessuna fanciulla venga monacata per forza o per
seduzione; i confessori di monache non ne accettino regalo o cibo; esse
non tengano nella cella nessun arnese da scrivere, e in caso di
necessità lo chiedano alla badessa; v'abbia carceri e ceppi e catene ne'
monasteri per quelle che violano la disciplina.
Istruzioni di tenore somigliante si diedero dapertutto.
Ai vescovi fu ingiunta rigorosamente la residenza, come a tutti i
benefiziati; cessò l'abuso di attribuire badie, collegiate, vescovadi a
secolari e fin a militari.
Ordini novamente istituiti, o antichi rigenerati tendeano a rintegrare
il sentimento religioso, e ringiovanire il monacato quando i Protestanti
lo abolivano. Già prima san Francesco da Paola calabrese aveva istituito
i Minimi, che in Ispagna furon detti _Padri della vittoria_ perchè alla
loro intercessione s'attribuirono i trionfi sopra i Mori; e in Francia
_Boni uomini_, perchè con questo nome era indicato il lor fondatore alla
Corte di Luigi XI. I francescani ebbero le varie riforme dette degli
Scalzi, de' Minori Conventuali, della Stretta Osservanza, de'
Cappuccini. Quest'ultimi, dissipati i sospetti d'eresia insinuatisi per
colpa dell'Ochino, impetrarono di venire esentati dalla licenza di poter
possedere, che il Concilio di Trento aveva data anche agli Ordini
mendicanti. Ambrogio Stampa Soncino milanese, genero di Anton da Leyva,
abbandonò le dignità per vestirsi cappuccino: udendo per le vie di
Milano un che bestemmiava, prese a correggerlo, e percosso da questo con
uno schiaffo, gli offrì l'altra guancia dicendo: «Batti, ma cessa di
bestemmiare»; col quale atto fe ravvedere il violento; andò poi apostolo
fra' Barbareschi, convertendo e riscattando, ove morì il 1601. Alfonso
III duca d'Este a trentott'anni si veste cappuccino a Merano del Tirolo,
dove assiste appestati, converte eretici. Giuseppe da Leonessa, mandato
missionario in Turchia, a Pera catechizza i galeotti, onde i Turchi lo
sospendono per un piede, poi lo esigliano: roso da un orribile cancro, e
dovendosi operarlo, non volle esser legato, dicendo: «Datemi il
Crocifisso, e mi terrà immobile più di qualunque legatura». Lorenzo da
Brindisi, professato a Verona, a Padova si diede a migliorare i costumi
dei giovani studenti; a Roma discuteva co' rabbini, senza iracondia nè
personalità, invitandoli ad esaminare il testo biblico; poi tolse ad
esortare i principi tedeschi contro Maometto III, e a capo dell'esercito
cavalcò colla croce in mano nella battaglia dell'11 ottobre 1611, la cui
vittoria volle attribuirsi a miracolo di esso; indi fu adoperato a
stringere leghe e menare ambasciate nella guerra dei Trent'anni.
Gli annali de' Cappuccini, raccolti dal Boverio con pochissima critica,
offron una serie di uomini dedicatisi alla propria perfezione morale e a
servire il prossimo nelle maggiori necessità, cominciando appunto quando
cominciava Lutero, cioè nel 1524. Tra il popolo si diffondeano a
consolare, a benedire, a consigliare, a predicare, fin triviali e buffi;
ma dal deriderli di ciò e delle assurde pruove del loro noviziato e
delle minuziose osservanze si asterrà chi non dimentichi come
mostraronsi eroi nelle pesti ricorrenti allora, e sempre furono
spruzzati dal sangue de' suppliziati.
In quella vece nelle pesti i Protestanti fuggivano: e Lutero l'attesta.
«Si schivano talmente l'un l'altro, che non si troverebbe un chirurgo o
un infermiere. Pare che tutti i diavoli li caccino, talmente son presi
da terror panico, il fratello abbandonando il fratello, il figliuolo il
padre..... Flagello affatto nuovo questo fuggir tutti, mentre il diavolo
non percosse che pochi. Non so rinvenirmi dallo stupore nel vedere che,
quanto più è abbondante la predicazione della vita in Gesù Cristo, più i
popoli sono presi da timore all'appressarsi della morte: sarebbe forse
che, sotto il papato, gli uomini erano sostenuti da false speranze, onde
si mostravano meno pusillanimi, mentre ora, meglio ammaestrati, senton
meglio quanto è debole la natura?[261]».
