Gli eretici d'Italia, vol. II - 46

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cerimonie: visitò le maggiori chiese della città, e tenne discorsi ai
collegj di esse, esortandoli al loro dovere; onde un incremento di pietà
e d'assiduità ai divini offizj. Convocata la sua famiglia, dimostrò quel
che ciascuno deva fare, e come devano agli altri esser modelli di pietà
e modesti. Chiamati i magistrati e giudici, e anche i cardinali che
abbian parte nella pubblica amministrazione, prescrisse il modo di
conoscere, discutere, risolvere le cause, e — Voi (disse) o cardinali,
non raccomandate alcuna causa se non aggiungendo, _Per quanto il
comporta la giustizia_: e voi, giudici, se v'è raccomandato alcuno senza
questa formola non vi badate; e seguite il cammin dritto della
giustizia, dal quale nessun di noi vi indurrà a deviare. — Pubblicò un
editto sul vestire, la casa e il vivere degli ecclesiastici. Cessarono i
giuochi, i bagordi, i teatri, i tornei: si frequentano i sacramenti, i
divini uffizj e le prediche; si visitano gli spedali; si tolsero o
diminuirono i dazj e le gabelle; si escluse ogni tassa dai benefizj
ecclesiastici; nessun riguardo alla potenza o alla grazia, ma solo alla
virtù e alla religione: quei che vedono con quanta riflessione e
prudenza si diano i vescovadi, giudicano che saria ben migliore lo stato
pubblico se altrettanto si fosse fatto per l'addietro: giacchè Pio
impone agli uomini il sacerdozio, non le pensioni. Ridestò il costume di
celebrare nella basilica di San Pietro e nelle cappelle Sistina e
Paolina.... Preghiamo solo Iddio che ci conservi quest'ottimo suo
vicario».
Fin qui il Poggiano. La severità non diminuiva nel santo papa la mite
semplicità. Con un compagno avea piantata per trastullo una vigna,
dicendo: «Del vino di questa nessun di noi berrà». Or ecco comparirgli
l'invecchiato compagno con un barlotto, e offrirglielo rammemorandogli
quel detto, e «Allora vostra santità non era ancora infallibile».
Quand'era inquisitore viaggiando da Milano a Soncino, come soleva,
sempre a piede s'imbattè in un servitorello, che, compassionandone la
stanchezza, gli fece deporre sul suo somiere la fratesca bisaccia, e
gliela recò fin alla destinazione. Pio se ne sovvenne, e mandatolo a
cercare, gli conferì un uffizio in palazzo.
Ed è notevole come questo intollerante, questo amico di Filippo II
abbondasse tanto di carità. Gli oggetti dell'amor suo erano minacciati
da coloro ch'erano oggetti della sua indignazione; perseguitava questi
per amor di quelli, siccome il pastore che respinge il lupo: potrà dirsi
altrettanto delle persecuzioni de' Protestanti?
Ad uno che si lagnava chè il caldo di Roma non lascia lavorare, «Chi
poco mangia e poco beve (disse) non sente l'arsura dell'estate».
Sentendosi morire, Pio visitò le sette chiese, baciò la scala santa _per
congedarsi da quei sacri luoghi_. Nei dolori esclamava: «Signore; cresci
i patimenti, purchè cresca la pazienza». La sincerità della sua
devozione fece che, malgrado l'austerità, il popolo l'amasse vivo, morto
lo venerasse: Bacone meravigliavasi che la Chiesa non noverasse fra i
santi questo grand'uomo; e di fatti egli fu l'ultimo papa
canonizzato[411].

NOTE
[402] Vedi sopra a pag. 340.
[403] Il Serristori, ambasciador di Toscana, andò, non sapeva se a
congratularsi seco o condolersi del peso toccatogli, e Pio rispose,
esservi più ragione di compatirlo; avrebbe ricusato se non avesse temuto
che il papato venisse al cardinal Morone «o qualche altro soggetto, con
molto danno di questa santa sede» (Legaz. del Serristori, pag. 422). Il
Serristori replicò che l'egual timore era entrato nel granduca, onde
avea ordinato che dal papato si eccettuassero Ferrara, Farnese, Morone:
questo pel medesimo rispetto che avea avuto sua santità, quelli perchè
molto lontani dal servizio della santa sede.
