Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 06

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su quel subito, delle faccende pubbliche; ma scemata la improvvisa
caldezza, non corrispondendo quasi mai ai desiderii comuni, forza è
che cadano come, senza andare tanto oltre, osservammo espressamente
in Francia nel 1848. Se ai Governi importa, pei loro fini, mostrarsi
atterriti di queste congiure, sì il facciano; ma che uomini politici
se ne preoccupino, davvero non è cosa facile darsi ad intendere a chi
conosce queste arti. Io di segrete congiure non ebbi mai paura, però
temei moltissimo l'universale accoramento[64] del Popolo. Insomma,
per me le sètte sono la jena che seguita da lontano le traccie, ma non
precede mai il leone della rivoluzione. — Però la Polizia toscana non
guardava tanto pel sottile; e perlustrando ogni cosa col microscopio
alla mano, le venne fatto di scuoprire una sètta. Davvero, senza
microscopio la non si sarebbe potuta vedere; andava composta di poche
persone di stato piuttosto misero che mediocre, senza reputazione,
senza seguito, prive d'ingegno, destituite di aderenze; la Polizia
riputò che elle fossero comparse, e i veri attori stessero dietro le
scene. Senza porre tempo fra mezzo, stese le immani braccia, e fatto
fascio di gente, la gittò in carcere; tutta lieta di avere trovato
il bandolo, già si augurava dipanare la matassa; e che così fosse, si
manifesta dalla confusione delle persone arrestate. Infatti all'Elba
fummo mandati il Conte Agostini, l'Avvocato Angiolini, Carlo Bini, io,
e Carlo Guitera. Incominciate le procedure, alla prima scossa di vaglio
e' fu mestieri scevrare gli Ebrei dai Sammaritani. Guitera rinvenuto
colpevole con altri di sètta segreta, presto ricondotto in terraferma,
subì giudizio, e fu condannato con altri parecchi. A noi rimasti, per
la parte della Presidenza, dichiaravano: non essersi trovato fatto
capace di appuntarci; però, reputarsi minacciato il Governo, ed ogni
Governo minacciato avere diritto di provvedere alla propria sicurezza;
noi poi conoscere uomini di mente a lui avversa, e tanto bastargli
perchè in tempi difficili dovesse assicurarsi delle nostre persone:
nonostante stessimo di buona voglia, chè appena cessati i torbidi,
saremmo rimandati alle nostre case.
Credete voi novella quanto io vi dico? Dei molti, che ebbi a compagni
in cotesto infortunio, mi basti rammentare uno solo, l'Avvocato
Generale di Cassazione, Venturi; egli non è capace di mentire, ed egli
vi chiarirà se io abbia detto il vero. —
Eccomi alla _quinta piaga_. — Quantunque scrittori consapevoli del
pericolo in cui io verso del diuturno carcere, e della colpa appostami,
abbiano profferite deliberatamente a mio danno parole peggiori
delle _siche_ romane; quantunque vaghi della opera e della infamia
del vile Maramaldo, essi non abbiano aborrito da ammazzare un uomo
morto; quantunque io mi trovi inseguito da oscena caccia, che a cane
arrabbiato non si farebbe più atroce; quantunque tremendi diritti
mi desse la difesa, e sentissi anima da gittarvi nella faccia il mio
sangue innocente onde fosse di maledizione nuova ed aperta a voi, ai
vostri figli e ai figli dei vostri figli, pure mi rimango, e desidero
tôrre ogni amarezza al mio Scritto, onde alle tante miserie della
patria non si aggiunga quella suprema di presentare lo spettacolo turpe
di morti che non sanno posare in pace neanche dentro il sepolcro!
