Gli eretici d'Italia, vol. II - 53

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deputati e da deputarsi sopra la religione e l'officio sopra la detta
religione possano con maggiore animo e diligenza attendere, e essequire
l'auctorità e cura che gli è stata data dal magnifico consiglio, decreto
s'intenda e sia che il magistrato possa spender per sei mesi prossimi
per sino alla somma di cento scudi il mese e lo speciale officio
dell'entrate sia tenuto di tempo in tempo passargliene e fargli pagare
ad ogni sua requisizione.
«Il qual magistrato sia tenuto e debbi con ogni diligenza possibile
cercare e ritrovare tutti quelli li quali sono stati dal Sant'Offizio
dell'Inquisizione dichiarati eretici, ovvero citati sono restati
contumaci secondo la disposizione della legge fatta il 1558, et
essequire contro di loro quello che per essa legge si dispone.
«Sia tenuto ancora il detto magistrato di ricercare con ogni diligenza e
ritrovare tutti quelli, li quali tanto nella città di Geneva come
altrove, hanno avuto, hanno, averanno pratica o commercio con li eretici
dichiarati ribelli dal magnifico consiglio, et ancora tutti quelli li
quali sì nella città nostra e suo dominio, come in qual si vogli parte
del mondo hanno in alcuno modo contravenuto o contraverranno agli
statuti e decreti e ordini fatti dal magnifico consiglio sopra la
religione, li quali tutti il detto magistrato sia tenuto, sotto pena di
scudi cento d'applicarsi al nostro comune, nella quale _ipso jure_ et
_ipso facto_ e senza altra dichiarazione s'intendano e siano incorsi, e
si debbino per li magnifici signori condennare nelle pene delli detti
statuti et ordini e per così condennati mandargli all'archivio pubblico
ogni volta che a esso consterà della contravenzione.
«Il qual magistrato sia tenuto ancora ogniqualvolta avanti e da esso si
facci la proposta ordinata sopra la religione, riferire ai magnifici
signori sotto la detta pena tutto quello che da esso sarà stato fatto,
eseguito e negoziato per sino a quel tempo, la qual relazione li
magnifici signori siano tenuti e debbino proponere e far leggere nel
magnifico consiglio quando faranno la detta proposta sopra la religione,
acciò che sopra a quella possa deliberare come li parrà.
«E che per il magnifico consiglio prefato si debba fare elezione d'un
altro officio di tre cittadini sopra li beni confiscati delli eretici,
dichiarati ribelli da esso magnifico consiglio, per dui anni prossimi
con la medesima autorità cura e carico la quale fu da esso data
all'officio già eletto sopra li beni di detti eretici dichiarati
ribelli, la quale comprenda ancora li beni di quelli che si
dichiareranno per l'avvenire, il quale officio sia tenuto riferire sotto
pena di scudi cento nella quale etc. e perchè così condannati per inanzi
il tempo della proposta da farsi nel prossimo collegio sopra la
religione alli magnifici signori quello che il detto officio passato ha
fatto sino a ora ed esseguito sin ora, la qual relazione gli magnifici
signori siano tenuti proporre e far leggere nel detto magnifico
consiglio quando faranno la detta proposta.
«Il qual magistrato sia tenuto ancora sotto la pena predetta inanzi al
tempo da far la proposta della religione, nel collegio prossimo riferire
a magnifici signori in scritto tutti quelli li quali nella materia della
religione da un anno in qua hanno date false calunie, cioè quelli li
quali non possano render conto da chi habbino odito le imputazioni, la
quale relazione li magnifici signori debbino proporre e far leggere nel
detto magnifico consiglio.
«E parimente il prefato magistrato, durante il tempo del suo officio, e
quelli che succederanno a esso siano tenuti di tempo in tempo ogni volta
che troveranno nella causa prefata della religione esser stata falsa
calunnia riferita a magnifici signori, e quelli che si dice di sopra e
lor signorie debbino proporre e far leggere la relazione del magnifico
consiglio nel quale faranno la proposta della religione».