[404] Dispaccio 16 febbrajo 1566.
[405] Lettera 18 maggio 1566.
[406] Carteggio dell'ambasciatore veneto, 29 luglio 1581.
[407] È tratta dall'_Officio della Madonna dei Domenicani_ come
quest'altra,
Per impetrare la conversione degli eretici.
«O vera pace, e fedel Pastore dell'ovile della Chiesa tua, esaudisci le
nostre preghiere, ed abbi pietà delle afflizioni e dei devastamenti del
popolo cristiano. Con tutto il cuore noi supplichiamo la tua
misericordia, perchè ti compiaccia di vigilare paternamente tutti coloro
che abbandonarono la ortodossa e cattolica fede, ed allucinati intorno
a' suoi articoli, e sedotti da falsa persuasione vivono ereticamente:
deh! coi raggi della tua luce illumina i loro cuori, e riducili al
conoscimento dell'errore che professano, affine che per tal modo
rinsaviti, e abbandonando le dispute, e le corruzioni della tua parola,
ritengano costantemente l'unica e vera fede sotto i legittimi nostri
pastori con a capo te, supremo Pastor di tutti, dal quale ogni emission
di luce e di grazia si riflette in tutte le membra, che ti sono
congiunte col vincolo della sacra pace. Così sia».
[408] J. POGIANI _Sunnensis epistolæ et orationes, olim collectæ ab A.
M. Gratiano, nunc ab H. Lagomarsinio adnotationibus illustratæ ac primum
editæ_. Roma 1757, 4 vol. in-4º. Vedansi le lettere del 21 settembre e
del novembre 1566.
[409] Allude a quel di san Paolo ad Rom., c. I, 8. _Gratias ago Deo meo
pro omnibus vestris, quia fides vestra annuntiatur in universo mundo_.
[410] Lo descrive retoricamente il Bartoli nella vita di san Francesco
Borgia: e come in quell'universale abbandono i Gesuiti si offrissero al
soccorso, e vi si sacrificassero principalmente gli alunni del Collegio
Germanico nel servir gl'infermi, e quelli del Seminario Romano nella
cura dei morti.
[411] Conosciamo una _Vita del gloriosissimo papa Pio V_, per Girolamo
Catena. Roma 1587. Sul frontispizio è il ritratto del santo, con in giro
l'iscrizione _Absit mihi gloriari nisi in cruce Domini nostri Jesu
Christi_: e fra varj emblemi il papa che abbraccia due figure, che
pajono Francia e Venezia, colla scritta _Fœdus ictum in Turcos et
vict._: a riscontro _Hæreticorum clades_; a' piedi la battaglia di
Lepanto. Moltissime vite ne enumera il padre Quetyf, _Script. Ord.
Prædicatorum_, che lo fa anche autore della _Praxis procedendi in causis
fidei_. È strano che gli sia da taluni attribuito un opuscolo _Delle
belle creanze delle donne_: il quale è provato esser di Alessandro
Piccolomini senese. Vedi _La Visiera alzata_, ecatoste N. 6.


DISCORSO XXXV.
DEGLI ERETICI IN TOSCANA. IL CARNESECCHI.

Chi osservi ancora Firenze prima che sia compiuta la trasformazione sua,
non tanto politica come morale e artistica, vi trova dapertutto l'opera
della religione, e viepiù nell'ispirazione de' suoi poeti e de' suoi
artisti, quando l'arte non era ancora ridivenuta pagana e principesca.
