Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 58
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a suo senno; così, senza che il Potere costituito ardisse farle
opposizione, atterrò gli Alberi della Libertà davanti ai presidii
delle Guardie Nazionali, che come smemorate la lasciarono fare,
rialzò gli stemmi del Duca facendo gazzarra, e stampò per tal modo
un marchio indelebile d'obbrobrio sopra una delle città più gentili
di questa terra italiana. Dov'era allora il Governo? Che facea il
Municipio? Dove erano le truppe? Come patì la Guardia Nazionale sì
rea violenza? La condotta del Guerrazzi portava i suoi frutti; il
nulla fare, il paralizzare ogni sentimento patrio, lasciava una delle
prime città italiane allo sbaraglio di alcune migliaia di villani; i
Liberali piansero di disperazione vedendo l'eccidio a cui le cose erano
condotte, vedendo come anche l'onore era stato indegnamente immolato.
«La Reazione percorse tutto il suo stadio, _si autorizzò dell'idea
fatta spargere dal Guerrazzi, che solo una Restaurazione poteva
risparmiare un intervento tedesco_. Le grida di _morte ai Deputati,
morte ai Liberali_, rimbombarono per molte ore, accompagnate da atti
che per l'onore d'Italia non vogliamo ricordare. Una Commissione fu
istituita poi che disse governare in nome del Principe, e gli amici
del Principato Toscano cominciarono dal retribuir Guerrazzi dei servigi
fatti loro, con quella carcere _che da tutt'altri, che da essi, avrebbe
dovuto meritare_[798].
«Le Deputazioni si apprestarono a partir per Gaeta, per richiamare
il benamato Principe, e tornare a quelle _saggie franchigie_ troppo
dal Guerrazzi e dal Montanelli conculcate. Ma il benamato Principe
lasciò scorgere che non voleva far più a sicurtà come prima con quelle
dimostrazioni di affetto, e che alcuni battaglioni di tedeschi lo
avrebbero meglio rassicurato. Fu allora che anche gli spegnitori di
ogni entusiasmo patrio, fu allora che quei reazionarii commovitori
delle campagne conobbero che abisso si fossero scavato, e che
cercarono (_indegno strattagemma_) di adonestar l'intervento austriaco,
mostrandolo da Livorno solo motivato. D'Aspre però, a cui noiavano
tutte quelle reticenze, che voleva anche un po' umiliar Leopoldo
pei suoi _sentimenti italiani_, troncò le ambagi con un Proclama in
cui disse, che il Principe stesso aveva voluto quell'intervento. Gli
amici del Principato Toscano avrebbero dovuto nascondersi allora per
vergogna, se di qualche pudore fossero stati capaci; ma trovarono più
idoneo il continuare a bandir la croce sui Repubblicani, dicendo che se
anche il Principe non si affidava più in essi, ciò era sempre per opera
loro.
«Così cadde Firenze, e, che peggio è, cadde vituperosamente;
vituperosamente non pel suo Popolo che l'Italia aveva amato, come
quello di tutti gli altri Paesi, ma per le stolte e ambiziose
tergiversazioni di un uomo che portò il _pessimismo_ dei suoi scritti
nella vita politica[799], e per lo zelo di una gente fredda, egoista,
inconsiderata, che non comprese come, ostando al movimento nazionale,
diveniva per necessità l'alleata dei Tedeschi.
«Era serbato a quell'inclita città il vedere quindi una Convenzione
stretta col nemico d'Italia per l'occupazione della patria, e il vedere
un Corsini ad apporre il suo nome in un patto, che convertiva una
provincia italiana in un feudo tedesco.
«La Storia, che giudicherà gli uomini e gli atti di questa età
dolorosa, saprà dispensare imparzialmente le lodi e l'infamia[800].»
* * * * *
Seguono due libri entrambi stampati da Felice Le Monnier, il quale
si è fatto Editore del pari della mia _Apologia_, onde si può dire di
lui quello che gli antichi narravano della lancia di Achille, la quale
sanava le ferite che faceva.
«_Vulnus Achilleo quæ quondam fecerat hosti_
«_Vulneris auxilium Pelias hasta tulit_[801].»
La prima ha titolo: «_Gli ultimi Rivolgimenti Italiani; Memorie
storiche del signor Marchese F. A. Gualterio di Orvieto_. — Firenze,
1850-51.» Quando di queste Memorie mi pervenne notizia, ne augurai
subito male, talchè nel 9 gennaio 1850 ebbi a scrivere al mio Difensore
signore Avvocato Tommaso Corsi: «Ricordi quello che si narra di
Alessandro Macedonio, quando Lisimaco gli leggeva certa storia di
strani gesti operati da lui? È fama che Alessandro, interrompendo
Lisimaco, esclamasse: e dove eravamo noi quando facevamo sì stupende
cose? — Questa storia mi si affacciò alla mente più volte leggendo
le mille gagliofferie e perfidie stampate sul conto mio; però a
imitazione di Alessandro mi sono stretto nelle spalle interrogando
me stesso: — e dove ero io quando facevo tante belle cose? — Jeri
leggendo il _Galignani's Messenger_ del 28 decembre me ne capitava una
sott'occhio nuova di zecca, e parla così: — dicesi che un certo signor
Marchese Gualterio di Orvieto abbia pubblicato una Storia Politica
d'Italia dal 1847 al 1849, la quale _cause one immense sensation by
the new light which it will throw on the men and things of our day
ec..... by documents_ esaminati nello Archivio segreto del Governo,
e di alcune Cancellerie; — e seguita: — _another revelation still
more curious will show in the most evident manner that the Dictator
Guerrazzi was supported by Lord Palmerston. The proof of this exists
in a letter of Guerrazzi to Sir G. Hamilton, complaining in the better
terms of having abandoned by England after the english Ambassador had
formally promised him that he might calculate on his support_.» Ora
niente di questo è vero; e l'onorevole Lord Palmerston ebbe la bontà
di significarmi, col mezzo del Ministro Hamilton, il suo gradimento
per i miei sforzi, da me in tempi difficili, e privo di qualunque
aiuto, operati in benefizio della salute pubblica, confortandomi a
perdurare in quelli, e a sostenere con ogni facoltà mia il Principato
Costituzionale. Lo evento poi corrispose al presagio. Cotesto è libro
di Parte; due compaiono essere i fini che si propone: favoreggiare
gl'interessi della Monarchia Costituzionale Piemontese, esaltare il
Partito, che si dice dei Costituzionali moderati. Malgrado le lodi
prodigategli da questi ultimi, senta un po' me il Marchese Gualterio,
chè, quantunque non gli sia parso finora, troverà che io so dire il
vero, e posso, perchè fin qui, e sono quarantasei anni, viltà che sia
non ho saputo mai; da parte il merito letterario di cotesto libro, io
gli dichiaro che non è opera da prudente storico, nè da uomo onesto.
Come storico di casi contemporanei, sembra a me che dovesse mettere più
coscienza nel ricercarli, più gravità nello esporli, dacchè io davvero
non comprendo come possa giovare alla comune Patria, e allo stesso
concetto che promuove, inciprignire le piaghe, e perpetuare, anzi
crescere, le maladette discordie. Se io male non veggo, in questa parte
egli amministra ottimamente i negozii, — non però quelli d'Italia.
Come onesto, io lascio considerare a lui, che pure è gentiluomo,
e si professa dabbene, se egli doveva raccogliere nelle orecchie
tutto quanto vi versava dentro la necessità di attenuare un'azione
turpissima, l'astio della mediocrità, e l'odio di superbie umiliate.
