Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 05
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_Governo attende soccorso dalla Magistratura, non glielo partecipa_.
Avvertasi per ultimo se _complice_ o _impotente_ repressore di violenze
fossi io! — Arrestati alcuni prevenuti di guasti alle campagne dei
signori Bartolomei, così ordinava col Dispaccio telegrafico del
16 novembre 1848: «Bene, benissimo: adesso procedura immediata:
si sospenda ogni altro negozio al Tribunale: pena la indignazione
sovrana se i Magistrati, nel più breve tempo possibile, non terminano
questo negozio: impieghino giorno e notte; si dia pubblicità alla
discussione: prenda parola il Procuratore Regio; energia, o _fra un
mese la Toscana diventa un mucchio di cenere_.» Grave fatto fu quello
dello Arcivescovado; ma simili successi, come inopinati e improvvisi,
male possonsi prevenire. Bene si possono, anzi si devono castigare.
È colpa mia, se gli Ufficiali non sapevano, o aborrivano dal proprio
dovere? Le inquisizioni furono ordinate; perchè non proseguite? Il
Governo ha da fare tutto? Può provvedere a tutto? Di tutte le paure,
di tutte l'esitanze, di tutte le negligenze ha da essere becco
emissario il mio Ministero? — Il _Monitore_ del 23 gennaio 1849 così
manifestava l'animo suo vituperando il fatto: «Pochi facinorosi e
un branco di ragazzi tentarono violare la santità dello asilo (dello
Arcivescovo), con generale reprobazione di tutti i buoni Fiorentini,
dei quali non pochi si adoperarono onde desistessero dallo spingere
più oltre le violenze. Il Governo non può nè deve tollerare qualunque
trascorso che tenda a turbare la pubblica tranquillità o infrangere
l'autorità delle leggi. Sono già state prese le misure opportune, e
_la Giustizia sta in traccia dei colpevoli, che saranno puniti con
tutto il rigore_.»[46] L'Accusa poteva rammentarsi che mercè le mie
premurose istanze l'Arcivescovo fu richiamato in Firenze, che egli a
me si affidò, e che io, con sommo studio, correndo pericolo grande,
attesa la malvagità dei tempi, lo assicurai nello esercizio liberissimo
delle sue funzioni ecclesiastiche. La opposizione del Roberti a
presentarsi a Firenze, era ella cosa da rammentarsi nemmeno? _Dat
veniam corvis, vexat censura columbas_! E nonostante, col Dispaccio
telegrafico del 13 novembre 1848, ore 6, fu mandato: «Se Roberti
(Giorgio) vuole dimettersi, accettisi la dimissione.» E nel 18 detto:
«Roberti obbedisca e venga a Firenze; se disobbedisce, si cassi dai
ruoli.» Roberti obbedì. Le violenze contro i signori Bartolomei ed
Henderson furono con alacre operosità represse. «Sono state prese
le opportune disposizioni perchè non si rinnuovino violenze a carico
dei proprietarii della sega a vapore.» (Dispaccio telegrafico dell'8
novembre.) — «Ma avvertasi, che nulla accadde di _violento; vi furono
solo minaccie_.» (Dispaccio telegrafico Isolani del 7 novembre.) —
Rispettivamente ai sigg. Bartolomei, ecco come io ordinava a ore 4,
min. 55, del giorno 11 novembre col telegrafo: «Si proteggano ancora
i Bartolomei. _Appunto perchè mi hanno fatto male, debbono essere
protetti_. Se fosse diversamente, ridonderebbe in infamia per noi.» —
Alle ore 6, min. 43, del medesimo giorno, mi rispondeva il telegrafo:
«La dimostrazione contro i Bartolomei era incominciata col suono di
un tamburo; l'ottimo Petracchi l'ha dissipata.» — Perchè mi appone
l'Accusa disordini che furono prevenuti? Nel giorno 13 novembre, a
ore 6 pom., per via telegrafica comando al Governatore di Livorno: «Si
proceda _subito_ allo arresto dei violatori delle proprietà Bartolomei;
_subito_, fossero anche miei fratelli.» Perchè mi appone l'Accusa
disordini che così acremente repressi? — Più benigni a me dell'Accusa
i pretesi ingiuriati, della ottima mente loro mi dettero poi prove
tali, che a me duole non poterle riportare in questo Scritto, però che
onorino la umana natura e riposino l'animo stanco dalla vista di tante
iniquità.[47]
Non so se io debba continuare nella storia delle sommosse accadute
durante il mio Ministero e degli sforzi operati per sedarle, perchè
io vedo con paura che tutto mi si ritorce contro. L'Accusa, intorno ai
fatti riportati fin qui, mi dichiara _complice, o impotente per vizio
di origine_; riguardo ad altri fatti che mi riusciva impedire, l'Accusa
ne trae argomento a ragionare nella seguente maniera: poichè l'Accusato
_potè_ impedire molte intemperanze, segno è certo che alle altre
che accaddero egli _non volle_. Così non salva tenere nè lasciare;
così perde ugualmente fermarmi e fuggire. Se non riesco resistere,
sono complice; se riesco, sono reo per non essere riuscito di più.
Un cammello può portare il carico di mille libbre; ma perchè non ne
portava due mila, sia condannato a morte. Tale è la legge dell'Accusa:
— fiera legge invero!
Ma la Storia non giudica così, e tale registra splendido elogio del
Lafayette, a cui pure non venne fatto riparare tutto quello ch'ei
volle: «Lafayette adoravano le milizie, quantunque il vincolo della
vittoria non le legasse a lui; pacato uomo egli era, e ricco di partiti
in mezzo ai furori popolari; — però, malgrado la sua operosa vigilanza,
non sempre giunse a capo di vincere i tumulti delle moltitudini,
imperciocchè, per quanto sia spedita la forza, non può trovarsi
presente da per tutto contro un Popolo da per tutto sollevato: —
spesso lottava contro le fazioni senza fiducia, ma con la costanza del
cittadino, il quale non deve disertare mai la cosa pubblica, quando
anche disperi di poterla salvare!»[48]
Una frase _scoperta_ dal Decreto del 10 giugno 1850 viene accolta con
amore e accarezzata dal Decreto del 7 gennaio 1851: il Ministero fu
_complice, o impotente_. Ora come in suprema accusa possono queste due
parole congiungersi in virtù dell'alternativa? Immenso è lo spazio
che passa dall'uno stato all'altro. Nella misura della imputazione,
alla _impotenza_ corrisponde venia e favore; alla _complicità_, odio e
castigo.
O Ministri, che adesso reggete le sorti toscane, e che, credendo
in me l'uomo soltanto flagellato, di me non curate; attendete e
avvertite, che con l'uomo va a stracci la prerogativa ministeriale.
La via di Palazzo Vecchio per me insegna, che può diventare quella
del Calvario, e di ora innanzi metterà ribrezzo percorrerla, perchè
se un Tribunale potrà intorno al Ministro caduto aggrappare non solo
i proprii fatti, ma anche gli altrui, e di tutti chiedere al medesimo
ragione, e, nulla intendendo delle necessità politiche, lo porrà nelle
consuete condizioni della vita di uomo che può volere e disvolere a
suo senno: — se di pratiche dilicate, condotte con opportuno mistero,
egli pretenderà prove _luminosissime e chiarissime_; — se il concetto
di atti operati con la discretezza imposta dai tempi, ed anche con
dissimulazione, presumerà dimostrato con riscontri, e dirò quasi con
_istrumenti_ e _chirografi univoci_ e non _equivoci_; — se di più,
questo Tribunale andrà a pescare gli elementi dell'Accusa nelle parole
della Tribuna, e nei Giornali, che ne sono l'eco; — se l'ora della
lotta penserà che sia l'ora della Giustizia, e le furie dei Partiti
pacate consigliere del giudicare, quale Ministro mai, quale Ministero
si salverà?