La Toscana deve ai monaci il primo bonificare delle Chiane; e se il Pian
di Ripoli uscì feracissimo dagli acquitrini; se presso ai pantani di
Varlungo (_Vadum longum_) ondeggiarono di biade le campagne ubertose di
San Salvi e di Rovezzano, fu merito de' monaci. Il palustre deserto fra
Prato e Firenze, dacchè vi si stabilì la badia di San Giusto divenne il
bel territorio di Osmannoro, mentre i Benedettini di Settimo coi
rigagnoli e le colmate risanavano la riva opposta dell'Arno. Tutto
l'Arno ebbe sostegni, pescaje, scoli dai monaci, ai quali Firenze lungo
tempo affidò la costruzione e manutenzione de' ponti, delle mura, delle
fortezze. Quanti villaggi crearonsi attorno a un convento o ad una
chiesa! quante boscaglie, tane di fiere e di masnadieri, venner ridotte
a rigogliose foreste! quante grillaje si convertirono in masserie, e
migliaja di ulivi al piano e milioni d'abeti e di faggi al monte si
naturarono! Basti ricordare come la regola camaldolese imponga di
piantar ogn'anno una determinata quantità di abeti, e proveda attenta
alla cura, al taglio, al ripiantamento delle foreste, il cui rigoglio fa
ammirare ancora, ahi per poco! i devoti recessi di Camaldoli, di Monte
Senario, della Vernia.
In Firenze poi, dai tempi di sant'Ambrogio e di Carlomagno giù fin ai
Lorenesi, mille edifizj o sacri o caritatevoli s'annestano alle memorie
delle famiglie[412]; nell'infausto assedio del 1529 tra i più grandi
sagrifizj fatti alla patria contossi il dover distruggere qualche
cappella, qualche dipintura, e gli anni successivi s'adoperò a riparare
quei danni. Anche di fuori piaceansi i Fiorentini di eriger monumenti di
devozione, come sono a Roma San Giovanni de' Fiorentini, a Lione Santa
Maria e l'Ospedale di Tommaso Guadagni, a Napoli la Certosa, a Lucca le
loggie di San Friano, a Milano la cappella di san Pietro Martire, eretta
da Pigello de' Portinari in San Eustorgio; in Venezia Sant'Antonio da
Goto degli Abati, a Gerusalemme un ospedale da Cosimo padre della
patria. Laonde il Richa disse che «della storia nostra il più pregevol
soggetto non può negarsi sia il clero fiorentino»[413].
Le laudi contrapponeano la pietà e la carità all'osceno sensualismo dei
canti carnascialeschi[414]. Mentovammo il Concilio ecumenico XVII, che
fu il terzo tenuto in Firenze, dove nella, sessione XXV, Orientali e
Occidentali professarono che «il romano pontefice è successore di Pietro
principe degli apostoli, vero vicario di Gesù Cristo, capo di tutta la
Chiesa, padre e dottore di tutti i Cristiani; a lui esser data da Nostro
Signor Gesù Cristo, nella persona di Pietro, piena podestà di reggere e
governare la Chiesa universale, secondo è pur contenuto negli atti dei
concilj ecumenici e nei santi canoni».
E sono dei monumenti più degni d'essere studiati dagli Italiani le
storie delle Chiese fiorentine e quelle de' suoi Santi[415]. Ricordavasi
che il giorno di santa Reparata (3 ottobre 407) i Goti furono
sbaragliati a Fiesole: che il giorno di san Barnaba (11 giugno 1289) si
sconfissero gli Aretini a Campaldino: al beato Andrea Corsini
attribuivasi l'aver posto in fuga il Picinnino nella giornata d'Anghiari
il 1440; a santo Stefano papa, il duca Cosimo chiamavasi debitore della
vittoria di Marciano. Fresca poi era la memoria del Savonarola e di
Maddalena de' Pazzi; fresca quella di sant'Antonino, coi quindici beati,
di cui è ricordo nella sua cella, fra' quali il beato Angelico, stupendo
pittore, il miniatore frà Benedetto da Mugello, il beato Giovanni da
Domenico, che poi fu cardinale e legato a latere. Il Lainez, generale
de' Gesuiti, venne a fondarveli in San Giovannino nel 1551, con
istruzione particolare di sant'Ignazio, e all'uopo ebbe gran doni e beni
da Cosimo I, da monsignor Ughi; signori delle case Amannati, Guadagni,
Pazzi, Sassolini, Rinuccini andarono a raccoglier limosine con cui
fabbricossi la chiesa. È ancora ricordata da una lapide la dimora di san
Luigi Gonzaga: poi nel 1565 fu tenuto in Santa Croce il capitolo
generale de' Francescani, con cinquecento teologi e altrettanti allievi.