— Io parlo al mio Paese come davanti un Tribunale di Giurati; io
non recuso a giudicarmi nessuno, nè anche i miei nemici, purchè non
codardi nè venduti, nè ciechi per la smania di avvantaggiare uno Stato
_italiano_ a cui nuocciono pur troppo; questi io gli ho provati senza
coscienza, come senza pietà. I generosi, comunque nemici; si rendono
giustizia, ed anche questi ho provato. Nella esposizione di questa
quinta piaga mi studierò non offendere persona: comprendo sarebbe stato
meglio tacere; e che così credessi, lo provi avere taciuto fin qui;
ma adesso il silenzio non giova più, dacchè l'Accusa pubblicava la
storia da me scritta dei casi dell'8 gennaio 1848, e da me per amore
di patria lasciata inedita. L'Accusa non ha voluto rispettare nemmeno
il sacrifizio del mio silenzio! Uscito dal carcere di Portoferraio
(il quale duole a taluno dei benevoli scrittori ricordati qui sopra
che non fosse più lungo), attesi allo esercizio della mia professione
con assiduità maggiore di quello che avessi fatto fino a quel punto,
inducendomi a prendere questo partito lo abbandono degli amici,
l'amara povertà, e poco dopo il retaggio dei miei orfani nepoti.
Dio eterno! Parevami questo esercizio di virtù; e nonostante a coro
sento attribuirmelo a vizio di cupidigia, di avarizia, e ad altro
peggiore. E bene m'incolse essermi armato di provvidenza, perchè una
angosciosa infermità mi sorprese, tenendomi travagliato, ora più, ora
meno, per bene tre anni. Schivo di compagnia, chiuso, ai miei studii
tutto, pervenni al 1847. In cotesto anno principiarono le Riforme, e i
moti delle Riforme; vedeva i successi, e tacito considerava; non era
cercato, e mi stava da parte. Allo improvviso gli emuli miei (e poi
furono nemici), che fin lì avevano posto una tal quale ostentazione
ad obliarmi, ecco cercarmi premurosi, e volere anzi costringermi che
seco loro mi accompagnassi. Biasimo o laude che ne ridondi, questo
s'intenda bene, e si riponga in mente, che altri, non io, anzi me
inconsapevole e repugnante, prese ad agitare il Popolo livornese; e
le prove abbondano più che non si crede, e le direi se una cosa sola
non si opponesse, ed è l'alto, invincibile aborrimento che sente in sè
ogni anima, che non sia fango affatto, di adoperare anche a necessaria
difesa le arti usate dagli emuli miei per offesa spontanea. — Che
cosa gli muovesse, e perchè? Poco importa indagarlo; il fatto sta
che vennero in casa mia, mi obbligarono a vestirmi, mi presero per
le braccia e pel petto, e a forza mi trassero ad arringare il Popolo
nella Piazza di Arme, a forza mi trassero a Pisa. Passate le prime
effervescenze, pensai, e scrissi quello di cui tenni proposito nella
pagina 21 di questa Apologia. Intanto fu chiesta la Guardia Civica
a Firenze, e Guardia Civica si volle immediatamente a Livorno. Mi
sia permesso dirlo: il modo col quale essa venne composta in Livorno
seminò la discordia nel Popolo, e fu origine di tutti i mali. Alcuni
individui, certamente rispettabili, ma allora per inesperienza più che
non conviene in simili congiunture imperiosi, stesero una nota di loro
amici, o aderenti, disegnarono i gradi, distribuirono gli ufficii;
poi recatisi al Governatore Don Neri Corsini, la fecero firmare; il
Gonfaloniere Conte de Larderel costrinsero (secondo ch'egli stesso
mi referì) a sottoscriverla senza pur leggerla. Di qui nacque che
la Guardia Civica in Livorno sorse opera non dirò di un Partito,
ma piuttosto di una consorteria, ed anzichè istrumento di concordia
fosse motivo d'ingiuria da un lato, di offesa dall'altro, di litigio
per tutti. Chiunque più tardi (non ora che la rabbia di parte non
lo consente) si farà a dettare storie meritevoli della dignità del
nome, troverà come _il modo_ della istituzione della Guardia Civica
in Livorno partorisse guai, che altri va stortamente attribuendo
a cause diverse. — Ora avvenne che il Popolo escluso dalla Guardia
