Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 16

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potevamo comunicare segretamente. Con noi, in qualità di Ministri,
non v'erano misure da prendere, perchè, pel fatto dell'assenza del
Principe, cessavamo dal Ministero. Più ancora: il Parlamento, se si
sentiva capace a provvedere, non aveva mestieri affatto del Ministero
nè giuridicamente nè materialmente. Il segreto, impossibile e forse
fatale. Popolo, ora composto di ragazzi, di cenciosi e di poca
plebaglia; ora minaccioso, fremente, operante irresistibile violenza;
ma prima composto e poco; poi nelle Camere si estende e costringe;
la quale contradizione grossolana è così apparecchiata a modo di
fantasmagoria con fine sinistro, ed è questo: le milizie non si mossero
a reprimere, perchè, ordinate contro la _vera e propria sommossa_, non
ravvisarono siffatto carattere nella scarsa, cenciosa e ben composta
plebaglia che si condusse a deliberare il suo plebiscito sotto le Logge
dell'Orgagna; ma quel medesimo Popolo come uscito fuori del sacco
del prestigiatore giganteggia dentro la Camera per giustificare la
violenza fatta ai Deputati: però vi era da calafatare un'altra fessura,
e per questa trapela l'acqua nella barca storica dell'Accusa, così che
minaccia passare per occhio; invero, se poca, di ragazzi e cenciosa
era la turba, tanto doveva riuscire più agevole alla Guardia Civica
repulsarla dalla Camera. Le pretese minaccie di morte a cui fra i
Deputati si assentasse, non impedirono che molti partissero incolumi, e
taluno non ritornasse. La discussione vi fu, e obiettiva, non terminata
da violenza popolare, ma per volontà dei Deputati pensosi non tanto del
Popolo presente, quanto del Popolo rimasto senza freno a imperversare
per la città. Al Governo Provvisorio furono date amplissime le facoltà
di provvedere alla salute della Patria, e per convocare i comizii,
onde il Paese sopra le sue sorti si consultasse. Se in quel giorno,
e nei successivi, e sempre, il partito d'interpellare il consenso
universale alla prepotente violenza della fazione non si opponeva,
io vorrei che mi dicesse l'Accusa che cosa mai avrebbe saputo ella
opporre? Il mio detto, che _non temevo del Popolo_, riportato con
tanta ostentazione, che cosa poteva significare se non che fiducia che
il Popolo non trascorresse a iniqui fatti; fiducia, che, onorandolo,
giovasse a confortarlo e a persuaderlo di frenarsi? Forse egli importa
che l'atteggiamento del Popolo non fosse pauroso, o forse, che sempre
uguali si mantenessero le condizioni dell'animo mio? Riguardo allo
avere accettato favellerò fra poco.
Intanto giovi riportare la opinione di un Giornale a me infestissimo,
organo del Partito avverso al mio Ministero, la quale varrà a chiarire
come i Deputati, senza la spinta del Popolo, avrebbero eletto un
Governo Provvisorio:
«La fuga del Capo dello Stato e la dimissione del suo Ministero,
alteravano sostanzialmente la economia del Governo Costituzionale, e
imponevano la necessità alle Assemblee legislative di provvedere per
qualche modo straordinario ed eccezionale al reggimento dello Stato.
Questa necessità _era nella mente di tutti_; e dove il Circolo politico
non avesse invasa l'Assemblea ed imposto il suo voto, il Consiglio
_avrebbe deliberato un Governo Provvisorio_.[185]»
Ma via, sopra tutto questo diamo di spugna; — frego, e da capo.