È fuor di tempo il rifrascar queste memorie all'odierna capitale
d'Italia?
I primordj della Inquisizione in Firenze già divisammo, e come sin dal
1254, anzichè ai Domenicani, era affidata ai Francescani, che a Santa
Maria Novella e a Santa Croce teneano un numero di satelliti e carceri
proprie[416]. Fu davanti a quel tribunale che venne processato Cecco
d'Ascoli astrologo, del quale divisammo nel Discorso VII.
L'aver mandato al fuoco uno de' filosofi di maggior rinomanza al suo
tempo indignò molti contro l'Inquisizione, la quale di rimpatto prese
ardimento ad estendere la propria giurisdizione. Massimamente frà Pietro
dell'Aquila fu accusato di oltrepassare i suoi poteri, e smunger denaro
da cittadini sospetti d'eresia; sicchè la repubblica pose nel suo
statuto[417] che gl'Inquisitori non dovessero intromettersi se non di
cose del proprio ufficio; condannassero nella persona, ma non negli
averi; non tenessero carceri private, ma si servissero delle pubbliche;
e nessun capitano o podestà, nè i vescovi di Firenze o Fiesole potessero
far arrestare veruno per mandato del Sant'Uffizio, se non previa licenza
de' priori; non si concedesse di portar l'armi che a sei famigliari del
Sant'Uffizio; e costituiva quattordici difensori della libertà, che
vegliassero all'osservanza di tali capitoli.
Ai quali si cercò sempre rivocare il Sant'Uffizio ogni qualvolta le
circostanze l'avessero portato a trascendere. Quando Paolo III ebbe
istituita la congregazione del Sant'Uffizio, fu preso partito che a
Firenze tre commissarj, poi un quarto si unissero all'Inquisitore, per
conoscer le cause di religione.
Da Giovanni delle Bande Nere, uno di que' brillanti avventurieri che
sventuratamente sempre lusingarono le simpatie degli Italiani senza far
mente qual causa sostenessero, nacque Cosimo de' Medici, che con arti
buone e con sinistre riuscì a divenir capo dello Stato fiorentino, dove
la repubblica già era stata strozzata dalle armi straniere, e ne
costituì un principato ereditario. Questa forma di governi era allora
l'aspirazione universale, per istanchezza dei reggimenti liberi del
medioevo, per amor dei dominj forti e delle concentrazioni, che diceano
salverebbero l'Italia dagli stranieri, e che invece l'inabissarono.
Esecrato dai vecchi repubblicani ch'e' dovette reprimere, combattere,
esigliare, assassinare, Cosimo in lunghissimo regno si mostrò splendido
senza abbandonar le abitudini cittadinesche della casa sua, e procurò di
far fiorire le arti e il commercio, estendere fabbriche, erigere superbi
palazzi, e tutti i progressi che possono camminar di paro colla servitù.