[496] La lettera è del 21/11 febbrajo 1681, e trovasi alla
Magliabecchiana, Classe XXXVII, N. 159 de' manuscritti.
Il Bayle in Giulio III, cita una _Lectura super canonem de
consecratione_ di Gerardo Busdrago di Lucca dottore, vescovo di Napoli
di Romania, e suffraganeo del vescovo di Padova, stampata a Wittemberg
il 1543.
[497] Diamo alcune notizie su queste famiglie:
1. _Turrettini_. Nobili di Lucca nel 1300, cacciati come Guelfi nel
1312, tornarono in patria nel 1400, da Nozzano dove si erano riparati.
Cristoforo Turrettini fu anziano della repubblica, poi gonfaloniere di
giustizia nel 1443, e fu il primo della casata che godesse quest'onore,
che molti altri ottennero dopo di lui. Nel 1466 Paolo Turrettini fu
ambasciatore a Galeazzo Sforza, duca di Milano. Un altro Cristoforo fu
segretario delle cifre di papa Gregorio XIII, e nel 1585 ebbe privilegio
di nobiltà imperiale, per diploma di Rodolfo imperatore, e facoltà di
portare l'aquila nell'arme. Cesare, priore del monastero di San Giovanni
di Lucca, morì nel 1632 in concetto di santità.
2. _Liena_, famiglia cacciata dal popolo come ricca e potente nel 1308.
Niccolao andò scelto a incontrare papa Paolo III quando venne a Lucca
nel 1538, poi andò ambasciatore a Carlo V per comporre le controversie
coi Fiorentini per cagione di Pietrasanta.
3. Gli _Jova_ o _Ghiova_ nel 1312 partirono di Lucca con le centottanta
famiglie guelfe, poi tornarono nel 1331 e prestarono giuramento di
fedeltà al re Giovanni di Boemia, che fu signore di Lucca. Nel 1384
Nicolao Jova insieme con Matteo Gigli fu ambasciatore a Firenze per
stabilire la lega con quella repubblica e con Siena, Perugia e Pisa.
Paolo Jova, francescano, fu discepolo di frate Francesco di Savona, che
fu poi papa Sisto IV, introdusse gli Osservanti a Lucca e fu guardiano e
vicario provinciale e dottissimo in teologia. Morì nel 1484.
4. _Calandrini_, famiglia oriunda di Sarzana, cominciò a rendersi
illustre a Roma e altrove al tempo del pontefice Niccolò V, ch'era
figlio di Andreola Calandrini. Costei avea avuto in prime nozze da un
Calandrini due figliuoli, Pietro e Filippo. Questi fu promosso al
cardinalato e dichiarato nobile originario di Lucca per decreto del 12
dicembre 1447. Giovan Matteo, figlio di Pietro, fu creato anch'esso
nobile lucchese il 22 gennajo del 1456; era senatore di Roma e dottore
in legge. Filippo, suo figliuolo postumo, si ammogliò a Caterina di
Benedetto Bonvisi; fu anziano della repubblica di Lucca e più volte
ambasciatore; morì il 1554. Ebbe un figliuolo per nome Giuliano, che
abbandonò la fede cattolica e si ritirò in Francia dove morì nel 1573:
era ammogliato a Caterina di Agostino Balbani. Giovanni, suo figlio,
dopo aver vagato per la Germania, si ricoverò a Londra, e lasciò due
figli, Giovanni Luigi e Filippo. Il primo si fermò a Ginevra, il secondo
andò a Londra, ma come seguace della parte di re Carlo I fu obbligato
ritirarsi in Amsterdam, ove fu eletto direttore generale del commercio
in Batavia e nell'Indie Orientali. Nacque di lui Teodoro che si ritirò
in Francia e tornò alla fede cattolica. De' suoi figli Filippo e Teodoro
il primo entrò gesuita, il secondo, dopo avere più anni militato in
Francia, tornò a Lucca nel 1697 e dal Consiglio venne rintegrato negli
onori e creato colonnello.
