Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 28
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Firenze io riteneva per irrito, e come a cosa di nessun valore ricusavo
sottopormi: la universa Toscana, debitamente interrogata, disponesse di
sè:
«Dopo che la Toscana fu priva di uno dei tre Poteri dello Stato, fu
eletto dal Popolo, e confermato dal libero voto delle Assemblee, un
Governo Provvisorio. Primo ed ultimo dei doveri di questo doveva essere
la tutela dell'ordine pubblico. A tanto dovere non mancherà mai questo
Governo, finchè gli bastino tutte le sue cure, e tutto sè stesso.
«Ai Toscani poi tutto il diritto, e il dovere insieme di decretare
la forma che ha da prendere lo Stato. _Quando i Deputati eletti
liberamente per universale suffragio avranno espresso la volontà
loro, il Governo Provvisorio darà primo lo esempio della più
perfetta obbedienza ai voleri del Popolo Sovrano_. — Firenze _11
febbraio_.»[382]
Finalmente il giorno _14 di febbraio_, il giorno stesso del Dispaccio
incriminato, faceva scrivere dal Segretario Marmocchi al Governatore
di Portoferraio: «SA PERALTRO CHE SE IL PRINCIPE È PARTITO, NON È
DECADUTO.»[383]
Nel giorno _10 febbraio_, considerando la miseria a cui la partenza del
Principe riduceva i suoi familiari, e compiacendo ai desiderii di lui,
decreto:
«Tutti i Cittadini che fin qui appartenevano al servizio del
Principe, riceveranno provvisoriamente la loro pensione a carico della
Depositeria Generale, finchè il Governo non abbia trovato il modo di
sistemarli convenientemente.»
Nel giorno _11 febbraio_, così imponendo i proconsolari ordini della
Setta, decreto, che il regio Palazzo della Crocetta sia destinato ad
ospedale degl'Invalidi; più tardi, si è veduto, i novelli Municipali
vanno di proprio arbitrio a rinnuovare ai Custodi la minaccia dei
veterani di Augusto ai possessori degli agri italici: _veteres migrate
coloni_; ma segretamente dispongo non s'innuovi.[384] Nel giorno
_11 febbraio_, ricercato il Governo dal Governatore di Livorno, se
i soldati mossi da quella città per Firenze avessero a proclamare
la Repubblica, risponde: chiamarsi pel mantenimento dell'ordine,
non già per dimostrazioni politiche, le quali dovevano all'opposto
con ogni studio prevenirsi.[385] E qui mi sia concesso notare, onde
si conosca quanta sia stata la umanità mia, e la cura indefessa,
perchè nefande discordie tra la famiglia toscana non insorgessero, o
insorte appena posassero, la esortazione rivolta nel medesimo giorno
al Governatore Pigli: «Si raccomanda la buona condotta passando per
Empoli. Si rammentino, che gli Empolesi, momentaneamente traviati, sono
fratelli.»[386]
Nè, quantunque poco faccia alla materia in questo punto discorsa,
io mi asterrò da riportare un Dispaccio telegrafico da me dettato
il _16 febbraio_, relativo ai Veliti. — O voi non degni soldati di
questo corpo onorevole, e da me onorato, che veniste a inacerbirmi il
carcere di San Giorgio dicendomi improperii sotto le cieche finestre,
o minacciando traverso le porte, io non voglio rammentarvi, che
per me, assentendo ai desiderii vostri, dagl'ingratissimi ufficii
di Polizia foste rilevati; e neppure, che sopra ogni altra milizia
Toscana otteneste prerogative, e soldo; queste cose accennerebbero,
per avventura, a provocare la vostra riconoscenza; ed io ve ne
dispenso. Leggete, vi scongiuro, più che con gli occhi col cuore, il
mio Dispaccio del _16 febbraio_, ed imparate che cosa sieno amore di
cittadino e carità di Cristiano. — Avvertito, da Pontedera, come alcuni
Veliti per timore di minaccia fuggissero via, così gravemente ammoniva:
«Invece di accomodare, arruffate. Qui i Livornesi hanno fatto pace co'
Veliti; a Pontedera gli minacciano; sicchè questi fuggono. I Veliti
sono il miglior corpo che abbiamo. Bisogna che voi gli richiamiate, e
subito fate pace, e sincera. Con questi modi prevedo guai grandi. Siamo
tutti fratelli; se non l'amore, ci stringa il pericolo comune.»[387]
Quando lo insulto si posa sopra le labbra del soldato, il valore leva
le tende dall'anima sua.
Correva il giorno 12 febbraio, quando una moltitudine di Popolo,
traendo a furia su la Piazza del Granduca, si accinse a piantare
l'Albero della Libertà, e con infiniti schiamazzi chiedeva il Governo,
affinchè l'atto approvasse, e lodasse. Mi presentai solo, e solo mi
attentai a contrastarlo, e lo chiamai prepotenza diretta a costringere
gli altri Toscani, i quali _forse_ lo avrebbero consentito, ma non
erano presenti per farlo: appartenere al libero voto di tutto il Popolo
toscano, radunato in Assemblea il 15 del futuro marzo, _decidere su la
forma del Governo_.[388] — Quale concepisse rancore la Fazione assai
dimostrammo, e più dimostreremo, se Dio ci aiuta; però nonostante le
mie parole, tornava più tardi, e lo volle piantato sotto i miei occhi,
quasi in dispregio di me. Siete chiariti adesso, che nè sempre, nè
tutto quello che desiderava non fatto, mi riusciva impedire? L'Accusa
impenitente sussurra: _lustre per parere_; opere volpine per istare
apparecchiato ai successi futuri. Sta bene; ma egli è forza convenire,
che mentre provvedevo alle probabilità future, correvo temerario il
pericolo di rimanere oppresso nelle contenzioni presenti: e questo io
non vorrei rinfacciare l'Accusa per non avere fatto, ma vorrei, che un
cotal poco più onesta ella fosse nel darmi merito per averlo fatto io.
Nè meno importa allegare in mia difesa il Decreto dei Commissarii da
inviarsi nelle Provincie, che compilato dal sig. Mordini, firmai il _14
febbraio_, avvegnachè in esso non si faccia pur motto di Repubblica,
nè di altro attenente a forma di Governo, bensì di risvegliare i sensi
generosi della Nazione, mettere a profitto i mezzi sparsi in tutto il
Paese, facilitare il fornimento delle Guardie Nazionali, lo scriversi
dei Volontarii alla milizia; raccogliere insomma in uomini, in bestie,
in danari, e in arnesi, quel più che la diligenza loro avesse potuto
ottenere dai Municipii toscani.
Ora tutte queste paionmi prove evidentissime della mia reluttanza a
operare cosa che tornasse ostile al Principato Costituzionale, però che
da me pendesse unicamente consumarne l'abolizione; e se questa allora
e poi contrastai, stupido concetto è pretendere, che al punto stesso io
la provocassi e volessi.
Nè pentere e volere insieme puossi,
Per la contraddizion che nol consente.
(DANTE, _Purg._, III.)
Lo dice anche il Diavolo, ch'è pure il Procuratore Regio nell'altro
mondo!
Appartiene, per ordine di data, a questa sede del nostro discorso
la lettera che l'Accusa senza altro impaccio afferma da me spedita
al conte Del Medico; ne favellerò in altra parte: intanto importa
fino d'ora avvertire, ch'ella non è punto una lettera mandata, bensì
semplice nota posta sotto la missiva di cotesto Delegato: il che suona
troppo diverso. E qui pure, se non per ragione di data, per connessità
di materia, dovrei esporre i motivi delle note, che si afferma di
mio carattere scritto sotto le lettere del 12 e 17 febbraio 1849,
la prima del Consigliere di Prefettura, la seconda del Prefetto di
Grosseto; ma poichè esse vengono governate da altra serie di fatti,
io penso con migliore consiglio favellarne là dove di questi fatti
terrò ragionamento. Chiuderò piuttosto, prima di passare ad altro, col
proseguire la storia dei sospetti e degli eccitamenti contro la mia
persona, mossi dalla Fazione dei demagoghi dai primordii del Governo
Provvisorio fino a questi tempi, e poi purgandomi dall'accusa della
persecuzione esercitata contro i Sacerdoti.