Cosimo sentì come interesse primo d'ogni nuovo principato in Italia sia
l'ingraziarsi il pontefice: eppure teneva l'occhio geloso su tutti gli
atti della Corte romana, siccome appare dal carteggio de' residenti, e
voleva ingerirsi ai conclavi e alle altre decisioni. Per rispetto a
quella, non ledeva le immunità ecclesiastiche: e nella feroce guerra di
Siena, le sue truppe, comandate dal marchese di Marignano, avendo
profanato qualche luogo sacro, egli scriveva a Bartolomeo Cóncini, suo
commissario, il 24 ottobre del 1554:
«Con nostro molto dolore abbiamo inteso la ruberia che l'esercito del
marchese di Marignano ha fatto in Casole, da cui nè anche la casa di Dio
è andata esente. Noi non vogliamo queste iniquità. Quando l'esercito può
dare il sacco, le chiese hanno da essere rispettate, e il primo che
oserà fare insulto a chiese, monasteri, ospedali ed altri luoghi, noi
vogliamo che paghi la pena di tanta sua malvagità colla perdita del
capo: e il marchese vogliamo che obbedisca a questi nostri ordini. E
voi, se vi piace la nostra grazia, vi sforzerete per impedir tali
errori, e ci darete subito avviso. Dalla massa della preda che non è
stata divisa vogliamo che si renda a quelle chiese tutto quello che gli
è stato tolto. Eseguite e state sano».
Cosimo favorì la convocazione del Concilio di Trento, e fin dal 9
dicembre del 47 scriveva al Pandolfini: «Sua beatitudine dovrà, come
prudente, ben considerare quanto importi l'essere unita coll'Imperatore
e Reformati, e reunire le cose della religione che son tanto necessarie,
e di non lassar perdere questa bella occasione di ridurre alla Chiesa le
provincie di Germania, sendone questa sì gran membro, e quella che è
sempre stata infetta ed ha infettato le altre, e pur ora con la grazia
di Nostro Signore Dio consentì di star alla determinazione del Concilio,
che non è certo poco, avendolo S. M. disposta a questo».
Molte altre lettere rincalzano il proposito, e singolar attenzione
merita questa, che da Roma[418] il 16 novembre 1558 scriveva al Ferrero:
«Noi volevamo partire per ritornarcene a Siena, ma sua santità, che ci
onora e carezza troppo, ci ritiene col dire che, siccome _siamo stati in
certo modo autori che ella apra il Concilio universale_, che fu la causa
della chiamata nostra qua, vuol ancora che ci troviamo all'atto et alla
messa solenne del Santissimo Sacramento, la quale, a Dio piacendo,
celebrerà sua beatitudine la domenica a otto che viene». Di propria mano
aggiunge: _Non ci fate autor di questa cosa_.
In altra lettera[419] esorta a proseguire il Concilio, e mostra la
necessità di riformar la Corte romana. Anche dal carteggio di Spagna di
monsignor Minerbetti trapela la sollecitudine di Cosimo perchè si
radunasse il Concilio, atteso che, o si conclude e allora la buona
morale può guadagnarvi: o no, e questa non è peggiorata, restando nello
stato presente: brama che ciò notifichi al re cattolico, esortandolo ad
opporsi ai Concilj nazionali, come domandavano gli arcivescovi di
Siviglia e del Gallo (?).
Poi nel 1561 scriveva al papa:
«Vostra santità non si lasci persuadere a intimar il Concilio con due
cuori, l'uno d'intimarlo, l'altro di non lasciarlo poi seguire
liberamente; perchè così facendo, quanto a quello che tocca a Dio,
essendo questa sua causa, non bisogna ingannarsi: anzi è molto meglio
lasciarlo di fare, che fare come si fece a Trento, che fu di scandalo ai
Cristiani e di disonore al superiore: perciò lo faccia con animo
risoluto e liberamente».
A quel Concilio Cosimo tenne sempre ambasciadori, dai quali veniva
informato minutamente, sicchè la sua corrispondenza sarà una fonte
copiosa per chi ancora volesse tesserne la storia[420].