Egli non è ancora giunto co' suoi scritti alla mia vita politica, e
siccome mi giova sperare che di ora innanzi avrà compreso, con un bove
solo non tirarsi il solco, nè potersi giudicare del suono delle campane
se ambedue non si ascoltano, e che di ciò farà senno così per dettare
le rimanenti Memorie, come per correggere le già scritte, non mi
trattengo più oltre sopra di lui, pago, intorno alle ragioni della mia
vita privata, di quel tanto che mi fece l'onore di attestare Tommaso
Corsi, e che io stesso ho discorso sparsamente nella mia _Apologia_.
«Ma sopra ogni altro feritore infesto
«Sopraggiunge _Farini_, e _me_ percuote.»
Non dirò delle sue intenzioni, quantunque, secondo il mio giudizio,
rette non pare che abbiano ad essere; ad ogni modo io domanderò chi
gli abbia insegnato comporre Storie sopra Requisitorie di Procuratori
Regii, cospargendole di tratto in tratto di qualche fiore còlto nel
suo giardino! Ora che cosa altro ha egli fatto, almeno per me? E gli
domando eziandio, se sono prove di temperanza, di moderazione, e di
probità, praticare com'egli ha fatto contro uomo, che da trenta mesi si
logora chiuso in carcere, e non gli può rispondere! Se così costumano
i moderati, che cosa dobbiamo aspettarci dagli _sbracati_ e dagli
_scamiciati_, è difficile immaginare. Pensino a questo i Moderati.
Il suo libro si manifesta dettato nel medesimo spirito di quello del
Gualterio, ma con manco di generosità, e più piglio di Procuratore
Regio, però che Gualterio non dia i suoi giudizii per definitivi, e
prometta, se avvisato, emendarli. Io già ho tenuto proposito del libro
intitolato _Lo Stato Romano_ in varie parti dell'Apologia: mi giovi
qui singolarmente rilevare alcune, che, adoperando il più benigno
linguaggio, chiamerò falsità. A pagine 86 del Tomo III afferma: «_Chi
rompe paga_, scriveva per telegrafo il Guerrazzi a' suoi Livornesi,
usi da lui a rompere ed essere pagati?» Mi sia permesso domandare al
Farini: su che cosa fonda questa vergognosa imputazione ai Livornesi,
e a me? Se nel proprio mal talento, questo non fu mai, per quello
che io sappia, annoverato fra le sorgenti della Storia; e veda, che
quello ch'ei finge, grave sempre, per me oggi è gravissimo. A pagine
87 afferma: «dicendo provvedere alla sicurezza pubblica, provvidero al
proprio impero, soldando guardie di polizia fra le turbe dei turbolenti
e dei fuorusciti, le quali, come non avevan prima nè termine nè misura
nelle voglie pazze e malvagie, così furono poi non presidio, ma offesa
della città.» E questi, veda il Farini, e' sono rotondi, non già
sinceri periodi; avvegnadio se della Guardia Municipale tu consideri la
origine, troverai averla scelta una Commissione composta del Prefetto
e del Gonfaloniere di Firenze con altri cittadini spettabili, e non
avervi preso punto parte io, se togli la nomina Basetti, e i suoi
figlio e fratello; o, se piuttosto tu vogli considerare i portamenti,
li conoscerai essere tali da meritarsi di essere conservata dalla
Commissione Governativa. Individui pessimi certo entrarono in quella,
ma non per colpa del Governo, e perchè in qualunque composizione di
corpi questo guaio vediamo avvenire sempre; nè poi furono tanti, che
dessero cattivo nome al corpo intero: onde l'accusa del Farini suona
singolare, e non vera. Intorno al disfacimento degli ordini in Toscana,
lo mando.... se il Farini ci vorrà andare.... a quella parte della
mia _Apologia_, dove di ciò si ragiona, e le parole di Gino Capponi si
riportano. Quanto scrive intorno al Granduca nostro, suona così:
«Havvi chi afferma, che egli non si fosse mai acconciato agli ordini
liberi in guisa da lasciare gli appetiti e le ubbie dell'assoluto, e,
come dicono, paterno reggimento. Havvi chi dice, che sin da quando
rallentò i vincoli della libertà, perchè il papa coll'esempio aveva
sciolti i popoli italiani, scrivesse all'arciduca Ranieri vicerè di
Milano ed altri suoi consanguinei, facendo querela e beffa dei liberali
che inuzzolivano. Taluno attesta, che nel tempo, in cui colle poche sue
armi concorreva alla guerra d'indipendenza, egli fosse in buoni termini
co' regii ed imperiali parenti, coi quali non aveva intralasciato i
consueti uffizii. Ond'è, che molti hanno argomentato poi dai fatti
che seguirono, e da quelli che si vanno via via svolgendo in Toscana,
che Leopoldo II non solo fosse sempre oscillante fra gli avvisi e le
parti contrarie, ma che sempre fosse fermo nella devozione ad Austria
ed alieno dalle liberali novità. Del che io non ho a fare giudicio,
perchè non ho d'onde fondarlo su base a cui la coscienza s'acqueti; nè
d'altra parte ho debito di addentrarmi nelle cose toscane più di quanto
sia necessario ad indagare e chiarire le attinenze di quelle colle
romane. E dovendo rimanermi in prudente, e direi onesta, dubitazione,
amo meglio, il confesso, pendere a benigno giudizio d'un principe che
pur si parve ornato di buone qualità, mite dell'animo, degli studii
fautore, riformatore d'abusi, quando gli altri italiani principi di sè
davano nome ed esempio peggiori.»
Ora, che cosa egli è questo vedere, e non vedere, a modo della
Vergognosa di Camposanto? Non si gittano addosso accuse pessime per
iscivolare via lasciando dietro una traccia di bava a mo' di lumaca. La
storia scrivono gli Storici, non gli Scoiattoli. Egli doveva verificare
le accuse, e se accertate esporre gravemente, e lealmente, e se non
riusciva ad accertarle doveva trascurarle, perchè davvero raccattare
quello, che ai giorni di oggi s'incontra per via, è mestiere da
carrettaio, non ufficio da Storico. Tra lo Storico, che pazientemente
raccoglie la materia, la studia, la saggia, la sottopone a religiosa
indagine, e alla fine la veste con forme caste ed elette di stile, e lo
scrivano che tuffa la penna nello inchiostro e la mena di su e di giù
per le carte, la differenza che corre è grande quanto fra un pittore
e uno imbiancatore; oltre che elle paiono, coteste del Farini, come
veramente sono, ipocrisie, che putono di vieto lontano un miglio; e per
un momento ho quasi dubitato, che dei Gesuiti oggimai fossero le voci,
ed altri avesse avuto le noci; chè se la cosa non istà per l'appunto
come la credo, in quanto a noci, almeno mi pare, che se le sieno
spartite, e da un pezzo.... — A pagine 218 afferma: «che i Ministri
tennero consiglio co' sollevatori nei Circoli nella notte dell'8
febbraio.» E veda l'onesto Farini, questo fatto che sarebbe cagione di
capitale condanna, nemmeno l'Accusa (che non ha fatto a risparmio per
inventarne grosse) ha osato affermarlo. A pag. 219 pone: «che nell'8
febbraio il Governo prima gridò, poi disdisse la Repubblica;» ed anche
questa è calunnia pretta che neppure ha potuto riscontrare nell'Accusa,
— _fidata scorta degli erranti passi_. Intorno alla inverosimiglianza
delle tre lettere scritte dal Granduca, con le quali prima chiede,
poi renunzia, e finalmente torna a sollecitare i piemontesi aiuti,
ho discorso altrove; le due prime possono credersi, non già la terza,
che a me pare immaginata a posta per salvare chi aveva promesso quello
che non _doveva_ promettere, e non _poteva_ mantenere, se gli ordini
costituzionali si vogliono osservare.
