Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 46
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d'indagare destramente se la Repubblica piaccia o no; il quale non
era senza arguto consiglio, però che, i partigiani della Repubblica
ponendo nel Generale grandissima fede, io disegnava adoperarlo a
persuaderli efficacemente, in virtù della convinzione che doveva
nascere in lui dal coscienzioso esame dei fatti, a deporre la ubbia
di volere instituita la Repubblica in Toscana:[650] nemmeno apprezza
l'Accusa l'Articolo 6, il quale pure spiega a chiare note, che il
Generale faccia sentire la possibilità del ritorno del Granduca, e
quanto sarebbe per desiderare egli ancora, che il suo Stato intero si
conservasse. Questo è il concetto che parimente dettai nel Manifesto
alla Gioventù Fiorentina, ma qui più esplicito e là più coperto,
siccome consigliava prudenza, chè adesso favellavo con un uomo solo,
e discreto per indole, per instituto obbediente. Si sollevano le
cateratte all'Accusa soltanto allo Articolo 9, dove raccomando di
accordarsi con gli Stati Romani _per fare causa contro il comune
nemico, perchè gli ha da considerare come destinati a formare una
sola famiglia con noi_, SE I CASI NON VOGLIONO ALTRIMENTI. Che cosa
trova qui da riprendere l'Accusa? Forse trattasi qui di _Unificazione
con Roma repubblicana_? Quanto queste Istruzioni negli altri Articoli
esprimono, non esclude simile concetto? E meglio non lo escludono
fino dalla radice il cumulo dei fatti concomitanti? — O dunque che
cosa significa egli cotesto Articolo? — interrogherà l'Accusa. —
Ed io rispondo avere in altra parte manifestato i miei pensieri
in proposito. Il Ministero Capponi,[651] dettando la commissione
al Legato Ridolfi per le Conferenze brussellesi, si palesò vago di
vedere Toscana arrampicarsi su pei greppi degli Appennini, e mettere
un piede in Lombardia; a me cotesti possessi lombardi non andavano a
sangue, e mi pareva che meglio potesse allargarsi verso la Umbria,
memore dell'antica Etruria, di cui furono confini la Magra e il
Tevere; il quale concetto mi parve allora, e ritengo anche adesso,
più classicamente politico, per ragioni che non importa discorrere.
A me piaceva parte degli Stati Romani, non già nella guisa che disse
David quando gli morì il figliuolo avuto da Betsabea: «Poichè non verrà
più a me, io me ne vado a lui;»[652] ma sì nel modo contrario, voglio
dire che, invece di andare a loro, essi venissero a me; onde se, senza
pericolo di commettere tradimento, si può desiderare ampliato lo Stato
da parte di Ponente, non si sa come appo l'Accusa si corra pericolo
di fellonia, piegando questo desiderio a Levante. Io poi giudico, e
quanti hanno pratica delle faccende politiche giudicheranno meco, che
corra necessità assoluta di ampliare i piccoli Stati, conciossiachè,
mettendo pure da parte il riflesso che le difficoltà degli Stati grandi
diventino tribolazioni vere pei piccoli, i tempi (per dire tutto in
una parola sola) impongono l'obbligo di tali spese a cui gli Stati
piccoli non possono sopperire. Avviene per questi come nelle private
proprietà, dove i troppo grandi possessi non recano danno minore dei
troppo piccoli alla pubblica economia, chè in quelli nuoce la inerzia
a usufruttare, in questi la impotenza. Ed a me talora, pensando
lungamente su le condizioni economiche della Toscana, veniva fatto
concludere: «Noi abbiamo gl'incomodi di un guscio di noce armato come
un vascello a tre ponti.» Siffatto mio intendimento poi non avrebbe
dovuto suonare nuovo all'Accusa, poichè mi scoppiò fuori quasi per
forza nella Tornata del Consiglio Generale toscano del 22 gennaio, e
venne con la _consueta carità_ raccolto, ravviato, e messo in vetrina
dallo amico nostro il _Conciliatore_.[653] — E forse nè anche a questo
tacerà l'Accusa, e dirà che simili disegni deggionsi dai Ministri
cacciare via come tentazioni del Demonio; ed io, poichè, tra le tante
e strane vicende della mia vita, mi trovo ridotto anche a questa, di
favellare di politica con l'Accusa, mi permetterò osservarle, che, _se
i casi volevano_, avremmo potuto compensare la Chiesa in Lombardia, a
modo di esempio, col ducato di Parma, che già fu suo, e com'ella sa,
o piuttosto non sa, da Paolo III, nel 12 agosto 1545, dato in feudo
ecclesiastico, reversibile dopo la estinzione della linea mascolina, a
Pier Luigi Farnese; la quale investitura però non tolse, che nel 1718,
in virtù del Trattato della quadruplice alleanza, Art. V, Cap. I, fosse
dichiarato feudo imperiale, senza il consenso del Duca Francesco, come
senza attendere alle proteste d'Innocenzo XIII;[654] e neppur tolse più
tardi che nel 1731 le milizie austriache l'occupassero, per consegnarlo
a Don Carlo infante di Spagna. Tutto questo poi ho voluto raccontare,
perchè l'Accusa conosca che simili composizioni di Stati, e sieno
ancora della Chiesa, si costumino fare senza pericolo di tradimento,
per via di Congressi e col mezzo di Trattati politici. E mi sembra non
presumere troppo di me, se affermo che il mio concetto d'ingrandire,
_se lo volevano i casi_, la Chiesa in Lombardia e la Toscana nella
Umbria, superò in bontà quello di ampliare Toscana in Lombardia, o si
attenda alla Storia e alla antica parentela dei Popoli, o alle comodità
geografiche, o finalmente alle altre tutte cagioni per le quali
avviene che lo accomunarsi piace che succeda, e successo si mantenga.
Che se poi ad ogni modo pretenderà l'Accusa, che i miei desiderii e
presagii costituiscano peccato, senta una cosa l'Accusa: — prometto
confessarmene; — e mi lasci stare.
L'Accusa dirà, immagino: — della commissione del 1º aprile 1849 _ego
te absolvo_, e se a malincuore Dio solo lo sa; ma con altri ganci
ti tengo; ora rispondi: come ti scuserai del Dispaccio del 18 marzo
1849 mandato al Generale D'Apice?[655] — Parmi la risposta breve: nè
lo mandai, nè lo firmai. — Ma egli è composto collettivamente, però
che accenni a _conferenze_ avute col Governo Provvisorio. — Che monta
questo? Il Montanelli come Presidente del Governo Provvisorio si
reputò rappresentare l'ente complesso, e credo dirittamente pensasse;
e tanto è vero che fu così, che sebbene vi adoperi il numero plurale
non pertanto si sottoscrive: G. Montanelli. — Ma dunque come va ch'è
scritto di tuo carattere, tranne la firma? — Il signor Montanelli
praticava un costume assai somiglievole, per quanto leggiamo scritto,
a quello della Sibilla Cumana; notava le cose sue su fogli sparti,
e gli lasciava ora qua, ora là; io uso diversamente, e pongo cura
diligentissima a tenere in sesto non solo lo scrittoio mio, ma anche
l'altrui; e talvolta alle tre ore antimeridiane mi sono trattenuto
allo Ufficio per accomodare le carte arruffate dei Segretarii. Ora il
signor Montanelli avendo conferito col Generale D'Apice, spontaneo
o richiesto gli mandò la commissione in discorso, e lasciò sul mio
tavolino la minuta del Dispaccio neppure sottoscritto; tornato la
sera, vidi il foglio, lo lessi, e parendomi, come veramente era, di
nessuna rilevanza, lo stracciai pel mezzo e lo gittai nella paniera.