L'Accusa me incolpa, _per essermi limitato a rinviare gli avvenimenti
più scandalosi alle ordinarie vie di giustizia_. Io temo comprendere
troppo, o troppo poco. O dove aveva a rinviarli io? Forse come Mario
reduce a Roma, col negare o col rendere il saluto, dovevo indicare ai
satelliti i cittadini da trucidarsi? Agendo come l'Accusa rimprovera,
io adempiva al mio dovere; lo hanno tutti ugualmente adempito? O
piuttosto talora con pusillanime oscitanza, tal altra con quello
_zelo serotino e importuno_ (_che fu il terrore del Talleyrand_) non
abbandonarono o imbarazzarono il Governo?[49]
Ma sia che vuolsi, io continuerò nella narrativa di quanto mi fu dato,
come Ministro, operare in benefizio del Paese, onde il Paese giudichi
me e i miei Giudici, e veda se io mi merito lo insulto (e non è il
solo) che essi mi gettano in faccia: «_va, tu fosti un complice tristo,
o uno imbecille impotente_!»
La Plebe Castagnetana insorge con moti comunisti. È repressa
energicamente con lo invio di Commissione speciale.[50] Attentati
contro le foreste dello Stato repressi, nonostante il pericolo di
sloggiare gli scarpatori armati di pianta in pianta.[51] Guasti di
palazzi, attentati d'incendii prevenuti, o repressi. Aggressioni e
latrocinii prevenuti parimente o repressi.[52] Plebe Pratese tumultua
e minaccia ardere le fabbriche dei cappelli di paglia; con pronti
rimedii è frenata.[53] Plebe di Campi irrompente contro le proprietà
dei cittadini tenuta in rispetto.[54] Campagnuoli infestanti le
vie maestre e i pubblici passeggi, estorcenti danari ai passeggeri,
sorpresi e arrestati.[55] Contadini e Plebe Fiorentina invadono il
negozio Peratoner sotto pretesto di cambiare i _Buoni del Tesoro_,
e minaccianti pel medesimo motivo la banca Fenzi, repressi, nella
deficienza di pronta forza, con la mia stessa persona.[56] Plebe e
contadini di Firenze, nella notte del 27 gennaio 1849, percorrono la
città, gridando: «Morte ai codini, fuoco alle case;» insultano Veliti
e Guardia Civica; invadono i corpi di guardia delle Delegazioni,
infrangono porte, e minacciano di morte il Delegato Carli. Cresce
il tumulto in Borgo degli Albizzi e in Via Calzaioli. Eduardo Ricci
muore di coltello. Un Campigiano è arrestato; gli altri fuggono.
Cotesta fu notte in cui più di uno tremò nel suo letto, e le pattuglie
esitavano di mettersi a sbaraglio in mezzo al tumulto. Io era per le
strade improvvido di me, attendendo al dovere di tutelare la pubblica
sicurezza. Sì certo, il mio dovere; ma è pur forza dirlo, egli è più
facile assai dare il consiglio, che lo esempio di avventurare la vita
per mantenere l'ordine della città: e la città fu quieta; i facinorosi
posti in mano alla Giustizia.
I Giornali della Opposizione sbigottivano pei nuovi mostri; il Governo
deprecavano a tentare i _supremi sforzi_ per ritrarre il Paese dal
fatale sentiero dove precipitava; avvertivano come il Ministro dello
Interno nella risposta allo Indirizzo della Corona, prendendo le parti
della Commissione, intendesse che lo inciso relativo ai disordini
si conservasse, e ciò feci non solo perchè fosse richiamo costante
alle cure mie, quanto perchè durasse ammonimento ai Deputati, che
male l'ordine si consiglia, e peggio si spera conseguire, se i facili
consiglieri non sovvengono con pronte voglie la opera governativa. —
Infine, a fronte scoperta annunziavano comparire sintomi quotidiani
di potente _reazione_, e gente perversa che, sotto sembianza di
difendere la libertà, per via di tumulti e di scandali cospirava ad
opprimerla.[57]
Troppo fastidiosa opera sarebbe ricordare tutti i casi di simile
natura, successi durante il mio Ministero: bastino gli esposti per
chiarire, come la plebe cittadina si rimescolasse con la rustica; e
come, peggiorata la indole, cotesti moti incominciassero a manifestarsi
attentatorii alla vita e alla sostanza dei cittadini.
Io vegliava quando la città si dava in balía del sonno; e con l'animo
sospeso tendeva l'orecchio se alcun rumore sorgesse, per correre sul
luogo del pericolo. Al difetto di ordinamenti e di forze, suppliva
con operosità, che mi ridusse in breve a comparire l'ombra di me
stesso.[58] In quei giorni pochi erano i labbri di ogni maniera
di gente, che non pronunziassero lode al mio nome. — L'ora della
ingratitudine non era peranche arrivata!
E fermamente credo, che dove ogni barriera non si fosse, per così
dire, abbassata spontanea davanti allo impeto della fazione politica
e dei tumultuanti, a fine ancora più pravo, non senza lotta forse,
ma certissimamente con buon successo, sariasi potuto resistere, ed
ordinare lo Stato. — Lasciando alla coscienza pubblica decidere
se dirittamente e cristianamente operassero i Giudici, quando mi
gittarono in faccia il vituperio di _complice_, o _impotente frenatore_
di turbolenze, io penso potere concludere con queste proposizioni.
1º Forza rivoluzionaria sorse in Toscana fino dal 1847. 2º Ordini
governativi furono fino da quel tempo manomessi da prepotente impeto
di forza rivoluzionaria. 3º Nel settembre del 1848, rimasero affatto
distrutti. 4º Stato alla mia chiamata al Ministero era stremo di
qualunque difesa. 5º Non ignavo, non codardo, non infedele custode
della pubblica sicurezza fui io.
VIII.
Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a chiarire le
sofferte ingiurie per la parte della Polizia.
All'_Atto di Accusa_ bastò l'animo toccare la storia delle disoneste
persecuzioni da me sofferte nei tempi trascorsi. Poco tempo addietro
non s'incontrava anima viva, che volesse accettare la trista eredità
del _Potere Economico_; la ricusavano tutti, anzi aborrivanla; però
che a così fare persuadessero alcuni pudore, altri la usanza. Adesso,
sembra che si pentano della improvvida renunzia, e mettono innanzi
non so quali _restituzioni in integrum_, come pei pupilli si costuma
fare! Io mi era astenuto favellarne; parevami decoroso per la fama
della nostra civiltà non ridestare memorie, che a tutti noi dovrebbe
essere grato lasciare nell'oblio: ed io, a cui avrebbe dovuto tornare
più ardua la dimenticanza, dimenticava mosso da patria carità. Pensava,
che evocare coteste memorie deplorabili si uguagliasse allo agitare
che fece Marcantonio, davanti agli occhi del Popolo, la camicia
insanguinata di Cesare! Quantunque io considerassi qual tesoro di
pietà mi schiuderebbe appo l'universale la esposizione dei patiti
dolori, io non ardiva discorrerne, — mi vergognava..... in verità mi
vergognava....! Temeva mi si dicesse: tu vuoi commuovere le nostre
menti con gli affetti per mancanza di ragioni. Adesso, mercè l'Atto
di Accusa, mi è fatta abilità di favellarne, e di ciò grazie gli
sieno, imperciocchè io deva credere, ch'egli in bel modo mi abbia
voluto porgere occasione di rivelare anche in questa parte le vicende
della mia vita. Ecco pertanto le parole_ dell'Atto di Accusa. «Questo
imputato ha interessato altre volte, e sempre per cause politiche, ora
l'Autorità Governativa, ora la Giustizia, ora la Grazia_.[59]» Cinque
sono le piaghe di cui porto le stimate, ed è questa la sesta.