Col decreto 16 dicembre 1605 fu messo all'Indice il _Trattato delle
heresie et delle Schisme che sono nate nella chiesa di Dio et de' remedj
che si deono usare contro di quelle_, di SCIPIONE CALANDRIN.
[498] Così qualvolta occorre la parola πρεσβὺτερος non traduce preti o
sacerdoti, ma _anziani_, _collegio degli anziani_. Se Paolo e Barnaba
ordinano preti coll'_imposizione delle mani_ (χειροτονησαντες αὐτοῖς
πρεσβυτὲρους κατ’ ἐκκλησίαν), egli traduce che «gli ordinarono per
ciascuna chiesa per voti comuni degli anziani». San Pietro raccomanda ai
fedeli _nemo vestrum patiatur, ut homicida, aut fur, aut alienorum
appetitor_ (Ep. I, 4, 15), ove il testo dice ἀλλοτριεπίσκοπος, cioè che
spia i fatti altrui: e il Diodato mette «o facendo il vescovo sopra gli
stranieri» per raffaccio ai vescovi. ἐν προσώπῳ χριστου (II Cor. 2, 10),
cioè _in persona di Cristo_, egli traduce «in cospetto di Cristo» per
non fare un apostolo vicario di Cristo. παρὰδοσις, che vuol dir
_tradizione_, egli traduce per «insegnamento»: χάρισμα _grazia_, per
«dono»: λογος _verbo_, per «parola».
La Vulgata nei Fatti degli Apostoli III, 1, dice che «Pietro e Giovanni
ascendeano al tempio all'ora nona dell'orazione», sapendosi che molte
volte il giorno faceano la preghiera gli Ebrei, a cui imitazione la
Chiesa introdusse le nove ore nell'uffiziatura. Per non approvar ciò,
Lutero aveva alterato quel passo, e secondo lui il Diodati tradusse,
«Saliva al tempio in sull'ora nona, ch'è l'ora dell'orazione».
La sua versione il Martini condusse in generale sulla Vulgata, talvolta
scostandosene nel Nuovo Testamento, perchè conosceva il greco. Le sobrie
note son sempre ortodosse, ma talvolta appoggiano su interpretazioni non
conformi all'originale.


DISCORSO XXXVIII.
ANTITRINITARJ. I SOCCINI. IL BIANDRATA.

Qui non doveano limitarsi i dissensi; e i nostri, non solo contribuirono
ad estendere altrove la Riforma, ma ne dedussero più rigorose
conseguenze, e alla dottrina antropologica, fondo di tutte le eresie
d'Occidente, surrogarono la cristologica quale in Oriente; al deismo
epicureo il deismo razionale.
Lutero, sovvertendo gli ordini e i riti cattolici, e rompendo la
tradizione, aveva mantenuto molti dogmi e la gerarchia e il canone
dell'autorità, pur rendendola servile al potere temporale, giacchè,
ripudiata la scomunica, sol colla spada potea mantenere quell'unità di
fede che egli veniva a spezzare; non fece dunque che diroccare
l'ecclesiastica gerarchia, a segno che più volte si sperò una
riconciliazione. Calvino da quest'inerte uffizialità avventossi alla
critica, negando addirittura la Chiesa nel senso mistico, e facendola
sparire in faccia all'individuo, per modo che s'affondasse un abisso fra
la divinità e i supplicanti: ma neppur egli negò tutti i dogmi e la
divinità del Cristo, e ancora la Bibbia come rivelazione pareva il porto
contro i dubbj dell'intelletto e le tempeste del cuore. Furono italiani
che compirono la doppia dissoluzione della disciplina e della gerarchia,
col repudiare le fondamentali verità; e in nome dell'illimitata autorità
della ragione impugnando l'idea stessa, l'ontologia cristiana,
sostituendovi il nominalismo e il sensismo, mascherato di razionalità, e
solo temperato da quei rudimenti o simulacri ideali, che i dotti Gentili
aveano salvato dal naufragio delle verità primitive. Nè credansi gente
di stola e di tonaca: ma giureconsulti e medici, che nella Bibbia non
trovando espresso il dogma della Trinità, lo impugnarono, a guisa degli
antichi Ariani negando la divinità di Cristo, la consustanzialità del
Verbo, ed altre invenzioni (diceano) de' sofisti greci. Qual bisogno
avea Dio di far tanti circuiti per salvarci? un atto della sua volontà,
e i nostri peccati erano rimessi. Quanto all'istruirci, bastavano le
dottrine e gli esempj d'un uomo pieno di Spirito Santo, senza che fosse
Dio. Il Cristo è colui che sublimò l'umanità al più elevato sviluppo
religioso.