Ragionando nel dì successivo delle varie cose del giorno innanzi, il
signore Montanelli mi venne interrogando se avessi veduto le Istruzioni
partecipate al D'Apice; e negando io, egli soggiunse avermene lasciato
sul tavolino la minuta; allora immaginando che accennasse alla carta
gittata nella paniera, la ricercai, ne misi insieme i quattro pezzi,
e domandai se a sorte intendesse di quella. Avendomi risposto per lo
appunto essere, io per gentilezza non consentendo ch'ei la ricopiasse
emendai il fallo involontario riscrivendola; e scritta che fu, lo
avvertii: «E parti commissione questa sufficiente per noi? E pensi
che possa contentarsene il Generale? Siffatta vaghezza mette a strano
partito noi e lui; bisogna essere precisi nello indicare le cose che
vogliamo sieno fatte; altrimenti tu me lo crei di punto in bianco
Dittatore, e ti togli l'adito a mai trovarlo in peccato. Ancora, e
scusami amico mio, — e questa commissione di promuovere gl'interessi
repubblicani della Italia Centrale che cosa significa mai? Questa è
buona per un negoziatore, non per un Generale; questa poteva darsi
dal Direttorio a Buonaparte mandato alla conquista d'Italia; ma a
D'Apice, che ha da starsene in Toscana, io non vedo a che giovi; la sua
commissione è militare, non politica, e meglio importava indicargli
i luoghi della frontiera, ove urge, e noi vogliamo che si afforzi.
Inoltre, gl'interessi repubblicani della Italia Centrale che cosa sono
eglino? Toscana non è confusa ancora con gli Stati Romani, e penso, che
male ciò possa effettuarsi; forse mai, — ed a questa ora tu ne dovresti
essere quanto me persuaso: di più, Toscana non assunse ancora forma
repubblicana, e dubito forte se mai l'assumerà;[656] pertanto sai tu
che cosa mi pare tu abbi ordinato al D'Apice? Che abbandonate le nostre
frontiere, ei se ne vada diritto a prendere soldo dalla Repubblica
Romana.» Sorrise Montanelli, e, come costumava, tutto soave mi rispose:
«Ormai l'ho spedito;» e preso il foglio lo sottoscrisse.
In vero, come avrei potuto dare al Generale cotesta commissione, e
come contestargli essere conforme alle conferenze verbali, se i miei
colloquii e le mie commissioni suonavano diversi? — Il Generale D'Apice
udito in testimonianza depone: «Avendo avuto luogo di recarmi due o tre
volte a Firenze, ho udito in coteste circostanze parole da lui che mi
fecero credere non fosse lontano a ristabilire in Toscana il Granduca
Leopoldo II, e dette maggiormente forza a tali mie supposizioni il
discorso fattomi dal medesimo signor Guerrazzi l'ultima volta che
parlammo insieme, il quale consistè nello avvertirmi che in ogni caso
importava difendere la frontiera, perchè, se tornava il Granduca,
avrebbe avuto piacere di trovare non menomato lo Stato neppure delle
provincie che da cotesta parte gli si erano aggiunte; per la quale
cosa tolto commiato da Firenze e giunto a Lucca riunii davanti a me
i due Tenenti Colonnelli Facdouelle e Fortini, e Colonnello Baldini,
e ripetei loro in sostanza il discorso del signor Guerrazzi,[657]
nè mai alcuno di noi si è occupato di vedere se convenisse più l'una
che l'altra forma di governo, _quantunque fra le istruzioni suddette
vi fosse pure questo incarico_.»[658] Più oltre: «Nel richiedere
al Ministro della Guerra più ampie istruzioni, ebbi in veduta
specialmente la comparsa del Granduca Leopoldo o di altro in suo
nome, _avendo presente il discorso fattomi dal signor Guerrazzi_ sul
possibile ritorno del medesimo Granduca, per cui bisognava difendere
la frontiera; come pure non avevo dimenticato le qualche parole
confidatemi dal Guerrazzi, per cui mi era parso ch'ei non fosse alieno
da trattare il ristabilimento del Granduca.» Non importa notare nemmeno
che il Generale non accenna a un tempo soltanto, ma a tre diversi;
e comecchè mi manchi modo di riscontrarlo, io do per sicuro che la
prima volta e la seconda egli si portasse a Firenze prima del 27 marzo
1849; e ciò avverto onde l'Accusa si vergogni avere, in onta al vero,
sostenuto che simili disposizioni in me nascessero, tardo pentimento,
dopo la battaglia di Novara. Ora, se io avessi scritto al Generale
come suona il Dispaccio del 18 marzo 1849, e gli avessi favellato
come egli depone, avrebbe avuto motivo a dubitare della sanità del
mio cervello. Anzi, dove bene s'intenda, parmi evidente la prova che
cotesta commissione fosse del tutto fattura non mia, imperciocchè io mi
ero lasciato andare fino a fargli sentire la possibilità del ritorno
del Granduca, e quella lo incarica di sostenere la Repubblica; donde
la necessità della doppia origine di siffatte manifestazioni. Per
la quale cosa ammonisco i miei Giudici, che colui il quale tiene con
varie persone discorso diverso può reputarsi talvolta, ed essere, uomo
mascagno; credere poi che un Magistrato parli a un Generale bianco e
gli scriva nero, per lo meno è da matto.
A questo tempo si referisce la seguente lettera, che io scriveva
al signor Consigliere Carlo Bosi, dalla quale si fa manifesto
come io sentissi di coloro, che più si mostravano smaniosi per la
Repubblica.[659]
«Al Governo di Livorno.
«Qui non può farsi nulla. La Patria versa in grandissimo pericolo.
Io ne ho assunto la malleveria davanti agli uomini e a Dio: voglio
riuscirvi, o morire: ormai della vita poco m'importa, anzi mi pesa.
Ordino pertanto sia posto termine alle perturbazioni manifeste e
segrete contro il Governo, e contro la quiete pubblica. Chi sono
gl'infami che altro non sanno che dividere la Patria e spaventare
la città, senza mai — mai prendere uno schioppo e arruolarsi nella
milizia finchè dura il pericolo? Wimpfen ha minacciato in Casale
con 10 mila Austriaci mettere capo a partito alla Italia Centrale;
ma non sono 10 o 20 mila Austriaci quelli che temo, sibbene questi
commettitori di scandali. Voi mi farete esatto rapporto di quanto
avviene, indicandomene gli autori; e quando vi ordinerò arrestarli,
voi non dovete porre tempo tramezzo, fosse mio fratello: altrimenti
renunziate. Oh! è facile sostenere la Repubblica con la gola fioca di
acquavite e di fumo; con la opera poi la cosa è diversa. Il Popolo
non si disonori con atti brutali: s'invigili cautamente il contegno
di tutti; se commettono fallo, si raccolgano prove e mi si rimettano.
Per suscitare la forza bisogna sia forte la Legge. La Inghilterra,
che non ci avversa, dichiara che dove continuino in Livorno gl'insulti
alle persone, ai Consoli, alle Insegne ec., provvederà al Paese come
già fece a Lisbona. Per Dio! mi viene il sangue al viso. Badate i
retrogradi; vi sono, e vanno puniti: ma
«1º Non si ha a scambiare retrogradi co' paurosi.
«2º Quando si mette la mano addosso a qualcheduno, conviene avere
ragione: se no, se poco amico, diventa avverso; se nemico, cresce
nell'odio.
«Dei perturbatori non so che farmi. Gli uomini liberi sono gravi,
animosi e operosi. Tali furono gli Americani, e così vinsero.