Però in queste mie miserie mi hanno somministrato non mediocre
argomento d'ilarità le lodi smodate con le quali prosegue la
commissione del Ministero Toscano del 22 settembre 1848 al Marchese
Ridolfi per le Conferenze di Brusselle. Se io di mia certa scienza non
sapessi essere allora Presidente del Consiglio Gino Capponi, non lo
crederei a cui mel giurasse; però che Gino Capponi sa, che politica
francese di Enrico IV, e seguita sempre da Richelieu a Lamartine
inclusive, fu tenere deboli e divise la Germania e la Italia, e sa
che gli Stati piccoli congregati ad equilibrio di leghe all'urto degli
Stati uniti e grossi non reggono, come vedemmo ai tempi di Ludovico il
Moro; e finalmente sa che rovina d'Italia fu appunto questa, operata
in buona parte dal Magnifico Lorenzo dei Medici, che in condurre un
disegno piccolo e cattivo pose arte e sagacia eccellenti: che mentre
le si stavano componendo su i confini, grosse ed unite, l'Austria
e la Francia, essa durava frantumata in piccoli brani; nè potersi
della indipendenza nostra neppure parlare là dove nell'alta Italia
non venga posto uno Stato forte capace a guardare le frontiere da
vicini potentissimi; — e nonostante che queste cose sapesse, leggiamo
con maraviglia commettere al Marchese Ridolfi di consentire che la
Lombardia si concedesse a un figlio di Carlo Alberto, e la Venezia o
ad un Arciduca di Austria, o a Francesco V di Modena; in quanto alla
Sicilia s'ingegnerà di promuoverne la separazione dalla Corona del Re
di Napoli, assegnandola in retaggio a un figliuolo di lui; i Ducati di
Parma e Modena ad ogni modo si sforzasse fare abolire; e per quanto
concerne Toscana _si adatterebbe a prendere_ di Lombardia un pezzo,
ma non tale che si avesse a dire di lui: la carne non vale il giunco;
però di 12 oncie buon peso, e senza osso, — e per di più Toscana non
vorrebbe chiedere, ma sì piuttosto desidererebbe essere pregata. —
Cose sono queste da far cascare le braccia ad ogni fedele cristiano.
Così, invece di diminuire, si accrescevano le divisioni in Italia! E
quello poi che riesce più stupendo a vedersi si è, che Farini, il quale
si sbraccia a maledirmi (e se fosse vero, come è falso, avrebbe fatto
bene) per essermi mostrato avverso alla composizione necessaria di uno
Stato gagliardo, trova a lodare un concetto che guastava il presente
e l'avvenire. Egli è vero che debole Stato siamo noi, e la nostra
voce poco avrebbero ascoltato; e questo a parere mio somministrava un
motivo di più o per parlare almeno magnanimi, o per tacere prudenti;
e concludo sostenendo che un uomo dotto nelle storie e nelle ragioni
della politica, come Gino Capponi, non può avere consentito così
mirifica commissione, e mi pare assai che volesse tôrne il carico il
Marchese Ridolfi, se pure non ebbe ordini segreti, che, la stupenda
commissione correggendo, la riducessero ai termini del credibile. — È
falso quanto scrive Farini a pag. 285, che «i Governanti Toscani non
erano amici al Piemonte;» io ho chiarito, onde non si rinnuovi questa
sventura, come taluni fra i Piemontesi si dimostrassero, all'opposto,
poco amici dei Toscani. — Dello esilio di Massimo Azeglio, e delle
ingiurie al Lovatelli di che ragiona a pag. 332, davvero nulla so,
che pare qualche cosa dovrei saperne, ed anche questa va messa al
monte. Delle contumelie stampate contro Gioberti, non occorre fare
altra parola. Non fu il 4, ma il 3 di aprile, che l'Assemblea sospese
il voto intorno alla Unione con Roma, non lo profferì contrario, come
Farini asserisce erroneamente, dacchè, in modo diverso, fino da quel
giorno la Restaurazione sarebbe stata decisa, e quanto racconta in
seguito non accaduto, come quello ch'era ad accadere impossibile.
— In due luoghi scrive, che gli agitatori menavano tanto rumore che
_Guerrazzi non gli sapeva sopportare_ (pag. 219), e che _i lazzaroni
democratici deturpavano la Toscana, fremente lo stesso Guerrazzi_!
(pag. 332.) Ma io ricuso cotesto pane dato con la balestra, anzi
perfino col punto di esclamazione in fondo; e neppure si potrebbe
onestamente accettare, perchè accompagnato da soverchie tumidezze e da
bugie. Bugia le sommosse fiorentine represse dalle bande livornesi;
bugia l'essermi io ridotto co' Livornesi in Castello; bugia essermi
mostrato pronto a pigliare posto nella provvisoria congregazione del
Governo; bugia il mio girare nel manico per accettare la Restaurazione
(pag. 333): le quali cose tutte, secondo che io affermo, essendo
con copia di prove dimostrate nell'_Apologia_, non abbisognano di
più largo discorso. Vorrei piuttosto tenere proposito di certa sua
imputazione intorno ai successi di Genova, molto più che l'Accusa
tocca anche di questi, e poi dice: te li do per giunta; — onde io, che
dell'Accusa non vorrei la giunta nè la derrata, mi condurrei volentieri
a tenerne ragionamento, ma basti dire (e se sia vero lo può il Farini
riscontrare nel Volume dei Documenti della sua Musa, — l'Accusa), —
che io desiderai soccorrere Genova quando venne fra noi la notizia,
che il Piemonte in gran parte commosso per lo infortunio di Novara,
respinto da sè ferocemente ogni principio di accordo, voleva tentare
le ultime prove, e quando fu detto che il Generale La Marmora fra i
patti della capitolazione ponesse quattro ore di saccheggio[802]. Non
si verificò la prima notizia, e, se male fosse o bene, mi confesso
incapace di giudicare; in quanto alla seconda, che non si verificasse
fu certamente bene. E si acquistò bella gloria Vittorio Emanuele, e diè
con auspicii felicissimi fondamento al nuovo Regno, superata Genova,
commettendo ogni trascorso all'oblio, concesso prima lo scampo a coloro
che consigli di politica lo dissuasero a ricevere su quel momento
in grazia; e leggo con piacere come il buon seme generasse frutto
migliore, conciossiachè i Liguri lo abbiano di recente accolto nella
loro nobile città con dimostrazioni di stima profonda.
In questa nuova percossa della fortuna, come fu visto l'apice a cui
possono arrivare la ignoranza con le sue stupidezze, e la tristizia
con le sue perfidie, così doveva presentarsi eziandio uno spettacolo
di stranezza piuttosto portentosa che rara, e consiste nel concorso di
due Giornali, che si accordano fra loro come il Diavolo con l'Acqua
Santa (e poichè ad uno Accusato non si addicono le parti di Giudice,
io mi asterrò prudentemente dal decidere chi di loro sia il Diavolo,
chi l'Acqua Santa), a favellare onestamente di me: uno è il _Cattolico_
dei RR. PP. della Compagnia di Gesù, come ho notato nell'_Apologia_;
l'altro è la _Opinione_, dello Autore chiarissimo della Vita di Fra
Paolo Sarpi, Bianchi Giovini, il quale scriveva nel novembre dell'anno
passato: «e prima di questo scisma, ci giustificava uno dei martiri
illustri della causa italiana, l'infelice Guerrazzi, il quale, checchè
si sia detto da alcuni, non è, e non fa mai mazziniano, e che riconobbe
anzi a quali sventurati risultamenti avrebbero condotta l'Italia i
delirii di quel Partito. Tentò egli di opporvisi, ma l'onda era troppo
forte, ed egli espia in carcere, e sotto la minaccia di un processo
iniquo, gli altrui errori.»