concepisse maraviglioso rammarico, e togliendo pretesto dalla guerra
imminente si facesse a domandare armi. Qui è da sapersi come parecchi
cittadini, e della Guardia Civica la massima parte, opinassero dovesse
il Popolo contentarsi delle ottenute Riforme, e della guerra avesse
a deporre il pensiero; opinione, che, a quanto sembra, seguitò poi
il conte Pellegrino Rossi, e come ottima viene in questi ultimi tempi
sostenuta dal Cousin: altri all'opposto dichiaravano insufficienti le
Riforme, inevitabile la guerra; e consigliare prudenza che le prime si
estendessero con animo spontaneo fin dove pareva convenevole, ovviando
al pericolo che il Popolo si spingesse a quel termine, e nell'impeto
sregolato lo trapassasse, e alla seconda si facessero per tempo gli
opportuni apparecchi. Devo per verità confessare come taluno dei
Civici che procedeva allora schivo d'ingaggiare la guerra, fosse poi
dei meglio animosi a combatterla, e per sagrificii di ogni maniera
sofferti, e pel valore singolare dimostrato su i campi di battaglia,
non si mostrasse a nessuno dei commilitoni toscani secondo. Al Governo
si paravano davanti due strade: la prima consisteva nel negare le
armi risolutamente, dicendo: «Le armi si domandano e si danno per due
motivi, per la difesa interna od esterna dello Stato. In quanto allo
interno non ci minaccia alcuno; moti contrarii alle Riforme non sono
a temersi; coazioni al Governo, oltrechè non si sopporterebbero, non
sarebbero giuste, come quello che volentieri è disposto di compiacere
ai diritti desiderii dei Popoli. In quanto alla difesa esterna, non ci
potrebbe offendere che Austria; ma avendo essa dichiarato astenersi
da prendere parte nelle faccenda altrui, possiamo starcene in pace:
dove poi s'intendesse dichiararle la guerra, il Governo al tutto si
opporrebbe per questi motivi: — sono i soldati nostri pochi, non bene
addestrati negli esercizii militari, della disciplina impazienti; i
Popoli miti, repugnanti dalla guerra; e mentre di lieve momento sarebbe
il soccorso nostro, troppo grande avventureremmo la posta nel giuoco
periglioso, conciossiachè vincendo guadagneremmo nulla o poco, restando
vinti perderemmo del tutto indipendenza e libertà.» — Io però confesso
di leggieri che in tanta esaltazione di animi, cotesto partito sarebbe
stato a praticarsi impossibile. Ma il Governo, procedendo nell'opposto
concetto della guerra, a liberarsi da ogni improntitudine poteva dire:
«Volete guerra, e guerra sia; e Dio protegga la causa migliore. Però
voi tutti, che chiedete armi, nè soldati siete, nè volete diventarlo;
ora, le armi sono sempre arnesi di costo grande, oggi poi pel bisogno
preziose, per l'uso sante; noi sì le daremo, ma a chiunque voglia
adoperarle davvero in benefizio della patria, non già a pompa vana,
o ad altro uso più reo. Pertanto chi intende essere armato e vestito
soldato per la Indipendenza, venga, e si arruoli per tutto il tempo
che durerà la guerra. Gli arruolati saranno spediti senza indugio ai
campi disegnati, onde si addestrino negli esercizii, alla soldatesca
vita si accostumino, e così portino negli scontri che si apparecchiano,
non solo lo ardore che fa i martiri, ma ancora la disciplina che fa
i vittoriosi.» Per questo modo i millantatori avrebbero cagliato, i
generosi rinvenuto la via a soddisfare gli spiriti bollenti, ai tumulti
tolto il pretesto. Il Governo non seppe abbracciare speditamente alcuno
di questi partiti; più tardi disse non avere potuto riporre fiducia nei
toscani uomini, e ben per loro; però che la molta civiltà acquistata
gli rendesse inetti al combattere;[65] parole, che fecero parere
bella la stessa barbarie, avvegnadio, che cosa possa essere un Popolo
incapace a rivendicare la propria independenza non sappiamo vedere,
dove non sia il somaro che porta, lo schiavo che diletta, il buffone
che percosso ringrazia per fare ridere il suo signore: tra i flagelli
di Dio bisognerebbe allora annoverare la civiltà.