Immagini l'Accusa di essere a sua volta tradotta davanti un Tribunale
(e non deve riuscirle a immaginarlo difficile, imperciocchè al cospetto
della coscienza pubblica ella stia quanto me, e forse più di me),
e risponda. Se l'uomo che ora è segno a scellerata ingratitudine,
nel giorno ottavo di febbraio 1849 non aveva cuore per voi altri
tutti, che cosa sarebbe accaduto della Toscana? — Dirà ella, che la
parte repubblicana, la fazione demagogica e le plebi cupide e feroci
avrebbero quietato? Da quando in poi i leoni posano prima della
preda? E chi avrebbe tutte queste forze contenuto? Per propria loro
deliberazione sarebbono per avventura quietate? Questo, io penso,
comecchè ne abbia dette delle marchiane davvero, non voglia affermare
l'Accusa. Dunque: i Deputati? Ma se l'Accusa ce li dipinge sbigottiti
disertare il campo! Noi Ministri? Ma se l'Accusa c'incolpa per non
essere fuggiti ancora noi! La Corona? Ma se in quel giorno errava
incerta del luogo dove l'avrebbe condotta la Provvidenza! La Guardia
Civica? Ma se l'Accusa ci racconta, ch'ella riponeva la baionetta
nel fodero! La Milizia stanziale? Ma se senza ordini non si muove; e
chi glieli potesse dare mancava, per non dirne altro! I Cittadini di
parte avversa? Ma se il Governo nel 22 febbraio non gli salvava dal
furore della moltitudine, questa gli avrebbe sbranati! — Chi dunque
ha impedito che nel giorno ottavo di febbraio la rivoluzione allagasse
tutte le terre della Toscana nella pienezza del suo trionfo?
O Giudici, con quella mano stessa con la quale ora vi basta l'animo
scrivere accuse contro la mia costanza, quali non avreste vergato
improperii al mio nome, se per viltà fuggendo vi avessi lasciato in
balía alle furie rivoluzionarie? O Giudici, ditemi, la mano con la
quale tracciate le accuse disoneste, non è quella dessa che scrisse per
me uno dei trentamila e più voti, co' quali il Compartimento Fiorentino
volle onorare i miei travagli sofferti in pro del pubblico ordine? Ah!
voi sfondate gli ombrelli adesso ch'è passata la pioggia? Come padri di
famiglia, io vi tenea più provvidi.
Stupendo a dirsi, quanto a considerarsi angoscioso! Giustizia mi
viene donde io non l'aspettava. Nel Giornale intitolato _La Civiltà
Cattolica_, fascicolo 27, a pag. 366 leggo: «Dal 12 aprile 1849, che il
Guerrazzi venne arrestato nel Palazzo Vecchio, e chiuso poi nel Forte
di Belvedere, ha passato i suoi giorni prima nella _Casa di Forza di
Volterra_; quindi nel _Carcere penitenziario delle Murate di Firenze_,
ed ivi tuttora si trova.
_Grande sarà la curiosità pubblica di questi dibattimenti. È forza però
convenire, che a lui ed alla sua stessa ambizione_,» (se ambizione di
far del bene, forse non crederò mi disconvenga la parola), «_non che
alla penetrazione dello ingegno, dovè la Toscana non essere caduta
allo estremo dei disordini e delle rovine demagogiche. Ed egli ben lo
sa; anzi è fama avere detto, nell'atto che fu preso: — Se i Fiorentini
avessero due dita di cervello, e mezza oncia di gratitudine, mi
dovrebbero alzare una statua_.» (Questo già non dissi, ma nulla in sè
contiene, che con alquanto più di modestia non senta avere potuto dire
io.)
Per siffatto modo _i Gesuiti_ rendono a me quella giustizia, che
_Magistrati Toscani_ mi hanno acerbissimamente negata fin qui. E sì che
i primi, davvero, non mi vanno debitori di nulla, mentre i secondi,
io penso, mi dovrebbero pure qualche cosa! Io quante volte ho posto
l'articolo dei Reverendi Padri a confronto con gli atti dell'Accusa,
non senza riso mesto ho ricordato quel detto romano che andò su per le
bocche degli uomini, quando Urbano VIII dei Barberini spogliava del
metallo corintio la vôlta della Basilica di Agrippa rispettata dagli
Unni e dai Goti:
QUOD NON FECERUNT BARBARI FECERE BARBERINI!