L
XXX. I giorni 11, 12, e 13 aprile 1849. — Pag 756.
«_Poteva, dubitare che me volesse prigione.... il Senatore
Capoquadri che, Ministro di Giustizia e Grazia, volle, per
eccezione amplissima ed onorevolissima, che senza esame la Curia
fiorentina nell'Albo degli Avvocati potesse ascrivermi?_»
«Sig.r Avv.o Pregiatissimo.
«Per declinare dalle regole prescritte dagli ordini veglianti per
l'ammissione di un Legale all'Ordine degli Avvocati, è necessario che
il Postulante abbia un merito distinto. La Camera di Disciplina, che
io presiedo, non saprebbe immaginarne dei più distinti di quelli che
adornano la sua persona. Ed è per questo, che si è recata in sommo
pregio di accoglierla nell'Ordine, a cui Ella col suo nome, col suo
talento, e con le sue opere accresce lustro e decoro.
«Gradisca, signor Avvocato, l'assicurazione della alta stima e
considerazione, con cui ho l'onore di essere,
«Firenze, 24 luglio 1848.
«Sig.r F.-D. Guerrazzi, di Lei
«Devotiss.o Servitore
«Cav.re Avv.o RANIERI LAMPORECCHI.»
M
Ivi. — Pag. 762.
«_Colà stemmo raccolti sei: rappresentai la indecenza che le
donne non potessero avere stanza appartata. Credei che _a
gentiluomini e a padri di famiglia dovesse comparire sacra
la ragione del pudore: non risposero._ Rappresentai il modo
disonesto del prendermi, che mi pareva nato a un parto con
quello tenuto dal Valentino a Sinigaglia per ammazzare Vitellozzo
Vitelli, Oliverotto da Fermo e compagni_: non risposero.»
Ecco la lettera: la quale merita tanto maggiore considerazione, in
quanto che dettata sotto la impressione di memorie recenti, piena
di contestazioni di fatti del giorno, e consentanea alle prove, che
quantunque raccolte dall'Accusa pur ella ha reputato suo interesse
dissimulare.
«Signori GINO CAPPONI ed altri componenti la COMMISSIONE GOVERNATIVA.
«Desidero sia letta questa scrittura con la pazienza con la quale io
la detto. — Forse tornerà inutile, eppure non mi sembra bene ometterla,
sentendo come per molti capi importi farla alla mia religione.
«Innanzi tratto, sapete voi, o Signori, in qual modo io venni condotto
quaggiù? Rispondendo per voi dico: _No_, imperocchè mi parrebbe enorme
supporre, che voi lo aveste saputo, e consentito. A voi poco preme
sapere come infiniti modi per sottrarmi alla disonesta prigionia
mi sovvenissero e fossero offerti, i quali tutti, o non adoperai, o
ricusai; quello però che dovrebbe premervi è questo: — che la mattina
del 12 aprile la Deputazione del Municipio Fiorentino, la quale
venne all'Assemblea, consultatomi intorno alla deliberazione presa
di governare il Paese a nome del Principe, proposi farvi aderire
l'Assemblea onde le Provincie più volonterose concorressero, ed
ogni mal germe di discordia fosse tolto via; parendomi ancora pel
Principe più onorato, e meno nocivo alla libertà, richiamarlo in
virtù del consenso universale, che per forza di tumulto. A istanza
altrui formulai un Decreto che suppongo voi abbiate nelle mani; voi
sentiste diversamente da me; tuttavolta cotesta carta deve porgervi
testimonianza della mia volontà, disposta a contribuire alla pace del
Paese con tutte le mie forze.
«Raccomandandomi il _Priore Digny_ la Patria con fervidissime parole,
e confortatomi ad adoprarmi dal canto mio onde la sua miseria non si
facesse maggiore, io, rispondendo con pienezza di cuore a lui e agli
altri membri della Deputazione Municipale, proposi recarmi a Livorno
con qualche rappresentanza officiale avesse voluto la Commissione
conferirmi per disporre gli animi a starsi all'operato contenti.
Accolsero con segni manifesti di gradimento questa proposta, e il
Priore Digny m'invitava a non partirmi: _sarebbe tornato la sera a
concertare la cosa_. — Intanto i Deputati si ridussero di quieto ai
proprii alberghi, ed io rimasi contro il consiglio di tutti, e ricusata
la carrozza offertami dal _Colonnello Tommi_, stretto dal dovere e
dalla _parola data_ alla Deputazione Municipale.
«Il Generale _Zannetti_ e il Colonnello _Nespoli_ vennero verso le
ore 3 pom., il primo per _assicurarmi_ che nella serata, con treno
particolare, sarei inviato a Livorno; il secondo a offrirmi di
mandare qualche compagnia di Nazionale alla Stazione per tutelarmi,
ad ogni evento, nel caso avessi voluto partire alle 4. — E poichè il
Nespoli accomiatandosi da me mi baciava, come si costuma, in volto, il
_Zannetti_ favellò queste precise parole: _io non ti bacio adesso, ti
bacierò stasera_. Tornarono in serata _Digny_ e _Zannetti_. Il primo
tacque delle facoltà che doveva conferirmi la Commissione, donde io
inferiva che non me le volesse assentire, _ma confermarono entrambi
sarebbe il mio viaggio avvenuto nella notte per Livorno. Stessi
pronto a partire_. Verso le ore 3 del mattino ricevo il biglietto che
_unisco_, pel quale _Zannetti_ mi annunzia alcuni non volere lasciar
libero il passo, opinare la Commissione trasferirmi pel Corridore
dei Pitti in Belvedere, donde remossi i Carabinieri, avrebbe messo
la Nazionale. Questa lettera, che accenna mutamento di esecuzione a
concerto che resta fermo, in sostanza mi turbò alcun poco, non tanto
però che mi facesse dubitare di uomini probi ed amici. _Zannetti_
venne tardi la mattina, e dichiarò la prudenza consigliare che per
2 o 3 giorni rimanessi in Fortezza, tanto che la plebe si sdracasse.
Allora le donne, e il Commesso della Segreteria dello Interno Roberto
Ulacco, vollero tenermi compagnia. A confermarmi nella mia fede
valse il fatto seguente: che manifestando io esser privo di danaro
per pagare il viaggio, e certi miei debiti, il _Priore Martelli_ mi
portò L. 1000, e me le consegnò giusto in quel punto che da Palazzo
Vecchio muovevamo a Palazzo Pitti. Durante il cammino, _Zannetti_ mi
avvisò la Commissione non pareva inclinata mandarmi a Livorno, e mi
interrogava se fossi stato contento a starmi qualche tempo lontano dal
paese. Risposi: avere l'animo travagliato così dalle sciagure della
Patria, che lo avrei reputato beneficio; egli però conoscere le mie
fortune; provvedesse come gli pareva meglio. Ed egli a me: lasciassi
fare, avrebbe accomodate le cose in serata, e il giorno appresso
sarebbe venuto a darmene ragguaglio. Non l'ho veduto più. — Mi coglie
il ribrezzo pensando da cui mosse la insidia; ma insidia vi fu, e
bruttissima, a modo delle Valentinesche. Ora vorrete voi Gentiluomini
giovarvi di trame proditorie, e di fede tradita?
«Sapete voi come io stia ristretto in carcere con altre cinque persone?
Io rispondo per voi, e dico risolutamente: No. Dentro una stanza
alberghiamo quattro, due uomini e due donne, fra queste la nepote
sedicenne, cavata per pochi giorni di convento per visitare lo Zio.