Intanto i provvedimenti del Governo parevano scarsi ed erano; la
fiducia del Ministero nella vittoria, giovanile jattanza; la sfida di
guerreggiare una Potenza famosa in armi, e pertinace nei propositi, con
sassi e bastoni, fanciullesco vanto. Le armi promettevansi prima senza
prefiggimento di tempo, poi a giorno designato e le promesse riuscivano
invano; sicchè alla impazienza si aggiungeva il sospetto, al sospetto
il furore, e rendevano procellosi tempi già abbastanza turbati. Sopra
la fede di commissioni date e di solleciti arrivi, il Generale Sproni
livornese, governatore provvisorio di Livorno, e Celso Marzucchi,
assessore, promisero le armi a posta fissa più volte, e più volte,
loro malgrado, mancarono. Il Popolo notte tempo circonda il Palazzo del
Governo, e prorompe in contumelie bruttissime, e in minaccie: tentano
ogni via per placarlo, ma il furore vince ogni riguardo; già molto
era cotesto, e si temeva peggio: fatto sta, che il Popolo, occupate le
porte, impediva la uscita. In tale estremo, o interrogato o spontaneo,
chè io non so questo, il Popolo domanda una Commissione di cittadini,
affinchè esamini se le incette delle armi sieno vere, ed essendo, ne
solleciti lo invio; il conte Larderel, me, ed altri parecchi nominano
membri di cotesta Commissione; se il Governo locale assentisse in quel
punto ignoro, — chè io stavo giacente in letto per abituale infermità
intestinale, inaspritasi, come suole, nella rigida stagione; — quello
che so, è, che il Popolo impetuoso mosse in traccia del conte e di me.
Percossa duramente la porta, e referitomi quello che da me si volesse,
sorgo tosto in piedi, mi getto addosso una pelle, e mi sottraggo per
le scale segrete; il Popolo ricusando fede ai servi, che mi dicevano
assente, invade la casa, e fruga camere e sale; parte del Popolo
stanziava giù nel cortile, sicchè a me era preclusa la via di uscire,
nè la condizione delle vesti lo consentiva. Vedendo che il Popolo
non se ne andava, e incominciando a travagliarmi il freddo, deliberai
tornare in casa, dove arrivato domandai che cosa volessero da me; e
uditolo, significai ai circostanti apertamente: la mia salute inferma
non concedermi poterli soddisfare; e schivo di subugli, non volere che
il mio nome fosse tolto per segno di opposizione al Governo. Allora
essi risposero essere appunto il Governo quello che mandava per me,
perchè bloccato in Palazzo non rinveniva la via di uscirne. «Se così
è, soggiunsi, il Governo scriva, o invii qualche ufficiale, e potendo
mi renderò alla chiamata.» Infatti, non andò guari che lo Aiutante
Baldanzi venne a invitarmi per parte del Governatore di condurmi al
Palazzo, ed io andai. Quivi erano il Governatore, Marzucchi assessore,
Bernardi colonnello, ed altri moltissimi, i quali, se io non erro, mi
parvero più che mediocremente pensosi di cotesta tempesta popolare.