Nel 1821, fanciullo di _quattordici anni_, attendevo agli studii
forensi nella Università Pisana. Cotesto anno andò famoso per
rivoluzioni italiane, specialmente di Napoli. Da cotesto Regno erano
mandate Gazzette, le quali, oltre al racconto dei casi, che alla
giornata vi succedevano, referivano i discorsi tenuti nel Parlamento
da personaggi per chiarezza di fama prestantissimi. La lettura
delle Gazzette si permetteva nei Caffè, ed è facile immaginare se la
curiosità od altro più nobile affetto le menti giovanili invogliassero
a sapere di cotesti successi e di coteste orazioni. Non bastando però
una sola copia a soddisfare la impazienza degli scolari, fu stabilito
che a turno uno di noi salisse sopra luogo eminente e leggesse. A me
toccò la mia volta come agli altri, e voglio confessare più spesso
che agli altri, forse perchè avessi o migliore voce, o migliore garbo
nel leggere. — Questo fatto mi fruttò la perdita di un anno accademico
per _Risoluzione Economica del Buon Governo_. — Se cotesta era colpa,
perchè consentire che le Gazzette si esponessero alla lettura nei
Caffè? Non pareva insidia tesa a inesperti fanciulli? E se non era
colpa, perchè punirci? E chiunque pensi che coteste pene cadevano
sopra famiglie numerose, la più parte scarse di averi, e come a molti
giovani venissero ad essere rotti per sempre gli studii, ad altri con
inestimabile danno ritardati, non dubiterà affermare, che potevano
reputarsi _veri omicidii intellettuali_. Ho narrato altrove[60] come,
venuto a Firenze, reclamassi della ingiustizia presso il Presidente del
Buon Governo, il quale mi disse: _A lui non appartenere la facoltà di
graziare; egli non potere fare altro che punire. Alla quale proposta
risposi: Io vi compiango, Signore, se occupando un posto dove anche
senza volere fate del male, e al mal fatto non potete riparare nè anche
volendo, la vostra coscienza vi consente rimanervi_. — Come si chiama
questa _Grazia_ o _Giustizia_? Lo dica l'_Atto di Accusa_, chè per me
io me ne lavo le mani.
Ci era una volta..... e forse vi è ancora, in Livorno un'Accademia
dall'antico Ercole Labrone appellata Labronica. Me vollero ascritto
alla medesima, e, quantunque non mi sentissi troppo tagliato a
diventare Accademico, per non comparire scortese mi lasciai fare.
Tenevano allora in cotesto collegio il primato uomini antichi e
presuntuosi, usi a convocare una o due volte l'anno i cittadini,
perchè ascoltassero i vieti sospiri in rima di qualche pastorello
di sessant'anni suonati. Pazze cose invero, ma innocenti fin qui.
— Certa sera, ch'era caduta copia di neve, mi chiamavano a consulta
per urgenza; andai, e trovai che mandavano a voti certo partito per
fissare se di ora in avanti il candidato accademico dovesse proporsi
da dodici o piuttosto da tredici Accademici. Aspettai udire cose di
maggiore importanza e rimasi deluso, imperciocchè col voto del partito
ogni negozio cessasse. Allora io mi attentai avvertire modestamente, ma
francamente, che sarebbe stato bene indirizzare l'Accademia a più utile
scopo, come a modo di esempio, allo studio della patria amatissima,
sia per provvedere alla educazione del Popolo affatto abbandonata,
sia per promuovere i commerci e le comodità capaci ad ampliare la
floridezza del nostro emporio. — Risposero acerbi, si tennero per
ingiuriati, e in brevi accenti dissero, avere fin lì durato in quel
modo, ed aborrire da ogni novità. Deliberai congedarmi dall'Accademia;
e lo faceva senza porre tempo fra mezzo, se Giuseppe Vivoli, adesso per
meriti diuturni eletto Cavaliere, non mi avesse invitato caldamente
a dettare lo Elogio di Cosimo Del Fante, valoroso soldato livornese,
e a leggerlo nell'Adunanza solenne solita a tenersi nel 19 marzo
di ogni anno. Studiosissimo di tutto quanto può ridondare a decoro
della patria comune, il signor Vivoli mi conduceva a vedere i vecchi
genitori di Cosimo, i quali a cagione della morte dell'unico figliuolo
traevano desolati gli estremi giorni verso il sepolcro. Piangeva il
padre mostrandomi i documenti delle rapide promozioni del figlio, le
insegne e il ritratto; non piangeva la madre, perchè la sventura le
aveva offeso il bene dello intelletto. Composi lo Elogio e lo lessi,
plaudenti i cittadini benevoli, alla presenza dello stesso Governatore
Venturi. I Regolamenti dell'Accademia ordinavano, il manoscritto della
composizione letta nelle mani del Segretario si depositasse, ed io
trasgredii a questa disciplina, conciossiachè, essendo determinato a
licenziarmi, non mi paresse essere più tenuto ad osservarla: e qui fu
il danno. Tre Accademici, il nome dei quali taccio, però che uno sia
morto e due vivano acciaccati dalle infermità e dagli anni, presi,
dirò, da tentazione del Demonio, mandarono scritto al Presidente del
Buon Governo, com'io recitando lo Elogio di Cosimo del Fante ne avessi
tolto pretesto a predicare massime sovversive _al trono e all'altare_
(allora correva la usanza di coteste parole); a tanto ardire farmi
audace lo affetto, che con bontà grande, ma prudenza poca, mi aveva
mostrato il Governatore Venturi. Dal Presidente vennero istruzioni
per informare segretamente della cosa; e subietto della indagine
fu ancora il contegno del Governatore, il quale avendolo subodorato
ne sentì inestimabile cordoglio. Egli primieramente, col mezzo del
signor Direttore Pistolesi, mi richiese del manoscritto, che subito
gli consegnai, e riscontratolo prima, lo inviava a Firenze, affinchè
esaminassero la verità, e della calunnia si persuadessero. Tanto poteva
bastare; ma sopportando acerbamente la ingiuria che gli pareva avere
ricevuta, il Marchese Venturi scrisse lettere minatorie al Presidente,
non ostante il mio consiglio a rimanersene, però che le minaccie
destituite di effetto, anzichè tutelare dalle ingiurie, le provochino;
e gli presagiva ancora, che la burrasca, passando di sopra ai suoi
poderi, sarebbe scoppiata sul campicello mio. E fui profeta. Trascorsi
parecchi mesi, allo improvviso, senza essere udito nè citato, senza
che fatto alcuno mi contestassero, ecco giungere dalla Presidenza
ordine al _Governatore stesso_, che m'intimasse la relegazione per sei
mesi a Montepulciano. Mio era il danno, la umiliazione del Marchese.