Voi siete padri, o Signori. — Io non aggiungo parola; — solo desidero
vi preservi il Cielo dalla umiliazione di vedere così poco curato il
pudore delle vostre figliuole!...
opposizione, atterrò gli Alberi della Libertà davanti ai presidii
delle Guardie Nazionali, che come smemorate la lasciarono fare,
rialzò gli stemmi del Duca facendo gazzarra, e stampò per tal modo
un marchio indelebile d'obbrobrio sopra una delle città più gentili
di questa terra italiana. Dov'era allora il Governo? Che facea il
Municipio? Dove erano le truppe? Come patì la Guardia Nazionale sì
rea violenza? La condotta del Guerrazzi portava i suoi frutti; il
nulla fare, il paralizzare ogni sentimento patrio, lasciava una delle
prime città italiane allo sbaraglio di alcune migliaia di villani; i
Liberali piansero di disperazione vedendo l'eccidio a cui le cose erano
condotte, vedendo come anche l'onore era stato indegnamente immolato.
«La Reazione percorse tutto il suo stadio, _si autorizzò dell'idea
fatta spargere dal Guerrazzi, che solo una Restaurazione poteva
risparmiare un intervento tedesco_. Le grida di _morte ai Deputati,
morte ai Liberali_, rimbombarono per molte ore, accompagnate da atti
che per l'onore d'Italia non vogliamo ricordare. Una Commissione fu
istituita poi che disse governare in nome del Principe, e gli amici
del Principato Toscano cominciarono dal retribuir Guerrazzi dei servigi
fatti loro, con quella carcere _che da tutt'altri, che da essi, avrebbe
dovuto meritare_[798].
«Le Deputazioni si apprestarono a partir per Gaeta, per richiamare
il benamato Principe, e tornare a quelle _saggie franchigie_ troppo
dal Guerrazzi e dal Montanelli conculcate. Ma il benamato Principe
lasciò scorgere che non voleva far più a sicurtà come prima con quelle
dimostrazioni di affetto, e che alcuni battaglioni di tedeschi lo
avrebbero meglio rassicurato. Fu allora che anche gli spegnitori di
ogni entusiasmo patrio, fu allora che quei reazionarii commovitori
delle campagne conobbero che abisso si fossero scavato, e che
cercarono (_indegno strattagemma_) di adonestar l'intervento austriaco,
mostrandolo da Livorno solo motivato. D'Aspre però, a cui noiavano
tutte quelle reticenze, che voleva anche un po' umiliar Leopoldo
pei suoi _sentimenti italiani_, troncò le ambagi con un Proclama in
cui disse, che il Principe stesso aveva voluto quell'intervento. Gli
amici del Principato Toscano avrebbero dovuto nascondersi allora per
vergogna, se di qualche pudore fossero stati capaci; ma trovarono più
idoneo il continuare a bandir la croce sui Repubblicani, dicendo che se
anche il Principe non si affidava più in essi, ciò era sempre per opera
loro.
«Così cadde Firenze, e, che peggio è, cadde vituperosamente;
vituperosamente non pel suo Popolo che l'Italia aveva amato, come
quello di tutti gli altri Paesi, ma per le stolte e ambiziose
tergiversazioni di un uomo che portò il _pessimismo_ dei suoi scritti
nella vita politica[799], e per lo zelo di una gente fredda, egoista,
inconsiderata, che non comprese come, ostando al movimento nazionale,
diveniva per necessità l'alleata dei Tedeschi.
«Era serbato a quell'inclita città il vedere quindi una Convenzione
stretta col nemico d'Italia per l'occupazione della patria, e il vedere
un Corsini ad apporre il suo nome in un patto, che convertiva una
provincia italiana in un feudo tedesco.
«La Storia, che giudicherà gli uomini e gli atti di questa età
dolorosa, saprà dispensare imparzialmente le lodi e l'infamia[800].»
* * * * *
Seguono due libri entrambi stampati da Felice Le Monnier, il quale
si è fatto Editore del pari della mia _Apologia_, onde si può dire di
lui quello che gli antichi narravano della lancia di Achille, la quale
sanava le ferite che faceva.
«_Vulnus Achilleo quæ quondam fecerat hosti_
«_Vulneris auxilium Pelias hasta tulit_[801].»
La prima ha titolo: «_Gli ultimi Rivolgimenti Italiani; Memorie
storiche del signor Marchese F. A. Gualterio di Orvieto_. — Firenze,
1850-51.» Quando di queste Memorie mi pervenne notizia, ne augurai
subito male, talchè nel 9 gennaio 1850 ebbi a scrivere al mio Difensore
signore Avvocato Tommaso Corsi: «Ricordi quello che si narra di
Alessandro Macedonio, quando Lisimaco gli leggeva certa storia di
strani gesti operati da lui? È fama che Alessandro, interrompendo
Lisimaco, esclamasse: e dove eravamo noi quando facevamo sì stupende
cose? — Questa storia mi si affacciò alla mente più volte leggendo
le mille gagliofferie e perfidie stampate sul conto mio; però a
imitazione di Alessandro mi sono stretto nelle spalle interrogando
me stesso: — e dove ero io quando facevo tante belle cose? — Jeri
leggendo il _Galignani's Messenger_ del 28 decembre me ne capitava una
sott'occhio nuova di zecca, e parla così: — dicesi che un certo signor
Marchese Gualterio di Orvieto abbia pubblicato una Storia Politica
d'Italia dal 1847 al 1849, la quale _cause one immense sensation by
the new light which it will throw on the men and things of our day
ec..... by documents_ esaminati nello Archivio segreto del Governo,
e di alcune Cancellerie; — e seguita: — _another revelation still
more curious will show in the most evident manner that the Dictator
Guerrazzi was supported by Lord Palmerston. The proof of this exists
in a letter of Guerrazzi to Sir G. Hamilton, complaining in the better
terms of having abandoned by England after the english Ambassador had
formally promised him that he might calculate on his support_.» Ora
niente di questo è vero; e l'onorevole Lord Palmerston ebbe la bontà
di significarmi, col mezzo del Ministro Hamilton, il suo gradimento
per i miei sforzi, da me in tempi difficili, e privo di qualunque
aiuto, operati in benefizio della salute pubblica, confortandomi a
perdurare in quelli, e a sostenere con ogni facoltà mia il Principato
Costituzionale. Lo evento poi corrispose al presagio. Cotesto è libro
di Parte; due compaiono essere i fini che si propone: favoreggiare
gl'interessi della Monarchia Costituzionale Piemontese, esaltare il
Partito, che si dice dei Costituzionali moderati. Malgrado le lodi
prodigategli da questi ultimi, senta un po' me il Marchese Gualterio,
chè, quantunque non gli sia parso finora, troverà che io so dire il
vero, e posso, perchè fin qui, e sono quarantasei anni, viltà che sia
non ho saputo mai; da parte il merito letterario di cotesto libro, io
gli dichiaro che non è opera da prudente storico, nè da uomo onesto.
Come storico di casi contemporanei, sembra a me che dovesse mettere più
coscienza nel ricercarli, più gravità nello esporli, dacchè io davvero
non comprendo come possa giovare alla comune Patria, e allo stesso
concetto che promuove, inciprignire le piaghe, e perpetuare, anzi
crescere, le maladette discordie. Se io male non veggo, in questa parte
egli amministra ottimamente i negozii, — non però quelli d'Italia.
Come onesto, io lascio considerare a lui, che pure è gentiluomo,
e si professa dabbene, se egli doveva raccogliere nelle orecchie
tutto quanto vi versava dentro la necessità di attenuare un'azione
turpissima, l'astio della mediocrità, e l'odio di superbie umiliate.
