Gli eretici d'Italia, vol. II - 26

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i capi dei valligiani, ma fallitagli l'impresa, dovette ricovrarsi a
Riva, mentre gli abitanti delle valli Sugana e di Non tentavano pigliare
Trento per forza. Le milizie del vescovo riuscirono a calmare la
sedizione, e molti de' rivoltosi furono decapitati, impesi, mutilati,
fitti in carcere.
Altrove accennammo quante premure adoprassero il Sadoleto,
l'Aleandro[187], il Morone[188] ed altri per ricondurre gli spiriti alla
concordia; ma oltre avere i Protestanti ricusato intervenirvi[189], ogni
passo era reso scabroso da puntigli dei principi cattolici e dei prelati
delle nazioni. Dopo un lungo predicarlo quando il papa non lo volea, poi
ricusarlo quando il papa l'accettò, e domandar che non ci fossero truppe
per non diminuire la libertà della discussione, poi volerne per la
comune sicurezza, il Concilio vi fu aperto al 13 dicembre 1545. Paolo
III, che sinceramente lo bramava[190], aveva all'uopo spedito in
Germania Ugo Rangone: poi a presiederlo come _angeli della pace_ mandò
Giammaria Ciocchi del Monte e Marcello Corvini, cardinali che poi
divennero papi, e l'inglese Reginaldo Polo che ne fu a un punto. Essi vi
fecero leggere un'ammonizione, qualmente il Concilio teneasi per tre
oggetti: 1º l'estirpazione delle eresie, non suscitate da loro, ma per
la negligenza nel difendere le buone dottrine e nello svellere la
zizzania: 2º emendar i corrotti costumi, dov'era manifesto che gli
ecclesiastici erano e depravati e depravatori; 3º provvedere alla guerra
civile fra i Cristiani e all'esterna co' Turchi.
La prima adunanza, con venticinque vescovi, si logorò in dispute sui
convenevoli, sul cerimoniale, sulle forme, sul modo di votare, perfin
sul titolo del sinodo: perditempi che noi vediamo rinnovarsi ogni tratto
in assemblee non di frati e cardinali, e che con cura puerile raccolse
frà Paolo Sarpi, come farebbe ora un gazzettiere. Nel 1547 scoppiano
febbri perniciose con petecchie, sicchè il medico Fracastoro dichiara
sovrastare gran pericolo di pestilenza, e che essendo egli chiamato a
curar le malattie ordinarie, non il contagio, si licenziava dal
servizio. I legati protestarono farebbero quel che i Padri risolvessero,
e di questi, ch'erano cinquantotto, quaranta opinarono per la
traslazione.
Era allora scoppiata guerra aperta fra la Lega Smalcaldica de' principi
protestanti, e l'imperatore, al quale mandaronsi d'Italia dodicimila
fanti e cinquecento cavalli, oltre ducento dal duca di Toscana e cento
da quel di Ferrara, condotti da famosi capitani, sotto la supremazia di
Ottavio Farnese; e seimila soldati, cerniti ne' possedimenti austriaci
di Napoli e Lombardia. Il costoro passaggio disturbava il Concilio, e
viepiù l'accostarsi di Maurizio di Sassonia, ardito nemico
dell'imperatore e de' Cattolici; laonde, dopo la settima sessione del 3
marzo 1547, se ne decretò la traslazione a Bologna. Quivi il Concilio
non avanzò i lavori, poi Giulio III, nel dicembre 1550, lo restituì a
Trento, ove nel 1551 e 1552 si tenne la XVI sessione, sciogliendolo poi
allorchè la guerra strepitò alle porte.