Nel 9 febbraio, a nome della Fazione, intimasi il Governo a spogliare
gli abbienti del _superfluo_, e a distribuirlo fra il Popolo; ai
colligiani, alle femmine, agl'impiegati tolga le pensioni mal date
e peggio ricevute, e subito, perchè già in qualunque Governo sarebbe
sacramentale dovere, ma in quello che regge, dura, vive e respira per
volontà di Popolo, è condizione di vita, necessità. Nè dica domani, no:
domani _potreste non essere più vivi_...[389]
Della inquieta polizia dei Circoli somministrano prova i Documenti
dell'Accusa in data dell'_11_ febbraio, con l'ordine di vigilare i
palazzi, e la taberna di alcuni cittadini.[390]
Nel giorno _13_ febbraio, la Emigrazione Lombarda minaccia prossima
l'accusa davanti il Popolo, per la colpevole inerzia con la quale avevo
poltroneggiato fin lì.[391]
Nel _14_ il _Monitore_ del Circolo, me e i miei colleghi bandisce
_Governo austriaco_, se, dubitando, indugiamo più oltre a proclamare la
_decadenza del Principe_.[392]
Nel giorno stesso, pel medesimo _Monitore_ rimango avvertito che il
mio _mal sonno_ di tre giorni (la Emigrazione Lombarda vedemmo, che lo
calcola di _sei_) mi tornerebbe fatale, avvegnachè io _giuocassi della
mia testa_.[393]
La mia opposizione al piantare l'Albero è denunziata al Circolo,
da quello con parole crucciose avvertita, e minacciosamente dal suo
_Monitore_ propalata.[394]
Con pari cruccio, e pericolo anche maggiore, la Emigrazione Lombarda
avvisa il collegio repubblicano essere stata da me freddamente accolta
la Deputazione venuta a instare, affinchè la Repubblica senz'altro
indugio si proclamasse.[395]
Scellerata cagione di sangue, me furibondi designano alla pubblica
vendetta, perchè relutto a dichiarare la Repubblica, la decadenza del
Principe, e la Unione con Roma.[396]
Questi, ed altri tali, erano dardi avventati _ad hominem_, dacchè, bene
o male che il credessero, demagoghi e Repubblicani pensavano essere
io impedimento unico a conseguire il termine estremo degli sforzi
loro,[397] senza il quale, assai più esperti dell'Accusa, tenevano non
avere conquistato nulla, e riposta ogni cosa in compromesso. L'Accusa,
tetragona ai colpi di paura, scriveva, dentro la sua stanza, nel
gennaio del 1851, a canto al fuoco, gli usci diligentemente serrati: —
lievi prove di coazione sono coteste, anzi non sono prove, e, meglio
meditandovi sopra, piuttosto sono prove escludenti qualsivoglia
violenza! — Ma, Dio eterno, che cosa pretenderebbe l'Accusa? che io,
in prova della violenza patita, le portassi davanti la mia testa mozza
come Beltramo da Bornio?[398] Atroce patto ella pone alla sua fede,
se non si contenta di altro che di gole squarciate, e di cuori fessi!
L'Accusa non tace che alla prova del cataletto...
Le manifestazioni di animosità della parte repubblicana, a me
particolari, sono venuto con prove espresse raccontando durante il mio
Ministero, e nei primi giorni del Governo Provvisorio; vedremo a mano
a mano crescere in breve, e prorompere alfine in manifesta accusa di
traditore.
Da me altri non aspetta (e non mi sento tale da farne) proteste di
devozione serotina: io parlo piuttosto con la coscienza del testimone,
che con lo zelo del difensore. Però, innanzi tratto, dichiaro,
ch'eletto a tutela della pubblica sicurezza, io non solo non mi
reputerei colpevole di avere adoperato contro i Sacerdoti, secondo i
meriti loro, ma all'opposto mi terrei colpevole per essermene astenuto.
Forse i Sacerdoti presumono esercitare il privilegio del delitto?
Chi questo crede, gl'insulta. La santità del carattere e lo istituto
sublime impongono loro augumento di carichi, ed essi lo sanno, non
già dagli assunti doveri gli assolvono. Nè Cristo senza sacrilegio può
essere tolto a segnacolo di fazioni contrarie; egli sente misericordia
di tutti; per chi piange, ed anche per chi fa piangere. Monsignore
D'Affre, inclito martire della fede cristiana, quando si avventurò
tra i furori della battaglia cittadina, non andava già a rafforzare
questa parte o quella; finchè cristiani uomini gli uni contro gli altri
combatterono, egli gridò: — «forsennati! forsennati!» e li conteneva;
quando cadevano, egli gemè: — «infelici!» e gli andava soccorrendo;
quando fu piagato di mortale ferita, ei li chiamò: — «figliuoli!»
e li benedicea. — Chi davanti a Sacerdoti siffatti non s'inchina? —
I Sacerdoti commettitori di scandali e di risse, già più Sacerdoti
non sono; la Chiesa, pel carattere che rivestono, bene domanda sia
proceduto contro loro con certi riguardi, ma essa prima e più severa
di tutti acerbamente gli accusa. Ciò premesso, io dichiaro, non avere
mai dato ordine che si arrestassero Sacerdoti. Mentre fui Ministro
dello Interno, feci chiamare, come altrove ho notato, alcuni Preti
ed alcuni Frati, e gli ripresi del poco amore che portavano alla
Patria, del costume pessimo, e dello sviarsi dietro a cose umane che
non ispettavano loro, con iscapito grande delle divine a cui erano
unicamente commessi; non però gli arrestai, nè in altro li volli
mortificati. Durante il Governo Provvisorio non adoprai modi diversi;
anzi, ricordo come certa volta presentatisi avanti il Ministro dello
Interno alcuni Sacerdoti, udii riprenderli, perchè si mostrassero
avversi alla Costituente, e andassero dissuadendo la difesa del Paese;
e dico averli uditi riprendere, dacchè non erano stati punto chiamati
per ordine mio, e nello ufficio del Ministro io penetrava a caso. Senza
profferire parole, in disparte ascoltai le discolpe loro; poi fattomi
presso ad uno che al sembiante mi parve più giovane degli altri: — «Io
non so, Reverendo, incominciai ponendogli la mano destra sul braccio,
io non so, Reverendo, perchè voi non dobbiate amare la Patria; anzi non
so perchè voi non la dobbiate amare più di noi.» E il degno Sacerdote
con atti e parole vivaci rispose: «Io amo il mio Paese al pari di
ogni altro. Rispetto alla Costituente Italiana, la mia coscienza mi
vieta aderirvi; ma in quanto a difendere la mia Terra dalle invasioni
straniere, da Sacerdote le affermo, che prenderei l'arme, e verrei
a farlo io stesso.» — Allora gli strinsi la mano, e conchiusi: «E
tanto basta, mio degno Sacerdote,... tanto basta.» — Quando mi verrà
concesso esaminare gli Archivii, ritroverò il nome e la condizione del
Prete.[399] —
Superiormente alla tristizia dei tempi, trovarono in me i Sacerdoti
continua ed efficace tutela. Di ciò provare mi porge abilità la
cortesia dell'Arcivescovo di Firenze, il quale, da me richiesto, mi
rimetteva la copia autentica della lettera che io gl'indirizzava il 2
aprile 1849:
«Monsignore.