Giovane allora e del futuro improvvidissimo, manifestai volontà di
ridurmi in Inghilterra; ma il Governatore, baciandomi con molte lacrime
e profferendomi quanti desiderassi danari, mi scongiurò ad obbedire;
lasciassi a lui la cura del resto; essersi prevalsi dell'assenza
del Principe, allora recatosi a Dresda, per dargli quel colpo; dove
abbisognasse, si sarebbe deciso corrergli dietro fino a cotesta città
per chiarirlo del fatto; stessi di buono animo, chè tutto questo aveva
a ridondare in mio maggiore benefizio. Comecchè dubitassi forte dello
esito presagito alla trista ventura, pure andai a Montepulciano,
repugnando rincrescere all'ottimo vecchio, che mi si era mostrato
tanto benevolo. Egli poi non istette saldo nel suo proponimento, e a
me toccò consumare i sei mesi nella relegazione di Montepulciano. Il
Vicario di cotesta città, se non isbaglio chiamato Marini, mi veniva
persuadendo a fare istanza onde la relegazione cessasse; si assumeva
egli indirizzarla e raccomandarla, mi assicurava il fine felice: fui
grato al buon volere, non accettai il consiglio, e dopo sei mesi tornai
a Livorno.[61]
Prima che passi ad altro, mi giovi ricordare come arrivato in patria
mi s'ingiungesse di non partirmi senza licenza; così nel giro di
sei mesi io era _cacciato_ prima, poi _confinato_ in Livorno! — Ora
è da sapersi come i promotori del mio infortunio non rifinissero da
sussurrare, che il manoscritto da me consegnato fosse tutt'altra cosa
da quello letto; ma il tempo ha chiarita la menzogna, imperciocchè da
prima fosse stampato a mia insaputa a Marsilia, poi liberissimamente in
Toscana _mentre durava la Censura preventiva_; le quali due edizioni,
dove si collazionino col manoscritto, che so trovarsi negli Archivii
della cessata Presidenza, si conoscerà essere uguali per l'appuntino.
Uno dei miei segreti denunziatori prima di morire commise al Cavaliere
Vivoli d'impetrargli perdono da me, ed io lo concessi di cuore; pregato
inoltre a dettargli lo epitaffio, lo feci senza adulazione, perchè
invero egli era stato uomo di molta scienza e benemerito della mia
città nella moría del 1804. Un altro non aspettò cotesto estremo punto
per acquietare la sua coscienza, ma venne cristianamente per mercede, e
cristianamente fu accolto; e ci baciammo in bocca, dannando all'oblio
la ingiuria fatta e patita. Il terzo, un giorno pretese giustificarsi
appo me, profferendo mostrarmi lettere donde resultava la pressura
fattagli di unirsi agli altri due. Fosse vero o no il suo dire, cotesta
era ignobile ricerca: la ricusai, invitandolo a dare al fuoco le carte,
come io avevo dato alla dimenticanza il caso. — «Bruciate cotesti
fogli, raccomandavagli istantemente, onde i nostri figliuoli non li
trovino e si vergognino di noi.» — Durante il Governo Provvisorio, il
Presidente del Buon Governo, che di questi e di altri travagli aveva
contristato la mia giovanezza, fu il _primo_ che a scadenza di mese
mandò la ricevuta per riscuotere la paga. I miei orecchi sono stati
saziati di encomii, e non gli ho avvertiti; ma questa fiducia posta
nell'animo mio mi toccò nel profondo: grande era dunque la opinione
della mia generosità! I miei compatriotti giudichino se io l'abbia
meritata.
Che cosa fosse questa o _Grazia_ o _Giustizia_, lo dica l'Accusa,
perchè io mi professo incapace a chiarirlo. —
E passo alla _terza piaga_. Talvolta, non sempre, per sollevare
l'animo e il corpo stanchi dalle continue fatiche, mi recava per
qualche ora la notte in certa compagnevole brigata dove cenavamo,
fumavamo e novellavamo a nostro agio. Convenivano quivi giovani
appartenenti alle principali famiglie della città, ora uomini che il
Governo annovera meritamente tra i fidatissimi suoi. Un bel giorno
siamo chiamati davanti il Commissario di Polizia io e Domenico Orsini,
persona dimostratasi sempre amica di quiete, onorata d'impieghi,
tenuta anch'essa in conto di devota alla Monarchia Costituzionale; e
ad ambedue noi il Commissario di Polizia fece motto di cospirazioni,
di sètte e di simili altre fatuità. Rovello della Polizia a quei tempi
era volere da per tutto cercare congiure: sentii dire, che gliele
pagassero quando le aveva trovate, sicchè i bracchi tenevano sempre il
muso a terra, e, non volendo tornarsi mesti ed anelanti a casa, quando
non levavano congiure abbaiavano per far credere ch'elle fossero nel
macchione. Fummo ritenuti due mesi in carcere: per questa volta vidi
un Decreto, ma invano cercai il motivo della condanna; se ben ricordo,
la breve scrittura conteneva una frase equivalente al _causis nobis
cognitis_. — E se vuolsi aver saggio del caso che a quei tempi facevasi
della libertà dell'uomo, si sappia come mio fratello Temistocle venisse
a visitarci quasi quotidianamente. Certo giorno, su l'andarsene,
il soprastante alle carceri gli diceva che bisognava si trattenesse
là dentro; e il mio fratello rispondeva: rimarrei volentieri, ma i
miei negozii mi chiamano altrove; — e l'altro: ho ricevuto poco anzi
l'ordine di non lasciarla partire. — Oh! allora è differente la cosa.
— Insomma anche il fratello un mese in prigione per colpa di visitare
il fratello. _Male incoglieva a quei tempi praticare le opere di
misericordia corporale_! —
Ho udito raccontare come nei tempi antichi corresse usanza di allevare
al fianco di regio alunno un fanciullo di piccolo stato, onde quante
volte il primo cadesse in colpa, tante potessero bussare il secondo,
onde quegli con la sola vista della pena si emendasse, e questi il
dolore (ch'è retaggio plebeo) sofferisse. La Polizia, sospettosa
del consorzio innocentissimo degli spettabili giovani, io penso
che percuotesse sopra di me, come persona di minore importanza, per
incutere negli altri _salutare terrore_. — Intanto un senso di molestia
per tutta la Toscana diffondevasi; in ogni classe di cittadini era
ansietà affannosa, sgomento crescente, e un domandare quando cotesti
incomportabili arbitrii avrebbero fine, e uno instare continuo affinchè
il mostruoso instituto cessasse. Fu reputato colpa dell'uomo quello che
era vizio del maestrato, e il primo dimisero, il secondo conservarono.
Noi uscimmo di carcere punto lieti della caduta del Presidente, poichè
si manteneva in piedi la Presidenza.[62]
Se questa fosse _Grazia_ o _Giustizia_, l'Accusa avrebbe potuto
informarsene da qualcheduno di quelli che porsero grazie pubbliche al
Principe di avere affrancata la Toscana dal turpe giogo della Potestà
Economica.
Eccomi alla _quarta piaga_. La Polizia non aveva punto deposto lo
antico sospetto, dacchè ella appartenesse a quella maniera di bestie,
delle quali si dice che perdono il pelo, il vizio mai. Erano suoi
fantasimi le sètte segrete. La svegliatezza degl'ingegni, la pratica
degli umani negozii, la indole espansiva, non meno che certo costume
antichissimo, ormai fra noi diventato natura, di aprire l'animo nostro
a libera indagine intorno agli atti governativi, hanno impedito sempre
che siffatte congiure allignassero in questa terra;[63] nè altrove
abbiamo potuto intendere di che cosa sieno state capaci. Eranvi in
Francia sètte segrete nel 1830, ma senza le ordinanze di Carlo X
nulla avrebbero potuto operare; eranvi anche nel 1848, ma se Luigi
Filippo consentiva ad alcuna modificazione su la Legge Elettorale, o
più tempestivamente rassegnava il potere a favore del nipote, le sètte
rimanevano impotenti. Le sètte, e la esperienza lo ha chiarito, non
sono mai da tanto di rivoluzionare gli Stati. — Le rivoluzioni nascono
dagli errori dei Governi, dallo scontento dei Popoli, e dal cumulo
di molte cause che troppo lungo sarebbe discorrere. _Fiorenza non si
muove, se tutta non si duole_, dicevano i nostri antichi, e con ciò
vollero significare che il Popolo non è portato, ma porta, nè corre
dietro alle voglie o alle passioni altrui, ma per le proprie unicamente
si agita; e dissero bene. Le sètte, nello scompiglio universale,
possedendo il vantaggio di un tal quale organamento, s'impadroniscono,
Avvertasi per ultimo se _complice_ o _impotente_ repressore di violenze
fossi io! — Arrestati alcuni prevenuti di guasti alle campagne dei
signori Bartolomei, così ordinava col Dispaccio telegrafico del
16 novembre 1848: «Bene, benissimo: adesso procedura immediata:
si sospenda ogni altro negozio al Tribunale: pena la indignazione
sovrana se i Magistrati, nel più breve tempo possibile, non terminano
questo negozio: impieghino giorno e notte; si dia pubblicità alla
discussione: prenda parola il Procuratore Regio; energia, o _fra un
mese la Toscana diventa un mucchio di cenere_.» Grave fatto fu quello
dello Arcivescovado; ma simili successi, come inopinati e improvvisi,
male possonsi prevenire. Bene si possono, anzi si devono castigare.