Moriva intanto Paolo IV, del quale tanto mal si disse[191], e del quale
noi vorrem qui solo ricordare la costituzione _Etsi romanum pontificem_,
ove condannò i diplomatici romani che inclinavano, blandivano,
corteggiavano per conseguire grazie o benefizj, e raccomandarsi per
avanzamenti. Aveva irritato le Corti col mostrare che muoversi e
minacciare ancor sapesse una podestà, che i Protestanti dichiaravano
morta, laonde le tresche di esse fecero che il conclave succeduto fu uno
de' più disputati[192], prolungandosi due mesi e mezzo fra ventidue
papeggianti, alcuni di gran merito. Per cattivarsi i vacillanti
Francesi, propendevasi a scegliere un papa di loro nazione, ma temeasi
non rinnovasse l'esiglio avignonese.
Giovan Angelo, della famiglia Medici milanese, per nulla attinente alla
fiorentina, era fratello di Gian Giacomo, capitano di ventura noto col
nome di Medeghino, che fattosi largo colla spada, come avviene in tempi
sciagurati, aveva conseguito il titolo di marchese di Marignano. Il
fratello prelato, valente giureconsulto, ottenne varj benefizj anche di
semplice titolo, e nel conclave del 1559 prevalse agli altri, e prese il
nome di Pio IV. Al vedere i ragguagli differentissimi degli ambasciadori
e residenti si capisce in quanto lieve conto abbiano a tenersi tali
documenti[193]. Per alcuni egli è pigro, ignaro degli affari; per altri
attivissimo, spicciativo, che vuol far da sè; uno lo dice sobrio e
avaro; altri che prodiga in fabbriche; chi l'accusa di lasciar fare
tutto dal cardinale Borromeo, uomo freddo, mal pratico delle cose del
mondo e senza risoluzione; un altro soggiungerà che assolve da qualunque
peccato, purchè si paghi; il cardinale d'Augusta asseriva avergli detto
in conclave di non essere lontano dall'assentire il matrimonio de' preti
e la comunione sotto le due specie.
Nel fatto egli credeva che l'autorità de' principi fosse allora
necessaria per sostenere quella dei papi, onde la sua politica fu più
universale che nazionale. Benchè aderente all'Austria come milanese, non
pigliò parte alla guerra; procurò a Roma anni quieti e provveduti; agli
ambasciatori dava udienza in Belvedere senza cerimonie; cavalcando
ascoltava chi gli parlasse; leggeva gli storici e poeti moderni. Per
assicurare il Vaticano ridusse a fortezza tutta la Città Leonina; al
palazzo aggiunse molti abbellimenti, e specialmente la Sala regia, ove
da Giuseppe Salviati fe dipingere i fasti dei papi, con epigrafi dettate
da un'apposita commissione: e fra questi l'atto di Federico Barbarossa
quando si prostra ai piedi di Alessandro III a Venezia[194].
Tra questi edifizj e gli armamenti contro de' Turchi e degli Ugonotti,
dovette spendere, con aggravio dei cittadini, che se ne vendicarono
colle satire: un assassino gli tirò un colpo, e messo al tormento, disse
averlo indotto a ciò il suo angelo custode.
Volle severo processo dei tre nipoti di Paolo IV, e li condannò a morte,
non eccettuando il cardinal diacono. Il supplizio d'un porporato era
novità che stupiva il mondo; tutti smaniavano di conoscere il processo,
ma nessun lo vide intero, nemmanco l'imputato nè il suo difensore; dal
che i maligni indussero che si servisse men tosto alla giustizia che ai
rancori della Spagna contro cotesto famiglia, ch'erasi vantata capace di
torle il regno di Napoli. Pio IV ebbe a dire allo storico Pallavicino
che niuna cosa eragli rincresciuta quanto tale condanna, ma avea dovuto
lasciarle corso per lezione de' futuri nipoti[195].
Eppure esso Pio non s'astenne dal favorire i nipoti, e fece generale
della Chiesa con mille scudi al mese Federico Borromeo figlio d'una
sorella, gli diede sposa una figlia del duca d'Urbino, gli ottenne il
principato d'Oria, e pensava investirgli il ducato di Camerino, ma nel
fior delle speranze lo perdette.