«Io vorrei pregarla, Monsignore, ad avere la compiacenza di
significarmi se V. S. Rev.ma intende per le imminenti solennità
celebrare in Firenze.
«Nel mentre che io vado persuaso che V. S. Rev.ma si penetrerà di
quanta pace e di quanta consolazione sarebbe la sua presenza in mezzo
al suo ovile, mi permetterei aggiungere le mie preghiere caldissime
onde ciò abbia effetto.
«So bene che V. S. Rev.ma non si tratterrebbe punto nello esercizio
delle sue sacre funzioni per sospetto che potesse concepire; pure vada
convinto, che finchè duri nello arduo uffizio che mi fu confidato,
saprò e vorrò mantenere severamente la reverenza che si deve a tutti
gli Ecclesiastici in generale, e in particolare alla sua degna persona.
«Di Lei, Mons.re Reverend.mo
«(L. S.) Li 2 aprile 1849.»
«Devot.mo
«GUERRAZZI.»
E già io gli aveva dirette altre due lettere in risposta alle sue, con
le quali mi domandava protezione per lo esercizio delle sue episcopali
prerogative. Quantunque egli abbia smarriti gli originali, non ha
mancato il degno Arcivescovo, con esempio di rettitudine generoso, _non
per anche imitato da tutti quelli nei quali io maggiormente confidava_,
di sovvenirmi nelle dure strette in cui mi trovo con lo aiuto delle sue
reminiscenze, come si conosce dal seguente attestato:
«Attesto per la pura verità, che nel tempo da me trascorso alla Badia
di Passignano, dopo le tristi vicende che mi costrinsero ad abbandonare
questa Capitale, oltre una terza lettera già da me rilasciata dietro
richiesta delle Autorità Giudiciarie, io ne ricevei pure altre due
direttemi dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi, in allora Capo di
quel Governo Toscano, nelle quali, con espressioni le più ossequiose
e rispettose, mi diceva ch'egli approvava pienamente le misure
da me prese di relegare all'Alvernia i due Sacerdoti *** *** come
propagandisti di dottrine eterodosse, e mi protestava che sarebbe stato
sempre deferente all'Autorità Episcopale, promettendo, fintantochè
egli fosse stato a capo del Governo, favore, protezione e sostegno pel
libero esercizio della medesima.
«Non avendo io tenuto conto di dette due lettere, e venendomi esse
richieste dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi per interesse della
sua difesa, ho stimato _mio dovere_ di manifestarne il sentimento, e
rilasciarne il presente certificato.
«In fede ec.
«Dal Palazzo Arcivescovile di Firenze,
«(L. S.) Li 11 marzo 1851.
«FERDINANDO Arcivescovo di Firenze.»
E queste sono nobili parole: in prigione non posso nè devo fare
più lungo sermone. Allora la lode è turpe per cui la profferisce, e
senza onore per cui la riceve, quando possa sospettarsi che muova da
viltà o da paura. Miseria non ultima del carcere, dove il biasimo ti
viene ascritto a furore, la lode ad abiezione. La virtù nella comune
estimativa del mondo sta abbracciata con la fortuna.
E, non diverso dall'Arcivescovo di Firenze, il Vescovo di Milto
Ordinario a Livorno, con lodevole premura porgeva anch'egli
testimonianza di averlo io sostenuto, affinchè in negozio dilicato
l'autorità sua fosse obbedita.
«I Signori *** *** presentandosi come incaricati del signor Avvocato
F.-D. Guerrazzi mi richiedono di uno attestato, che stia a constatare
qualmente il medesimo mentre dirigeva il Ministero dello Interno
si prestò ad appoggiare la mia Autorità di Ordinario in emergente
dilicato, interessante la moralità e la coscienza, ed io non posso
ricusare un tale attestato, in quanto che è vero, che in circostanza
come sopra fui dal suddetto signor Guerrazzi utilmente coadiuvato. Ed
in fede
«(L. S.) Livorno, 26 luglio 1851.
«GIROLAMO, _Vescovo di Milto_.»
Nè già si creda, che senza mio sommo pericolo fossero i soccorsi,
che, secondo l'obbligo mio, dava allo Episcopato per lo esercizio
delle sue legittime prerogative, e la preghiera al fiorentino
Arcivescovo, che con la presenza e i riti la religione commossa
confermasse. Un cartello infame fu affisso nel giorno terzo o quarto
di aprile all'Albero della Libertà, piantato in Piazza del Duomo, e
fatto remuovere vi ricomparve più volte, il quale diceva così: «Due
traditori (il primo era io, il secondo Monsignore Arcivescovo) si
sono dati la mano per tradire il Paese; si muova il Popolo, e si dia
la meritata pena, prima che gli scellerati disegni sieno compiti.» A
vero dire io non ebbi mai l'onore di favellare con lo Arcivescovo; ma
non importa; noi cospiravamo insieme per tradire il Paese. In quanto
al soggetto cui accenna l'attestato di Monsignore Vescovo di Milto, mi
dichiarò mortalissima guerra; scriveva lettere ortatorie perchè mi si
spingessero contro come a un verro di macchia, perchè traditore della
Patria, venduto ai tiranni, col corredo delle consuete ribalderie,
che i ribaldi costumano. La Polizia sorprese una di queste lettere,
e svelò come anch'egli partecipasse alle trame del Frugoni di cui ho
parlato a pag. 369 di questa Apologia. Longanime come è mia natura,
non uso a tremare, e per paura offendere, tardo a muovermi quanto più
in grado di accompagnare il baleno del volere col fulmine del fare,
io mi restrinsi a spedire la lettera intrapresa del tristo Prete a
Manganaro, ordinandogli di depositarla negli Archivii della Polizia, e
sorvegliare, e sfrattare il Frugoni.[400]
Ma tornava al benevolo disegno della Accusa raccontare di Preti
imprigionati e di Arcivescovo offeso, me annuente o impotente. Ciò non
pensava il Vescovo di Livorno, e molto meno lo Arcivescovo di Firenze,
che a me ricorrevano per protezione in tempi anche più torbidi, e la
ebbero, però che io con tutti i nervi mi vi adoperassi. Ma che importa
questo? Ciò che si dimostra lo Arcivescovo non avere mai pensato, pensa
l'Accusa; e non solo lo pensa, ma lo rimprovera, e ne forma subietto
d'imputazione.
L'Accusa fonda il rimprovero: 1º sopra taluni ordini spediti l'8
febbraio 1849, dove leggonsi l'espressioni: «Si vuole ovunque
mantenuta la pubblica tranquillità, ed energicamente represso ogni
_tentativo_ reazionario contro lo attuale ordinamento, se vi fosse
tanta stoltezza da _tentarlo_. I Parrochi in ispecie, e Preti in
generale, debbono rigorosamente guardarsi, e ove costoro, o chiunque
altro, si cogliessero in fallo, sieno irremissibilmente carcerati e
processati;» 2º sopra una lettera del 19 febbraio che dice: «Se trova
Preti renitenti o traditori, è tempo finirla; si arrestino questi
indegnissimi figli della Patria e di Cristo, e si mandino legati a
Firenze. Non ammettiamo esitanza, dubbio, od osservazione in contrario:
sotto la responsabilità sua, si leghino e mandino in Firenze.»