È colpa mia, se gli Ufficiali non sapevano, o aborrivano dal proprio
dovere? Le inquisizioni furono ordinate; perchè non proseguite? Il
Governo ha da fare tutto? Può provvedere a tutto? Di tutte le paure,
di tutte l'esitanze, di tutte le negligenze ha da essere becco
emissario il mio Ministero? — Il _Monitore_ del 23 gennaio 1849 così
manifestava l'animo suo vituperando il fatto: «Pochi facinorosi e
un branco di ragazzi tentarono violare la santità dello asilo (dello
Arcivescovo), con generale reprobazione di tutti i buoni Fiorentini,
dei quali non pochi si adoperarono onde desistessero dallo spingere
più oltre le violenze. Il Governo non può nè deve tollerare qualunque
trascorso che tenda a turbare la pubblica tranquillità o infrangere
l'autorità delle leggi. Sono già state prese le misure opportune, e
_la Giustizia sta in traccia dei colpevoli, che saranno puniti con
tutto il rigore_.»[46] L'Accusa poteva rammentarsi che mercè le mie
premurose istanze l'Arcivescovo fu richiamato in Firenze, che egli a
me si affidò, e che io, con sommo studio, correndo pericolo grande,
attesa la malvagità dei tempi, lo assicurai nello esercizio liberissimo
delle sue funzioni ecclesiastiche. La opposizione del Roberti a
presentarsi a Firenze, era ella cosa da rammentarsi nemmeno? _Dat
veniam corvis, vexat censura columbas_! E nonostante, col Dispaccio
telegrafico del 13 novembre 1848, ore 6, fu mandato: «Se Roberti
(Giorgio) vuole dimettersi, accettisi la dimissione.» E nel 18 detto:
«Roberti obbedisca e venga a Firenze; se disobbedisce, si cassi dai
ruoli.» Roberti obbedì. Le violenze contro i signori Bartolomei ed
Henderson furono con alacre operosità represse. «Sono state prese
le opportune disposizioni perchè non si rinnuovino violenze a carico
dei proprietarii della sega a vapore.» (Dispaccio telegrafico dell'8
novembre.) — «Ma avvertasi, che nulla accadde di _violento; vi furono
solo minaccie_.» (Dispaccio telegrafico Isolani del 7 novembre.) —
Rispettivamente ai sigg. Bartolomei, ecco come io ordinava a ore 4,
min. 55, del giorno 11 novembre col telegrafo: «Si proteggano ancora
i Bartolomei. _Appunto perchè mi hanno fatto male, debbono essere
protetti_. Se fosse diversamente, ridonderebbe in infamia per noi.» —
Alle ore 6, min. 43, del medesimo giorno, mi rispondeva il telegrafo:
«La dimostrazione contro i Bartolomei era incominciata col suono di
un tamburo; l'ottimo Petracchi l'ha dissipata.» — Perchè mi appone
l'Accusa disordini che furono prevenuti? Nel giorno 13 novembre, a
ore 6 pom., per via telegrafica comando al Governatore di Livorno: «Si
proceda _subito_ allo arresto dei violatori delle proprietà Bartolomei;
_subito_, fossero anche miei fratelli.» Perchè mi appone l'Accusa
disordini che così acremente repressi? — Più benigni a me dell'Accusa
i pretesi ingiuriati, della ottima mente loro mi dettero poi prove
tali, che a me duole non poterle riportare in questo Scritto, però che
onorino la umana natura e riposino l'animo stanco dalla vista di tante
iniquità.[47]
Non so se io debba continuare nella storia delle sommosse accadute
durante il mio Ministero e degli sforzi operati per sedarle, perchè
io vedo con paura che tutto mi si ritorce contro. L'Accusa, intorno ai
fatti riportati fin qui, mi dichiara _complice, o impotente per vizio
di origine_; riguardo ad altri fatti che mi riusciva impedire, l'Accusa
ne trae argomento a ragionare nella seguente maniera: poichè l'Accusato
_potè_ impedire molte intemperanze, segno è certo che alle altre
che accaddero egli _non volle_. Così non salva tenere nè lasciare;
così perde ugualmente fermarmi e fuggire. Se non riesco resistere,
sono complice; se riesco, sono reo per non essere riuscito di più.
Un cammello può portare il carico di mille libbre; ma perchè non ne
portava due mila, sia condannato a morte. Tale è la legge dell'Accusa:
— fiera legge invero!
Ma la Storia non giudica così, e tale registra splendido elogio del
Lafayette, a cui pure non venne fatto riparare tutto quello ch'ei
volle: «Lafayette adoravano le milizie, quantunque il vincolo della
vittoria non le legasse a lui; pacato uomo egli era, e ricco di partiti
in mezzo ai furori popolari; — però, malgrado la sua operosa vigilanza,
non sempre giunse a capo di vincere i tumulti delle moltitudini,
imperciocchè, per quanto sia spedita la forza, non può trovarsi
presente da per tutto contro un Popolo da per tutto sollevato: —
spesso lottava contro le fazioni senza fiducia, ma con la costanza del
cittadino, il quale non deve disertare mai la cosa pubblica, quando
anche disperi di poterla salvare!»[48]
Una frase _scoperta_ dal Decreto del 10 giugno 1850 viene accolta con
amore e accarezzata dal Decreto del 7 gennaio 1851: il Ministero fu
_complice, o impotente_. Ora come in suprema accusa possono queste due
parole congiungersi in virtù dell'alternativa? Immenso è lo spazio
che passa dall'uno stato all'altro. Nella misura della imputazione,
alla _impotenza_ corrisponde venia e favore; alla _complicità_, odio e
castigo.
O Ministri, che adesso reggete le sorti toscane, e che, credendo
in me l'uomo soltanto flagellato, di me non curate; attendete e
avvertite, che con l'uomo va a stracci la prerogativa ministeriale.
La via di Palazzo Vecchio per me insegna, che può diventare quella
del Calvario, e di ora innanzi metterà ribrezzo percorrerla, perchè
se un Tribunale potrà intorno al Ministro caduto aggrappare non solo
i proprii fatti, ma anche gli altrui, e di tutti chiedere al medesimo
ragione, e, nulla intendendo delle necessità politiche, lo porrà nelle
consuete condizioni della vita di uomo che può volere e disvolere a
suo senno: — se di pratiche dilicate, condotte con opportuno mistero,
egli pretenderà prove _luminosissime e chiarissime_; — se il concetto
di atti operati con la discretezza imposta dai tempi, ed anche con
dissimulazione, presumerà dimostrato con riscontri, e dirò quasi con
_istrumenti_ e _chirografi univoci_ e non _equivoci_; — se di più,
questo Tribunale andrà a pescare gli elementi dell'Accusa nelle parole
della Tribuna, e nei Giornali, che ne sono l'eco; — se l'ora della
lotta penserà che sia l'ora della Giustizia, e le furie dei Partiti
pacate consigliere del giudicare, quale Ministro mai, quale Ministero
si salverà?