Forse ne dubitavano l'Ochino ed altri Riformati, e probabilmente la
Società di Vicenza, della quale discorreremo. A questa apparteneva
Giovan Valentino Gentile, figlio del medico Matteo Gentile da Cosenza,
che per seguire le idee nuove era spatriato. Valentino professò a
Ginevra, e in un libro dedicato al re di Polonia diceva: «Trinità è
parola che non leggerete mai nella Santa Scrittura o ne' simboli
cattolici, nè quelle parole affatto umane di ομουσιον, persona, essenza,
ipostasi. V'è un Dio uno e solo: egli solo è αυτοθεος, che nel Cristo
suo figlio infonde la propria divinità; Cristo è la sua immagine: è il
simbolo della gloria del Padre; è Dio ma non per se stesso: così lo
Spirito Santo, che è la potenza divina messa in azione. Padre, Figlio,
Spirito Santo son distinti di persona e di essenza e di grado. Calvino
adora una quaternità invece d'una trinità, perocchè insegna che, rimossa
l'ipostasi, rimane sempre la divinità, e che ciascuna persona è
veramente Dio; onde son quattro dei»[499].
Poichè questa pretesa contraddizione della trinità coll'unità, fatta
cardine della dogmatica di Maometto, impiglia le semplici menti,
rifletteremo che la pura unità non è adequata a Dio. Dicendosi _uno_,
domandasi qual _uno_, che cosa _una_? Si risponde: un Dio; ed è già
qualcosa più che la semplice unità; è l'unità con elementi reali,
necessarj a un ente vivo e operante; mentre l'unità è un'astrazione, che
ha realtà soltanto nello spirito che la concepisce; è cosa negativa,
morta. Ma Dio non è una astrazione, una generalizzazione, un teorema
dello spirito umano; bensì un Dio vivo e vero, che esiste per sè e in
sè; indipendente, autonomo. Vivere è operare; viver eternamente è
operare eternamente, onde i teologi chiaman Iddio _actus purissimus_.
L'atto ha per condizioni essenziali un principio, un mezzo, un fine.
Perciò l'unità, come ente attuale, operante in eterno, deve racchiudere
i tre rapporti di principio, mezzo, fine; che sono quelli che la
teologia cristiana chiama Padre, Figliuolo, Spirito Santo. Questi tre
rapporti sono indispensabili onde percepir l'unità come Dio vivo e vero;
onde il concetto fondamentale di Dio trino è essenziale all'idea di Dio
uno. Qui non c'è l'assurdo dell'uno che fa tre; nè l'unità è infirmata,
giacchè la trinità non afferma tre Dei, ma un triplice rapporto
interiore nell'essenza intima d'un Dio unico, in virtù del quale esso è
Dio uno, attuale, vivente: è, vorrei dire, il contenuto vivente della
sua unità, senza del quale sarebbe un'astrazione vuota.
Calvino perseguitò d'invettive Valentino Gentile, come uom da nulla, il
quale porge a bevere il fango che attinse alla pozzanghera di
Serveto[500], e al gusto corrotto vuol persuadere sia dolce liquore e
buona bevanda. Ma l'antitrinitarismo diffondeasi per la Svizzera e ne'
Grigioni: e a Lione v'avea poeti che sponeano in versi le dottrine di
Valentino. Perchè dunque l'uniformità, almeno a Ginevra, non fosse
compromessa, Calvino stese un formulario che la Chiesa italiana di colà
dovea giurare, contenente la più ortodossa definizione di quel mistero,
e la promessa di non intaccarla direttamente o indirettamente.