Dopo questa storia di fatti, desunta dai Documenti autentici, diventa
più chiara la quistione, imperciocchè ella deva formularsi così: fui
io provocatore o complice delle macchinazioni della parte repubblicana
precedenti il giorno 8 febbraio? Il _Giurì_ della pubblica coscienza,
io confido, dirà: no. Allora ne scende per necessità questa deduzione:
che se non fui complice, ne fui oppositore a un punto e bersaglio.


XVII.
Mia situazione in Piazza.

Vi rammentate di Mazzeppa legato sul dorso del cavallo indomito? Tale
io era fatto, per opera dei faziosi, di faccia al Popolo, ed anche
per gli scongiuri della stessa Camera dei Deputati. La rivoluzione
mi stava davanti con le sue mille teste, con le sue mille braccia,
palpitante e smaniosa. Quanto possano il sospetto e la paura sopra
le moltitudini agitate ogni uomo che legge storia conosce. Plaudivano
adesso le genti, ma da un punto all'altro disposte a diventarmi prima
carnefici che giudici. Intanto inquisitori, a modo dei Veneziani,
mi si stringevano al fianco. Dirò cosa non credibile e vera, che,
avendo retto il Popolo di Livorno e quello di Firenze, mi è sembrato
il primo, quando imperversa, a trattarsi più agevole del secondo;
della quale cosa ricercando sottilmente la ragione, mi parve trovarla
in questo: che il Popolo di Livorno, per natura impetuoso, trascorre
in escandescenza per motivi lievissimi e con molta facilità; ma o tu
lo lasci sfuriare, e quel fuoco per difetto di alimento si estingue
subito; o ti riesce gittarvi dentro una parola di senno autorevole,
e, non altrimenti che per acqua, si spegne del pari: il Popolo
fiorentino, all'opposto, è mite d'indole, arduo a muoversi, però
causa grande ed eccitamento potentissimo si richiedono a spingerlo; ma
spinto che sia, la difficoltà di acchetarlo sta in proporzione della
difficoltà di agitarlo: le parole non bastano; procede concentrato e
feroce. Considerai la insidia dei Repubblicani che mi si tenevano come
vincitori davanti, quasi volessero dirmi: «ti faremo noi Repubblicano
per forza.» Niccolini allora comandava onnipotente; una sua accusa
poteva perdermi; ed io lo aveva, in pubblico, mortificato e costretto
a tacere. L'accusa veniva spontanea; chè a colorarla bastavano, e ce
ne avanzava, le circostanze dell'essermi io sempre mostrato avverso
alla Repubblica, parzialissimo del Principato Costituzionale; le voci
sparse della benevolenza singolare del Principe; i perfidi sospetti,
non senza frutto, insinuati tanto a Livorno che qui; finalmente il
contrasto pertinace opposto ai voleri del Popolo nella Seduta della
Camera. Reputano i miei Giudici subdolo trovato di difesa, se, mentre
tanti e poi tanti appena curati, o non curati affatto, addussero a
giustificazione dell'operato, e loro valse, il pensiero di provvedere
alla propria sicurezza, affermo che ancora io badai un poco a me, io
che mi ero posto a duro cimento e mi vedevo circondato da gente nemica
e da Popolo sospettoso. Io aveva detto: «Chi si sente capace di operare
in guisa diversa, sorga e mi accusi.» I Giudici sono sorti e mi hanno
accusato: io devo confessare che ammiro il più che spartano coraggio
di loro. In quanto a me, sono uomo, nè cose sopra natura so fare:
non temo la morte, imperciocchè tosto o tardi, e tutti, e in breve,
dobbiamo morire; pure, da morte sanguinosa e senza onore repugno; nè
per leggere che io abbia fatto storie mi venne fin qui incontrato uomo
cui dilettasse cadere sotto ignobile ferro. Io ero solo. Il Municipio,
rappresentato dall'egregio Gonfaloniere, pregavami a non abbandonare
in quel pericolo la Patria, e prometteva valido aiuto. Così pregava
eziandio la Guardia Civica per l'organo del suo degno Generale, che
si affrettò, in Senato, di aderire al voto del Popolo. Il personaggio
tenuto come Capo della Commissione governativa del 12 aprile, nell'8
febbraio pronunziava parole gravissime per giustificare quello che
il Popolo esigeva. — Io non incolpo nessuno; solo vorrei che quello
che bastò ad altri o non costretti, o poco, potesse bastare a me,
sottoposto a ineluttabile pressura.