Quest'inaspettata fine fu un solenne avvertimento al fratello Carlo, al
quale, di appena ventitrè anni, lo zio papa aveva conferito
l'arcivescovado di Milano e ben tosto la porpora, sebben non ancora
negli ordini (1560). Quanti in lui s'accumularono benefizj e cariche!
egli legato _a latere_ di Bologna e Ravenna, poi d'Italia tutta: egli
abbate e commendatore di almen dodici chiese in varj Stati, arciprete di
Santa Maria Maggiore, penitenziere supremo della santa Chiesa,
protettore del regno di Portogallo, dei Cantoni svizzeri cattolici,
della bassa Germania, de' Francescani e Umiliati, dei canonici regolari
di Santa Croce a Coimbra, e de' cavalieri di Malta e del Cristo; sinchè,
unendovi il contado d'Arona sul lago Maggiore, e il principato d'Oria
nel napoletano, fruiva dell'entrata di almeno novantamila zecchini.
Avendo cognata una duchessa d'Urbino; maritata una sorella nei Gonzaga
principi di Molfetta, una nel principe di Venosa, una nel principe
Colonna vicerè di Sicilia, scialava principescamente, quando la morte
del fratello Federico lo concentrò ne' gravi pensieri della tomba, e
d'allora il nome di Carlo Borromeo indicò uno de' prelati che più
onorarono la Chiesa, e maggiormente faticarono nel riformarla.
Rinunziato a quel cumulo di cariche, onde mortificare col suo esempio la
splendida dissolutezza dei principi secolari ed ecclesiastici di Roma
congedò ottanta persone di corteggio, non ritenendo secolari presso di
sè che nei bassi uffizj; da novantamila restrinse a ventimila zecchini
la sua spesa domestica; agli sfarzosi spassi, ai clamorosi convegni
consueti nel suo palazzo sostituì un'accademia settimanale di lettere e
morale, detta le _Notti Vaticane_; eccitò il papa a fabbricare Santa
Maria degli Angeli e la superba Certosa di Roma; molte chiese procurò
s'edificassero per tutta Italia e l'Università di Bologna. La
riconoscenza de' poveri conservò a Roma, nella cappella d'Araceli, la
borsa dalla quale è fama che distribuisse ai bisognosi in un sol giorno
quarantamila scudi, e in un altro ventimila.
Invece di trattenersi a Roma, come troppi vescovi soleano, o alle corti
o nelle nunziature, egli volle al più presto venire alla sua sede di
Milano. Da quarant'anni essa costituiva una commenda, che passava quasi
in eredità a cadetti di casa d'Este, i quali non vi risedevano mai,
mettendovi un vicario. In conseguenza la disciplina vi si era sfasciata;
nè pietà e costumatezza appariva nei preti, i quali, non che curare le
anime altrui, la propria negligevano, e si credeano dispensati dal
confessarsi perchè confessavano: secolareschi nel vestire, nelle
abitudini, nelle compagnie, trafficavano, e delle chiese e delle
sacristie si valevano come di portifranchi per sottrarre le merci e il
contrabbando alle imposte e alle perquisizioni; quand'anche non ne
faceano ritrovi per conviti e balli. Le solennità e le domeniche erano
occasione a bagordi, a feste indecenti e persino feroci; i monaci dati
all'ozio in convento, agl'intrighi fuori; le monache, in onta alla
clausura, uscivano a far visite e ne riceveano, e l'abilità non
manifestavano che in trine, confortini e manicaretti.
Attorniatosi di valent'uomini, Carlo si accinse a riformare la sua
arcidiocesi. Diceva l'uffizio a testa scoperta; leggeva la Scrittura a
ginocchio; poco parlava, pochissimo leggeva e neppure le novità, dicendo
che un vescovo non potrebbe meditare la legge di Dio se badasse a vanità
curiose.