Firmaronlo cinque italiani, sette ricusarono, fra cui Andrea Ossellani,
Marco Pizzi e Valentino, il quale però, non disposto a morir come
Serveto, l'accettò poi, ma presto tornò a insegnar le sue fantasie e
diceva: «Confesso che il Dio di Israele, che le sante carte ci
propongono pel solo vero Dio, e che ventosi sofisti negano abbia un
figlio, è il padre di nostro signor Gesù Cristo; e questo, da lui
mandato, in quanto è la parola, è il vero e natural figlio del Santo Dio
padre onnipotente»[501].
Calvino il fece buttar prigione come spergiuro ed eretico, ed esso
pregava Dio illuminasse i suoi giudici e stendeva apologie, ma Calvino
rinfacciavagli: «Dal tuo ultimo scritto fummo chiariti che hai lo
spirito depravato, pien d'intollerabile orgoglio e di natura velenosa,
eretico ostinato. Ripeti quanto vorrai che riconosci Cristo per vero
Dio: se solo il suo padre è Dio, è il Dio d'Israele, tu lo rigetti
apertamente dal posto ove collochi il Padre solo».
Valentino si ritrattò pienamente, e i giudici sentenziarono: «Benchè la
malizia e cattiveria che usasti meriti che tu venga sterminato d'infra
gli uomini come seduttore, eretico e scismatico, avendo però riguardo al
tuo ravvedimento, noi ti condanniamo ad essere spogliato in camicia, e a
piè nudi e testa scoperta con un torchietto acceso in mano,
inginocchiatoci davanti, chieder perdono a noi e alla giustizia,
detestando i tuoi scritti, che ordiniamo tu ponga di propria mano nel
fuoco, come pieni di perniciosa menzogna». Il 2 settembre 1588 Valentino
girò in quest'assetto pei trivj facendo ammenda, e giurò non uscir di
città: ma appena il potette fuggì in Savoja presso il medico Matteo
Gribaldi, ove il seguirono Paolo Alciato e il Biandrata[502]. Appena
fuori, gli _scintillò ancora la verità_, il solo padre della parola
essere il Dio d'Israele; e perchè il balio di Gex l'obbligò a far una
professione della sua fede, egli finse ricever quest'obbligo come
un'ordinanza, e la fece stampare dedicandola al balio stesso, che perciò
cadde in sospetto. Valentino andò predicando i suoi canoni in Francia, e
in Polonia, donde uscì quando quel re, nel 1566, bandì gl'insegnatori
delle nuove dottrine, fu in Moravia ed a Vienna, poi essendo morto il
suo grand'avversario Calvino, credette poter tornar impunemente in
Isvizzera. Ma avendo con ciò rotto il bando, fu côlto l'11 giugno 1566,
e dopo regolare processo, decapitato a Berna. Andando al supplizio
dicea: «Gli altri han dato il sangue pel Figlio; io son il primo che
avrò l'onore di versarlo per la suprema gloria del Padre»[503].
Gian Paolo Alciato milanese, che morì a Danzica, da Austerlitz scrisse
due lettere nel 1564 e 65 a Gregorio Paoli, in sostegno della dottrina
unitaria, per le quali dal Beza era detto «uom delirante e vertiginoso»;
da Calvino «ingegno non solo stolido e pazzo, ma frenetico sin alla
rabbia»[504]. Son della scuola stessa l'abbate Leonardo, Nicolò Paruta,
Giulio da Treviso, Francesco da Rovigo, Giacomo da Chiari, Francesco
Negri. L'Alciato, l'Ochino, il Biandrata furono tra i diciassette
teologi, che il waivoda Radzivil adoperò per tradurre la Bibbia (_Biblia
swieta, tho iest ksiegi stárego y noweyo zakonu ecc._, 1563).
Matteo Gribaldi detto Moffa, da Chieri, legista reputato, professò in
Francia e Spagna, indi chiamato a Padova nel 1548 collo stipendio di 800
e poi di 1100 fiorini, vi acquistò tal fama, che la sala non bastava
agli ascoltatori. Mal dissimulava le proprie opinioni, favorevoli ai
novatori, finchè sospettato autore del libro che dicemmo stampato a
Basilea nel 1550 ove si descriveva la morte di Francesco Spiera, fuggì.