«Partecipi questi miei sensi al Popolo Livornese, e gli dica che me ne
appello al giudizio loro, all'onore, alla carità patria, e alla fama
che pel mondo si sono guadagnata grandissima. Viva la Libertà! Viva
Livorno! E chiunque è valido alla frontiera.
«GUERRAZZI.»
«P. S. Al Proclama aggiunga eccitamento a marciare; — vengano ad
arruolarsi; — gli mandi a Firenze con armi; — mandi armi — armi — armi.
— I gradi a chi sarà meglio reputato capace. — Come affidare il sangue
nostro a cui non sa nulla?»
E meglio la mia opinione intorno agl'improvvisi fattori della
Repubblica può dedursi da quest'altra lettera che indirizzava ad un mio
fidatissimo e congiunto, comecchè di lontana parentela.[660]
«Caro Giorgio,
«Viene costà Adami: a lui parla del negozio di cui mi scrivi. — Pei
male intenzionati — lascia fare. Il tempo non è per loro. Quello che
mi duole, senza punto sbigottirmi, si è che persone amiche — o che
si dicono — o che si dissero amiche, invece instruirsi, emendarsi e
attendere con discretezza, vogliono Repubblica, perchè:
«Non hanno da noi
«Danaro pel giuoco,
«Danaro per le donne,
«Danaro per l'osteria.
«Ma la Repubblica esige più severa virtù del Principato. Addio.
«GUERRAZZI.»
Nel giorno otto aprile furono spediti 27 Deputati in Provincia;
quantunque non si ponesse studio a scerre i nomi, e questo per probità,
nondimeno sostengo, che 18 almeno di quelli appartenevano al Partito
Costituzionale; e con protesta di non pregiudicare agli altri, che
trovo notati alla pag. 226 dei Documenti dell'Accusa, parmi che sieno:
Guerri Francesco, Giorni Donato, Nespoli Emilio, Panattoni Lorenzo,
Sestini Giuseppe, Socci Gaetano, Biondi Marco, Frangi Riccardo, Del
Sarto Eduardo, Vivarelli Tommaso, Giusteschi Napoleone, Paoli Tommaso,
Micciarelli Elpidio, Brizzolari Enrico, Barsotti Giuseppe, Becagli
Luigi, Turchetti Eduardo, Palmi Gregorio. Le Commissioni scritte
ch'ebbero dal Governo furono:
«Cittadino Deputato,
«I Rappresentanti del Popolo i quali, a forma delle già pubblicate
istruzioni, si recheranno nelle Provincie ad eccitare i Giovani alla
difesa della Patria in pericolo, ed a raccogliere le armi di coloro
che non sono in grado di adoperarle, sono investiti dei supremi poteri
per conseguire tutto ciò che può condurre ad ottenere questo intento.
A tale effetto sono autorizzati a servirsi dell'opera dei Pretori e
dei Gonfalonieri del Distretto nel quale si recheranno, con facoltà
anche di sospenderli dalle loro funzioni, e proporne la destituzione al
Potere Esecutivo, qualora non corrispondessero alle premure che sono in
obbligo di darsi per coadiuvarli.
«Però voi, Cittadino Deputato, recandovi nella vostra Provincia, siete
autorizzato in forza della presente Ministeriale, a procedere alle
sopraesposte misure, qualora non troviate nei pubblici funzionarii
quell'attitudine e buon volere che dai tempi si esigono, informando
immediatamente il Governo dei motivi che vi avessero indotto a prender
queste misure, e con piena responsabilità del vostro operato.
«Informate il Governo intorno a quei Ministri del Santuario, che,
postergando al sacro dovere di una Religione di carità e di amore
gl'interessi di Casta, tradiscono insieme al mandato di Cristo le
speranze della nostra Patria, affogando le Libertà, prezzo di tanto
sangue e di tanti sacrifizii.
«Date opera a crear Comitati che si occupino di raccoglier denari,
ed oggetti per coloro che si mobilizzano; a procurar soscrizioni
di Cittadini che si obblighino a soccorrere le Famiglie di coloro
che, mobilizzandosi, le lascerebbero nella indigenza. E di ciò è
urgentissimo occuparsi, perchè, con questa sicurezza, avremo fra
i combattenti anche coloro, che, trattenuti dalla indigenza della
famiglia, non si muoverebbero.
«Vigilate perchè questi Comitati non si istituiscano inutilmente, ma
operino con ardore, al quale effetto usate molta avvedutezza nella
scelta delle persone che dovranno comporli.
«Non trascurate la parte più sensibile della umana famiglia, le Donne.
Profittate della sensibilità del loro cuore, il quale, infiammato,
è capace degli slanci più sublimi. Levatele all'altezza delle
circostanze, affinchè esse pure ci aiutino, procacciando oggetti di
vestiario, fasce e fila pei feriti, ed ispirando coraggio nei Giovani,
i quali non sapranno allora ricusarsi dall'affrontare i pericoli.
«Operate adunque, operate, ed il Paese, ne siam certi, saprà pienamente
corrispondere.
«Li 8 aprile 1849.
«Devotissimo — MARMOCCHI.»
Nel 9 aprile erano trasmessi ordini pel ritiro dei moschetti ai
Circoli,[661] la quale operazione consumata, toglieva, in certo
modo, l'ultimo dente alla Fazione. Tutti i provvedimenti onde la
deliberazione del giorno 15 riuscisse libera, pacata e solenne, essendo
stati presi, mi addormentai sicuro fra l'ultimo puntello e il naviglio
su lo scalo. Anche la mano di un nano bastava ad abbatterlo, e il nano,
maligno com'è natura dei nani, venne, e lo abbattè, procurando per
gratitudine, che il legno precipitando mi passasse proprio sul corpo.
Questo è il dramma; rappresentato a Firenze, spettatrice Toscana. I
Toscani adoperino i diritti della Platea verso, o contro coloro, che
bene o male sostennero la propria parte.
Insieme alla commissione scritta caldissime preghiere ricevevano a
voce, che convinti per nuovi e proprii sperimenti del desiderio della
universa Toscana, di ritornarsi al suo Statuto, nel giorno designato
(15 aprile) convenissero in Firenze a sostenere la proposta che avrebbe
fatta il Capo del Potere Esecutivo; e fu nel 9 aprile 1849, che il
signor Filippo conte de' Bardi, recatosi dal signor P. A. Adami, gli
favellò in questa sentenza: «Parlare in nome suo e dei Deputati della
maggiorità rimasti in Firenze; pregarlo a farmi, di quanto sarebbe
per dirgli, speciale partecipazione: per impedire, avere io fatto
abbastanza; ed egli, comecchè della persona pessimamente disposto,
essersi condotto all'Assemblea a fine di sostenere il Governo nel
suo contrasto alla Unificazione con Roma: ora correre urgentissimo
il bisogno di tôrre il Paese dalla incertezza; non dubitassi; nella
Tornata del 15 aprile, proponessi francamente il partito di restaurare
il Principato Costituzionale, che mi avrebbero circondato tutti per
sovvenirmi co' voti, e al bisogno con la persona; questo poi esporre
a lui onde me lo referisse, perchè non gli era occorso mai di trovarmi
libero così, da potere tenermi prudentemente siffatto linguaggio.» P.
A. Adami conferì meco intorno alla proposta del conte de' Bardi, ed
io l'accolsi con animo volonteroso, dicendo al medesimo che bisognava
trovarci pertanto nel 15 aprile tutti al nostro posto, per la quale
cosa io non avrei potuto concedergli per la prossima domenica il
consueto permesso di recarsi a visitare la famiglia a Livorno; e questo
fu il motivo che indusse Adami a partirsi a mezzo della settimana
per casa sua, e gli giovò, salvandolo dal trovarsi nei giorni 11 e 12
aprile a Firenze.