Paolo Giustiniani avea riformato i Camaldolesi colla nuova congregazione
di Monte Corona, detta degli Eremitani; come fuor d'Italia suor Teresa
riformò le Carmelitane, Francesco di Sales fondò le Visitandine,
Giuseppe Calasanzio le scuole pie, Giovan di Dio i Fate bene fratelli,
Luigia di Marillac le suore della carità, propagatesi ben presto in
Italia. Frà Pietro spagnuolo, carmelitano scalzo, predicando a Napoli,
raccoglie quattordicimila ducentottantacinque reali, coi quali compra il
palazzo e i giardini del duca di Nocera, e li trasforma in chiesa e
monastero della Madre di Dio; mentre le Teresiane Scalze vi compravano
per sedicimila ducati il palazzo del principe di Tarsia, e ne facevano
il loro monastero di San Giuseppe. Il palazzo Caracciolo divenne
ospedale de' Frati della carità; il Seriprando, chiesa de' Filippini, la
più sontuosa forse di Napoli; i Camaldolesi vi occuparono quella
deliziosa altura, i Cappuccini la Concezione, i Domenicani la Sanità, i
Paolotti la Stella.
E in ogni Ordine ci si presentano fervorosi operaj della vigna di
Cristo, che nella educatrice vigilanza delle contese, nelle maschie
gioje della astinenza, nella rassegnata resistenza alle persecuzioni,
nella dignità del pericolo permanente divennero santi.
Al clero secolare specialmente facea mestieri di riforma, e se le
esuberanti austerità, le interminabili salmodie, le prostrazioni
ripetute convenivano in secoli rigidi a genti bisognose di scosse
violenti; allora, nella ricca varietà de' sacrifizj si avvisò piuttosto
al raccoglimento dell'animo, alla mortificazione del cuore,
all'educazione dell'intelletto, ad assicurare la preponderanza sopra la
carne mediante il vigore dello spirito.
I cherici regolari aveano i voti de' monaci coi doveri de' preti, e
preti in cotta e berrettino si rividero in pulpito, ove dianzi non
montavano che tonache.
A Milano, disastrata dalle guerre di cui fu pretesto, Antonio Maria
Zaccaria cremonese, Bartolomeo Ferrari e Giacomo Antonio Morigia patrizj
milanesi nel 1533 istituirono i Barnabiti per dar missioni, dirigere
collegi, sussidiare i vescovi, con voto di non brigare cariche nella
loro congregazione: fuori di essa non accettarne se non con dispensa del
pontefice.
Domenico Sauli, buon letterato, filosofo, storico, politico senza
togliersi dal negoziare, da Genova si mutò a Milano, dove nacque
Alessandro, che entrato barnabita, fu inviato a Pavia, e fu de' primi e
meglio meriti nel riformarvi l'insegnamento filosofico e teologico.
Iniziati gli allievi nel greco, al qual uopo compilò una grammatica,
mettevali alla _Logica_ d'Aristotele, libro opportunissimo per
restaurare ciò che dalle rivoluzioni è peggio guastato, il buon senso.
V'univa lo studio della geometria, e, come dice il Gerdil, aperse la
mente degli studiosi disponendoli a raccogliere tutte le forze razionali
nella contemplazione di un solo oggetto, principalmente coll'addestrarli
alle matematiche. La _Somma_ del maggior filosofo del medioevo egli
aveva talmente digerita, che in Pavia si diceva: «Se si perdesse la
Somma di san Tommaso, donn'Alessandro potrebbe dettarla per intero».
Cooperatore di san Carlo nella diocesi milanese, nella Corsica con
providente assiduità introdusse i sinodi diocesani[262]. Presto in
quell'Ordine fiorì Bartolomeo Gavanto, detto padre della liturgia,
adoprato da Clemente VIII e Urbano VIII ad emendar il breviario romano.
Agostino Tornielli novarese ricusò molti vescovadi per attendere alla
devozione claustrale, nella quale compose gli _Annali sacri e profani
dalla creazione fino alla redenzione_, primo buon tentativo a chiarire
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