Antichi suoi discepoli il presentarono a Calvino, e questo,
sospettandolo infetto dell'eresia unitaria, per la quale egli allora
faceva processare Serveto, ricusò riceverlo, nè assentirgli tampoco un
colloquio, temendo non parlasse a favore delle dottrine accusate.
Bruciato poi il Serveto, l'invitò a una conferenza, ed esso vi si
condusse; ma perchè l'intollerante eresiarca negò stendergli la mano, e
voleva costringerlo alla professione di fede, egli credette più sicuro
passare a Tubinga, indi a Berna; ma quivi pure perseguitato come
antitrinitario da Calvino, benchè si ritrattasse, dovè partirne, nè
sembra vero che prima di morire tornasse cattolico[505].
Suo discepolo era Giulio Pacio cavaliere vicentino (1550-1635), portento
di sapere in fanciullezza. Fuggito con altri compatrioti a Ginevra, vi
sposò una delle profughe lucchesi, ed ebbe cattedra di legge colà, poi
ad Eidelberga, a Sedan, a Nimes; ed era a gara disputato dalle
Università di Francia e d'Italia per le opere sue di diritto e di
filosofia, ora cadute in dimenticanza. A Montpellier ebbe scolaro il
famoso Peiresc, il quale faticò per tornarlo cattolico, ottenendogli
qualche cattedra ben proveduta. Dopo molti anni abjurò in fatto; allora
a Padova insegnò diritto civile, poi conseguì di tornar a Valenza, ove
morì. In un'elegia latina diede il compendio della propria vita.
Risoluti antitrinitarj furono i sienesi Dario Soccino e i suoi fratelli,
Alberico che professò giurisprudenza a Oxford (-1608) con eleganza ed
erudizione[506]; e Scipione che dettò ad Eidelberga e altrove, e
latinizzò i due primi canti della _Gerusalemme Liberata_ appena usciti.
Lelio Soccino nel 1546 ancor giovanissimo fu ammesso nell'Accademia di
Vicenza, ove tenea conferenze per ispiantar la credenza in Cristo; e per
cogliere meglio il senso della Bibbia, studiò il greco, l'ebraico,
l'arabo. Vedendo pericoloso manifestar in patria credenze particolari,
ne uscì, e per quattro anni viaggiò la Francia, l'Inghilterra, i Paesi
Bassi, la Germania, la Polonia; da ultimo si fissò a Zurigo. Poichè i
primi riformati abborrivano dalle dottrine unitarie, Lelio finalmente le
ascose in modo da passare per un dei loro ed esser caro a Melancton e ad
altri caporioni. Egli domandava a Calvino: «Maestro, _quid_ d'un
cristiano che si sposò a una cattolica?» E Calvino rispondea: «Non è
permesso a un cristiano unirsi a donna che disertò il Cristo. Ora tutti
i papisti sono in tal caso: papista e musulmano è tutt'uno»[507].