Ciò posto, senza ira come senza rancore, e favellando di me come di un
morto, uomini del Municipio di Firenze e della Commissione Governativa,
udite:
Cosimo Ridolfi, dando facile orecchio a parole di astio, o di superbia,
o di avventatezza sconsigliata, procedè meco nel giorno ottavo di
gennaio 1848 in Livorno ingiusto e leggiero; io nel risentimento,
eccessivo. S'egli avesse profferito una parola, una parola sola (che
fra gli onesti è dovere, perocchè, dopo il primo onore di non far
torto a nessuno, venga subito l'altro di confessarlo fatto), io che
mi sento di assai placabile natura di leggieri avrei dato all'oblio
il brutto caso, nel quale anche oggi va ficcando le mani l'Accusa,
scompigliandone le ceneri per tentare se vi fosse rimasto nascosto
qualche mal tizzo sotto: ma questa parola non disse il Marchese; e
volle tramare di orgoglio la tela ordita dalla ingiustizia, ed io
crebbi nella intemperante querimonia; però le mie parole non furono
pese a lui, come le sue catene a me. Ad ogni modo avemmo torto da
una parte e dall'altra. Alla più trista, poniamo la partita saldata,
e non poteva essere questa pel Municipio di Firenze e la Commissione
Governativa causa per nuocermi.
Quando il Principe chiamò nei suoi Consigli il marchese Gino Capponi,
io ne fui lieto, stringendomi a esso amicizia ventenne; e subito
gli mostrai come io intendessi sostenere il suo Ministero, dacchè,
sapendo in quei giorni stremo di pecunia lo erario, gli proposi, per
conforto dei miei amici di Livorno, di sovvenirlo di 6 od 8 milioni di
lire, e di ciò fa fede la lettera che leggiamo stampata a pag. 3 dei
Documenti.[662] Non piacque il partito; ma pure esso dimostra le voglie
pronte di procedere parziale al Ministero Capponi: dunque per questo,
Municipio fiorentino e Commissione Governativa, non potevate muovervi
a farmi danno.
Io scongiurai l'amico prima, poi il Ministro Capponi, a trattenersi dal
mandare armati a Livorno, condottiero Leone Cipriani, per reprimere
tumulti, a comporre i quali parve ad altri ed a me dovessero bastare
i provvedimenti ordinarii; ma ei non mi volle ascoltare: quello che
avvenne non importa dire; così si potesse dimenticare! Livorno era
lasciata in balía di gente perversa: andai, la mantenni alla devozione
del Principe, la preservai dall'anarchia; non mi fu grato, non dirò
Gino Capponi, ma il Ministero Capponi; all'opposto mi si mostrò nemico,
mi abbeverò di amarezze, mi saziò di umiliazioni: tacqui, soffersi, e
quante volte parlai, o scrissi di Gino Capponi, lo feci con rispetto, e
l'ho dimostrato: dunque per questa causa non sembra che voi, Municipio
e Commissione, aveste motivo di offendermi.
Il Ministero Capponi mi allontana da Livorno, come si legge che
gl'Israeliti cacciassero i lebbrosi fuori del campo; ed io, senza
lagnarmi, lascio libero il seggio al signor Montanelli, e mi riduco,
senza pure aspettarlo, a Firenze, mostrando a prova la inanità dei
brutti favellii, che me, calunniando, susurravano agitatore del Popolo
livornese per libidine d'impero; ed anche qui, se non erro, non vedo
che il Municipio fiorentino e la Commissione Governativa avessero
materia per danneggiarmi.
Il signor Montanelli bandisce a Livorno la Costituente Italiana di
concerto col Ministero Capponi;[663] il Ministero depone lo ufficio;
_però, consultato, delibera quale successore abbia ad accettare, ed
uno, proposto, fervorosamente n'esclude, che non era il nostro_. Il
Municipio livornese, condottiero Fabbri, bene si reca a Firenze per
rappresentare al Principe il voto del Popolo di cotesta città, che me
desidera assunto al Ministero, ma protesta solennemente farlo, come
semplice espressione di desiderio, senza punto intendere menomargli la
prerogativa regia di scegliersi liberissimo i suoi Consiglieri. Intanto
una Deputazione di spettabilissimi cittadini di Firenze recavasi dal
Granduca, e, venuta al suo cospetto, per mezzo del sig. Professore
Ferdinando Zannetti gli favellava in questa sentenza:
«Altezza!
«Mossi noi qui presenti dal desiderio di vedere riconciliato Livorno
col Governo, e di evitare civili discordie, noi sottoponghiamo al senno
di V. A. la proposta di commettere al signor Professore Montanelli
lo incarico di formare il nuovo Ministero. Questo poi facciamo,
accertati che il Ministero attuale siasi dimesso, e con parola di
onore assicurati dal signor Montanelli, che conserverà il Principato
Costituzionale, ed eviterà, _se gli sarà possibile_, di tôrsi a collega
il signor Guerrazzi.»[664] E la Corona rispondeva, ammonendo essere
per lo Statuto fondamentale riposta in sua piena volontà la scelta del
Ministero, alla quale avvertenza il signor Zannetti con modesto parlare
soggiunse: «Altezza! Non cadde mai nel mio animo, nè in quello de'
miei compagni, di venire a imporle un Ministero; ma il solo desiderio
accennato testè, fu quello che ci mosse a umiliarle la nostra proposta,
come mero e semplicissimo voto: onesti, come ci studiamo essere, noi
ci saremmo guardati bene dal presentarci all'A. V. dove non avessimo
riportata dal signor Montanelli la parola della intera conservazione
del Principato Costituzionale.»[665] L'A. S. poi me non accettò se
prima non ebbe consultato in proposito Lord Giorgio Hamilton e il
marchese Gino Capponi, e questo so per confidenza onorevolissima
che mi venne fatta dal Principe stesso, sicchè qui non vedo peccato
che dovesse concitarmi l'odio del Municipio e della Commissione
Governativa.
E prima condizione del mio accettare la proposta del Montanelli fu, che
si conducesse dal marchese Gino, e in suo e in mio nome lo pregasse a
volere presiedere il Ministero nostro; egli ci rispose, come altrove
ho narrato; ma certo per me non gli si poteva dare pegno maggiore di
devozione e di stima: onde anche da questo mio contegno non vedo che il
Municipio e la Commissione Governativa potessero ricavare argomento di
rancore contro di me.
Portai la Costituente come Simone il Cireneo; le tolsi il vano e il
maligno, la ridussi nella condizione di potersi dividere, e in parte
accogliere, in parte aggiornare, e, venuto il tempo, anche per la
parte aggiornata adoperare a tutela dello Stato; discussa fu; voi
l'accettaste a pieni voti nel Consiglio Generale, a pieni voti in
Senato la confermaste: onde io credo che per questo, Municipio e
Commissione Governativa, non potevate appuntarmi, molto meno farmi
sopportare non degne pene.
Alla sicurezza pubblica e privata, Ministro dello Interno, provvidi
quanto e meglio di voi, e in termini dei vostri più deplorabili assai;
imperciocchè, se anche voi confessaste trovare insufficienza negli
ordini infermi, quale non la dovevo sperimentare io, quando, colpa o
fortuna, voi mi consegnaste questi ordini del tutto disfatti? Quindi io
penso che da ciò, o Municipio di Firenze e Commissione Governativa, non
abbiate potuto desumere cagione di mal talento contro di me.