Egli non è ancora giunto co' suoi scritti alla mia vita politica, e
siccome mi giova sperare che di ora innanzi avrà compreso, con un bove
solo non tirarsi il solco, nè potersi giudicare del suono delle campane
se ambedue non si ascoltano, e che di ciò farà senno così per dettare
le rimanenti Memorie, come per correggere le già scritte, non mi
trattengo più oltre sopra di lui, pago, intorno alle ragioni della mia
vita privata, di quel tanto che mi fece l'onore di attestare Tommaso
Corsi, e che io stesso ho discorso sparsamente nella mia _Apologia_.
«Ma sopra ogni altro feritore infesto
«Sopraggiunge _Farini_, e _me_ percuote.»
Non dirò delle sue intenzioni, quantunque, secondo il mio giudizio,
rette non pare che abbiano ad essere; ad ogni modo io domanderò chi
gli abbia insegnato comporre Storie sopra Requisitorie di Procuratori
Regii, cospargendole di tratto in tratto di qualche fiore còlto nel
suo giardino! Ora che cosa altro ha egli fatto, almeno per me? E gli
domando eziandio, se sono prove di temperanza, di moderazione, e di
probità, praticare com'egli ha fatto contro uomo, che da trenta mesi si
logora chiuso in carcere, e non gli può rispondere! Se così costumano
i moderati, che cosa dobbiamo aspettarci dagli _sbracati_ e dagli
_scamiciati_, è difficile immaginare. Pensino a questo i Moderati.
Il suo libro si manifesta dettato nel medesimo spirito di quello del
Gualterio, ma con manco di generosità, e più piglio di Procuratore
Regio, però che Gualterio non dia i suoi giudizii per definitivi, e
prometta, se avvisato, emendarli. Io già ho tenuto proposito del libro
intitolato _Lo Stato Romano_ in varie parti dell'Apologia: mi giovi
qui singolarmente rilevare alcune, che, adoperando il più benigno
linguaggio, chiamerò falsità. A pagine 86 del Tomo III afferma: «_Chi
rompe paga_, scriveva per telegrafo il Guerrazzi a' suoi Livornesi,
usi da lui a rompere ed essere pagati?» Mi sia permesso domandare al
Farini: su che cosa fonda questa vergognosa imputazione ai Livornesi,
e a me? Se nel proprio mal talento, questo non fu mai, per quello
che io sappia, annoverato fra le sorgenti della Storia; e veda, che
quello ch'ei finge, grave sempre, per me oggi è gravissimo. A pagine
87 afferma: «dicendo provvedere alla sicurezza pubblica, provvidero al
proprio impero, soldando guardie di polizia fra le turbe dei turbolenti
e dei fuorusciti, le quali, come non avevan prima nè termine nè misura
nelle voglie pazze e malvagie, così furono poi non presidio, ma offesa
della città.» E questi, veda il Farini, e' sono rotondi, non già
sinceri periodi; avvegnadio se della Guardia Municipale tu consideri la
origine, troverai averla scelta una Commissione composta del Prefetto
e del Gonfaloniere di Firenze con altri cittadini spettabili, e non
avervi preso punto parte io, se togli la nomina Basetti, e i suoi
figlio e fratello; o, se piuttosto tu vogli considerare i portamenti,
li conoscerai essere tali da meritarsi di essere conservata dalla
Commissione Governativa. Individui pessimi certo entrarono in quella,
ma non per colpa del Governo, e perchè in qualunque composizione di
corpi questo guaio vediamo avvenire sempre; nè poi furono tanti, che
dessero cattivo nome al corpo intero: onde l'accusa del Farini suona
singolare, e non vera. Intorno al disfacimento degli ordini in Toscana,
lo mando.... se il Farini ci vorrà andare.... a quella parte della
mia _Apologia_, dove di ciò si ragiona, e le parole di Gino Capponi si
riportano. Quanto scrive intorno al Granduca nostro, suona così:
«Havvi chi afferma, che egli non si fosse mai acconciato agli ordini
liberi in guisa da lasciare gli appetiti e le ubbie dell'assoluto, e,
come dicono, paterno reggimento. Havvi chi dice, che sin da quando
rallentò i vincoli della libertà, perchè il papa coll'esempio aveva
sciolti i popoli italiani, scrivesse all'arciduca Ranieri vicerè di
Milano ed altri suoi consanguinei, facendo querela e beffa dei liberali
che inuzzolivano. Taluno attesta, che nel tempo, in cui colle poche sue
armi concorreva alla guerra d'indipendenza, egli fosse in buoni termini
co' regii ed imperiali parenti, coi quali non aveva intralasciato i
consueti uffizii. Ond'è, che molti hanno argomentato poi dai fatti
che seguirono, e da quelli che si vanno via via svolgendo in Toscana,
che Leopoldo II non solo fosse sempre oscillante fra gli avvisi e le
parti contrarie, ma che sempre fosse fermo nella devozione ad Austria
ed alieno dalle liberali novità. Del che io non ho a fare giudicio,
perchè non ho d'onde fondarlo su base a cui la coscienza s'acqueti; nè
d'altra parte ho debito di addentrarmi nelle cose toscane più di quanto
sia necessario ad indagare e chiarire le attinenze di quelle colle
romane. E dovendo rimanermi in prudente, e direi onesta, dubitazione,
amo meglio, il confesso, pendere a benigno giudizio d'un principe che
pur si parve ornato di buone qualità, mite dell'animo, degli studii
fautore, riformatore d'abusi, quando gli altri italiani principi di sè
davano nome ed esempio peggiori.»
Ora, che cosa egli è questo vedere, e non vedere, a modo della
Vergognosa di Camposanto? Non si gittano addosso accuse pessime per
iscivolare via lasciando dietro una traccia di bava a mo' di lumaca. La
storia scrivono gli Storici, non gli Scoiattoli. Egli doveva verificare
le accuse, e se accertate esporre gravemente, e lealmente, e se non
riusciva ad accertarle doveva trascurarle, perchè davvero raccattare
quello, che ai giorni di oggi s'incontra per via, è mestiere da
carrettaio, non ufficio da Storico. Tra lo Storico, che pazientemente
raccoglie la materia, la studia, la saggia, la sottopone a religiosa
indagine, e alla fine la veste con forme caste ed elette di stile, e lo
scrivano che tuffa la penna nello inchiostro e la mena di su e di giù
per le carte, la differenza che corre è grande quanto fra un pittore
e uno imbiancatore; oltre che elle paiono, coteste del Farini, come
veramente sono, ipocrisie, che putono di vieto lontano un miglio; e per
un momento ho quasi dubitato, che dei Gesuiti oggimai fossero le voci,
ed altri avesse avuto le noci; chè se la cosa non istà per l'appunto
come la credo, in quanto a noci, almeno mi pare, che se le sieno
spartite, e da un pezzo.... — A pagine 218 afferma: «che i Ministri
tennero consiglio co' sollevatori nei Circoli nella notte dell'8
febbraio.» E veda l'onesto Farini, questo fatto che sarebbe cagione di
capitale condanna, nemmeno l'Accusa (che non ha fatto a risparmio per
inventarne grosse) ha osato affermarlo. A pag. 219 pone: «che nell'8
febbraio il Governo prima gridò, poi disdisse la Repubblica;» ed anche
questa è calunnia pretta che neppure ha potuto riscontrare nell'Accusa,
— _fidata scorta degli erranti passi_. Intorno alla inverosimiglianza
delle tre lettere scritte dal Granduca, con le quali prima chiede,
poi renunzia, e finalmente torna a sollecitare i piemontesi aiuti,
ho discorso altrove; le due prime possono credersi, non già la terza,
che a me pare immaginata a posta per salvare chi aveva promesso quello
che non _doveva_ promettere, e non _poteva_ mantenere, se gli ordini
costituzionali si vogliono osservare.