Autorevole per parenti e congiunti in tutta Italia, per amici alla Corte
di Roma, per l'illustre nascita e la signorile magnanimità fra i nobili,
fra gli ecclesiastici per la dignità, fra il popolo per le ricchezze e
per l'uso che ne facea, fra i pii per la bontà e le macerazioni, e
armato di qualità penetranti e sovrane per convertire e costringere allo
spirito interno i Cattolici paganizzanti: vigoroso di corpo a sostenere
viaggi ed astinenze, e d'animo a reggere le opposizioni dei governatori,
le persecuzioni de' maligni, l'indifferenza de' beneficati, con que'
decreti che costano poco a farsi, ma molto a far eseguire disciplinò la
sua Chiesa, dalle materie più importanti fin alle minime di sacristia.
Una volta l'anno banchettava il governatore di Milano, e lo serviva d'un
cappone lesso, d'un arrosto, d'una torta squisita e null'altro. Teneva
frequentissime conferenze col suo clero; instancabile nell'impedire che
dalla vicina Svizzera l'eresia si dilatasse in Italia, perlustrolla come
legato pontifizio, vi rincalorì la parte cattolica, e fondò a Milano un
collegio Elvetico, che preparasse apostoli e parroci a que' paesi.
Vedremo quanti urti avesse col suo clero, inorgoglito dalla pinguedine,
e quanti conflitti di giurisdizione: onde il papa doveva ammonirlo
che bisogna talora non guardare solo alle cose in sè, ma
all'opportunità[196]; non riceveva alcun breve papale se non
iscoprendosi il capo: eppure egli fu sempre amico e difensore del
Sirleto e del Morone. Le lettere scritte da lui o direttegli
basterebbero a formare intera la storia del Concilio.
A trar il quale a compimento, principale impegno egli pose, e fece che
il papa ne ordinasse la riunione al 29 novembre 1560; ma le tornate si
cominciarono solo al 18 gennajo del 1562, per finirle il 3 dicembre
dell'anno successivo: al 26 gennajo 1564 usciva la bolla di conferma. Ed
è questo il Concilio più famoso della cristianità, e insieme la scuola
più ricca della diplomazia ecclesiastica, comprendervi teologi di prima
forza, ambasciadori di tutte le nazioni, varietà di pontefici, mutazione
di politica dell'imperatore verso la Chiesa, della Chiesa verso l'Impero
e d'entrambe verso le nazioni, e una pubblica giurisprudenza
liberale[197].
Quante fatiche per far accettare, da gente rivoltosa, un'autorità senza
appello, che parla e dev'essere creduta, che ordina e va obbedita! Fra i
tanti, spediti ad invitare i principi massimamente di Germania,
segnalossi il veneziano Gianfrancesco Comendone, limpido dicitore,
abilissimo negli affari più avviluppati e meno attesi, nè «la Corte
romana ebbe mai ministro più illuminato, più attivo, più disinteressato
e fedele: condusse a termine con rara perizia negoziati rilevantissimi
in tempi difficili; procacciossi l'amicizia de' principi senza
condiscendere alle passioni e agli errori di essi; infaticabilmente
adoprò ad assodar la fede e la disciplina della Chiesa, e con senno e
fermezza si oppose alle rinascenti eresie»[198]; nunzio in Inghilterra,
in Polonia, in Moscovia, poi ad Augusta; i suoi viaggi sono
leggiadramente descritti da Annibal Caro, al quale fu amicissimo, come a
Paolo Manuzio, a Basilio Zanchi, al Sirleto, ai migliori d'allora.
Cercava egli stabilire appunto l'autorità della Chiesa, e in lettera del
3 febbrajo 1561 al cardinale Borromeo da Berlino racconta il suo
colloquio coll'elettore di Brandeburgo.
«Sua signoria illustrissima aperse il breve, lesse la bolla, e poi mi
fece dire che delibererebbe, e mi darebbe risposta, il che fece alli
XXIIII.