Mi rifarò dal documento secondo. Le osservazioni, che questa lettera
ignoravasi 1º a cui fosse mandata; 2º se spedita; 3º da cui scritta;
4º e da cui firmata, — conciossiachè le firme del signor Montanelli e
mia non appaiono di nostro carattere, e il corpo della lettera neppure,
come neanche di persone addette alle Segreterie, nè di familiari
nostri; tutte queste osservazioni, almeno per quello che sembra, hanno
persuaso l'Accusa a dubitare un tantinetto intorno alla autenticità di
cotesto documento: però io mi stringerò a dichiarare in _istil breve e
succinto_, che di questa carta io non devo dire nulla. Per qual motivo
poi, con mille altre di pari natura, l'abbiano stampata nel _Volume_,
pende il giudizio incerto. Alcuni sostengono, che la Istruzione
dapprima si avvisasse apparecchiare il caos, onde i Giudici poi,
quasi divini, dicessero: «si faccia luce,» e luce si facesse; — altri
opinano, che ella intendesse fornire un saggio della intelligenza e
della prestanza di taluni impiegati toscani; e si maravigliarono perchè
il _Volume dei Documenti_ non fosse spedito, con tante altre rarità,
alla Esposizione di Londra.... ma, spicciandosi, sarebbero sempre a
tempo; — altri, altra cosa dichiarano. Intanto stampano lo Indice,
ottima giunta alla buona derrata, perchè accuratamente compilato, con
diligenza elzeviriana corretto, sicuro nelle indicazioni; per sugosi
sommarii, e soprattutto precisi, veramente esemplare;... questa opera
inclita in ogni parte armonizza![401] — Favelliamo di altro. E quanto
espressi sul documento secondo dovrebbe giovarmi anche pel documento
primo, dacchè non sia scritto nè firmato da me, sibbene dal solo
Segretario signor Allegretti. Ma il Segretario Allegretti, ricercato
con lettera intorno alle ragioni del Dispaccio, risponde per lettera
quello, che già abbiamo letto a pag. 289 di questa Apologia. Quando
il signor Segretario sarà richiamato, come diritto vuole, non dubito
punto nella rettitudine sua, ch'egli vorrà rammentarsi come mostrando
nel volto dolore, gli domandassi che avesse, ed avendomi manifestato la
repugnanza sua a scrivere disposizione siffatta intorno ai Parrochi, io
gli rispondessi: «ed ella non la metta.» Se non che altri intervenne,
e disse con impeto: «che importa a lei? Faccia il suo dovere, e
obbedisca.» Ma queste cose non importa sapere all'Accusa.
Il Manifesto alla Europa afferma che il Governo non mandò armati
a cacciare S. A. da Porto Santo Stefano, e, tranne alcuni pochi
Municipali, nessuno; e dichiarò eziandio non essere mai stato
instaurato in Toscana il Governo Repubblicano. Questo trovammo a
prova essere vero esattamente, se ai Municipali aggiungi i quattordici
artiglieri, quantunque rispetto a me non sapessi degli uni nè degli
altri. Però non vuolsi revocare in dubbio che le voci corressero
diverse dal vero, siccome vediamo per ordinario accadere; se per
_forte mano_ vogliasi intendere la colonna Guarducci, nè ella, come
chiarii, era spedita da me, nè da altri del Governo, e veniva nel
giorno 18 richiamata a Livorno, e rivolta verso il contado lucchese;
se per capi stranieri D'Apice e La Cecilia, il primo non si mosse da
Empoli, e ricusò il comando; a La Cecilia non fu commesso dal Governo
ufficio di sorta, nè leggo avere operato cosa alcuna, tranne bandire
proclami, proporsi di capitanare le milizie civiche della Maremma,
e, non rinvenuto il terreno molle, data una gira-volta, tornarsi a
Livorno prima del 20 febbraio. Il cannone di Orbetello bene salutò la
Repubblica, ma la Repubblica in Toscana non era; per la quale cosa il
Manifesto alla Europa non ismentendo (come inesattamente scrive il
Procuratore Regio del Tribunale di Prima Istanza di Firenze, a pag.
23 della sua Requisitoria) le cannonate di Orbetello, disse a ragione
erroneo il supposto, che la Toscana, decretata la decadenza del suo
Principe, si fosse costituita a reggimento repubblicano.
E perchè si conosca a prova quanto il mal genio dello errore abbia
presieduto a questa opera infelice della Magistratura toscana, noterò
come il Regio Procuratore rammentato adduca a conferma di un fatto vero
una prova falsa. Veri gli spari di cannone ad Orbetello il giorno 20
di febbraio; non vero, che ne faccia fede il Dispaccio, allegato dalla
Requisitoria, di Carlo Pigli; ed è evidente. Il Dispaccio del Pigli
apparisce dettato il 22 febbraio a ore 5, m. 45 pom., e dice: «_ieri_
a Grosseto e a Orbetello fu grandemente festeggiata la Repubblica
con sparo di artiglierie ec.;» lo _ieri_ del _22_ pare quasi sicuro
(a meno, che non lo voglia contrastare il signore Paoli) che sia il
_21_: però, stando a questa prova, il Procuratore Regio del Tribunale
di Prima Istanza di Firenze ci vorrebbe dare ad intendere, che S. A.
sentisse nel _20 febbraio_ i colpi di cannone sparati il _21_!!! Ma
queste le sono baie.
_Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis_
_Offendar maculis....._
Nonostante, quando si agita del sangue e della fama di un uomo, uno
scrupolo più di coscienza non parrebbe che potesse guastare la ricetta.
Onde sieno completi gli schiarimenti sul Manifesto alla Europa, dirò
che fu composto sul principiare del marzo. Ora, mantenendo viva (come
sarà provato fra poco) la Legge Stataria in Firenze per prevenire uno
sconvolgimento in senso repubblicano, _chi scrisse cotesta carta_, la
quale comparisce vergata da mano non mia, per certo reputò nella sua
prudenza necessario, e lo era, insinuarvi qualche parola vaga la quale
trattenesse gli arrabbiati da darsi alla disperazione; imperciocchè
i disperati tutti sieno temibili; i politici poi, tremendi: e questo
vedemmo, e tutto giorno vediamo. Niccolò nostro lasciò ai Partiti un
buono insegnamento, di cui, se volessero seguitarlo, questi potrebbono
avvantaggiarsi non poco; ed è: — che bisogna contentarci del vincere,
e schivare lo stravincere. — Nè io avrei potuto contrastare coteste
frasi senza venire ad aperta rottura coi Colleghi, mettendo da capo
a repentaglio ogni cosa; molto più se si avverta, che il Partito
Repubblicano durava sempre abbastanza gagliardo da consigliare
il mantenimento della Legge Stataria per contenerlo; e dall'altra
parte, che incominciando a stringere il tempo della convocazione
dell'Assemblea, urgeva per me tentare il provvedimento supremo di
riporre in mani toscane la sorte della Toscana; il quale con buona
fortuna (altri dirà, se con senno ed ardire) mi venne fatto operare
col Decreto del 6 marzo. Io non mi sentiva uomo, per poche parole
senza costrutto, mettermi in avventura di sconciare le cose. Come
poi devansi giudicare la parole espresse in simili angustie, vedremo
nella ultima parte di questa Apologia, dove riporterò la opinione di
uomini di Stato, e di Storici reputatissimi, intorno a casi non pure
somiglievoli, ma quasi identici.
Più tardi della Spedizione di Lucca: — frattanto importa notare
come la colonna Guarducci, la quale non oltrepassò Rosignano, fosse
richiamata, e celeremente spedita verso il contado lucchese. Nè si
opponga, come l'Accusa fa, ciò non essere stato spontaneo, bensì per
ovviare a maggiore pericolo; no: dicasi piuttosto, che dopo avere in
cento modi attraversate le Spedizioni maremmane, io colsi il primo
pretesto per mandarle a vuoto. So bene, e a mie spese, che con le
Accuse non si fa a fidanza; però intendo dimostrare quanto dico. —
sottopormi: la universa Toscana, debitamente interrogata, disponesse di
sè:
«Dopo che la Toscana fu priva di uno dei tre Poteri dello Stato, fu
eletto dal Popolo, e confermato dal libero voto delle Assemblee, un
Governo Provvisorio. Primo ed ultimo dei doveri di questo doveva essere
la tutela dell'ordine pubblico. A tanto dovere non mancherà mai questo
Governo, finchè gli bastino tutte le sue cure, e tutto sè stesso.