Però in queste mie miserie mi hanno somministrato non mediocre
argomento d'ilarità le lodi smodate con le quali prosegue la
commissione del Ministero Toscano del 22 settembre 1848 al Marchese
Ridolfi per le Conferenze di Brusselle. Se io di mia certa scienza non
sapessi essere allora Presidente del Consiglio Gino Capponi, non lo
crederei a cui mel giurasse; però che Gino Capponi sa, che politica
francese di Enrico IV, e seguita sempre da Richelieu a Lamartine
inclusive, fu tenere deboli e divise la Germania e la Italia, e sa
che gli Stati piccoli congregati ad equilibrio di leghe all'urto degli
Stati uniti e grossi non reggono, come vedemmo ai tempi di Ludovico il
Moro; e finalmente sa che rovina d'Italia fu appunto questa, operata
in buona parte dal Magnifico Lorenzo dei Medici, che in condurre un
disegno piccolo e cattivo pose arte e sagacia eccellenti: che mentre
le si stavano componendo su i confini, grosse ed unite, l'Austria
e la Francia, essa durava frantumata in piccoli brani; nè potersi
della indipendenza nostra neppure parlare là dove nell'alta Italia
non venga posto uno Stato forte capace a guardare le frontiere da
vicini potentissimi; — e nonostante che queste cose sapesse, leggiamo
con maraviglia commettere al Marchese Ridolfi di consentire che la
Lombardia si concedesse a un figlio di Carlo Alberto, e la Venezia o
ad un Arciduca di Austria, o a Francesco V di Modena; in quanto alla
Sicilia s'ingegnerà di promuoverne la separazione dalla Corona del Re
di Napoli, assegnandola in retaggio a un figliuolo di lui; i Ducati di
Parma e Modena ad ogni modo si sforzasse fare abolire; e per quanto
concerne Toscana _si adatterebbe a prendere_ di Lombardia un pezzo,
ma non tale che si avesse a dire di lui: la carne non vale il giunco;
però di 12 oncie buon peso, e senza osso, — e per di più Toscana non
vorrebbe chiedere, ma sì piuttosto desidererebbe essere pregata. —
Cose sono queste da far cascare le braccia ad ogni fedele cristiano.
Così, invece di diminuire, si accrescevano le divisioni in Italia! E
quello poi che riesce più stupendo a vedersi si è, che Farini, il quale
si sbraccia a maledirmi (e se fosse vero, come è falso, avrebbe fatto
bene) per essermi mostrato avverso alla composizione necessaria di uno
Stato gagliardo, trova a lodare un concetto che guastava il presente
e l'avvenire. Egli è vero che debole Stato siamo noi, e la nostra
voce poco avrebbero ascoltato; e questo a parere mio somministrava un
motivo di più o per parlare almeno magnanimi, o per tacere prudenti;
e concludo sostenendo che un uomo dotto nelle storie e nelle ragioni
della politica, come Gino Capponi, non può avere consentito così
mirifica commissione, e mi pare assai che volesse tôrne il carico il
Marchese Ridolfi, se pure non ebbe ordini segreti, che, la stupenda
commissione correggendo, la riducessero ai termini del credibile. — È
falso quanto scrive Farini a pag. 285, che «i Governanti Toscani non
erano amici al Piemonte;» io ho chiarito, onde non si rinnuovi questa
sventura, come taluni fra i Piemontesi si dimostrassero, all'opposto,
poco amici dei Toscani. — Dello esilio di Massimo Azeglio, e delle
ingiurie al Lovatelli di che ragiona a pag. 332, davvero nulla so,
che pare qualche cosa dovrei saperne, ed anche questa va messa al
monte. Delle contumelie stampate contro Gioberti, non occorre fare
altra parola. Non fu il 4, ma il 3 di aprile, che l'Assemblea sospese
il voto intorno alla Unione con Roma, non lo profferì contrario, come
Farini asserisce erroneamente, dacchè, in modo diverso, fino da quel
giorno la Restaurazione sarebbe stata decisa, e quanto racconta in
seguito non accaduto, come quello ch'era ad accadere impossibile.
— In due luoghi scrive, che gli agitatori menavano tanto rumore che
_Guerrazzi non gli sapeva sopportare_ (pag. 219), e che _i lazzaroni
democratici deturpavano la Toscana, fremente lo stesso Guerrazzi_!
(pag. 332.) Ma io ricuso cotesto pane dato con la balestra, anzi
perfino col punto di esclamazione in fondo; e neppure si potrebbe
onestamente accettare, perchè accompagnato da soverchie tumidezze e da
bugie. Bugia le sommosse fiorentine represse dalle bande livornesi;
bugia l'essermi io ridotto co' Livornesi in Castello; bugia essermi
mostrato pronto a pigliare posto nella provvisoria congregazione del
Governo; bugia il mio girare nel manico per accettare la Restaurazione
(pag. 333): le quali cose tutte, secondo che io affermo, essendo
con copia di prove dimostrate nell'_Apologia_, non abbisognano di
più largo discorso. Vorrei piuttosto tenere proposito di certa sua
imputazione intorno ai successi di Genova, molto più che l'Accusa
tocca anche di questi, e poi dice: te li do per giunta; — onde io, che
dell'Accusa non vorrei la giunta nè la derrata, mi condurrei volentieri
a tenerne ragionamento, ma basti dire (e se sia vero lo può il Farini
riscontrare nel Volume dei Documenti della sua Musa, — l'Accusa), —
che io desiderai soccorrere Genova quando venne fra noi la notizia,
che il Piemonte in gran parte commosso per lo infortunio di Novara,
respinto da sè ferocemente ogni principio di accordo, voleva tentare
le ultime prove, e quando fu detto che il Generale La Marmora fra i
patti della capitolazione ponesse quattro ore di saccheggio[802]. Non
si verificò la prima notizia, e, se male fosse o bene, mi confesso
incapace di giudicare; in quanto alla seconda, che non si verificasse
fu certamente bene. E si acquistò bella gloria Vittorio Emanuele, e diè
con auspicii felicissimi fondamento al nuovo Regno, superata Genova,
commettendo ogni trascorso all'oblio, concesso prima lo scampo a coloro
che consigli di politica lo dissuasero a ricevere su quel momento
in grazia; e leggo con piacere come il buon seme generasse frutto
migliore, conciossiachè i Liguri lo abbiano di recente accolto nella
loro nobile città con dimostrazioni di stima profonda.
In questa nuova percossa della fortuna, come fu visto l'apice a cui
possono arrivare la ignoranza con le sue stupidezze, e la tristizia
con le sue perfidie, così doveva presentarsi eziandio uno spettacolo
di stranezza piuttosto portentosa che rara, e consiste nel concorso di
due Giornali, che si accordano fra loro come il Diavolo con l'Acqua
Santa (e poichè ad uno Accusato non si addicono le parti di Giudice,
io mi asterrò prudentemente dal decidere chi di loro sia il Diavolo,
chi l'Acqua Santa), a favellare onestamente di me: uno è il _Cattolico_
dei RR. PP. della Compagnia di Gesù, come ho notato nell'_Apologia_;
l'altro è la _Opinione_, dello Autore chiarissimo della Vita di Fra
Paolo Sarpi, Bianchi Giovini, il quale scriveva nel novembre dell'anno
passato: «e prima di questo scisma, ci giustificava uno dei martiri
illustri della causa italiana, l'infelice Guerrazzi, il quale, checchè
si sia detto da alcuni, non è, e non fa mai mazziniano, e che riconobbe
anzi a quali sventurati risultamenti avrebbero condotta l'Italia i
delirii di quel Partito. Tentò egli di opporvisi, ma l'onda era troppo
forte, ed egli espia in carcere, e sotto la minaccia di un processo
iniquo, gli altrui errori.»