Salutato il Governatore, lo richiesi di quello che da me desiderasse,
ed egli non senza qualche commozione rispose: «Io nulla; il Popolo
è quello che la vuole.» — «Non è così, risposi; io mi mossi, dacchè
ebbi il suo invito, e venni per farle piacere; stando diversamente la
faccenda, permetta che io mi ritiri.» Allora egli ed altri con modi
cordiali mi esposero la condizione in cui si trovavano, riusciti vuoti
di effetto i tentativi per allontanare le turbe tumultuanti; e poichè
sembrava che in me ponessero fiducia, mi adoperassi a sovvenirli in
quel duro frangente. E con tutto il cuore lo feci. Infermo, curante il
freddo che m'inacerbisce i nervi, nel mezzo di una notte d'inverno,
forte soffiando il rovaio, vado sul terrazzo, e parlo in questa
sentenza: «Il Popolo avere ragione delle armi tante volte promesse, e
non mai consegnate, ma non avere ragione di trascorrere a vilipendii,
se il mare e i venti contrarii tenevano il naviglio vettore lontano
dal porto. Dio dominare gli elementi; non gli uomini. Tutto il momento
della lite consistere a verificare se gli ordini per comprare fossero
stati dati ed eseguiti. Questo affermare il Governo, e di questo
non potersi dubitare; nonostante, la Commissione riscontrerebbe,
profferendo il Governo ogni schiarimento desiderabile, e darebbe fedele
ragguaglio il giorno prossimo. Per ora non rimanere altro che ritirarci
nelle nostre case, obliando gli avvenimenti deplorabili della serata.»
Il giorno veniente mi condussi, per tempo, appo il Generale Sproni, al
quale mi legavano vincoli di cittadinanza e di benevolenza (e come i
primi non si possono, così confido che neanche i secondi siasi voluto
sciogliere in questa procella), e con parole aperte gli favellai:
la sera innanzi essermi mosso unicamente per aiutarlo a tôrsi dalla
difficoltà nella quale versava; la mia salute, le condizioni di
famiglia, il desiderio, e il bisogno di vita pacata dissuadermi da
prender parte in cotesti ravvolgimenti. Ma il Governatore, a grande
istanza, mi pregava a non ritirarmi dalla Commissione: stessi sicuro;
del mio buon volere informerebbe il Governo; lo aiutassi a ricomporre
in quiete l'agitata città. Sopraggiunse il Venturi assessore, e
mi animava con simili conforti a rimanermi con loro; ogni dubbio
deponessi dall'animo: «Ed io, egli dicevami, mi pregio di onestà, e
tu da molti anni mi conosci; sicchè non vorrei nè potrei indurti a
cosa che ti scemasse reputazione o ti arrecasse danno.» Persuaso a non
dimettermi, esposi loro i miei pensieri per trovare modo che la città
posasse; e prima di tutto si voleva mettere a parte della Commissione
certe persone, che, da qualche tempo, procedevansi piuttosto che
poco amorevoli, avverse; e così togliere a un punto le gozzaie tra
spettabili cittadini, e lo esempio al Popolo della discordia.[66]
— Inoltre, ad impedire il rinnuovarsi dei tumulti, appellati
_dimostrazioni_, che precidendo ogni nervo allo Stato facevano il
governo impossibile, la Commissione i desiderii del Popolo ascoltasse,
e ne riferisse al Governo in forma di supplica o di petizione. Il
Popolo poi avrei desiderato che non si presentasse tumultuante alla
Commissione, ma col mezzo di deputati eletti a conferire. Sembravami
questa medicina acconcia al male, perchè considerava come il Popolo
avesse preso il costume di assembrarsi in moltitudine, ed una volta
raunato, gli agitatori ci soffiavano dentro, commuovendolo a modo
di venti contrarii, per cui ne usciva un domandare discorde, spesso
assurdo, sempre violento. Deviare cotesta tribolazione dal Governo
per attirarla addosso a noi, non sarebbe stato rimedio plausibile; lo
importante stava in sopprimere affatto il subuglio. Insinuando, come
io suggeriva, al Popolo di radunarsi nelle chiese per discorrere delle
loro faccende, si toglieva di piazza, e questo era primieramente un
bene grande; poi l'assembramento diventava minore per la capacità del
luogo, lo univoco impulso era remosso, lo equilibrio di varii centri
stabilito. Inoltre, la santità della chiesa avrebbe raffrenato la
violenza degli atti e le disoneste parole. Molte esigenze popolari
sottoposte a discussione sarebbero comparse assurde. Uomini probi
in adunanza di simile sorta, avrebbero adoperati a fine lodevole
l'autorità del nome, il credito della condizione, la efficacia delle
parole. Gl'impronti agitatori non si sarebbero mostrati, conciossiachè
sia facile a comprendersi quanta differenza corra tra aizzare il
Popolo passionato e inesperto durante la notte, e sostenere una
opinione alla luce del giorno con bontà di discorso. — Quando si
possa chiamare la gente in parte dove sia costretta a vergognarsi
delle sue enormezze, ella, se eccettui pochi perdutissimi, tace.