Scontento di vedersi pari o inferiore ad altri principi d'Italia che
sorpassava in potere ed in sublimità, e principalmente ai duchi di
Savoja, che rimanevano vassalli dell'Impero, e che guadagnavano col
metter a servizio altrui il proprio braccio e i soldati, Cosimo ambì il
titolo nuovo di granduca, e lo chiese al papa, che conservava ancora la
supremazia sui troni della terra. «Il romano pontefice, nell'eccelso
trono della Chiesa militante collocato sopra le genti ed i regni,
coll'acume dell'indefessa mente perlustrate le provincie del mondo
cattolico..... tra i più bei meriti della vera fede in questi tempi di
tante eresie e apostasie, trovò che il principe della Toscana tien
questa provincia immune dal mal seme più delle altre». Atteso ciò, e
l'ossequio che Cosimo presta alla Santa Sede, e l'aver egli soccorso di
denaro e d'armi Carlo re di Francia contro i ribelli ed eretici, e il
prometter suo di prestarsi a difesa ed incremento della fede cattolica:
e che domina con incomparabil sapienza e giustizia, reprime i pirati, i
masnadieri, i sicarj, con buona flotta custodisce le coste, di moto
proprio lo nominò granduca[421], e gli diede una corona colla scritta,
_Pii V p. m. ob eximiam dilectionem ac catholicæ religionis zelum,
præcipuumque justitiæ studium_. Il granduca inginocchione giurò «alla
sacrosanta Chiesa e alla Santa Sede la solita obbedienza e devozione che
ha costumato, e che debbono i principi cristiani, offrendosi pronto con
ogni suo potere per l'esaltazione e difesa della Santa Sede».
Di quella dignità di granduca, che costituiva in Italia un principato
indipendente, sdegnossi l'imperatore, che pretendeva aver egli solo il
diritto di conferirla. Ai lamenti dell'imperatore, Pio V rispondeva:
«Con che fondamento contestate questa potestà alla Chiesa? Chi altri che
la Chiesa ha dato agli imperatori il nome e l'onore della loro dignità?
Chi diede ad essi l'impero? Chi questo trasferì dall'Oriente in
Occidente se non i miei predecessori?»[422]; Anche Filippo II, che vedea
erigersi un emulo della sua potestà in Italia, portò lo sdegno al punto,
che pareva imminente la guerra. Ne profittarono gli Ugonotti, e subito
insinuarono a Cosimo di favorire il principe d'Orange e i sollevati del
Belgio, per dare così imbarazzi al re di Spagna; ma Cosimo non volle
collegarsi con eretici; — forse non vi trovò il suo conto.
Era naturale che Roma vegliasse assai perchè nella contigua Toscana non
attecchissero i germi ereticali; mentre d'altra parte il duca cercava
gratificarsi la Corte romana. Nel 1545 Pandolfo Pucci lo informava che
il papa erasi lagnato perchè avesse espulso da San Marco i Domenicani, e
surrogatovi gli Agostiniani, ch'esso reputa più luterani che
cattolici[423]. E due anni innanzi, il Campana segretario l'informava
d'un Capitolo tenutosi dai frati di Santa Maria Novella, ove, delle
conclusioni adottate, cinque si dimostrano luterane[424]. Esso duca, nel
1552, scriveva al cardinale di Santa Fiora, deplorando i disordini che
si commettevano nei monasteri di Firenze, asserendo che in uno si fosser
trovate ben quindici suore spulzellate per opera di frati e preti[425]:
ma consta dalle storie come Cosimo avesse in ira e in sospetto i frati,
e principalmente i Domenicani, come attaccati alle idee repubblicane e
ai ricordi del Savonarola.
Cosimo realmente riusciva intollerante come tutti gli uomini del suo
tempo, secolari fossero od ecclesiastici, cattolici o protestanti,
italiani od alienigeni. Pure non amava l'Inquisizione, giurisdizione
straniera nel paese suo; perciò voleva avervi mano, e impedì che fosse
trasferita dai Minori Conventuali ai Domenicani. Avendo i famigliari del
Sant'Uffizio la distintiva d'una croce rossa, e rimanendo esenti dalla
giurisdizione secolare e autorizzati a portar l'armi, Cosimo temette ciò
non servisse di coperta ai tanti che avversavano il suo dominio, e ne
stava in molta guardia.