L
XXX. I giorni 11, 12, e 13 aprile 1849. — Pag 756.
«_Poteva, dubitare che me volesse prigione.... il Senatore
Capoquadri che, Ministro di Giustizia e Grazia, volle, per
eccezione amplissima ed onorevolissima, che senza esame la Curia
fiorentina nell'Albo degli Avvocati potesse ascrivermi?_»
«Sig.r Avv.o Pregiatissimo.
«Per declinare dalle regole prescritte dagli ordini veglianti per
l'ammissione di un Legale all'Ordine degli Avvocati, è necessario che
il Postulante abbia un merito distinto. La Camera di Disciplina, che
io presiedo, non saprebbe immaginarne dei più distinti di quelli che
adornano la sua persona. Ed è per questo, che si è recata in sommo
pregio di accoglierla nell'Ordine, a cui Ella col suo nome, col suo
talento, e con le sue opere accresce lustro e decoro.
«Gradisca, signor Avvocato, l'assicurazione della alta stima e
considerazione, con cui ho l'onore di essere,
«Firenze, 24 luglio 1848.
«Sig.r F.-D. Guerrazzi, di Lei
«Devotiss.o Servitore
«Cav.re Avv.o RANIERI LAMPORECCHI.»
M
Ivi. — Pag. 762.
«_Colà stemmo raccolti sei: rappresentai la indecenza che le
donne non potessero avere stanza appartata. Credei che _a
gentiluomini e a padri di famiglia dovesse comparire sacra
la ragione del pudore: non risposero._ Rappresentai il modo
disonesto del prendermi, che mi pareva nato a un parto con
quello tenuto dal Valentino a Sinigaglia per ammazzare Vitellozzo
Vitelli, Oliverotto da Fermo e compagni_: non risposero.»
Ecco la lettera: la quale merita tanto maggiore considerazione, in
quanto che dettata sotto la impressione di memorie recenti, piena
di contestazioni di fatti del giorno, e consentanea alle prove, che
quantunque raccolte dall'Accusa pur ella ha reputato suo interesse
dissimulare.
«Signori GINO CAPPONI ed altri componenti la COMMISSIONE GOVERNATIVA.
«Desidero sia letta questa scrittura con la pazienza con la quale io
la detto. — Forse tornerà inutile, eppure non mi sembra bene ometterla,
sentendo come per molti capi importi farla alla mia religione.
«Innanzi tratto, sapete voi, o Signori, in qual modo io venni condotto
quaggiù? Rispondendo per voi dico: _No_, imperocchè mi parrebbe enorme
supporre, che voi lo aveste saputo, e consentito. A voi poco preme
sapere come infiniti modi per sottrarmi alla disonesta prigionia
mi sovvenissero e fossero offerti, i quali tutti, o non adoperai, o
ricusai; quello però che dovrebbe premervi è questo: — che la mattina
del 12 aprile la Deputazione del Municipio Fiorentino, la quale
venne all'Assemblea, consultatomi intorno alla deliberazione presa
di governare il Paese a nome del Principe, proposi farvi aderire
l'Assemblea onde le Provincie più volonterose concorressero, ed
ogni mal germe di discordia fosse tolto via; parendomi ancora pel
Principe più onorato, e meno nocivo alla libertà, richiamarlo in
virtù del consenso universale, che per forza di tumulto. A istanza
altrui formulai un Decreto che suppongo voi abbiate nelle mani; voi
sentiste diversamente da me; tuttavolta cotesta carta deve porgervi
testimonianza della mia volontà, disposta a contribuire alla pace del
Paese con tutte le mie forze.
«Raccomandandomi il _Priore Digny_ la Patria con fervidissime parole,
e confortatomi ad adoprarmi dal canto mio onde la sua miseria non si
facesse maggiore, io, rispondendo con pienezza di cuore a lui e agli
altri membri della Deputazione Municipale, proposi recarmi a Livorno
con qualche rappresentanza officiale avesse voluto la Commissione
conferirmi per disporre gli animi a starsi all'operato contenti.
Accolsero con segni manifesti di gradimento questa proposta, e il
Priore Digny m'invitava a non partirmi: _sarebbe tornato la sera a
concertare la cosa_. — Intanto i Deputati si ridussero di quieto ai
proprii alberghi, ed io rimasi contro il consiglio di tutti, e ricusata
la carrozza offertami dal _Colonnello Tommi_, stretto dal dovere e
dalla _parola data_ alla Deputazione Municipale.
«Il Generale _Zannetti_ e il Colonnello _Nespoli_ vennero verso le
ore 3 pom., il primo per _assicurarmi_ che nella serata, con treno
particolare, sarei inviato a Livorno; il secondo a offrirmi di
mandare qualche compagnia di Nazionale alla Stazione per tutelarmi,
ad ogni evento, nel caso avessi voluto partire alle 4. — E poichè il
Nespoli accomiatandosi da me mi baciava, come si costuma, in volto, il
_Zannetti_ favellò queste precise parole: _io non ti bacio adesso, ti
bacierò stasera_. Tornarono in serata _Digny_ e _Zannetti_. Il primo
tacque delle facoltà che doveva conferirmi la Commissione, donde io
inferiva che non me le volesse assentire, _ma confermarono entrambi
sarebbe il mio viaggio avvenuto nella notte per Livorno. Stessi
pronto a partire_. Verso le ore 3 del mattino ricevo il biglietto che
_unisco_, pel quale _Zannetti_ mi annunzia alcuni non volere lasciar
libero il passo, opinare la Commissione trasferirmi pel Corridore
dei Pitti in Belvedere, donde remossi i Carabinieri, avrebbe messo
la Nazionale. Questa lettera, che accenna mutamento di esecuzione a
concerto che resta fermo, in sostanza mi turbò alcun poco, non tanto
però che mi facesse dubitare di uomini probi ed amici. _Zannetti_
venne tardi la mattina, e dichiarò la prudenza consigliare che per
2 o 3 giorni rimanessi in Fortezza, tanto che la plebe si sdracasse.
Allora le donne, e il Commesso della Segreteria dello Interno Roberto
Ulacco, vollero tenermi compagnia. A confermarmi nella mia fede
valse il fatto seguente: che manifestando io esser privo di danaro
per pagare il viaggio, e certi miei debiti, il _Priore Martelli_ mi
portò L. 1000, e me le consegnò giusto in quel punto che da Palazzo
Vecchio muovevamo a Palazzo Pitti. Durante il cammino, _Zannetti_ mi
avvisò la Commissione non pareva inclinata mandarmi a Livorno, e mi
interrogava se fossi stato contento a starmi qualche tempo lontano dal
paese. Risposi: avere l'animo travagliato così dalle sciagure della
Patria, che lo avrei reputato beneficio; egli però conoscere le mie
fortune; provvedesse come gli pareva meglio. Ed egli a me: lasciassi
fare, avrebbe accomodate le cose in serata, e il giorno appresso
sarebbe venuto a darmene ragguaglio. Non l'ho veduto più. — Mi coglie
il ribrezzo pensando da cui mosse la insidia; ma insidia vi fu, e
bruttissima, a modo delle Valentinesche. Ora vorrete voi Gentiluomini
giovarvi di trame proditorie, e di fede tradita?
«Sapete voi come io stia ristretto in carcere con altre cinque persone?
Io rispondo per voi, e dico risolutamente: No. Dentro una stanza
alberghiamo quattro, due uomini e due donne, fra queste la nepote
sedicenne, cavata per pochi giorni di convento per visitare lo Zio.
Voi siete padri, o Signori. — Io non aggiungo parola; — solo desidero
vi preservi il Cielo dalla umiliazione di vedere così poco curato il
pudore delle vostre figliuole!...
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