«Ai Toscani poi tutto il diritto, e il dovere insieme di decretare
la forma che ha da prendere lo Stato. _Quando i Deputati eletti
liberamente per universale suffragio avranno espresso la volontà
loro, il Governo Provvisorio darà primo lo esempio della più
perfetta obbedienza ai voleri del Popolo Sovrano_. — Firenze _11
febbraio_.»[382]
Finalmente il giorno _14 di febbraio_, il giorno stesso del Dispaccio
incriminato, faceva scrivere dal Segretario Marmocchi al Governatore
di Portoferraio: «SA PERALTRO CHE SE IL PRINCIPE È PARTITO, NON È
DECADUTO.»[383]
Nel giorno _10 febbraio_, considerando la miseria a cui la partenza del
Principe riduceva i suoi familiari, e compiacendo ai desiderii di lui,
decreto:
«Tutti i Cittadini che fin qui appartenevano al servizio del
Principe, riceveranno provvisoriamente la loro pensione a carico della
Depositeria Generale, finchè il Governo non abbia trovato il modo di
sistemarli convenientemente.»
Nel giorno _11 febbraio_, così imponendo i proconsolari ordini della
Setta, decreto, che il regio Palazzo della Crocetta sia destinato ad
ospedale degl'Invalidi; più tardi, si è veduto, i novelli Municipali
vanno di proprio arbitrio a rinnuovare ai Custodi la minaccia dei
veterani di Augusto ai possessori degli agri italici: _veteres migrate
coloni_; ma segretamente dispongo non s'innuovi.[384] Nel giorno
_11 febbraio_, ricercato il Governo dal Governatore di Livorno, se
i soldati mossi da quella città per Firenze avessero a proclamare
la Repubblica, risponde: chiamarsi pel mantenimento dell'ordine,
non già per dimostrazioni politiche, le quali dovevano all'opposto
con ogni studio prevenirsi.[385] E qui mi sia concesso notare, onde
si conosca quanta sia stata la umanità mia, e la cura indefessa,
perchè nefande discordie tra la famiglia toscana non insorgessero, o
insorte appena posassero, la esortazione rivolta nel medesimo giorno
al Governatore Pigli: «Si raccomanda la buona condotta passando per
Empoli. Si rammentino, che gli Empolesi, momentaneamente traviati, sono
fratelli.»[386]
Nè, quantunque poco faccia alla materia in questo punto discorsa,
io mi asterrò da riportare un Dispaccio telegrafico da me dettato
il _16 febbraio_, relativo ai Veliti. — O voi non degni soldati di
questo corpo onorevole, e da me onorato, che veniste a inacerbirmi il
carcere di San Giorgio dicendomi improperii sotto le cieche finestre,
o minacciando traverso le porte, io non voglio rammentarvi, che
per me, assentendo ai desiderii vostri, dagl'ingratissimi ufficii
di Polizia foste rilevati; e neppure, che sopra ogni altra milizia
Toscana otteneste prerogative, e soldo; queste cose accennerebbero,
per avventura, a provocare la vostra riconoscenza; ed io ve ne
dispenso. Leggete, vi scongiuro, più che con gli occhi col cuore, il
mio Dispaccio del _16 febbraio_, ed imparate che cosa sieno amore di
cittadino e carità di Cristiano. — Avvertito, da Pontedera, come alcuni
Veliti per timore di minaccia fuggissero via, così gravemente ammoniva:
«Invece di accomodare, arruffate. Qui i Livornesi hanno fatto pace co'
Veliti; a Pontedera gli minacciano; sicchè questi fuggono. I Veliti
sono il miglior corpo che abbiamo. Bisogna che voi gli richiamiate, e
subito fate pace, e sincera. Con questi modi prevedo guai grandi. Siamo
tutti fratelli; se non l'amore, ci stringa il pericolo comune.»[387]
Quando lo insulto si posa sopra le labbra del soldato, il valore leva
le tende dall'anima sua.
Correva il giorno 12 febbraio, quando una moltitudine di Popolo,
traendo a furia su la Piazza del Granduca, si accinse a piantare
l'Albero della Libertà, e con infiniti schiamazzi chiedeva il Governo,
affinchè l'atto approvasse, e lodasse. Mi presentai solo, e solo mi
attentai a contrastarlo, e lo chiamai prepotenza diretta a costringere
gli altri Toscani, i quali _forse_ lo avrebbero consentito, ma non
erano presenti per farlo: appartenere al libero voto di tutto il Popolo
toscano, radunato in Assemblea il 15 del futuro marzo, _decidere su la
forma del Governo_.[388] — Quale concepisse rancore la Fazione assai
dimostrammo, e più dimostreremo, se Dio ci aiuta; però nonostante le
mie parole, tornava più tardi, e lo volle piantato sotto i miei occhi,
quasi in dispregio di me. Siete chiariti adesso, che nè sempre, nè
tutto quello che desiderava non fatto, mi riusciva impedire? L'Accusa
impenitente sussurra: _lustre per parere_; opere volpine per istare
apparecchiato ai successi futuri. Sta bene; ma egli è forza convenire,
che mentre provvedevo alle probabilità future, correvo temerario il
pericolo di rimanere oppresso nelle contenzioni presenti: e questo io
non vorrei rinfacciare l'Accusa per non avere fatto, ma vorrei, che un
cotal poco più onesta ella fosse nel darmi merito per averlo fatto io.
Nè meno importa allegare in mia difesa il Decreto dei Commissarii da
inviarsi nelle Provincie, che compilato dal sig. Mordini, firmai il _14
febbraio_, avvegnachè in esso non si faccia pur motto di Repubblica,
nè di altro attenente a forma di Governo, bensì di risvegliare i sensi
generosi della Nazione, mettere a profitto i mezzi sparsi in tutto il
Paese, facilitare il fornimento delle Guardie Nazionali, lo scriversi
dei Volontarii alla milizia; raccogliere insomma in uomini, in bestie,
in danari, e in arnesi, quel più che la diligenza loro avesse potuto
ottenere dai Municipii toscani.
Ora tutte queste paionmi prove evidentissime della mia reluttanza a
operare cosa che tornasse ostile al Principato Costituzionale, però che
da me pendesse unicamente consumarne l'abolizione; e se questa allora
e poi contrastai, stupido concetto è pretendere, che al punto stesso io
la provocassi e volessi.
Nè pentere e volere insieme puossi,
Per la contraddizion che nol consente.
(DANTE, _Purg._, III.)
Lo dice anche il Diavolo, ch'è pure il Procuratore Regio nell'altro
mondo!
Appartiene, per ordine di data, a questa sede del nostro discorso
la lettera che l'Accusa senza altro impaccio afferma da me spedita
al conte Del Medico; ne favellerò in altra parte: intanto importa
fino d'ora avvertire, ch'ella non è punto una lettera mandata, bensì
semplice nota posta sotto la missiva di cotesto Delegato: il che suona
troppo diverso. E qui pure, se non per ragione di data, per connessità
di materia, dovrei esporre i motivi delle note, che si afferma di
mio carattere scritto sotto le lettere del 12 e 17 febbraio 1849,
la prima del Consigliere di Prefettura, la seconda del Prefetto di
Grosseto; ma poichè esse vengono governate da altra serie di fatti,
io penso con migliore consiglio favellarne là dove di questi fatti
terrò ragionamento. Chiuderò piuttosto, prima di passare ad altro, col
proseguire la storia dei sospetti e degli eccitamenti contro la mia
persona, mossi dalla Fazione dei demagoghi dai primordii del Governo
Provvisorio fino a questi tempi, e poi purgandomi dall'accusa della
persecuzione esercitata contro i Sacerdoti.