Come avreste potuto, o uomini che componeste allora il Municipio
Fiorentino, redarguirmi di essere rimasto al Ministero, se pel
Gonfaloniere vostro premurosissime istanze mi faceste onde io non
deponessi lo ufficio, e con magistrale deliberazione lo inviaste,
insieme ad altri spettabili personaggi, a Siena per interporsi
era senza arguto consiglio, però che, i partigiani della Repubblica
ponendo nel Generale grandissima fede, io disegnava adoperarlo a
persuaderli efficacemente, in virtù della convinzione che doveva
nascere in lui dal coscienzioso esame dei fatti, a deporre la ubbia
di volere instituita la Repubblica in Toscana:[650] nemmeno apprezza
l'Accusa l'Articolo 6, il quale pure spiega a chiare note, che il
Generale faccia sentire la possibilità del ritorno del Granduca, e
quanto sarebbe per desiderare egli ancora, che il suo Stato intero si
conservasse. Questo è il concetto che parimente dettai nel Manifesto
alla Gioventù Fiorentina, ma qui più esplicito e là più coperto,
siccome consigliava prudenza, chè adesso favellavo con un uomo solo,
e discreto per indole, per instituto obbediente. Si sollevano le
cateratte all'Accusa soltanto allo Articolo 9, dove raccomando di
accordarsi con gli Stati Romani _per fare causa contro il comune
nemico, perchè gli ha da considerare come destinati a formare una
sola famiglia con noi_, SE I CASI NON VOGLIONO ALTRIMENTI. Che cosa
trova qui da riprendere l'Accusa? Forse trattasi qui di _Unificazione
con Roma repubblicana_? Quanto queste Istruzioni negli altri Articoli
esprimono, non esclude simile concetto? E meglio non lo escludono
fino dalla radice il cumulo dei fatti concomitanti? — O dunque che
cosa significa egli cotesto Articolo? — interrogherà l'Accusa. —
Ed io rispondo avere in altra parte manifestato i miei pensieri
in proposito. Il Ministero Capponi,[651] dettando la commissione
al Legato Ridolfi per le Conferenze brussellesi, si palesò vago di
vedere Toscana arrampicarsi su pei greppi degli Appennini, e mettere
un piede in Lombardia; a me cotesti possessi lombardi non andavano a
sangue, e mi pareva che meglio potesse allargarsi verso la Umbria,
memore dell'antica Etruria, di cui furono confini la Magra e il
Tevere; il quale concetto mi parve allora, e ritengo anche adesso,
più classicamente politico, per ragioni che non importa discorrere.
A me piaceva parte degli Stati Romani, non già nella guisa che disse
David quando gli morì il figliuolo avuto da Betsabea: «Poichè non verrà
più a me, io me ne vado a lui;»[652] ma sì nel modo contrario, voglio
dire che, invece di andare a loro, essi venissero a me; onde se, senza
pericolo di commettere tradimento, si può desiderare ampliato lo Stato
da parte di Ponente, non si sa come appo l'Accusa si corra pericolo
di fellonia, piegando questo desiderio a Levante. Io poi giudico, e
quanti hanno pratica delle faccende politiche giudicheranno meco, che
corra necessità assoluta di ampliare i piccoli Stati, conciossiachè,
mettendo pure da parte il riflesso che le difficoltà degli Stati grandi
diventino tribolazioni vere pei piccoli, i tempi (per dire tutto in
una parola sola) impongono l'obbligo di tali spese a cui gli Stati
piccoli non possono sopperire. Avviene per questi come nelle private
proprietà, dove i troppo grandi possessi non recano danno minore dei
troppo piccoli alla pubblica economia, chè in quelli nuoce la inerzia
a usufruttare, in questi la impotenza. Ed a me talora, pensando
lungamente su le condizioni economiche della Toscana, veniva fatto
concludere: «Noi abbiamo gl'incomodi di un guscio di noce armato come
un vascello a tre ponti.» Siffatto mio intendimento poi non avrebbe
dovuto suonare nuovo all'Accusa, poichè mi scoppiò fuori quasi per
forza nella Tornata del Consiglio Generale toscano del 22 gennaio, e
venne con la _consueta carità_ raccolto, ravviato, e messo in vetrina
dallo amico nostro il _Conciliatore_.[653] — E forse nè anche a questo
tacerà l'Accusa, e dirà che simili disegni deggionsi dai Ministri
cacciare via come tentazioni del Demonio; ed io, poichè, tra le tante
e strane vicende della mia vita, mi trovo ridotto anche a questa, di
favellare di politica con l'Accusa, mi permetterò osservarle, che, _se
i casi volevano_, avremmo potuto compensare la Chiesa in Lombardia, a
modo di esempio, col ducato di Parma, che già fu suo, e com'ella sa,
o piuttosto non sa, da Paolo III, nel 12 agosto 1545, dato in feudo
ecclesiastico, reversibile dopo la estinzione della linea mascolina, a
Pier Luigi Farnese; la quale investitura però non tolse, che nel 1718,
in virtù del Trattato della quadruplice alleanza, Art. V, Cap. I, fosse
dichiarato feudo imperiale, senza il consenso del Duca Francesco, come
senza attendere alle proteste d'Innocenzo XIII;[654] e neppur tolse più
tardi che nel 1731 le milizie austriache l'occupassero, per consegnarlo
a Don Carlo infante di Spagna. Tutto questo poi ho voluto raccontare,
perchè l'Accusa conosca che simili composizioni di Stati, e sieno
ancora della Chiesa, si costumino fare senza pericolo di tradimento,
per via di Congressi e col mezzo di Trattati politici. E mi sembra non
presumere troppo di me, se affermo che il mio concetto d'ingrandire,
_se lo volevano i casi_, la Chiesa in Lombardia e la Toscana nella
Umbria, superò in bontà quello di ampliare Toscana in Lombardia, o si
attenda alla Storia e alla antica parentela dei Popoli, o alle comodità
geografiche, o finalmente alle altre tutte cagioni per le quali
avviene che lo accomunarsi piace che succeda, e successo si mantenga.
Che se poi ad ogni modo pretenderà l'Accusa, che i miei desiderii e
presagii costituiscano peccato, senta una cosa l'Accusa: — prometto
confessarmene; — e mi lasci stare.
L'Accusa dirà, immagino: — della commissione del 1º aprile 1849 _ego
te absolvo_, e se a malincuore Dio solo lo sa; ma con altri ganci
ti tengo; ora rispondi: come ti scuserai del Dispaccio del 18 marzo
1849 mandato al Generale D'Apice?[655] — Parmi la risposta breve: nè
lo mandai, nè lo firmai. — Ma egli è composto collettivamente, però
che accenni a _conferenze_ avute col Governo Provvisorio. — Che monta
questo? Il Montanelli come Presidente del Governo Provvisorio si
reputò rappresentare l'ente complesso, e credo dirittamente pensasse;
e tanto è vero che fu così, che sebbene vi adoperi il numero plurale
non pertanto si sottoscrive: G. Montanelli. — Ma dunque come va ch'è
scritto di tuo carattere, tranne la firma? — Il signor Montanelli
praticava un costume assai somiglievole, per quanto leggiamo scritto,
a quello della Sibilla Cumana; notava le cose sue su fogli sparti,
e gli lasciava ora qua, ora là; io uso diversamente, e pongo cura
diligentissima a tenere in sesto non solo lo scrittoio mio, ma anche
l'altrui; e talvolta alle tre ore antimeridiane mi sono trattenuto
allo Ufficio per accomodare le carte arruffate dei Segretarii. Ora il
signor Montanelli avendo conferito col Generale D'Apice, spontaneo
o richiesto gli mandò la commissione in discorso, e lasciò sul mio
tavolino la minuta del Dispaccio neppure sottoscritto; tornato la
sera, vidi il foglio, lo lessi, e parendomi, come veramente era, di
nessuna rilevanza, lo stracciai pel mezzo e lo gittai nella paniera.