La Commissione ancora avrebbe avuto a trattare con uomini dabbene,
padri di famiglia, conduttori di negozii, per indole e per interesse
amanti di riposato vivere; nè intemperanze dalla parte loro erano da
temersi; in ogni caso agevole adoperare con essi gli argomenti medesimi
ch'eglino avrebbero impiegato con gli altri. Insomma, intendeva
convertire il tumulto in sistema regolare di petizione. Le carte
perquisite fecero fede di cotesto mio concetto; il quale forse sarà
stato intempestivo, ma non disacconcio; ed anzi, neppure intempestivo,
dove si avverta, che contro il Popolo non si voleva, nè si sarebbe
potuto, senza pericolo, ricorrere alla forza.[67] Dei due partiti,
reprimere o concedere, bisogna pure valerci di uno nelle perturbazioni
politiche; peggio di tutto è la inerzia, che, come non ti sottrae
ai danni di chi combatte, neanche ti acquista la benignità solita
praticarsi verso chi cede a tempo. _In ogni caso ell'erano proposte
le quali potevano accettarsi o ricusarsi, non già leggi che per me si
volessero imporre. All'Autorità locale parve avessero a sospendersi,
e rimasero senza effetto_. — A me non giova suscitare adesso tristi
memorie, nè, adoperando io quello che in altrui massimamente detesto,
staccherò serpi dal capo della Discordia, per gittarli a turbare la
comunanza solenne della sventura. A me basti dire, che fui vilmente
calunniato, che (stupendo a narrarsi!) Livorno intero mi suscitarono
contro con l'accusa di macchinati incendii, di rapine e di stragi! Ben
quattromila cittadini armati vennero ad arrestare e a incatenare la
bestia feroce. Predicazioni acerbissime, stampe infami, governative
insanie cospirarono ad alienarmi in un punto tutta la mia patria che ho
amato sempre come la pupilla degli occhi, per cui mi piacque la fama,
offerendo a lei, in tributo filiale, quel poco di onore che mi veniva
procurando con i miei scritti! Allora, come adesso, perfide parole
mi filtravano dall'alto del carcere sopra il corpo e sull'anima come
stille di pece infiammata. Allora, come adesso, smarrito ogni senso
di morale, di religione e di pudore, uomini (che se ne pentiranno
amaramente un giorno) si fecero _cagne studiose e conte_ per latrare
e per mordere. _E adesso, come allora, la mia maladizione saprà
perdonarvi_.
Lo egregio uomo Scipione Bargagli, venuto Governatore a Livorno,
presto si accôrse della oscena persecuzione: i miei concittadini,
pieni d'inestimabile rammarico, per essersi lasciati così stupidamente
ingarbugliare, domandavano ammenda della commessa ingiustizia. Alla
Catilinaria era mancato il Catilina; nè Marco Tullio aveva potuto
ripetere il verso famoso:
O fortunata nata, me consule, Roma!