Nè si trattava di me solo, ma, nell'universale sbigottimento, meco
dovevano salvarsi i miei compatriotti tutti, la pericolante società.
Qui cade in acconcio favellare dell'accusa appostami nel § 52 del
Decreto del 7 gennaio 1851, e ripetuta in seguito, di non avere
abbandonato la posizione che poteva strascinarmi o farmi perseverare
nella via del _delitto_.
Non vi era luogo a renunzia: non si offeriva lo ufficio come cosa
che potesse rifiutarsi o accettarsi. La moltitudine imponeva, e fu
dimostrato. Guardia Civica, Municipio, Deputati instavano a salvare la
vita e le sostanze dei cittadini. Quando il naufrago chiede soccorso,
possiamo ricusarlo per debito di coscienza? Se curando il mio proprio
interesse avessi duramente respinta la preghiera, e se questa durezza
avesse partorito i mali che pur si temevano, e che sarebbero stati
inevitabili, in qual parte di mondo potrei sollevare io adesso la
faccia svergognata? — Dove sarebbero andati i familiari del Principe,
ai quali, con Decreto del 10 febbraio 1849, d'accordo con P. A. Adami,
riuscii a mantenere le pensioni? Dove gl'impiegati? dove voi stessi,
o Giudici che mi accusate? Ma lascio della ingratitudine atroce: e
in qual modo potevo sottrarmi io? E non avete saputo che nè notte nè
giorno mi abbandonavano? Che, pieni di sospetto, specialmente nei
primi tempi, mi seguitavano come ombra? Voi lo avete saputo, ma lo
dissimulate. E dove fuggire? A Livorno forse? Sì certo, perchè, come
traditore, mi ponessero a morte! A Roma...? In tempi di rivoluzione,
difficile e piena di pericoli è la fuga, anche apparecchiata da lunga
mano. Il Decreto dovrebbe sapere qual maniera di gente stanziasse
allora in Firenze; Romagnoli e Romani, che a rinnuovare la strage di un
supposto Rossi avrebbero reputato ottenerne merito presso gli uomini e
presso Dio: e senza uscire di Toscana, il Frisiani, caduto in sospetto,
quale acerbissimo fine non ebbe egli a patire!
Egli è impossibile giudicare di cose politiche, senza lo studio o la
pratica degli avvenimenti politici. Un uomo, comecchè mediocremente
versato nelle storie, consapevole del come il Popolo commosso proceda
inesorabile nella sua vigilanza, non avrebbe domandato: Perchè non
fuggiste? E molto meno poi della omessa fuga avrebbe fatto accusa.