L'Accusa me incolpa, _per essermi limitato a rinviare gli avvenimenti
più scandalosi alle ordinarie vie di giustizia_. Io temo comprendere
troppo, o troppo poco. O dove aveva a rinviarli io? Forse come Mario
reduce a Roma, col negare o col rendere il saluto, dovevo indicare ai
satelliti i cittadini da trucidarsi? Agendo come l'Accusa rimprovera,
io adempiva al mio dovere; lo hanno tutti ugualmente adempito? O
piuttosto talora con pusillanime oscitanza, tal altra con quello
_zelo serotino e importuno_ (_che fu il terrore del Talleyrand_) non
abbandonarono o imbarazzarono il Governo?[49]
Ma sia che vuolsi, io continuerò nella narrativa di quanto mi fu dato,
come Ministro, operare in benefizio del Paese, onde il Paese giudichi
me e i miei Giudici, e veda se io mi merito lo insulto (e non è il
solo) che essi mi gettano in faccia: «_va, tu fosti un complice tristo,
o uno imbecille impotente_!»
La Plebe Castagnetana insorge con moti comunisti. È repressa
energicamente con lo invio di Commissione speciale.[50] Attentati
contro le foreste dello Stato repressi, nonostante il pericolo di
sloggiare gli scarpatori armati di pianta in pianta.[51] Guasti di
palazzi, attentati d'incendii prevenuti, o repressi. Aggressioni e
latrocinii prevenuti parimente o repressi.[52] Plebe Pratese tumultua
e minaccia ardere le fabbriche dei cappelli di paglia; con pronti
rimedii è frenata.[53] Plebe di Campi irrompente contro le proprietà
dei cittadini tenuta in rispetto.[54] Campagnuoli infestanti le
vie maestre e i pubblici passeggi, estorcenti danari ai passeggeri,
sorpresi e arrestati.[55] Contadini e Plebe Fiorentina invadono il
negozio Peratoner sotto pretesto di cambiare i _Buoni del Tesoro_,
e minaccianti pel medesimo motivo la banca Fenzi, repressi, nella
deficienza di pronta forza, con la mia stessa persona.[56] Plebe e
contadini di Firenze, nella notte del 27 gennaio 1849, percorrono la
città, gridando: «Morte ai codini, fuoco alle case;» insultano Veliti
e Guardia Civica; invadono i corpi di guardia delle Delegazioni,
infrangono porte, e minacciano di morte il Delegato Carli. Cresce
il tumulto in Borgo degli Albizzi e in Via Calzaioli. Eduardo Ricci
muore di coltello. Un Campigiano è arrestato; gli altri fuggono.
Cotesta fu notte in cui più di uno tremò nel suo letto, e le pattuglie
esitavano di mettersi a sbaraglio in mezzo al tumulto. Io era per le
strade improvvido di me, attendendo al dovere di tutelare la pubblica
sicurezza. Sì certo, il mio dovere; ma è pur forza dirlo, egli è più
facile assai dare il consiglio, che lo esempio di avventurare la vita
per mantenere l'ordine della città: e la città fu quieta; i facinorosi
posti in mano alla Giustizia.
I Giornali della Opposizione sbigottivano pei nuovi mostri; il Governo
deprecavano a tentare i _supremi sforzi_ per ritrarre il Paese dal
fatale sentiero dove precipitava; avvertivano come il Ministro dello
Interno nella risposta allo Indirizzo della Corona, prendendo le parti
della Commissione, intendesse che lo inciso relativo ai disordini
si conservasse, e ciò feci non solo perchè fosse richiamo costante
alle cure mie, quanto perchè durasse ammonimento ai Deputati, che
male l'ordine si consiglia, e peggio si spera conseguire, se i facili
consiglieri non sovvengono con pronte voglie la opera governativa. —
Infine, a fronte scoperta annunziavano comparire sintomi quotidiani
di potente _reazione_, e gente perversa che, sotto sembianza di
difendere la libertà, per via di tumulti e di scandali cospirava ad
opprimerla.[57]
Troppo fastidiosa opera sarebbe ricordare tutti i casi di simile
natura, successi durante il mio Ministero: bastino gli esposti per
chiarire, come la plebe cittadina si rimescolasse con la rustica; e
come, peggiorata la indole, cotesti moti incominciassero a manifestarsi
attentatorii alla vita e alla sostanza dei cittadini.
Io vegliava quando la città si dava in balía del sonno; e con l'animo
sospeso tendeva l'orecchio se alcun rumore sorgesse, per correre sul
luogo del pericolo. Al difetto di ordinamenti e di forze, suppliva
con operosità, che mi ridusse in breve a comparire l'ombra di me
stesso.[58] In quei giorni pochi erano i labbri di ogni maniera
di gente, che non pronunziassero lode al mio nome. — L'ora della
ingratitudine non era peranche arrivata!
E fermamente credo, che dove ogni barriera non si fosse, per così
dire, abbassata spontanea davanti allo impeto della fazione politica
e dei tumultuanti, a fine ancora più pravo, non senza lotta forse,
ma certissimamente con buon successo, sariasi potuto resistere, ed
ordinare lo Stato. — Lasciando alla coscienza pubblica decidere
se dirittamente e cristianamente operassero i Giudici, quando mi
gittarono in faccia il vituperio di _complice_, o _impotente frenatore_
di turbolenze, io penso potere concludere con queste proposizioni.
1º Forza rivoluzionaria sorse in Toscana fino dal 1847. 2º Ordini
governativi furono fino da quel tempo manomessi da prepotente impeto
di forza rivoluzionaria. 3º Nel settembre del 1848, rimasero affatto
distrutti. 4º Stato alla mia chiamata al Ministero era stremo di
qualunque difesa. 5º Non ignavo, non codardo, non infedele custode
della pubblica sicurezza fui io.
VIII.
Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a chiarire le
sofferte ingiurie per la parte della Polizia.
All'_Atto di Accusa_ bastò l'animo toccare la storia delle disoneste
persecuzioni da me sofferte nei tempi trascorsi. Poco tempo addietro
non s'incontrava anima viva, che volesse accettare la trista eredità
del _Potere Economico_; la ricusavano tutti, anzi aborrivanla; però
che a così fare persuadessero alcuni pudore, altri la usanza. Adesso,
sembra che si pentano della improvvida renunzia, e mettono innanzi
non so quali _restituzioni in integrum_, come pei pupilli si costuma
fare! Io mi era astenuto favellarne; parevami decoroso per la fama
della nostra civiltà non ridestare memorie, che a tutti noi dovrebbe
essere grato lasciare nell'oblio: ed io, a cui avrebbe dovuto tornare
più ardua la dimenticanza, dimenticava mosso da patria carità. Pensava,
che evocare coteste memorie deplorabili si uguagliasse allo agitare
che fece Marcantonio, davanti agli occhi del Popolo, la camicia
insanguinata di Cesare! Quantunque io considerassi qual tesoro di
pietà mi schiuderebbe appo l'universale la esposizione dei patiti
dolori, io non ardiva discorrerne, — mi vergognava..... in verità mi
vergognava....! Temeva mi si dicesse: tu vuoi commuovere le nostre
menti con gli affetti per mancanza di ragioni. Adesso, mercè l'Atto
di Accusa, mi è fatta abilità di favellarne, e di ciò grazie gli
sieno, imperciocchè io deva credere, ch'egli in bel modo mi abbia
voluto porgere occasione di rivelare anche in questa parte le vicende
della mia vita. Ecco pertanto le parole_ dell'Atto di Accusa. «Questo
imputato ha interessato altre volte, e sempre per cause politiche, ora
l'Autorità Governativa, ora la Giustizia, ora la Grazia_.[59]» Cinque
sono le piaghe di cui porto le stimate, ed è questa la sesta.