Nel 9 febbraio, a nome della Fazione, intimasi il Governo a spogliare
gli abbienti del _superfluo_, e a distribuirlo fra il Popolo; ai
colligiani, alle femmine, agl'impiegati tolga le pensioni mal date
e peggio ricevute, e subito, perchè già in qualunque Governo sarebbe
sacramentale dovere, ma in quello che regge, dura, vive e respira per
volontà di Popolo, è condizione di vita, necessità. Nè dica domani, no:
domani _potreste non essere più vivi_...[389]
Della inquieta polizia dei Circoli somministrano prova i Documenti
dell'Accusa in data dell'_11_ febbraio, con l'ordine di vigilare i
palazzi, e la taberna di alcuni cittadini.[390]
Nel giorno _13_ febbraio, la Emigrazione Lombarda minaccia prossima
l'accusa davanti il Popolo, per la colpevole inerzia con la quale avevo
poltroneggiato fin lì.[391]
Nel _14_ il _Monitore_ del Circolo, me e i miei colleghi bandisce
_Governo austriaco_, se, dubitando, indugiamo più oltre a proclamare la
_decadenza del Principe_.[392]
Nel giorno stesso, pel medesimo _Monitore_ rimango avvertito che il
mio _mal sonno_ di tre giorni (la Emigrazione Lombarda vedemmo, che lo
calcola di _sei_) mi tornerebbe fatale, avvegnachè io _giuocassi della
mia testa_.[393]
La mia opposizione al piantare l'Albero è denunziata al Circolo,
da quello con parole crucciose avvertita, e minacciosamente dal suo
_Monitore_ propalata.[394]
Con pari cruccio, e pericolo anche maggiore, la Emigrazione Lombarda
avvisa il collegio repubblicano essere stata da me freddamente accolta
la Deputazione venuta a instare, affinchè la Repubblica senz'altro
indugio si proclamasse.[395]
Scellerata cagione di sangue, me furibondi designano alla pubblica
vendetta, perchè relutto a dichiarare la Repubblica, la decadenza del
Principe, e la Unione con Roma.[396]
Questi, ed altri tali, erano dardi avventati _ad hominem_, dacchè, bene
o male che il credessero, demagoghi e Repubblicani pensavano essere
io impedimento unico a conseguire il termine estremo degli sforzi
loro,[397] senza il quale, assai più esperti dell'Accusa, tenevano non
avere conquistato nulla, e riposta ogni cosa in compromesso. L'Accusa,
tetragona ai colpi di paura, scriveva, dentro la sua stanza, nel
gennaio del 1851, a canto al fuoco, gli usci diligentemente serrati: —
lievi prove di coazione sono coteste, anzi non sono prove, e, meglio
meditandovi sopra, piuttosto sono prove escludenti qualsivoglia
violenza! — Ma, Dio eterno, che cosa pretenderebbe l'Accusa? che io,
in prova della violenza patita, le portassi davanti la mia testa mozza
come Beltramo da Bornio?[398] Atroce patto ella pone alla sua fede,
se non si contenta di altro che di gole squarciate, e di cuori fessi!
L'Accusa non tace che alla prova del cataletto...
Le manifestazioni di animosità della parte repubblicana, a me
particolari, sono venuto con prove espresse raccontando durante il mio
Ministero, e nei primi giorni del Governo Provvisorio; vedremo a mano
a mano crescere in breve, e prorompere alfine in manifesta accusa di
traditore.
Da me altri non aspetta (e non mi sento tale da farne) proteste di
devozione serotina: io parlo piuttosto con la coscienza del testimone,
che con lo zelo del difensore. Però, innanzi tratto, dichiaro,
ch'eletto a tutela della pubblica sicurezza, io non solo non mi
reputerei colpevole di avere adoperato contro i Sacerdoti, secondo i
meriti loro, ma all'opposto mi terrei colpevole per essermene astenuto.
Forse i Sacerdoti presumono esercitare il privilegio del delitto?
Chi questo crede, gl'insulta. La santità del carattere e lo istituto
sublime impongono loro augumento di carichi, ed essi lo sanno, non
già dagli assunti doveri gli assolvono. Nè Cristo senza sacrilegio può
essere tolto a segnacolo di fazioni contrarie; egli sente misericordia
di tutti; per chi piange, ed anche per chi fa piangere. Monsignore
D'Affre, inclito martire della fede cristiana, quando si avventurò
tra i furori della battaglia cittadina, non andava già a rafforzare
questa parte o quella; finchè cristiani uomini gli uni contro gli altri
combatterono, egli gridò: — «forsennati! forsennati!» e li conteneva;
quando cadevano, egli gemè: — «infelici!» e gli andava soccorrendo;
quando fu piagato di mortale ferita, ei li chiamò: — «figliuoli!»
e li benedicea. — Chi davanti a Sacerdoti siffatti non s'inchina? —
I Sacerdoti commettitori di scandali e di risse, già più Sacerdoti
non sono; la Chiesa, pel carattere che rivestono, bene domanda sia
proceduto contro loro con certi riguardi, ma essa prima e più severa
di tutti acerbamente gli accusa. Ciò premesso, io dichiaro, non avere
mai dato ordine che si arrestassero Sacerdoti. Mentre fui Ministro
dello Interno, feci chiamare, come altrove ho notato, alcuni Preti
ed alcuni Frati, e gli ripresi del poco amore che portavano alla
Patria, del costume pessimo, e dello sviarsi dietro a cose umane che
non ispettavano loro, con iscapito grande delle divine a cui erano
unicamente commessi; non però gli arrestai, nè in altro li volli
mortificati. Durante il Governo Provvisorio non adoprai modi diversi;
anzi, ricordo come certa volta presentatisi avanti il Ministro dello
Interno alcuni Sacerdoti, udii riprenderli, perchè si mostrassero
avversi alla Costituente, e andassero dissuadendo la difesa del Paese;
e dico averli uditi riprendere, dacchè non erano stati punto chiamati
per ordine mio, e nello ufficio del Ministro io penetrava a caso. Senza
profferire parole, in disparte ascoltai le discolpe loro; poi fattomi
presso ad uno che al sembiante mi parve più giovane degli altri: — «Io
non so, Reverendo, incominciai ponendogli la mano destra sul braccio,
io non so, Reverendo, perchè voi non dobbiate amare la Patria; anzi non
so perchè voi non la dobbiate amare più di noi.» E il degno Sacerdote
con atti e parole vivaci rispose: «Io amo il mio Paese al pari di
ogni altro. Rispetto alla Costituente Italiana, la mia coscienza mi
vieta aderirvi; ma in quanto a difendere la mia Terra dalle invasioni
straniere, da Sacerdote le affermo, che prenderei l'arme, e verrei
a farlo io stesso.» — Allora gli strinsi la mano, e conchiusi: «E
tanto basta, mio degno Sacerdote,... tanto basta.» — Quando mi verrà
concesso esaminare gli Archivii, ritroverò il nome e la condizione del
Prete.[399] —
Superiormente alla tristizia dei tempi, trovarono in me i Sacerdoti
continua ed efficace tutela. Di ciò provare mi porge abilità la
cortesia dell'Arcivescovo di Firenze, il quale, da me richiesto, mi
rimetteva la copia autentica della lettera che io gl'indirizzava il 2
aprile 1849:
«Monsignore.