Questo uomo si sarebbe sovvenuto, che non riuscì la fuga a Carlo I, nè
a Giacomo II, nè a Luigi XVI. Carlo II si salvò per miracolo nascosto
nella quercia reale: delle regie, e pontificali fughe dei più recenti
tempi a me non importa discorrere; basti rammentare che non vennero
operate senza difficoltà, e precauzioni grandissime. Nella prima
rivoluzione di Francia (e correva sempre l'anno 1789), il barone de
Bechman, maggiore del reggimento Guardie svizzere, era strascinato alla
Comune solo perchè la sua carrozza, scendendo il Ponte Reale, volse a
sinistra dalla parte di Versaglia. Bonseval dal Municipio di Villenasso
è sostenuto prigione; Cazalès, fuggendo l'Assemblea nazionale, si trova
arrestato a Caussade; l'abate Maury, quantunque travestito, viene
fermato a Peronna; all'Aura di Grazia traducono in carcere il duca
de la Vauguyon e il suo giovine figliuolo, che pure mentivano abito,
professione e nome. Delle fughe tentate e capitate male più tardi,
basti accennare appena: Roland costretto a trapassarsi il cuore con la
propria spada, e Condorcet a prendere il veleno; dei profughi Girondini
ve ne furono perfino taluni divorati dai lupi; al solo Louvet riuscì
lo scampo mercè le cure portentose di amantissima donna. Ecco come si
riesce a fuggire dalle rivoluzioni. Veramente, se i Giudici pensano
che per me si potesse abbandonare lo ufficio con la medesima comodità
con la quale, giunti gli ozii autunnali, mandasi pel fattore onde ne
aspetti col calesse alla Stazione della strada ferrata, e ci conduca
in villa a far vendemmia, hanno ragione di appuntarmi per la mia
permanenza: ma la cosa non è così; e la storia ammaestra come nè anche
ai Principi, potenti di danari e di aderenze, sia riuscito talvolta
fuggire; sempre poi con pericolo. Il cittadino privato, in cosiffatte
fughe, perde o la vita o la fama, e sovente ambedue.
Pietro Augusto Adami dal Decreto del 10 giugno 1850 venne a ragione
scusato della sua permanenza in ufficio per le mie insinuazioni, che
lo impressionavano di vedere ridotta a mal partito la casa e famiglia
sue per l'enormezze dei faziosi: ora questi timori non partecipava
io, e bene altramente gravi per me? Forse si dirà (e così mi bisogna
procedere, perchè quale vituperosa supposizione ha risparmiato
l'Accusa a mio danno?) che senza sentirle simulava io coteste paure
per inspirarle in altrui? Or come, anche all'amico, anche all'uomo che
conviveva meco? E quantunque io glielo indicassi, non aveva egli senno,
non aveva occhi ed orecchi per conoscere se io gli dicessi il vero?
Queste insidie noi, la Dio grazia, non siamo usi a concepire nemmeno,
e tanta pravità supererebbe perfino la immaginazione infelice di chi
per mestiere maligna su la natura umana; nè il Decreto la suppone
nemmeno. Dunque si ha da ritenere, che siffatte apprensioni palesate
fra amici, nella intimità delle domestiche mura, dovessero essere
troppo bene sentite, e pur troppo vere. Ed io non avevo casa allora,
non avevo famiglia _allora_ (ahimè! adesso mi sono state spietatamente
rovinate, e disperse), _non ho cuore io come l'Adami? La mia forza è
ella come la forza delle pietre? la mia carne è ella di rame_?[186] —
Oh! non è questo il solo punto dove con inestimabile amarezza ho veduto
che i medesimi Giudici adoperano due pesi e due misure. Pietro Augusto
Adami è scolpato per essere rimasto in ufficio, dietro le istanze che
gli muovevano spettabili persone, timorose che la Finanza cadesse
in mani pessime. E me non pregarono? No? Me la cittadinanza àncora
ultima di speranza chiamava; a me i servitori stessi di S. A. come a
rifugio estremo ricorrevano; me impiegati principalissimi, _mantenuti
tuttavia in carica_, scongiuravano a non disertare lo ufficio con
rovina sicura del Paese e di loro; nè questo già mi dicevano in faccia
per piaggeria, ma nelle private lettere lo predicavano ai lontani, ma
nei penetrali della famiglia, ma nei fidati colloquii con gli amici
non rifinivano ripetere; e quando più tardi, indignato degl'improperii
di parte repubblicana, dichiarai volermi dimettere, la grande
maggiorità dell'Assemblea per lunghissima ora non supplicò, che io non
volessi mancare nel maggiore uopo al bisogno della Patria?[187] — Del
Municipio, della Guardia Civica e dei Deputati, ho detto qui sopra.