Nel 1821, fanciullo di _quattordici anni_, attendevo agli studii
forensi nella Università Pisana. Cotesto anno andò famoso per
rivoluzioni italiane, specialmente di Napoli. Da cotesto Regno erano
mandate Gazzette, le quali, oltre al racconto dei casi, che alla
giornata vi succedevano, referivano i discorsi tenuti nel Parlamento
da personaggi per chiarezza di fama prestantissimi. La lettura
delle Gazzette si permetteva nei Caffè, ed è facile immaginare se la
curiosità od altro più nobile affetto le menti giovanili invogliassero
a sapere di cotesti successi e di coteste orazioni. Non bastando però
una sola copia a soddisfare la impazienza degli scolari, fu stabilito
che a turno uno di noi salisse sopra luogo eminente e leggesse. A me
toccò la mia volta come agli altri, e voglio confessare più spesso
che agli altri, forse perchè avessi o migliore voce, o migliore garbo
nel leggere. — Questo fatto mi fruttò la perdita di un anno accademico
per _Risoluzione Economica del Buon Governo_. — Se cotesta era colpa,
perchè consentire che le Gazzette si esponessero alla lettura nei
Caffè? Non pareva insidia tesa a inesperti fanciulli? E se non era
colpa, perchè punirci? E chiunque pensi che coteste pene cadevano
sopra famiglie numerose, la più parte scarse di averi, e come a molti
giovani venissero ad essere rotti per sempre gli studii, ad altri con
inestimabile danno ritardati, non dubiterà affermare, che potevano
reputarsi _veri omicidii intellettuali_. Ho narrato altrove[60] come,
venuto a Firenze, reclamassi della ingiustizia presso il Presidente del
Buon Governo, il quale mi disse: _A lui non appartenere la facoltà di
graziare; egli non potere fare altro che punire. Alla quale proposta
risposi: Io vi compiango, Signore, se occupando un posto dove anche
senza volere fate del male, e al mal fatto non potete riparare nè anche
volendo, la vostra coscienza vi consente rimanervi_. — Come si chiama
questa _Grazia_ o _Giustizia_? Lo dica l'_Atto di Accusa_, chè per me
io me ne lavo le mani.
Ci era una volta..... e forse vi è ancora, in Livorno un'Accademia
dall'antico Ercole Labrone appellata Labronica. Me vollero ascritto
alla medesima, e, quantunque non mi sentissi troppo tagliato a
diventare Accademico, per non comparire scortese mi lasciai fare.
Tenevano allora in cotesto collegio il primato uomini antichi e
presuntuosi, usi a convocare una o due volte l'anno i cittadini,
perchè ascoltassero i vieti sospiri in rima di qualche pastorello
di sessant'anni suonati. Pazze cose invero, ma innocenti fin qui.
— Certa sera, ch'era caduta copia di neve, mi chiamavano a consulta
per urgenza; andai, e trovai che mandavano a voti certo partito per
fissare se di ora in avanti il candidato accademico dovesse proporsi
da dodici o piuttosto da tredici Accademici. Aspettai udire cose di
maggiore importanza e rimasi deluso, imperciocchè col voto del partito
ogni negozio cessasse. Allora io mi attentai avvertire modestamente, ma
francamente, che sarebbe stato bene indirizzare l'Accademia a più utile
scopo, come a modo di esempio, allo studio della patria amatissima,
sia per provvedere alla educazione del Popolo affatto abbandonata,
sia per promuovere i commerci e le comodità capaci ad ampliare la
floridezza del nostro emporio. — Risposero acerbi, si tennero per
ingiuriati, e in brevi accenti dissero, avere fin lì durato in quel
modo, ed aborrire da ogni novità. Deliberai congedarmi dall'Accademia;
e lo faceva senza porre tempo fra mezzo, se Giuseppe Vivoli, adesso per
meriti diuturni eletto Cavaliere, non mi avesse invitato caldamente
a dettare lo Elogio di Cosimo Del Fante, valoroso soldato livornese,
e a leggerlo nell'Adunanza solenne solita a tenersi nel 19 marzo
di ogni anno. Studiosissimo di tutto quanto può ridondare a decoro
della patria comune, il signor Vivoli mi conduceva a vedere i vecchi
genitori di Cosimo, i quali a cagione della morte dell'unico figliuolo
traevano desolati gli estremi giorni verso il sepolcro. Piangeva il
padre mostrandomi i documenti delle rapide promozioni del figlio, le
insegne e il ritratto; non piangeva la madre, perchè la sventura le
aveva offeso il bene dello intelletto. Composi lo Elogio e lo lessi,
plaudenti i cittadini benevoli, alla presenza dello stesso Governatore
Venturi. I Regolamenti dell'Accademia ordinavano, il manoscritto della
composizione letta nelle mani del Segretario si depositasse, ed io
trasgredii a questa disciplina, conciossiachè, essendo determinato a
licenziarmi, non mi paresse essere più tenuto ad osservarla: e qui fu
il danno. Tre Accademici, il nome dei quali taccio, però che uno sia
morto e due vivano acciaccati dalle infermità e dagli anni, presi,
dirò, da tentazione del Demonio, mandarono scritto al Presidente del
Buon Governo, com'io recitando lo Elogio di Cosimo del Fante ne avessi
tolto pretesto a predicare massime sovversive _al trono e all'altare_
(allora correva la usanza di coteste parole); a tanto ardire farmi
audace lo affetto, che con bontà grande, ma prudenza poca, mi aveva
mostrato il Governatore Venturi. Dal Presidente vennero istruzioni
per informare segretamente della cosa; e subietto della indagine
fu ancora il contegno del Governatore, il quale avendolo subodorato
ne sentì inestimabile cordoglio. Egli primieramente, col mezzo del
signor Direttore Pistolesi, mi richiese del manoscritto, che subito
gli consegnai, e riscontratolo prima, lo inviava a Firenze, affinchè
esaminassero la verità, e della calunnia si persuadessero. Tanto poteva
bastare; ma sopportando acerbamente la ingiuria che gli pareva avere
ricevuta, il Marchese Venturi scrisse lettere minatorie al Presidente,
non ostante il mio consiglio a rimanersene, però che le minaccie
destituite di effetto, anzichè tutelare dalle ingiurie, le provochino;
e gli presagiva ancora, che la burrasca, passando di sopra ai suoi
poderi, sarebbe scoppiata sul campicello mio. E fui profeta. Trascorsi
parecchi mesi, allo improvviso, senza essere udito nè citato, senza
che fatto alcuno mi contestassero, ecco giungere dalla Presidenza
ordine al _Governatore stesso_, che m'intimasse la relegazione per sei
mesi a Montepulciano. Mio era il danno, la umiliazione del Marchese.