I Giornali erano rientrati nell'otre di Ulisse. I Municipii, che simili
ai montoni di Panurgo furono uditi uno dopo l'altro belare Indirizzi
di congratulazioni, per la patria liberata dagli Unni, tacevano; solo
si dibatteva il Partito a me avverso, e agitato da molte passioni,
cresceva di violenza. Questo Partito, che aveva proceduto ardentissimo
contro la Commissione, la quale si era proposta di secondare il
Governo, col pretesto che creava uno Stato dentro lo Stato, adesso
sorgeva tra il Governo e me; e al Governo diceva: «Guai se egli si
attentasse a farmi tornare!» Da me ardiva pretendere un _atto di
contrizione_ delle colpe commesse, poi si contentava di _un atto di
fede_, che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni tempo la
mia futura condotta; altrimenti minacciava mi avrebbe fatto durare
fino a dieci anni in carcere. Artificiosa era cotesta improntitudine
del pari che temeraria; però che il Partito intendesse strapparmi
uno scritto qualunque, che poi, interpretato con la solita carità,
gli servisse a dimostrare che _non senza motivo_ si era mosso ai miei
danni. Intanto il Governo, liberati i compagni della mia prigionia,
riteneva me, che avevo dichiarato non volere uscire, dove alla mia
fama non si desse convenevole riparazione; e il Principe nel 22
marzo 1848 dichiarava, che _gli atti a me obiettati si riducevano ad
una preordinazione per ispingere possibilmente verso una meta, cui
le sopravvenute mutazioni politiche in Italia hanno a noi permesso
di pervenire senza pericolo del nostro Popolo; aggiungendo che la
loro illegalità era sparita dopo che lo Statuto ne aveva assicurato
il conseguimento con letizia comune del Governo e dei governati_.
Onoratissime parole, almeno in cotesti tempi, ma non meritate affatto,
imperciocchè, come ho avvertito, le mie erano proposte da accettarsi
o da ricusarsi, non già leggi da imporsi; pure tacqui, avendo promesso
non suscitare imbarazzi al Governo con importuni reclami.
Forse per questo il Partito quietavasi? No. Persone non vili andavano
dal Governatore Bargagli, e lo ammonivano che della quiete di Livorno
non gli rispondevano, se io vi fossi comparso; e siccome il Bargagli,
ormai infastidito, disse loro: «che gli ringraziava dei consigli, e
che io sarei tornato ad ogni modo,» poco dopo egli si vide comparire
davanti una persona vile, che minacciò mi avrebbero ucciso a furore
di Popolo, se avessi posto piede a terra. Queste cose confidò poi lo
egregio conte Bargagli a me e a Giovanni Bertani, ed io le riporto
con la maggiore discretezza che posso, e per necessità di difesa;
onde io spero ch'egli, gentilissimo com'è, non solo vorrà compatirmi,
ma deplorare lo estremo in cui mi trovo di doverle rendere palesi.