Dappoi Paolo IV abolì in Firenze la deputazione del Sant'Uffizio, e fin
il nunzio ne restò escluso, ristrettane la giurisdizione nel solo
inquisitore. A mezzo dicembre 1551 fu eseguito un _atto di fede_ in
Firenze. Uno stendardo, portante la croce nodosa in campo nero fra la
spada e l'ulivo, con attorno le parole del salmo _Exurge, Domine, et
judica causam tuam_, precedeva la processione di ventidue persone, alla
cui testa Bartolomeo Panciatichi, ricco gentiluomo, e già ministro del
duca in Francia. Vestivano cappe dipinte a croci, e così avviati alla
metropolitana, fatta abjura vennero assolti, mentre i loro scritti e
libri erano dati al fuoco. Intanto questa cerimonia faceasi privatamente
da alcune donne a San Simone.
Cosimo pretendeva che il nunzio apostolico lo tenesse informato de'
processi che a Fiorentini si facessero anche a Roma[426], dicendo che,
trattandosi di materie di fede, più di ogni altra importanti, voleva
ogni cosa condotta coll'intervento de' suoi ministri. Nel febbrajo 1551
essendo dall'Inquisizione di Roma domandato Lorenzo Niccolucci, il duca
ne permetteva l'estradizione, ma a patto che il rimandassero a Firenze
se doveva subire castigo. Di cosiffatte informazioni troviamo spesso
negli archivj, e nominatamente al 4 novembre 1564 il nunzio scriveva:
«Jeri fu finito d'esaminar Rafaello Risaliti, ritenuto per l'offizio
della Santa Inquisizione di Roma, a la quale mi son trovato sempre
presente. La somma della sua confessione è d'avere, già 4 anni sono,
mentre era all'abbadia di Salignì, del vescovo d'Osimo in Francia,
sentito ragionar di molte volte, e in molti luoghi straparlar della
messa, del papa, delle indulgenze, del purgatorio e di simili cose; aver
consentito a chi ne ragionava, e lui stesso averne ragionato e restato
persuaso; ma partito di là, che sono ormai due anni, esser insieme
partito da tutte quelle opinioni, il che fa creder facilmente e per la
giustificazione ch'egli dà della vita sua da poi il ritorno, e per le
lacrime e contrizioni ch'egli mostra avere, confessando il delitto e
domandando castigo e perdono. Et ancor ch'egli abbi tardato fin
all'ultimo di confessare, l'ha fatto piuttosto per paura che per mala
volontà. Manderò, se così piace all'E. V., la copia dell'esamine a Roma
poichè le ricerca, con ricordar a quelli Signori Illustriss. et
Reverend. la pronta espedizione.
«Il frate degli Umiliati qui di Santa Catarina ha finalmente confessato
aver dato la sassata a san Francesco per collera, parendogli malagevole
l'uscir d'Ognisanti. Aver menato nel monastero male femmine vestite da
uomo. Aver detto messa dopo questi delitti, senza essersi prima
confessato. Ne scriverò con buona licenza di vostra signoria due parole
a monsignor illus. Borromeo, come a protettore, e se gli darà poi il
debito castigo»[427].
Esaminando attentamente il carteggio mediceo, vi trovammo lettera de'
cardinali, che domandavano al duca volesse consegnare Pietro Paolo
Vermiglio[428]; un'altra del cardinale De Pucci che lo mette in avviso
contro i divisamenti politici degli eretici, a proposito di Celio
Curione, sperando che l'apostasia di frà Bernardino Ochino smascheri
alcuni ipocriti[429]: un'altra del cardinale Farnese[430], adombrato del
ritorno di esso Celio a Lucca, e chiedendo trovi modo di consegnarlo.