Ragionando nel dì successivo delle varie cose del giorno innanzi, il
signore Montanelli mi venne interrogando se avessi veduto le Istruzioni
partecipate al D'Apice; e negando io, egli soggiunse avermene lasciato
sul tavolino la minuta; allora immaginando che accennasse alla carta
gittata nella paniera, la ricercai, ne misi insieme i quattro pezzi,
e domandai se a sorte intendesse di quella. Avendomi risposto per lo
appunto essere, io per gentilezza non consentendo ch'ei la ricopiasse
emendai il fallo involontario riscrivendola; e scritta che fu, lo
avvertii: «E parti commissione questa sufficiente per noi? E pensi
che possa contentarsene il Generale? Siffatta vaghezza mette a strano
partito noi e lui; bisogna essere precisi nello indicare le cose che
vogliamo sieno fatte; altrimenti tu me lo crei di punto in bianco
Dittatore, e ti togli l'adito a mai trovarlo in peccato. Ancora, e
scusami amico mio, — e questa commissione di promuovere gl'interessi
repubblicani della Italia Centrale che cosa significa mai? Questa è
buona per un negoziatore, non per un Generale; questa poteva darsi
dal Direttorio a Buonaparte mandato alla conquista d'Italia; ma a
D'Apice, che ha da starsene in Toscana, io non vedo a che giovi; la sua
commissione è militare, non politica, e meglio importava indicargli
i luoghi della frontiera, ove urge, e noi vogliamo che si afforzi.
Inoltre, gl'interessi repubblicani della Italia Centrale che cosa sono
eglino? Toscana non è confusa ancora con gli Stati Romani, e penso, che
male ciò possa effettuarsi; forse mai, — ed a questa ora tu ne dovresti
essere quanto me persuaso: di più, Toscana non assunse ancora forma
repubblicana, e dubito forte se mai l'assumerà;[656] pertanto sai tu
che cosa mi pare tu abbi ordinato al D'Apice? Che abbandonate le nostre
frontiere, ei se ne vada diritto a prendere soldo dalla Repubblica
Romana.» Sorrise Montanelli, e, come costumava, tutto soave mi rispose:
«Ormai l'ho spedito;» e preso il foglio lo sottoscrisse.
In vero, come avrei potuto dare al Generale cotesta commissione, e
come contestargli essere conforme alle conferenze verbali, se i miei
colloquii e le mie commissioni suonavano diversi? — Il Generale D'Apice
udito in testimonianza depone: «Avendo avuto luogo di recarmi due o tre
volte a Firenze, ho udito in coteste circostanze parole da lui che mi
fecero credere non fosse lontano a ristabilire in Toscana il Granduca
Leopoldo II, e dette maggiormente forza a tali mie supposizioni il
discorso fattomi dal medesimo signor Guerrazzi l'ultima volta che
parlammo insieme, il quale consistè nello avvertirmi che in ogni caso
importava difendere la frontiera, perchè, se tornava il Granduca,
avrebbe avuto piacere di trovare non menomato lo Stato neppure delle
provincie che da cotesta parte gli si erano aggiunte; per la quale
cosa tolto commiato da Firenze e giunto a Lucca riunii davanti a me
i due Tenenti Colonnelli Facdouelle e Fortini, e Colonnello Baldini,
e ripetei loro in sostanza il discorso del signor Guerrazzi,[657]
nè mai alcuno di noi si è occupato di vedere se convenisse più l'una
che l'altra forma di governo, _quantunque fra le istruzioni suddette
vi fosse pure questo incarico_.»[658] Più oltre: «Nel richiedere
al Ministro della Guerra più ampie istruzioni, ebbi in veduta
specialmente la comparsa del Granduca Leopoldo o di altro in suo
nome, _avendo presente il discorso fattomi dal signor Guerrazzi_ sul
possibile ritorno del medesimo Granduca, per cui bisognava difendere
la frontiera; come pure non avevo dimenticato le qualche parole
confidatemi dal Guerrazzi, per cui mi era parso ch'ei non fosse alieno
da trattare il ristabilimento del Granduca.» Non importa notare nemmeno
che il Generale non accenna a un tempo soltanto, ma a tre diversi;
e comecchè mi manchi modo di riscontrarlo, io do per sicuro che la
prima volta e la seconda egli si portasse a Firenze prima del 27 marzo
1849; e ciò avverto onde l'Accusa si vergogni avere, in onta al vero,
sostenuto che simili disposizioni in me nascessero, tardo pentimento,
dopo la battaglia di Novara. Ora, se io avessi scritto al Generale
come suona il Dispaccio del 18 marzo 1849, e gli avessi favellato
come egli depone, avrebbe avuto motivo a dubitare della sanità del
mio cervello. Anzi, dove bene s'intenda, parmi evidente la prova che
cotesta commissione fosse del tutto fattura non mia, imperciocchè io mi
ero lasciato andare fino a fargli sentire la possibilità del ritorno
del Granduca, e quella lo incarica di sostenere la Repubblica; donde
la necessità della doppia origine di siffatte manifestazioni. Per
la quale cosa ammonisco i miei Giudici, che colui il quale tiene con
varie persone discorso diverso può reputarsi talvolta, ed essere, uomo
mascagno; credere poi che un Magistrato parli a un Generale bianco e
gli scriva nero, per lo meno è da matto.
A questo tempo si referisce la seguente lettera, che io scriveva
al signor Consigliere Carlo Bosi, dalla quale si fa manifesto
come io sentissi di coloro, che più si mostravano smaniosi per la
Repubblica.[659]
«Al Governo di Livorno.
«Qui non può farsi nulla. La Patria versa in grandissimo pericolo.
Io ne ho assunto la malleveria davanti agli uomini e a Dio: voglio
riuscirvi, o morire: ormai della vita poco m'importa, anzi mi pesa.
Ordino pertanto sia posto termine alle perturbazioni manifeste e
segrete contro il Governo, e contro la quiete pubblica. Chi sono
gl'infami che altro non sanno che dividere la Patria e spaventare
la città, senza mai — mai prendere uno schioppo e arruolarsi nella
milizia finchè dura il pericolo? Wimpfen ha minacciato in Casale
con 10 mila Austriaci mettere capo a partito alla Italia Centrale;
ma non sono 10 o 20 mila Austriaci quelli che temo, sibbene questi
commettitori di scandali. Voi mi farete esatto rapporto di quanto
avviene, indicandomene gli autori; e quando vi ordinerò arrestarli,
voi non dovete porre tempo tramezzo, fosse mio fratello: altrimenti
renunziate. Oh! è facile sostenere la Repubblica con la gola fioca di
acquavite e di fumo; con la opera poi la cosa è diversa. Il Popolo
non si disonori con atti brutali: s'invigili cautamente il contegno
di tutti; se commettono fallo, si raccolgano prove e mi si rimettano.
Per suscitare la forza bisogna sia forte la Legge. La Inghilterra,
che non ci avversa, dichiara che dove continuino in Livorno gl'insulti
alle persone, ai Consoli, alle Insegne ec., provvederà al Paese come
già fece a Lisbona. Per Dio! mi viene il sangue al viso. Badate i
retrogradi; vi sono, e vanno puniti: ma
«1º Non si ha a scambiare retrogradi co' paurosi.
«2º Quando si mette la mano addosso a qualcheduno, conviene avere
ragione: se no, se poco amico, diventa avverso; se nemico, cresce
nell'odio.
«Dei perturbatori non so che farmi. Gli uomini liberi sono gravi,
animosi e operosi. Tali furono gli Americani, e così vinsero.
«Partecipi questi miei sensi al Popolo Livornese, e gli dica che me ne
appello al giudizio loro, all'onore, alla carità patria, e alla fama
che pel mondo si sono guadagnata grandissima. Viva la Libertà! Viva
Livorno! E chiunque è valido alla frontiera.