«Questa risposta fu molto lunga, nè però conteneva altro, se non che
egli aveva accettata la salutazione del sommo pontefice con la riverenza
debita, e che ne lo ringraziava grandemente, che sin in Ungheria l'aveva
conosciuto d'ottima mente, e di somma benignità. Che sua signoria
illustrissima similmente nel grado suo aveva sempre atteso alla pace, e
che io non mi ingannava a riputarlo per tale, perchè s'era sempre
affaticato e tuttavia s'affaticava in questo; _nescire tamen an pacem
apud omnes gratiam ineat_; di che si doleva tanto meno, quanto non aveva
altro fine che la pace della _conscientia sua et verbum Dei_, per il
quale e non leggermente aveva accettata la confessione augustana, e che
sommamente desiderava a tutti gli uomini e specialmente _summo pontifici
veram agnitionem filii Dei_. Entrò poi sopra la presente indizione del
Concilio, e disse che, non appartenendo questo negozio a se solo, nè
alli principi soli convenuti in Namburg, ma a molti altri e principi e
Stati della Confessione Augustana, sua signoria non potea rispondere se
non quello di che di comune consiglio fosse risoluto: che dal canto suo
farebbe sempre ogni opera acciochè si venisse a concordia, sebbene, per
l'esperienza che aveva e della volontà de' principi e della causa in sè,
ci trovava molte difficoltà, come in più ragionamenti famigliari mi
aveva liberamente mostrato, sì perchè egli suole così sinceramente
trattare, sì perchè conosceva che io ancor così trattava con sua
signoria illustrissima; e che tenevo per certo che non solo io avessi
accettato tutto ciò in buona parte, ma ch'io dovessi continuare una
buona amicizia seco, per la quale si offeriva, ecc. Io risposi che sua
signoria illustrissima non s'ingannava punto del giudizio che faceva
della somma bontà, e sincerità di nostro signore, e che similmente sua
santità aveva sempre stimata sua signoria illustrissima desiderosa di
pace, anco innanzi che la conoscesse in Ungaria; soggiunsi poi, che,
sebbene la causa era comune a sua signoria illustrissima con molti
altri, non di meno era così comune, che apparteneva grandemente a
ciascuno separatamente, trattandosi della salute dell'anima, e tanto più
a sua signoria illustrissima, che per tal cagione sola diceva aver
consentito nella Confessione Augustana: il che, come aveva fatto da sè,
così poteva da sè, massimamente in un Concilio universale, cercare
_veram agnitionem filii Dei_, la qual cognizione nostro signore non solo
le pregava, ma per tal mezzo le procurava, come successor di colui al
quale era stato comandato che _aliquando conversus confirmaret fratres
suos_, con certissimo privilegio _ut non deficeret fides sua_,
impetratoli da Nostro Signore Gesù Cristo a questo fine: di modo che non
v'è il più sicuro rifugio che umiliarsi al giudizio constituito da Dio,
e seguire il lume che si conserva nella continua successione della sede
apostolica _et in perpetua et constanti patrum doctrina_. Finalmente
circa li discorsi fatti più volte meco da sua signoria illustrissima, le
resi grandissime grazie, dicendo che piuttosto la pregava ad iscusarmi
se liberamente gli avevo risposto quello che m'occorreva circa ciò,
perchè, quanto a persona pubblica, io non aveva a dirle altro, se non
che fosse contento di venire al Concilio, ed ivi, se per sorte avesse
alcuna difficoltà, l'esponesse ai Padri e: che tutto il resto io avevo
detto sempre esclusa questa pubblica persona, invitato dalla sua
signoria illustrissima; onde la pregava di nuovo a voler considerar bene
quello che si può e si deve, e a non approvare quei mezzi che non
porterebbono ora alcuno sollevamento, non che pace alla Chiesa, e
sarebbono perniciosi all'avvenire, distruggendosi con le condizioni che
essi dimandano per consentire al Concilio tutta quella certezza che
potremo avere in terra per discernere la verità cattolica dalla eresia,
la quale certezza e regola indubitabile è stata sempre appresso la sede
apostolica, e ne' Concilj universali, _legitime convocatis habitis et
confirmatis_.