«Io vorrei pregarla, Monsignore, ad avere la compiacenza di
significarmi se V. S. Rev.ma intende per le imminenti solennità
celebrare in Firenze.
«Nel mentre che io vado persuaso che V. S. Rev.ma si penetrerà di
quanta pace e di quanta consolazione sarebbe la sua presenza in mezzo
al suo ovile, mi permetterei aggiungere le mie preghiere caldissime
onde ciò abbia effetto.
«So bene che V. S. Rev.ma non si tratterrebbe punto nello esercizio
delle sue sacre funzioni per sospetto che potesse concepire; pure vada
convinto, che finchè duri nello arduo uffizio che mi fu confidato,
saprò e vorrò mantenere severamente la reverenza che si deve a tutti
gli Ecclesiastici in generale, e in particolare alla sua degna persona.
«Di Lei, Mons.re Reverend.mo
«(L. S.) Li 2 aprile 1849.»
«Devot.mo
«GUERRAZZI.»
E già io gli aveva dirette altre due lettere in risposta alle sue, con
le quali mi domandava protezione per lo esercizio delle sue episcopali
prerogative. Quantunque egli abbia smarriti gli originali, non ha
mancato il degno Arcivescovo, con esempio di rettitudine generoso, _non
per anche imitato da tutti quelli nei quali io maggiormente confidava_,
di sovvenirmi nelle dure strette in cui mi trovo con lo aiuto delle sue
reminiscenze, come si conosce dal seguente attestato:
«Attesto per la pura verità, che nel tempo da me trascorso alla Badia
di Passignano, dopo le tristi vicende che mi costrinsero ad abbandonare
questa Capitale, oltre una terza lettera già da me rilasciata dietro
richiesta delle Autorità Giudiciarie, io ne ricevei pure altre due
direttemi dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi, in allora Capo di
quel Governo Toscano, nelle quali, con espressioni le più ossequiose
e rispettose, mi diceva ch'egli approvava pienamente le misure
da me prese di relegare all'Alvernia i due Sacerdoti *** *** come
propagandisti di dottrine eterodosse, e mi protestava che sarebbe stato
sempre deferente all'Autorità Episcopale, promettendo, fintantochè
egli fosse stato a capo del Governo, favore, protezione e sostegno pel
libero esercizio della medesima.
«Non avendo io tenuto conto di dette due lettere, e venendomi esse
richieste dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi per interesse della
sua difesa, ho stimato _mio dovere_ di manifestarne il sentimento, e
rilasciarne il presente certificato.
«In fede ec.
«Dal Palazzo Arcivescovile di Firenze,
«(L. S.) Li 11 marzo 1851.
«FERDINANDO Arcivescovo di Firenze.»
E queste sono nobili parole: in prigione non posso nè devo fare
più lungo sermone. Allora la lode è turpe per cui la profferisce, e
senza onore per cui la riceve, quando possa sospettarsi che muova da
viltà o da paura. Miseria non ultima del carcere, dove il biasimo ti
viene ascritto a furore, la lode ad abiezione. La virtù nella comune
estimativa del mondo sta abbracciata con la fortuna.
E, non diverso dall'Arcivescovo di Firenze, il Vescovo di Milto
Ordinario a Livorno, con lodevole premura porgeva anch'egli
testimonianza di averlo io sostenuto, affinchè in negozio dilicato
l'autorità sua fosse obbedita.
«I Signori *** *** presentandosi come incaricati del signor Avvocato
F.-D. Guerrazzi mi richiedono di uno attestato, che stia a constatare
qualmente il medesimo mentre dirigeva il Ministero dello Interno
si prestò ad appoggiare la mia Autorità di Ordinario in emergente
dilicato, interessante la moralità e la coscienza, ed io non posso
ricusare un tale attestato, in quanto che è vero, che in circostanza
come sopra fui dal suddetto signor Guerrazzi utilmente coadiuvato. Ed
in fede
«(L. S.) Livorno, 26 luglio 1851.
«GIROLAMO, _Vescovo di Milto_.»
Nè già si creda, che senza mio sommo pericolo fossero i soccorsi,
che, secondo l'obbligo mio, dava allo Episcopato per lo esercizio
delle sue legittime prerogative, e la preghiera al fiorentino
Arcivescovo, che con la presenza e i riti la religione commossa
confermasse. Un cartello infame fu affisso nel giorno terzo o quarto
di aprile all'Albero della Libertà, piantato in Piazza del Duomo, e
fatto remuovere vi ricomparve più volte, il quale diceva così: «Due
traditori (il primo era io, il secondo Monsignore Arcivescovo) si
sono dati la mano per tradire il Paese; si muova il Popolo, e si dia
la meritata pena, prima che gli scellerati disegni sieno compiti.» A
vero dire io non ebbi mai l'onore di favellare con lo Arcivescovo; ma
non importa; noi cospiravamo insieme per tradire il Paese. In quanto
al soggetto cui accenna l'attestato di Monsignore Vescovo di Milto, mi
dichiarò mortalissima guerra; scriveva lettere ortatorie perchè mi si
spingessero contro come a un verro di macchia, perchè traditore della
Patria, venduto ai tiranni, col corredo delle consuete ribalderie,
che i ribaldi costumano. La Polizia sorprese una di queste lettere,
e svelò come anch'egli partecipasse alle trame del Frugoni di cui ho
parlato a pag. 369 di questa Apologia. Longanime come è mia natura,
non uso a tremare, e per paura offendere, tardo a muovermi quanto più
in grado di accompagnare il baleno del volere col fulmine del fare,
io mi restrinsi a spedire la lettera intrapresa del tristo Prete a
Manganaro, ordinandogli di depositarla negli Archivii della Polizia, e
sorvegliare, e sfrattare il Frugoni.[400]
Ma tornava al benevolo disegno della Accusa raccontare di Preti
imprigionati e di Arcivescovo offeso, me annuente o impotente. Ciò non
pensava il Vescovo di Livorno, e molto meno lo Arcivescovo di Firenze,
che a me ricorrevano per protezione in tempi anche più torbidi, e la
ebbero, però che io con tutti i nervi mi vi adoperassi. Ma che importa
questo? Ciò che si dimostra lo Arcivescovo non avere mai pensato, pensa
l'Accusa; e non solo lo pensa, ma lo rimprovera, e ne forma subietto
d'imputazione.
L'Accusa fonda il rimprovero: 1º sopra taluni ordini spediti l'8
febbraio 1849, dove leggonsi l'espressioni: «Si vuole ovunque
mantenuta la pubblica tranquillità, ed energicamente represso ogni
_tentativo_ reazionario contro lo attuale ordinamento, se vi fosse
tanta stoltezza da _tentarlo_. I Parrochi in ispecie, e Preti in
generale, debbono rigorosamente guardarsi, e ove costoro, o chiunque
altro, si cogliessero in fallo, sieno irremissibilmente carcerati e
processati;» 2º sopra una lettera del 19 febbraio che dice: «Se trova
Preti renitenti o traditori, è tempo finirla; si arrestino questi
indegnissimi figli della Patria e di Cristo, e si mandino legati a
Firenze. Non ammettiamo esitanza, dubbio, od osservazione in contrario:
sotto la responsabilità sua, si leghino e mandino in Firenze.»