Non ci appare lo facesse, ma più gravi passarono le avventure di Pietro
Carnesecchi. Fu costui di nobile prosapia fiorentina[431], ben fondato
nelle lettere greche e latine, bel parlatore, buon poeta, favorito dai
Medici in patria, in Francia e a Roma. Giuliano de' Medici suo amico,
quando divenne Clemente VII, lo elesse protonotaro e segretario, dove
ottenne badie e pensioni ecclesiastiche. Del 27 giugno 1531 abbiamo una
commendatizia per lui all'imperatore Carlo V come _civis florentinus
summa fide et singulari modestia vir, quem cum suis meritis et
deditissimo animo in me, tum virtute et nobilitate ita amo, ut plus non
possum_, onde gli fu perfino concesso il cognome di Medici. Qual
protonotaro apostolico gli sono dirette molte lettere di Pietro Paolo
Vergerio dalla Germania nel 1533, esistenti nell'Archivio Vaticano,
dalle quali appare quanta gelosia mettesse all'imperatore e ai Tedeschi
la concordia che parea comporsi tra il papa e Francia, massime pel
matrimonio con Caterina de' Medici. «Male disegna il papa e Franza poter
vincere, perchè, con un semplice cenno e dissimulando un poco delle
materie luterane, tutte queste forze di tutta Germania, tutti, sino i
fanciulli e le femine, correriano cupidamente a danni della Chiesa, e
non bramano altro che sovertere quello Stato: e con un sol cenno
discenderia questa mala gente, contenta di questo premio solo di
confonder papa ed aderenti e dipendenti» (Praga 31 dicembre 1533).
Altrove esso Vergerio narra avergli il re de' Romani mostrato i pericoli
della guerra, atteso che le persone che «la muovono sono della fazione
luterana e di mala sorte, poveri e temerarj ed impj, ai quali convenga
per omne nephas trovarsi da vivere e d'inalzarsi: _itaque tanto magis
periculosa multis eorum victoria (sed Deus avertat) futura esset_». Poi
considera i tempi presenti, nei quali «questi autori delle turbazioni
trovano simili di costumi molti, di maggiori ch'essi non sono, di quasi
eguali e di inferiori»: e riferisce la cupidità de' Luterani, di aver
occasione d'aver un capo che li conduca a danni di ortodossi: e «il gran
moto che han fatto in molte provincie quelle altre bestie rebatizzate»,
cioè gli Anabattisti (Da Praga, 11 maggio 1534).
Prospero di Santa Croce ad esso Carnesecchi scriveva il 20 ottobre 1534:
_Facit eximia animi tui virtus ut hoc tempore gratulatione tecum utar
potius quam consolatione. Nam, etsi pro nihil tibi unquam acerbius in
vita accidisse, quam pontificis de te optime meriti interitum, tamen te
dolori fortiter restitisse gratulor equidem tibi vehementer. Est enim
animi christiani et cum ipsa natura moderati, tum doctrina atque
optimarum artium studiis eruditi, idest tui, impetus fortunæ sustinere
etc_.
Il 25 novembre 1534, il ministro Granuela scriveagli che, avendo saputo
_quemadmodum illi Jacobi Salviati bonæ memoriæ studium atque animus
simul cum isto munere ad vestram Dominationem transivisse, ita et nos,
quemadmodum æquum est, et nuper etiam polliciti sumus, omnem eum
affectum quem erga defunctum gerere solebamus, in v. d. juxta quadam
successione transfudimus_.
E Paolo Giovio, l'11 marzo 1545, da Roma: «Signor mio onorandissimo,
venendo di ritorno costì li signori Stuffi dalle stazioni di Roma, ho
voluto fare questa credenziale a M. Giovanni Michele, qual mi promette
che farà chiara vostra signoria come il Giovio le è immortale servitore:
e così si congratulerà del suo benestare, e narrerà come ora suda più
che mai al fumo della lucerna per dar conto a' posteri di questa trama
del ladro mondo. Io mi sto in forma antica, in grazia di Padre, Figlio e
Spirito Santo: e valemo pur qualche cosa più di quello si estimano le
melarancie verdi. Baciate M. Donato Rullo con quella affezione che io
bacio il signor Priuli quando ritorna da Viterbo, e ditegli ch'io li
sono obbligatissimo servitore a tutto transito».
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