«Questa fu la mia risposta sebben fosse detta con più parole, le quali
non riferisco così minutamente per non essere molesto a vostra signoria
reverendissima come anco non racconto ragionamenti avuti con l'elettore,
essendo stati molti e lunghi di tre o quattro ore continue al giorno,
perchè egli legge volontieri, e più volontieri ragiona di tutte queste
materie controverse; solo dirò brevemente a vostra signoria
illustrissima quello che tocca al presente negozio del Concilio. Le
difficoltà che egli nella risposta datami dice avermi esposte in altri
ragionamenti sono le medesime con le condizioni date dalli Protestanti
alla cesarea maestà: tuttavia egli si rende assai trattabile in molte.
Una le pare ragionevolissima, che i loro teologi abbiano voto in
Concilio, e più volte n'ha parlato meco efficacissimamente, e però jeri
dopo la risposta datami tornò nel medesimo ond'io, vedendolo così
ardente in questo, e tutto posto in certe sue ragioni civili, lo pregai
a dirmi come, concedendosi ciò alli confessionisti, si potrebbe poi
ragionevolmente rispondere alle altre sêtte, quando esse ancora
dimandassero di aver voto. Egli confessò che si dovesse negare a tutti
gli altri, perchè non hanno, come i confessionisti, _expressum verbum
Dei_. E replicando io che tutte le sêtte parimenti pretendono questo
_verbum Dei_, soggiunsi esser necessario che ci sia stato provveduto da
Dio d'un giudice certo in terra, secondo che vediamo nell'antica e
perpetua forma del governo della Chiesa. Egli, benchè non mi rispondesse
altro per allora, non di meno mostrò di non restar soddisfatto, ed oggi
ha fatto sedere a tavola un suo dottore, e di nuovo ha mosso questo
ragionamento, dicendo che nessuna setta può dimandar ragionevolmente
d'aver voto, perchè, oltre l'esser false, non hanno le controversie sue
immediate contro l'autorità della Chiesa romana, come ha la Confessione
Augustana, la quale principalmente cerca di levare gli abusi, e
restituire la purità dell'evangelo. Io allora dissi, che una tal ragione
era appunto buona per accrescere in ciascuna setta questa eresia di più,
quando non n'avessero prima, essendo che ciascuna di essa avrebbe gran
difficoltà con l'accusare ed opporsi alla sede apostolica, ovvero di
acquistar voto in Concilio, o almeno di sottrarsi al giudizio di quella.
Ed a tal proposito si ragionò lungamente de' Calviniani e del gran
numero loro, e delle cerimonie che esso elettore ama e fa osservare
grandemente, e che costoro levano affatto; e poi degli ordini della
Chiesa e della volontà di Nostro Signore in riformarla, dove sia di
bisogno: e per certo mi pare che questo principe senta stimolo e rimorso
nella coscienza, onde licenziandomi io per andare in Lusazia al marchese
Giovanni suo fratello, mi ha detto sospirando queste formali parole,
_Profecto, reverendissime domine, vos injecisti mihi multas et magnas
cogitationes_»[199].