Oh! chi sa, che quelle mani... — ma che dico io, chi sa? — quelle mani
stesse, che vergarono la ingrata Accusa, scrissero il voto di fiducia a
mio favore, volendo allora tributarmi l'onorevole approvazione pel mio
operato! — Ma ahimè! il sentimento della gratitudine s'inaridisce più
presto della lacrima dell'erede... Io, invitato ad usare le mie scarse
facoltà in benefizio del mio Paese, non ho mai rifuggito, comecchè con
mio carico grande; e se nel 12 aprile io non lasciai Firenze, e' fu
perchè mi pregarono interpormi, onde Livorno aderisse di quieto alla
restaurazione del Principato Costituzionale: poi si scoperse essere un
tranello cotesto; ma il mondo dirà da qual parte stia la vergogna, se
dalla parte dei venerabili personaggi che dello amore di Patria fecero
insidia, o dalla mia, che mi lasciai prendere a quell'amo!
I Giudici commendano Adami per avere conservato gl'impiegati: ma io
feci di più; un segretario antico e benemerito del Ministero dello
Interno, Ambrogio Piovacari, me istante, fu promosso a Consigliere di
Stato, e nel suo ufficio posi la persona ch'egli stesso mi designava.
Frequenti lettere anonime mi confortavano, ed anche _minacciavano_, a
dimettere un altro Segretario, il Signore Allegretti. Io gli mostrai
le lettere, gli dissi reputarlo, qual è, onesto, e, per quanto
stesse in me, volerlo conservare in ufficio. Altra lettera anonima
mi notiziava agitarsi ai miei danni Ferdinando Fortini; io gli mandai
per suo governo il foglio accusatore, certificandolo della mia perenne
amicizia.
E la mia lettera suonava in questa sentenza: «Amico. Se io credessi
vero quanto nell'acclusa lettera si legge, io non te la manderei. Da
quella vedrai come in questi tempi infelici la calunnia non risparmia
te nè la tua famiglia. Se puoi argomentare da quale mano nemica muove
cotesto foglio, badati. In quanto a me è inutile dirti che simili
infamie non valgono a farmi mutare opinione intorno ai probi uomini,
fra i quali novero meritamente te. Fammi grazia salutare il Sig.
Duchoqué, il quale ebbi l'onore di conoscere in circostanza non troppo
piacevole, ma non per cagione sua. Addio.
«Firenze, 20 ottobre, 1848.
«Aff. GUERRAZZI.
«_Al Sig. Avv. Ferdinando Fortini Regio Procuratore Firenze_.[188]»
A certo altro facevano guerra (Stefano Stefanini Commissario degli
Ospedali di Livorno) e n'era pretesto l'affezione al Governo passato,
gli onori ricevuti da quello; motivo vero la cupidità della sua carica
onoratissimamente esercitata. L'egregio uomo tra le angoscie della
iniqua persecuzione smarriva l'animo, e a me per aiuto scriveva.
Ecco come io lo confortava: «Amico carissimo. — A questa ora _avrai
pace_, lo spero, e poi _lo voglio_. Ed ho potuto, e voluto, quando ero
nulla; pensa se adesso! — La mia amministrazione sarà breve o lunga,
poco importa, ma sarà di _giustizia. Dunque rispondimi se ti lasciano
tranquillo_. — Eccoti una supplica. Se merita, ti offro modo di fare un
bene, e conciliarti favore; — se non merita, — nulla: Addio.»
Dirò altrove del giovane Boiti per sospetto degli Arrabbiati dovuto
allontanare, e poi da me restituito in ufficio.
A tutti i servitori del Principe curai si mantenessero gli stipendii,
e fu già detto, col Decreto del 10 febbraio 1849.