Giovane allora e del futuro improvvidissimo, manifestai volontà di
ridurmi in Inghilterra; ma il Governatore, baciandomi con molte lacrime
e profferendomi quanti desiderassi danari, mi scongiurò ad obbedire;
lasciassi a lui la cura del resto; essersi prevalsi dell'assenza
del Principe, allora recatosi a Dresda, per dargli quel colpo; dove
abbisognasse, si sarebbe deciso corrergli dietro fino a cotesta città
per chiarirlo del fatto; stessi di buono animo, chè tutto questo aveva
a ridondare in mio maggiore benefizio. Comecchè dubitassi forte dello
esito presagito alla trista ventura, pure andai a Montepulciano,
repugnando rincrescere all'ottimo vecchio, che mi si era mostrato
tanto benevolo. Egli poi non istette saldo nel suo proponimento, e a
me toccò consumare i sei mesi nella relegazione di Montepulciano. Il
Vicario di cotesta città, se non isbaglio chiamato Marini, mi veniva
persuadendo a fare istanza onde la relegazione cessasse; si assumeva
egli indirizzarla e raccomandarla, mi assicurava il fine felice: fui
grato al buon volere, non accettai il consiglio, e dopo sei mesi tornai
a Livorno.[61]
Prima che passi ad altro, mi giovi ricordare come arrivato in patria
mi s'ingiungesse di non partirmi senza licenza; così nel giro di
sei mesi io era _cacciato_ prima, poi _confinato_ in Livorno! — Ora
è da sapersi come i promotori del mio infortunio non rifinissero da
sussurrare, che il manoscritto da me consegnato fosse tutt'altra cosa
da quello letto; ma il tempo ha chiarita la menzogna, imperciocchè da
prima fosse stampato a mia insaputa a Marsilia, poi liberissimamente in
Toscana _mentre durava la Censura preventiva_; le quali due edizioni,
dove si collazionino col manoscritto, che so trovarsi negli Archivii
della cessata Presidenza, si conoscerà essere uguali per l'appuntino.
Uno dei miei segreti denunziatori prima di morire commise al Cavaliere
Vivoli d'impetrargli perdono da me, ed io lo concessi di cuore; pregato
inoltre a dettargli lo epitaffio, lo feci senza adulazione, perchè
invero egli era stato uomo di molta scienza e benemerito della mia
città nella moría del 1804. Un altro non aspettò cotesto estremo punto
per acquietare la sua coscienza, ma venne cristianamente per mercede, e
cristianamente fu accolto; e ci baciammo in bocca, dannando all'oblio
la ingiuria fatta e patita. Il terzo, un giorno pretese giustificarsi
appo me, profferendo mostrarmi lettere donde resultava la pressura
fattagli di unirsi agli altri due. Fosse vero o no il suo dire, cotesta
era ignobile ricerca: la ricusai, invitandolo a dare al fuoco le carte,
come io avevo dato alla dimenticanza il caso. — «Bruciate cotesti
fogli, raccomandavagli istantemente, onde i nostri figliuoli non li
trovino e si vergognino di noi.» — Durante il Governo Provvisorio, il
Presidente del Buon Governo, che di questi e di altri travagli aveva
contristato la mia giovanezza, fu il _primo_ che a scadenza di mese
mandò la ricevuta per riscuotere la paga. I miei orecchi sono stati
saziati di encomii, e non gli ho avvertiti; ma questa fiducia posta
nell'animo mio mi toccò nel profondo: grande era dunque la opinione
della mia generosità! I miei compatriotti giudichino se io l'abbia
meritata.
Che cosa fosse questa o _Grazia_ o _Giustizia_, lo dica l'Accusa,
perchè io mi professo incapace a chiarirlo. —
E passo alla _terza piaga_. Talvolta, non sempre, per sollevare
l'animo e il corpo stanchi dalle continue fatiche, mi recava per
qualche ora la notte in certa compagnevole brigata dove cenavamo,
fumavamo e novellavamo a nostro agio. Convenivano quivi giovani
appartenenti alle principali famiglie della città, ora uomini che il
Governo annovera meritamente tra i fidatissimi suoi. Un bel giorno
siamo chiamati davanti il Commissario di Polizia io e Domenico Orsini,
persona dimostratasi sempre amica di quiete, onorata d'impieghi,
tenuta anch'essa in conto di devota alla Monarchia Costituzionale; e
ad ambedue noi il Commissario di Polizia fece motto di cospirazioni,
di sètte e di simili altre fatuità. Rovello della Polizia a quei tempi
era volere da per tutto cercare congiure: sentii dire, che gliele
pagassero quando le aveva trovate, sicchè i bracchi tenevano sempre il
muso a terra, e, non volendo tornarsi mesti ed anelanti a casa, quando
non levavano congiure abbaiavano per far credere ch'elle fossero nel
macchione. Fummo ritenuti due mesi in carcere: per questa volta vidi
un Decreto, ma invano cercai il motivo della condanna; se ben ricordo,
la breve scrittura conteneva una frase equivalente al _causis nobis
cognitis_. — E se vuolsi aver saggio del caso che a quei tempi facevasi
della libertà dell'uomo, si sappia come mio fratello Temistocle venisse
a visitarci quasi quotidianamente. Certo giorno, su l'andarsene,
il soprastante alle carceri gli diceva che bisognava si trattenesse
là dentro; e il mio fratello rispondeva: rimarrei volentieri, ma i
miei negozii mi chiamano altrove; — e l'altro: ho ricevuto poco anzi
l'ordine di non lasciarla partire. — Oh! allora è differente la cosa.
— Insomma anche il fratello un mese in prigione per colpa di visitare
il fratello. _Male incoglieva a quei tempi praticare le opere di
misericordia corporale_! —
Ho udito raccontare come nei tempi antichi corresse usanza di allevare
al fianco di regio alunno un fanciullo di piccolo stato, onde quante
volte il primo cadesse in colpa, tante potessero bussare il secondo,
onde quegli con la sola vista della pena si emendasse, e questi il
dolore (ch'è retaggio plebeo) sofferisse. La Polizia, sospettosa
del consorzio innocentissimo degli spettabili giovani, io penso
che percuotesse sopra di me, come persona di minore importanza, per
incutere negli altri _salutare terrore_. — Intanto un senso di molestia
per tutta la Toscana diffondevasi; in ogni classe di cittadini era
ansietà affannosa, sgomento crescente, e un domandare quando cotesti
incomportabili arbitrii avrebbero fine, e uno instare continuo affinchè
il mostruoso instituto cessasse. Fu reputato colpa dell'uomo quello che
era vizio del maestrato, e il primo dimisero, il secondo conservarono.
Noi uscimmo di carcere punto lieti della caduta del Presidente, poichè
si manteneva in piedi la Presidenza.[62]
Se questa fosse _Grazia_ o _Giustizia_, l'Accusa avrebbe potuto
informarsene da qualcheduno di quelli che porsero grazie pubbliche al
Principe di avere affrancata la Toscana dal turpe giogo della Potestà
Economica.
Eccomi alla _quarta piaga_. La Polizia non aveva punto deposto lo
antico sospetto, dacchè ella appartenesse a quella maniera di bestie,
delle quali si dice che perdono il pelo, il vizio mai. Erano suoi
fantasimi le sètte segrete. La svegliatezza degl'ingegni, la pratica
degli umani negozii, la indole espansiva, non meno che certo costume
antichissimo, ormai fra noi diventato natura, di aprire l'animo nostro
a libera indagine intorno agli atti governativi, hanno impedito sempre
che siffatte congiure allignassero in questa terra;[63] nè altrove
abbiamo potuto intendere di che cosa sieno state capaci. Eranvi in
Francia sètte segrete nel 1830, ma senza le ordinanze di Carlo X
nulla avrebbero potuto operare; eranvi anche nel 1848, ma se Luigi
Filippo consentiva ad alcuna modificazione su la Legge Elettorale, o
più tempestivamente rassegnava il potere a favore del nipote, le sètte
rimanevano impotenti. Le sètte, e la esperienza lo ha chiarito, non
sono mai da tanto di rivoluzionare gli Stati. — Le rivoluzioni nascono
dagli errori dei Governi, dallo scontento dei Popoli, e dal cumulo
di molte cause che troppo lungo sarebbe discorrere. _Fiorenza non si
muove, se tutta non si duole_, dicevano i nostri antichi, e con ciò
vollero significare che il Popolo non è portato, ma porta, nè corre
dietro alle voglie o alle passioni altrui, ma per le proprie unicamente
si agita; e dissero bene. Le sètte, nello scompiglio universale,
possedendo il vantaggio di un tal quale organamento, s'impadroniscono,
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