«GUERRAZZI.»
«P. S. Al Proclama aggiunga eccitamento a marciare; — vengano ad
arruolarsi; — gli mandi a Firenze con armi; — mandi armi — armi — armi.
— I gradi a chi sarà meglio reputato capace. — Come affidare il sangue
nostro a cui non sa nulla?»
E meglio la mia opinione intorno agl'improvvisi fattori della
Repubblica può dedursi da quest'altra lettera che indirizzava ad un mio
fidatissimo e congiunto, comecchè di lontana parentela.[660]
«Caro Giorgio,
«Viene costà Adami: a lui parla del negozio di cui mi scrivi. — Pei
male intenzionati — lascia fare. Il tempo non è per loro. Quello che
mi duole, senza punto sbigottirmi, si è che persone amiche — o che
si dicono — o che si dissero amiche, invece instruirsi, emendarsi e
attendere con discretezza, vogliono Repubblica, perchè:
«Non hanno da noi
«Danaro pel giuoco,
«Danaro per le donne,
«Danaro per l'osteria.
«Ma la Repubblica esige più severa virtù del Principato. Addio.
«GUERRAZZI.»
Nel giorno otto aprile furono spediti 27 Deputati in Provincia;
quantunque non si ponesse studio a scerre i nomi, e questo per probità,
nondimeno sostengo, che 18 almeno di quelli appartenevano al Partito
Costituzionale; e con protesta di non pregiudicare agli altri, che
trovo notati alla pag. 226 dei Documenti dell'Accusa, parmi che sieno:
Guerri Francesco, Giorni Donato, Nespoli Emilio, Panattoni Lorenzo,
Sestini Giuseppe, Socci Gaetano, Biondi Marco, Frangi Riccardo, Del
Sarto Eduardo, Vivarelli Tommaso, Giusteschi Napoleone, Paoli Tommaso,
Micciarelli Elpidio, Brizzolari Enrico, Barsotti Giuseppe, Becagli
Luigi, Turchetti Eduardo, Palmi Gregorio. Le Commissioni scritte
ch'ebbero dal Governo furono:
«Cittadino Deputato,
«I Rappresentanti del Popolo i quali, a forma delle già pubblicate
istruzioni, si recheranno nelle Provincie ad eccitare i Giovani alla
difesa della Patria in pericolo, ed a raccogliere le armi di coloro
che non sono in grado di adoperarle, sono investiti dei supremi poteri
per conseguire tutto ciò che può condurre ad ottenere questo intento.
A tale effetto sono autorizzati a servirsi dell'opera dei Pretori e
dei Gonfalonieri del Distretto nel quale si recheranno, con facoltà
anche di sospenderli dalle loro funzioni, e proporne la destituzione al
Potere Esecutivo, qualora non corrispondessero alle premure che sono in
obbligo di darsi per coadiuvarli.
«Però voi, Cittadino Deputato, recandovi nella vostra Provincia, siete
autorizzato in forza della presente Ministeriale, a procedere alle
sopraesposte misure, qualora non troviate nei pubblici funzionarii
quell'attitudine e buon volere che dai tempi si esigono, informando
immediatamente il Governo dei motivi che vi avessero indotto a prender
queste misure, e con piena responsabilità del vostro operato.
«Informate il Governo intorno a quei Ministri del Santuario, che,
postergando al sacro dovere di una Religione di carità e di amore
gl'interessi di Casta, tradiscono insieme al mandato di Cristo le
speranze della nostra Patria, affogando le Libertà, prezzo di tanto
sangue e di tanti sacrifizii.
«Date opera a crear Comitati che si occupino di raccoglier denari,
ed oggetti per coloro che si mobilizzano; a procurar soscrizioni
di Cittadini che si obblighino a soccorrere le Famiglie di coloro
che, mobilizzandosi, le lascerebbero nella indigenza. E di ciò è
urgentissimo occuparsi, perchè, con questa sicurezza, avremo fra
i combattenti anche coloro, che, trattenuti dalla indigenza della
famiglia, non si muoverebbero.
«Vigilate perchè questi Comitati non si istituiscano inutilmente, ma
operino con ardore, al quale effetto usate molta avvedutezza nella
scelta delle persone che dovranno comporli.
«Non trascurate la parte più sensibile della umana famiglia, le Donne.
Profittate della sensibilità del loro cuore, il quale, infiammato,
è capace degli slanci più sublimi. Levatele all'altezza delle
circostanze, affinchè esse pure ci aiutino, procacciando oggetti di
vestiario, fasce e fila pei feriti, ed ispirando coraggio nei Giovani,
i quali non sapranno allora ricusarsi dall'affrontare i pericoli.
«Operate adunque, operate, ed il Paese, ne siam certi, saprà pienamente
corrispondere.
«Li 8 aprile 1849.
«Devotissimo — MARMOCCHI.»
Nel 9 aprile erano trasmessi ordini pel ritiro dei moschetti ai
Circoli,[661] la quale operazione consumata, toglieva, in certo
modo, l'ultimo dente alla Fazione. Tutti i provvedimenti onde la
deliberazione del giorno 15 riuscisse libera, pacata e solenne, essendo
stati presi, mi addormentai sicuro fra l'ultimo puntello e il naviglio
su lo scalo. Anche la mano di un nano bastava ad abbatterlo, e il nano,
maligno com'è natura dei nani, venne, e lo abbattè, procurando per
gratitudine, che il legno precipitando mi passasse proprio sul corpo.
Questo è il dramma; rappresentato a Firenze, spettatrice Toscana. I
Toscani adoperino i diritti della Platea verso, o contro coloro, che
bene o male sostennero la propria parte.
Insieme alla commissione scritta caldissime preghiere ricevevano a
voce, che convinti per nuovi e proprii sperimenti del desiderio della
universa Toscana, di ritornarsi al suo Statuto, nel giorno designato
(15 aprile) convenissero in Firenze a sostenere la proposta che avrebbe
fatta il Capo del Potere Esecutivo; e fu nel 9 aprile 1849, che il
signor Filippo conte de' Bardi, recatosi dal signor P. A. Adami, gli
favellò in questa sentenza: «Parlare in nome suo e dei Deputati della
maggiorità rimasti in Firenze; pregarlo a farmi, di quanto sarebbe
per dirgli, speciale partecipazione: per impedire, avere io fatto
abbastanza; ed egli, comecchè della persona pessimamente disposto,
essersi condotto all'Assemblea a fine di sostenere il Governo nel
suo contrasto alla Unificazione con Roma: ora correre urgentissimo
il bisogno di tôrre il Paese dalla incertezza; non dubitassi; nella
Tornata del 15 aprile, proponessi francamente il partito di restaurare
il Principato Costituzionale, che mi avrebbero circondato tutti per
sovvenirmi co' voti, e al bisogno con la persona; questo poi esporre
a lui onde me lo referisse, perchè non gli era occorso mai di trovarmi
libero così, da potere tenermi prudentemente siffatto linguaggio.» P.
A. Adami conferì meco intorno alla proposta del conte de' Bardi, ed
io l'accolsi con animo volonteroso, dicendo al medesimo che bisognava
trovarci pertanto nel 15 aprile tutti al nostro posto, per la quale
cosa io non avrei potuto concedergli per la prossima domenica il
consueto permesso di recarsi a visitare la famiglia a Livorno; e questo
fu il motivo che indusse Adami a partirsi a mezzo della settimana
per casa sua, e gli giovò, salvandolo dal trovarsi nei giorni 11 e 12
aprile a Firenze.