I sussidii alle molte famiglie povere elargiti dalla Corte di S. A.
ordinai si continuassero.[189] Finalmente provvidi affinchè in modo
stabile le sorti degl'impiegati della Corte si determinassero.[190]
Membro del Governo Provvisorio, impiegai perfino Pretore al Porto
Santo Stefano chi venne ad arrestarmi un anno avanti! — E basti.....
perchè è pure ignobile, Dio mio! — è pure infelice la condizione ove
la necessità della difesa mi costringe a spogliare il benefizio del suo
divino pudore.[191]
Lodano i Giudici meritamente Emilio Torelli, il quale per lungo tempo
mi servì con zelo come guardia del corpo aspettandomi spesso nelle
tarde ore di notte, per iscortarmi a casa; lo lodano, dico, per essersi
adoperato a salvare dalle mani dei faziosi oggetti di regia proprietà,
e non sanno compartire merito alcuno a me, che rientrato appena in
Palazzo, sbigottito della mente, e indolenzito della persona, firmai
tre Decreti, e primo fra questi, quello che instituisce la Commissione
dei Signori Generale Chigi, Gonfaloniere Peruzzi, Deputato Fabbri, e
Professore Emilio Cipriani _per prendere in consegna immediatamente
tutti i palazzi regii, e oggetti di qualunque natura nei medesimi
esistenti_,[192] onde salvarli dalla dispersione.
I Giudici e l'Accusa non hanno avuto occhi per leggere la risposta,
che di mia commissione mandava il Segretario del Governo Chiarini al
sig. Poggi, custode del Palazzo della Crocetta, il quale mi avvisava
come una mano d'individui, _nel 23 marzo 1849_, minacciasse convertire
cotesto Palazzo in Quartieri, e lo annesso giardino ridurre a orto, per
seminarvi _carote, cavoli_ e _patate_ ad uso delle milizie.
«Sig. Poggi. Sono incaricato dal Governo Esecutivo di rispondere
alla sua del 23 spirante. Avanti tutto le faccio sapere che le di
lei osservazioni, in essa manifestate, sono ritrovate non giuste, ma
_giustissime_. Nel tempo stesso rendo a sua piena cognizione, che
il Governo mai ebbe in _animo di ridurre il Palazzo della Crocetta
ad uso di Quartieri, nè per ora soggetto a nessuna innovazione_. Il
Governo conosce benissimo le _convenienze_, e molto più sa rispettare
le opere di Arte: mai è stato vandalo. Si rassicuri, caro sig. Poggi;
usi il _solito attaccamento alle cose affidatele_, e vada persuaso
che comunque girino gli eventi, i galantuomini sono sempre rispettati,
e riveriti.» (Così allora credevo.) «_Se il Governo non ha potuto in
tutto e per tutto ostare alle esorbitanze e agli arbitrii dei molti
intemperanti, non è stato suo volere, ma sola mancanza di cooperazione,
e di forza_. Dove non è ordine, non è legge. Però mai sotto il suo
Governo (cioè del Guerrazzi) saranno compiti atti _di violenza, nè
contro le cose, nè contro le persone, di qualunque condizione si
sieno_.[193]»
A me da tempo remotissimo era noto il signor Poggi, che fu amico di mio
padre, e sovente me lo era venuto ricordando con affetto, sicchè quando
lo rividi, lo accolsi come conoscenza antica: però questa lettera,
oltre lo scopo pel quale adesso è citata, giova maravigliosamente a
provare quante esorbitanze avessi a subire, e a quante, con mio sommo
dolore, non mi trovai capace di riparare per difetto di forza e di
sussidio!
I Giudici non trovano parola di lode alla discretezza mia di fare
apporre sigilli al gabinetto particolare di S. A., onde le sue carte
non andassero rovistate; nessuna pel Proclama scritto da me nella notte
dell'8 al 9, e pubblicato nel _Monitore_ del 9 con la data dell'8, dove
s'incontrano le parole: «Custodi per volere del Popolo della civiltà,
della probità, della giustizia, noi siamo determinati a reprimere
acerbamente le inique mene dei _violenti_ e dei _retrogradi_;» nessuna
alla perigliosa minaccia da me diretta al Niccolini e alla turba
seguace, che intendeva irrompere nel Palazzo Corsini, e trambustarlo
da cima in fondo, per trarne un supposto tesoro appartenente a S. A.,
di che eglino erano (come asserivano) informati da un servo di casa.