Mi rifarò dal documento secondo. Le osservazioni, che questa lettera
ignoravasi 1º a cui fosse mandata; 2º se spedita; 3º da cui scritta;
4º e da cui firmata, — conciossiachè le firme del signor Montanelli e
mia non appaiono di nostro carattere, e il corpo della lettera neppure,
come neanche di persone addette alle Segreterie, nè di familiari
nostri; tutte queste osservazioni, almeno per quello che sembra, hanno
persuaso l'Accusa a dubitare un tantinetto intorno alla autenticità di
cotesto documento: però io mi stringerò a dichiarare in _istil breve e
succinto_, che di questa carta io non devo dire nulla. Per qual motivo
poi, con mille altre di pari natura, l'abbiano stampata nel _Volume_,
pende il giudizio incerto. Alcuni sostengono, che la Istruzione
dapprima si avvisasse apparecchiare il caos, onde i Giudici poi,
quasi divini, dicessero: «si faccia luce,» e luce si facesse; — altri
opinano, che ella intendesse fornire un saggio della intelligenza e
della prestanza di taluni impiegati toscani; e si maravigliarono perchè
il _Volume dei Documenti_ non fosse spedito, con tante altre rarità,
alla Esposizione di Londra.... ma, spicciandosi, sarebbero sempre a
tempo; — altri, altra cosa dichiarano. Intanto stampano lo Indice,
ottima giunta alla buona derrata, perchè accuratamente compilato, con
diligenza elzeviriana corretto, sicuro nelle indicazioni; per sugosi
sommarii, e soprattutto precisi, veramente esemplare;... questa opera
inclita in ogni parte armonizza![401] — Favelliamo di altro. E quanto
espressi sul documento secondo dovrebbe giovarmi anche pel documento
primo, dacchè non sia scritto nè firmato da me, sibbene dal solo
Segretario signor Allegretti. Ma il Segretario Allegretti, ricercato
con lettera intorno alle ragioni del Dispaccio, risponde per lettera
quello, che già abbiamo letto a pag. 289 di questa Apologia. Quando
il signor Segretario sarà richiamato, come diritto vuole, non dubito
punto nella rettitudine sua, ch'egli vorrà rammentarsi come mostrando
nel volto dolore, gli domandassi che avesse, ed avendomi manifestato la
repugnanza sua a scrivere disposizione siffatta intorno ai Parrochi, io
gli rispondessi: «ed ella non la metta.» Se non che altri intervenne,
e disse con impeto: «che importa a lei? Faccia il suo dovere, e
obbedisca.» Ma queste cose non importa sapere all'Accusa.
Il Manifesto alla Europa afferma che il Governo non mandò armati
a cacciare S. A. da Porto Santo Stefano, e, tranne alcuni pochi
Municipali, nessuno; e dichiarò eziandio non essere mai stato
instaurato in Toscana il Governo Repubblicano. Questo trovammo a
prova essere vero esattamente, se ai Municipali aggiungi i quattordici
artiglieri, quantunque rispetto a me non sapessi degli uni nè degli
altri. Però non vuolsi revocare in dubbio che le voci corressero
diverse dal vero, siccome vediamo per ordinario accadere; se per
_forte mano_ vogliasi intendere la colonna Guarducci, nè ella, come
chiarii, era spedita da me, nè da altri del Governo, e veniva nel
giorno 18 richiamata a Livorno, e rivolta verso il contado lucchese;
se per capi stranieri D'Apice e La Cecilia, il primo non si mosse da
Empoli, e ricusò il comando; a La Cecilia non fu commesso dal Governo
ufficio di sorta, nè leggo avere operato cosa alcuna, tranne bandire
proclami, proporsi di capitanare le milizie civiche della Maremma,
e, non rinvenuto il terreno molle, data una gira-volta, tornarsi a
Livorno prima del 20 febbraio. Il cannone di Orbetello bene salutò la
Repubblica, ma la Repubblica in Toscana non era; per la quale cosa il
Manifesto alla Europa non ismentendo (come inesattamente scrive il
Procuratore Regio del Tribunale di Prima Istanza di Firenze, a pag.
23 della sua Requisitoria) le cannonate di Orbetello, disse a ragione
erroneo il supposto, che la Toscana, decretata la decadenza del suo
Principe, si fosse costituita a reggimento repubblicano.
E perchè si conosca a prova quanto il mal genio dello errore abbia
presieduto a questa opera infelice della Magistratura toscana, noterò
come il Regio Procuratore rammentato adduca a conferma di un fatto vero
una prova falsa. Veri gli spari di cannone ad Orbetello il giorno 20
di febbraio; non vero, che ne faccia fede il Dispaccio, allegato dalla
Requisitoria, di Carlo Pigli; ed è evidente. Il Dispaccio del Pigli
apparisce dettato il 22 febbraio a ore 5, m. 45 pom., e dice: «_ieri_
a Grosseto e a Orbetello fu grandemente festeggiata la Repubblica
con sparo di artiglierie ec.;» lo _ieri_ del _22_ pare quasi sicuro
(a meno, che non lo voglia contrastare il signore Paoli) che sia il
_21_: però, stando a questa prova, il Procuratore Regio del Tribunale
di Prima Istanza di Firenze ci vorrebbe dare ad intendere, che S. A.
sentisse nel _20 febbraio_ i colpi di cannone sparati il _21_!!! Ma
queste le sono baie.
_Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis_
_Offendar maculis....._
Nonostante, quando si agita del sangue e della fama di un uomo, uno
scrupolo più di coscienza non parrebbe che potesse guastare la ricetta.
Onde sieno completi gli schiarimenti sul Manifesto alla Europa, dirò
che fu composto sul principiare del marzo. Ora, mantenendo viva (come
sarà provato fra poco) la Legge Stataria in Firenze per prevenire uno
sconvolgimento in senso repubblicano, _chi scrisse cotesta carta_, la
quale comparisce vergata da mano non mia, per certo reputò nella sua
prudenza necessario, e lo era, insinuarvi qualche parola vaga la quale
trattenesse gli arrabbiati da darsi alla disperazione; imperciocchè
i disperati tutti sieno temibili; i politici poi, tremendi: e questo
vedemmo, e tutto giorno vediamo. Niccolò nostro lasciò ai Partiti un
buono insegnamento, di cui, se volessero seguitarlo, questi potrebbono
avvantaggiarsi non poco; ed è: — che bisogna contentarci del vincere,
e schivare lo stravincere. — Nè io avrei potuto contrastare coteste
frasi senza venire ad aperta rottura coi Colleghi, mettendo da capo
a repentaglio ogni cosa; molto più se si avverta, che il Partito
Repubblicano durava sempre abbastanza gagliardo da consigliare
il mantenimento della Legge Stataria per contenerlo; e dall'altra
parte, che incominciando a stringere il tempo della convocazione
dell'Assemblea, urgeva per me tentare il provvedimento supremo di
riporre in mani toscane la sorte della Toscana; il quale con buona
fortuna (altri dirà, se con senno ed ardire) mi venne fatto operare
col Decreto del 6 marzo. Io non mi sentiva uomo, per poche parole
senza costrutto, mettermi in avventura di sconciare le cose. Come
poi devansi giudicare la parole espresse in simili angustie, vedremo
nella ultima parte di questa Apologia, dove riporterò la opinione di
uomini di Stato, e di Storici reputatissimi, intorno a casi non pure
somiglievoli, ma quasi identici.
Più tardi della Spedizione di Lucca: — frattanto importa notare
come la colonna Guarducci, la quale non oltrepassò Rosignano, fosse
richiamata, e celeremente spedita verso il contado lucchese. Nè si
opponga, come l'Accusa fa, ciò non essere stato spontaneo, bensì per
ovviare a maggiore pericolo; no: dicasi piuttosto, che dopo avere in
cento modi attraversate le Spedizioni maremmane, io colsi il primo
pretesto per mandarle a vuoto. So bene, e a mie spese, che con le
Accuse non si fa a fidanza; però intendo dimostrare quanto dico. —
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