E il 4 marzo dell'anno stesso:
«Sua signoria illustrissima mi fece istanzia a fermarmi due giorni
ancora, perchè desiderava mostrarmi le reliquie e le cerimonie della sua
Chiesa. Io, schifando di andare alla messa di uomini non consacrati,
andai al dopo pranzo, e vidi tutte le reliquie benissimo tenute, e molte
statue d'argento e vasi e croci d'oro sin del tempo di Carlo Magno, e
donati da quell'imperatore, come io credo, alla chiesa di Magdeburg. V'è
ancora una rosa, donata a suo avo da papa Nicola V. La sera poi con
grandissima fatica impetrai licenza per il dì seguente, e la mattina per
tempo sua signoria illustrissima venne a vedermi, e mi fece grande
istanza a supplicare sua santità che gli volesse donare un poco del
legno della santissima croce, da riporre in una croce, che m'aveva
mostrato d'oro e di cristallo bellissimo, e subito ritornò ne' suoi
soliti ragionamenti, dicendo, la più espediente via di finire queste
discordie esser forse che si eleggessero di tutte le nazioni uomini
buoni che ne fossero giudici, e mi domandò se questo partito mi pareva
buono. Io dimandai a sua signoria illustrissima chi sarebbe colui che
eleggesse questi uomini buoni, e lo pregai a considerare come questo non
si può condurre in alcun modo ad effetto ma quando ancora si potesse,
che tali uomini non avrebbono altra potestà che umana, dove nelli
Concilj legittimi la Chiesa ha sempre tenuto e conosciuto l'assistenza
dello Spirito Santo; finalmente che nessuna cosa sarebbe più incerta, e
più vana dell'autorità della Chiesa, se fosse permesso contro li
magistrati ecclesiastici questa eccezione della bontà, e questa via di
fuggire il giudizio sotto pretesto di volere uomini buoni; e che manco
d'ogni altro doveano ciò pretendere coloro, i quali non attribuiscono
alcuna cosa alle opere nostre. Con questi e simili ragionamenti sua
signoria illustrissima m'intertenne tanto, che io non potei partire se
non dopo pranzo. In fine mi diede una lettera per nostro signore, e io
mi licenziai.
«Nella licenzia, sua signoria illustrissima mi aveva apparecchiati molti
presenti e di molto momento, li quali io ricusai, pregandola che, in
luogo di quelli, mi concedesse due grazie: l'una, che avendo io portato
all'illustrissima sua moglie per nome del vescovo Varmiense il libro
della sua confessione, sua eccellenza fosse contento di leggerlo;
l'altra che facesse restituire alcuni luoghi tolti a certi poveri
cartusiani, che restano ancora in Francoforte sull'Odera. Sua signoria
illustrissima mi promise di fare in ogni modo l'uno e l'altro e si
contentò che io mi astenessi dal resto»[200].
I Concilj erano composti d'uomini, e chi conosce gli scompigli de'
parlamenti moderni, massime ne' paesi che vi son nuovi, la smania di
ciaramellare, l'aggrovigliare delle quistioni, il sofisticare sulle
parole, le mozioni, gli emendamenti, il trionfo dell'abilità sopra la
ragione, l'aspirare alla insulsa popolarità degli applausi o alla
lucrosa riconoscenza dei grandi, facilmente supporrà gli stessi sconci
nel sinodo di Trento; quantunque assistito dallo Spirito Santo;
quantunque maestosa assemblea e composta de' Cattolici più rinomati per
lettere, santità, abilità d'affari. Epperò rammemoriamo l'evangelico,
_Quæcumque dixerint vobis servate et facite: secundum vero opera illorum
nolite facere_[201].