I Giudici lodano il Prefetto Guidi Rontani, per avere fatto abbattere
gli alberi nella corte del Liceo Imperiale; e me, che davanti le
moltitudini affollate ostai al piantare dell'albero sopra la piazza,
non ricordano nemmeno. Che più! quello che in altrui dai Giudici si
scusa, in me s'incolpa: così si approva il medesimo Prefetto per avere
fatto remuovere i granducali stemmi a scanso di oltraggi plebei; io poi
che condotto dagli stessi motivi trasmettevo ordini uguali, al parere
dei Giudici commettevo delitto. Dovevo io sopportare che si rinnuovasse
la turpitudine di vederli da Fiesole strascinati a Firenze?[194]


XVIII.
Cause di delinquere.

Toccai sopra di quanta importanza sia investigare le cause per le
quali l'uomo può essersi diretto ad agire, imperciocchè ogni atto che
si parte da mente supposta sana, se manchi di causa proporzionata e
razionale, deve per necessità ritenersi involontario o costretto; i
Giuristi dicono: non informato da dolo. Qui vuolsi considerare come
due motivi soli potessero persuadermi a cospirare per la rivoluzione;
o personali od opinativi. Personali sono, cupidigia di averi e di
onorificenze. Quanto io fossi vago di pecunia lo mostrai, quando
abbandonati floridissimi negozii, consentii a tenere tale carica di cui
l'onorario bastava alla _metà sola_ delle spese del dignitoso vivere
di mia famiglia, e mio. Scrittori no, ma arpie, di cui instituto è
contaminare tutto quello che toccano, non mancarono appormi cupido
ingegno, anzi avaro. I libri della mia domestica economia ricercati,
dimostrarono quanto sia poca cosa la mia sostanza, quali le vie per
acquistarla, quali le spese, e i motivi delle spese. Se coloro che
scrivono facessero studio di onestà come e' professano, porrebbero
cura a bene informarsi prima di asserire cosa che leda la estimazione
altrui; nè a sfuggire la taccia bruttissima di calunniosi, può loro
giovare punto la protesta di ritrattarsi subito che venga dimostrato
lo errore in cui sono caduti, avvegnadio non si comprenda con quale
autorità essi citino al proprio tribunale uomini dabbene, per colpe
che mai non furono, tranne nella loro matta fantasia; tribunale per di
più spregevole, come quello che già si mostrò o leggiero o maligno;
— e finalmente domando io che cosa si penserebbe di un uomo il quale
ti dicesse: lascia che io ti ferisca, nè richiamarti che io ti faccia
torto, perchè tengo in pronto balsamo e fila per medicarti la piaga?
Tali sono quei moderati scrittori, che dopo averti calunniato si
protestano dispostissimi a ritrattarsi. Ipocriti! Il vostro dovere
è quello di bene esaminare prima di gittare la pietra; e di coteste
ipocrisie oggimai logoro è il conio.[195]
In quanto a vaghezza di onori, io prego prima di tutto di non
attribuire a immodestia quanto sono per dire. Io veramente non credo
che ad acquistarmi un po' di fama nel mio paese, mi abbisognasse la
carica ministeriale; nè per uomo travagliato da libidine di ambizione
può bastare il Ministero Toscano, di cui la fatica è pari a qualunque
Ministero del mondo, superiori le ansietà perchè ogni acqua ci bagna, e
ogni vento ci muove; infinitamente minore la fama. — Ma via, posto che
questa febbre ambiziosa mi fosse caduta addosso, o non doveva essere
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