Ma Calvino ne subodorava i dissensi, e gli scriveva nel 1552: «Quel che
v'ho detto già altra volta or ve lo ripeto sul serio; se non correggete
cotesto prurito d'indagine, temete di incontri gravissimi». L'avviso e
il supplizio di Serveto insegnarono a Lelio a dissimulare, onde continuò
ad esser ben voluto fra persone di sensi diversissimi. Abbiamo lettera
di Pietro Paolo Vergerio, da Vicosoprano, 20 giugno 1552 al Pellicano,
dove fra altro gli dice: «Il nostro Lelio meco dimorò per tre settimane,
poi se n'andò a suo padre, ma so io traverso a quanti pericoli. Dio lo
scampi». Bullinger, sempre conciliativo, ben l'accolse, ma Giulio da
Milano scriveva a questo da Poschiavo il 4 novembre 1555: «Mi dici che
Lelio, sospetto a noi, e da molti buoni fratelli tenuto apertamente per
anabattista, a te fece una buona confessione, e sottoscrisse alla sana
dottrina che fu sempre nella Chiesa cattolica; e mi esorti a tenerlo
come purgato da ogni sospetto. Ti bacio per lo zelo che hai della casa
di Dio, e fra noi l'ecclesiastica tua autorità è di tal peso, che ci
soddisfa ciò che soddisfa te; onde farò che le nostre chiese tengan
Lelio per fratello, sebbene non facilmente si dissiperà la macchia. Ma
prego il Signore che Lelio creda come a te confessò. Non volevo; ma per
cautela tua ti narrerò che Lelio tenne mano con Camillo Renato, a segno
che, abbandonata la verità cattolica, non vergognò a Chiavenna, a
Ginevra e altrove professarsi anabattista; e credo che tu non ignori
l'astuto e tortuoso ingegno di Camillo, che ogni dì più si palesa; nè
puoi credere quanto flessibile sia, e con quante tortuosità questo serpe
ci sfugga, se non si tenga bene. Ma che dico di Camillo, se tutti gli
anabattisti sono di tale perfidia che non temono soffiare or caldo or
freddo?[508]».
Con alcuni pochi, e massime italiani profughi, Lelio manifestavasi e coi
parenti suoi a Siena. Disgustato dell'intolleranza di Calvino, scrisse
_De hæreticis quo jure, quove fructu coercendi sunt gladio vel igne,
dialogus inter Calvinum et Vaticanum_, opuscolo senza nome d'autore nè
di stampatore, ma fatto nel 1554[509]: poi in Polonia professò
apertamente le dottrine antitrinitarie, alle quali convertì Francesco
Lismanin confessore della regina Bona Sforza.
Sigismondo I re di Polonia avea mostrato devozione ai papi, massime a
Leon X, supplicando questo a metter pace fra i principi onde respinger i
Tartari, i Moscoviti, i Turchi, molesti al suo regno. Si oppose alla
Riforma, proibendo ai giovani di frequentar le Università di Germania, e
dichiarando incapaci quei che l'abbracciassero: ma ve la diffusero
l'opera del mantovano Stancario e l'esempio del marchese di Brandeburgo,
gran maestro dell'Ordine teutonico, il quale apostatato, fondò quel che
poi divenne regno di Prussia. Paolo III mandò in quel regno Giovan
Angelo Medici che fu poi Pio IV, commissario dell'esercito pontifizio
contro Turchi e Luterani. I Polacchi, per benemerenza al gran re,
aveangli permesso di elegger successore il figlio Sigismondo Augusto I,
natogli da Bona Sforza; il quale, per non inimicarsi i signori,
condiscese alle nuove dottrine, propagatesi principalmente a Danzica, in
Livonia e in molti palatinati: nè sì tardò a ottenere, che, ne' _pacta
conventa_ offerti al re, vi fosse la tolleranza degli Ussiti, Luterani,
Sacramentarj, Calvinisti, Anabattisti, Ariani, Sociniani, Antitrinitari,
Triteisti, Unitarj.
A Sigismondo Augusto il Soccino era stato raccomandato da Melancton:
sicchè ben accolto da lui e da' gentiluomini polacchi, ne ottenne
lettere di raccomandazione pel duca di Firenze e pel doge di Venezia
onde poter venire a raccogliere l'eredità di suo padre (1559),
contrastatagli per le relazioni sue cogli eretici. Ma fu in quel tempo
che la sua famiglia andò dispersa, come diremo, ond'egli tornò in
Isvizzera e morì a Zurigo il maggio 1562. Aveva composto nel 1561 una
parafrasi del capo I di san Giovanni, spirante arianesimo[510].