Infinite dispute vedemmo nascere dapprima; se farlo, dove farlo, quando
farlo; se convocar lo dovesse il papa o l'imperatore; chi
parteciparvi[202], chi presedervi; come conseguire che rimanesse
abbastanza libero per tutti. Radunato che fu, o tarda il nunzio d'una
gran potenza, o se n'ammala un altro; o bisogna perdere tempo a far un
decoroso incontro a un ambasciadore, a un legato, a un cardinale; poi a
disputare qual posto gli spetti, e se dargli o no l'incenso e la pace:
qual re commemorare pel primo nelle prediche e nelle orazioni: punti
intricatissimi in età puntigliosissima sul cerimoniale. Or un incidente
obbliga a differire la tornata; or muore il papa; or in Germania la Lega
Smalcaldica rompe guerra: or in Francia gli Ugonotti insorgono contro i
Cattolici: or c'è festa e _Te Deum_ perchè i miscredenti furono
sconfitti, e ricuperato un paese, dove vennero ribenedette le chiese,
ridesta la letizia degli organi e delle campane, restituiti i beni ai
prelati, i conventi alle corporazioni, bruciate le Bibbie vulgari,
rannodati i matrimonj coi riti antichi. Ora si fa lutto e penitenza
perchè altre contrade caddero sotto i Protestanti, abbattendo altari e
immagini, violando monache e reliquie, trucidando preti, contaminando
calici e battisteri, espilando i sacri arredi e convertendoli in denaro
da soldar nemici di Cristo. Le vittorie degli uni e degli altri erano
accompagnate da migrazioni in folla, da esigli, da processi, da
spettacolosi supplizj. Tutto ciò ritarda o scompiglia le tornate e le
risoluzioni: si scioglie il Concilio; quando riapresi si disputa se
considerarlo come nuovo, o come sèguito del primiero.
I prelati, invitati con istanza, non venivano: o bisognava dunque
prorogar l'apertura, e allora diceasi che il papa l'allungava a bella
posta; o aprivasi, e allora si gridava che gl'intervenienti erano
scarsi, che v'avea soli italiani, che non era rappresentata l'intera
cristianità. Professando la massima riverenza alle somme chiavi, il re
di Francia protestava contro il Concilio, adunato mentre il papa stava
in izza con esso, e quando il numero de' cardinali francesi trovavasi
tanto assottigliato. I principi si lagnavano della lentezza: eppur
questa veniva dalle loro pretensioni e brighe, poichè di certe riforme
si sbigottivano, e voleano far servire il Concilio a intenti loro
particolari; Spagna ad isgomento de' Belgi ribellati, Francia e Impero a
deprimere o ad accarezzare Ugonotti e Luterani. Poi l'imperatore
domandava, non solo la riforma del papa e sua Corte, de' breviarj,
legendarj, sermonarj, ma la comunione sotto le due specie; Spagna volea
si dichiarassero d'instituzione divina i vescovi, non emanazione del
poter papale, e perciò indipendenti; Francia sosteneva i decreti di
Basilea e la superiorità de' Concilj sul pontefice, e per bocca del
cardinale di Lorena chiedeva il matrimonio de' preti, l'uso del calice,
la liturgia vulgare, finchè i sovvertimenti di Francia non indussero ad
accostarsi ai papali.
Di somma difficoltà riusciva il ridur l'imperatore Ferdinando a
contentarsi che non sì spingessero le riforme sin dove egli avrebbe
amato per quetare i suoi Tedeschi, e perciò mostrare ch'egli avesse
ottenuto soddisfazione, senza per questo derogare ai diritti de' legati
o del pontefice. A tal uopo il Morone che, come presidente, ebbe tanto a
faticare su tali pretensioni, senza il solito treno burocratico va ad
Innspruck, s'affiata coll'imperatore, e ripiana ogni cosa. In simile
modo il cardinale di Guisa propose un abboccamento fra il papa e il re
di Francia e quel di Spagna, che tolse di mezzo altre difficoltà. Allora
potè procedersi in sei mesi, più che non si fosse fatto in molti anni, e
si ottennero le tanto contrastate riforme de' vescovi, de' cardinali,
della curia, de' principi.
Poi rampollavano difficoltà sulle espressioni: chi non le credeva
grammaticalmente latine, chi troppo ricercate per la gravità delle
materie, chi invece troppo disadorne per un secolo che «prendeva a
schifo la dottrina se non era condita in eleganza, sicchè molti
letterati aveano minor affezione alle verità celestiali per vederle fra
le invoglie grossolane della rozzezza scolastica»; sottentravano gli
emendamenti, e il sofisticare ogni parola, come quando non si volea
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