Alla fine il Governo spediva il piroscafo _Giglio_ a riprendermi
con onore, e venivano con esso taluni autori od esecutori del mio
non degno arresto. Io gli accolsi come se mai mi avessero fatto
oltraggio: arrivammo di notte; il Comandante del Porto attendevami per
accompagnarmi a casa; io gli chiesi in grazia di accompagnare lui, e
mi ridussi solo alla mia stanza. Gli autori del mio arresto, in parte
si erano allontanati; in parte, dubitando della loro sicurezza, si
tenevano nascosti; nei loro cervelli balzani già già le proscrizioni
sillane attendevano. — Io fui Ministro, e _non volli leggere cotesto
Processo_ per non avere motivo di concepire rancore contro coloro che
per avventura avessero deposto a mio pregiudizio. Io ebbi il potere,
e lo adoperai a difendere, a beneficare, e perfino impiegare quelli
che avevano cospirato a mio danno. Se motivo alcuno di ambizione mi
fece desiderare il potere, fu questo: trovarmi in parte ove io avessi
facoltà di mostrare quanto fossi diverso da quello che gli emuli per
vizio di parte mi avevano calunniato.[68] — Prima di usare parole di
obbrobrio contro di me, perchè non gittava l'Accusa uno sguardo sopra
cotesto Processo? Essa avrebbe veduto che non fu grazia il Decreto
del 22 marzo 1848 in quanto a me, ma benigno risguardo all'onore di un
uomo atrocemente, quanto indegnamente, offeso. Essa avrebbe appreso,
che non fu _esatta_ quando le piacque designarmi come: _individuo, che
altre volte ha INTERESSATO la Grazia_... e le Accuse quando posseggono
tanta copia di carte, e di occhi, che le leggono, e di bocche, che
referiscono, avrebbero l'obbligo di essere _esatte_.
Se l'Accusa avesse udito gli scorticatori di San Bartolommeo
muovere querela contro il povero Santo per averlo scorticato, che
cos'avrebb'ella detto? In verità, a me sentendo rimproverarmi le
sofferte piaghe, parve essere San Bartolommeo accusato di crimenlese
per non avere più pelle.....


IX.
Esame dei §§ VI, VII, VIII dell'Atto di Accusa, e Comento alle parole
del Decreto del 7 gennaio 1851: «_che con mezzi riprovevoli ero giunto
a impossessarmi del potere_.»

Investigando con intenzione nemica la passata mia vita, l'Accusa mi
porge occasione ad esporta, fondandomi sopra Documenti e sopra la
testimonianza dei miei concittadini. Reduce a Livorno, io trassi vita
più solinga che prima non aveva fatto, non cruccioso, ma mesto della
ingiuria patita; chè la nuova benevolenza non toglieva l'amarezza dello
strazio passato:
Piaga per allentar d'arco non sana.
Gli emuli miei, vedendo tanta mansuetudine, la reputarono viltà, e
tornarono più baldanzosi che mai a procedermi avversi nelle prossime
elezioni, continuando nelle calunnie, che vorrei dire infami, se non
fossero state ridicole.[69] Per la quale cosa schivando diventare
argomento di litigio, e maledicendo in cuor mio lo infame seme della
discordia, che mai non quieta nei petti umani, deliberai di un tratto
abbandonare la città e ricovrarmi in qualche appartato asilo.[70]
E rallegrato dall'amicizia, splendido delle bellezze della Natura
e dell'Arte, io mi ebbi queto asilo nella villa di Scornio. Colà io
riposava all'ombra delle antichissime piante, e leniva con gli affetti
domestici, le cortesie dell'amico e i cari studii, l'animo offeso,
quando lo egregio Niccolò Puccini mi avvisava come la banda cittadina
avesse deliberato venire a farmi festa, e come la banda del Borgo non
sembrasse disposta a patirla, correndo fra loro emulazione grande, e
quasi nemica. Conobbi invidiarmi la fortuna anche cotesto ricovero,
onde senza por tempo fra mezzo io mi partii, pauroso sempre che il
mio nome diventasse soggetto di contesa, e mi condussi a Firenze.
— Intanto accaddero le elezioni in Livorno, e quantunque sommando i
voti dei quattro Collegi io ottenessi numero di gran lunga superiore
a quello degli altri candidati, pure singolarmente in ogni Collegio
lo ebbi minore, e non rimasi eletto. — La operosità non contrariata
degli emuli conseguiva un fine per loro desideratissimo, e poichè
vedevo che tanto gli soddisfaceva, anche io ne godevo. Adesso la Curia
Fiorentina mi scriveva su l'Albo dei suoi Avvocati; e questa larghezza
non mi ha ritolto finora, almeno credo. Più tardi l'Accademia della
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