Fausto Soccino, nipote e allievo di Lelio, nacque a Siena il 5 dicembre
1539; bello scrittore, parlator facile, gentile di modi, studiò
giurisprudenza, poi le scienze a Lione; e udita la morte dello zio,
corse in Polonia per raccorne i libri, e vi fu accolto come predestinato
a metter l'ultima mano alla dottrina ariana. Per allora tornò in patria,
e stette dodici anni presso la Corte di Firenze in onorevoli impieghi:
poi quando i suoi parenti furono perseguitati, si mutò a Basilea nel
1574, malgrado le dissuasioni del granduca; studiò teologia, riducendola
a senso diversissimo dall'abituale; e pubblicò opere anonime, come de
_Jesu Servatore_; ma per una disputa avuta con Francesco Pucci nel 1578
dovette partirsene. Allora fu chiamato in Transilvania e Polonia, dove
l'eresia antitrinitaria erasi radicata, e poichè Sigismondo Augusto avea
concessa libertà di religione a chiunque fossesi staccato dal papismo,
poterono far quivi professione aperta quegli Unitarj che altrove erano
bruciati; e presto a Cracovia, per cura di Gregorio Pauli, formarono una
congregazione distinta, con collegio, stamperia, annuo sinodo, e
seguitarono a prosperarvi sin al 1658 quando vennero espulsi.
Ma fra gli Unitarj medesimi v'avea scissura. Figurava tra essi Giorgio
Biandrata d'illustre famiglia saluzzese, dottore nell'Università di
Montpellier, poi di Pavia, che scrisse intorno all'ostetricia e alle
malattie muliebri quel che di meglio fin allora si fosse fatto, e senza
conoscere nè il commento del Berengario nè le opere del Pareo. Chiesto a
curare Giovanni Zapoly, waivoda della Transilvania, lo portò al grado di
prender in moglie Isabella, figlia di Bona Sforza regina di Polonia,
alla quale e al bambino, nato poco prima della morte del padre, prestò
utilissimi servigi. Non pare giusto annoverarlo fra gli espulsi da
Vicenza[511], attesochè nel 1552 lo troviamo a Mestre, senza disturbi:
di là pare fuggisse a Ginevra, dove udendo Calvino, lo stomacava con
continue quistioni, e mentre un giorno mostravasene soddisfatto, eccolo
al domani tornar alla carica come cosa nuova. Di che sdegnato, Calvino
gli disse: «Il tuo volto mi palesa il mostro sottile che occulti in
cuore», e più fiate lo rimbrottò aspramente perchè correggesse la
perfidia e le fallacie e le tortuose frodi, delle quali era stanco[512].
Il Biandrata proponea le sue difficoltà anche a Celso Martinengo,
ministro della Chiesa italiana, sempre con eguale incontentabilità. Da
Calvino eragli stato promesso dimenticar il suo fallo, ma mentre
assisteva a una lezione di questo, visto entrar un berroviere della
repubblica, dubitò si volesse imprigionarlo; e fingendo sangue di naso,
fuggì a Zurigo, poi fu capo d'una chiesa istituita da Nicola Olesnieski
signor di Pinczowia. Quando poi Sigismondo Augusto spalancò la Polonia
agli eretici, Giorgio si trasferì a Cracovia, assistette a due sinodi,
collaborò collo Stancario alla traduzione polacca della Bibbia sotto la
protezione di Nicola Radziwil, gran cancelliere di Lituania; fatto
anziano delle chiese dipendenti da Cracovia, sostenne calorose dispute,
tenuto come colonna dagli Antitrinitarj, e da quel re fatto archiatro e
consiglier intimo. Il Radziwil lo deputò al sinodo di Xians con lettere
commendatizie e con seicento scudi da offrire, come pure al sinodo di
Pinczowia, dove esibì una confessione di fede, che parve ortodossa,
professando creder a Dio uno e alle tre ipostasi distinte, e all'eterna
divinità e generazione di Cristo, e alla processione dello Spirito
Santo. Eppure Calvino l'avea posto in mala vista, e scrivea molte
lettere ai fedeli di Polonia perchè cacciasser il Biandrata: _nullus est
apud alias gentes: vos admiramini non secus atque angelum e cœlo
delapsum. Vestras delicias minime vobis invideo_[513]. Lo taccia anche
di barbaro stile, senza troppa ragione.
Turbato dall'insistente persecuzione di Calvino, nel 1563 migrò in
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