Ciò posto, senza ira come senza rancore, e favellando di me come di un
morto, uomini del Municipio di Firenze e della Commissione Governativa,
udite:
Cosimo Ridolfi, dando facile orecchio a parole di astio, o di superbia,
o di avventatezza sconsigliata, procedè meco nel giorno ottavo di
gennaio 1848 in Livorno ingiusto e leggiero; io nel risentimento,
eccessivo. S'egli avesse profferito una parola, una parola sola (che
fra gli onesti è dovere, perocchè, dopo il primo onore di non far
torto a nessuno, venga subito l'altro di confessarlo fatto), io che
mi sento di assai placabile natura di leggieri avrei dato all'oblio
il brutto caso, nel quale anche oggi va ficcando le mani l'Accusa,
scompigliandone le ceneri per tentare se vi fosse rimasto nascosto
qualche mal tizzo sotto: ma questa parola non disse il Marchese; e
volle tramare di orgoglio la tela ordita dalla ingiustizia, ed io
crebbi nella intemperante querimonia; però le mie parole non furono
pese a lui, come le sue catene a me. Ad ogni modo avemmo torto da
una parte e dall'altra. Alla più trista, poniamo la partita saldata,
e non poteva essere questa pel Municipio di Firenze e la Commissione
Governativa causa per nuocermi.
Quando il Principe chiamò nei suoi Consigli il marchese Gino Capponi,
io ne fui lieto, stringendomi a esso amicizia ventenne; e subito
gli mostrai come io intendessi sostenere il suo Ministero, dacchè,
sapendo in quei giorni stremo di pecunia lo erario, gli proposi, per
conforto dei miei amici di Livorno, di sovvenirlo di 6 od 8 milioni di
lire, e di ciò fa fede la lettera che leggiamo stampata a pag. 3 dei
Documenti.[662] Non piacque il partito; ma pure esso dimostra le voglie
pronte di procedere parziale al Ministero Capponi: dunque per questo,
Municipio fiorentino e Commissione Governativa, non potevate muovervi
a farmi danno.
Io scongiurai l'amico prima, poi il Ministro Capponi, a trattenersi dal
mandare armati a Livorno, condottiero Leone Cipriani, per reprimere
tumulti, a comporre i quali parve ad altri ed a me dovessero bastare
i provvedimenti ordinarii; ma ei non mi volle ascoltare: quello che
avvenne non importa dire; così si potesse dimenticare! Livorno era
lasciata in balía di gente perversa: andai, la mantenni alla devozione
del Principe, la preservai dall'anarchia; non mi fu grato, non dirò
Gino Capponi, ma il Ministero Capponi; all'opposto mi si mostrò nemico,
mi abbeverò di amarezze, mi saziò di umiliazioni: tacqui, soffersi, e
quante volte parlai, o scrissi di Gino Capponi, lo feci con rispetto, e
l'ho dimostrato: dunque per questa causa non sembra che voi, Municipio
e Commissione, aveste motivo di offendermi.
Il Ministero Capponi mi allontana da Livorno, come si legge che
gl'Israeliti cacciassero i lebbrosi fuori del campo; ed io, senza
lagnarmi, lascio libero il seggio al signor Montanelli, e mi riduco,
senza pure aspettarlo, a Firenze, mostrando a prova la inanità dei
brutti favellii, che me, calunniando, susurravano agitatore del Popolo
livornese per libidine d'impero; ed anche qui, se non erro, non vedo
che il Municipio fiorentino e la Commissione Governativa avessero
materia per danneggiarmi.
Il signor Montanelli bandisce a Livorno la Costituente Italiana di
concerto col Ministero Capponi;[663] il Ministero depone lo ufficio;
_però, consultato, delibera quale successore abbia ad accettare, ed
uno, proposto, fervorosamente n'esclude, che non era il nostro_. Il
Municipio livornese, condottiero Fabbri, bene si reca a Firenze per
rappresentare al Principe il voto del Popolo di cotesta città, che me
desidera assunto al Ministero, ma protesta solennemente farlo, come
semplice espressione di desiderio, senza punto intendere menomargli la
prerogativa regia di scegliersi liberissimo i suoi Consiglieri. Intanto
una Deputazione di spettabilissimi cittadini di Firenze recavasi dal
Granduca, e, venuta al suo cospetto, per mezzo del sig. Professore
Ferdinando Zannetti gli favellava in questa sentenza:
«Altezza!
«Mossi noi qui presenti dal desiderio di vedere riconciliato Livorno
col Governo, e di evitare civili discordie, noi sottoponghiamo al senno
di V. A. la proposta di commettere al signor Professore Montanelli
lo incarico di formare il nuovo Ministero. Questo poi facciamo,
accertati che il Ministero attuale siasi dimesso, e con parola di
onore assicurati dal signor Montanelli, che conserverà il Principato
Costituzionale, ed eviterà, _se gli sarà possibile_, di tôrsi a collega
il signor Guerrazzi.»[664] E la Corona rispondeva, ammonendo essere
per lo Statuto fondamentale riposta in sua piena volontà la scelta del
Ministero, alla quale avvertenza il signor Zannetti con modesto parlare
soggiunse: «Altezza! Non cadde mai nel mio animo, nè in quello de'
miei compagni, di venire a imporle un Ministero; ma il solo desiderio
accennato testè, fu quello che ci mosse a umiliarle la nostra proposta,
come mero e semplicissimo voto: onesti, come ci studiamo essere, noi
ci saremmo guardati bene dal presentarci all'A. V. dove non avessimo
riportata dal signor Montanelli la parola della intera conservazione
del Principato Costituzionale.»[665] L'A. S. poi me non accettò se
prima non ebbe consultato in proposito Lord Giorgio Hamilton e il
marchese Gino Capponi, e questo so per confidenza onorevolissima
che mi venne fatta dal Principe stesso, sicchè qui non vedo peccato
che dovesse concitarmi l'odio del Municipio e della Commissione
Governativa.
E prima condizione del mio accettare la proposta del Montanelli fu, che
si conducesse dal marchese Gino, e in suo e in mio nome lo pregasse a
volere presiedere il Ministero nostro; egli ci rispose, come altrove
ho narrato; ma certo per me non gli si poteva dare pegno maggiore di
devozione e di stima: onde anche da questo mio contegno non vedo che il
Municipio e la Commissione Governativa potessero ricavare argomento di
rancore contro di me.
Portai la Costituente come Simone il Cireneo; le tolsi il vano e il
maligno, la ridussi nella condizione di potersi dividere, e in parte
accogliere, in parte aggiornare, e, venuto il tempo, anche per la
parte aggiornata adoperare a tutela dello Stato; discussa fu; voi
l'accettaste a pieni voti nel Consiglio Generale, a pieni voti in
Senato la confermaste: onde io credo che per questo, Municipio e
Commissione Governativa, non potevate appuntarmi, molto meno farmi
sopportare non degne pene.
Alla sicurezza pubblica e privata, Ministro dello Interno, provvidi
quanto e meglio di voi, e in termini dei vostri più deplorabili assai;
imperciocchè, se anche voi confessaste trovare insufficienza negli
ordini infermi, quale non la dovevo sperimentare io, quando, colpa o
fortuna, voi mi consegnaste questi ordini del tutto disfatti? Quindi io
penso che da ciò, o Municipio di Firenze e Commissione Governativa, non
abbiate potuto desumere cagione di mal talento contro di me.
Come avreste potuto, o uomini che componeste allora il Municipio
Fiorentino, redarguirmi di essere rimasto al Ministero, se pel
Gonfaloniere vostro premurosissime istanze mi faceste onde io non
deponessi lo ufficio, e con magistrale deliberazione lo inviaste,
insieme ad altri spettabili personaggi, a Siena per interporsi
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