Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 27

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studio posto da lui a radunare un partito gagliardo in Livorno, della
sua professione nuovamente repubblicana, del suo accontarsi co' più
ardenti di cotesta parte, non meno che dello agitarsi perpetuo del La
Cecilia. Certo mio parente, che di me, troppo spesso fiducioso più che
non conviene, prendeva amorevole cura, sorprende e mi reca lettere,
inviate da un Frugoni di Lerici, capitano di mare, e proprietario
di bastimenti, a La Cecilia, con le quali gli proponeva alla ricisa
di ammazzarmi come traditore, e surrogare lui a me, Pigli a Mazzoni
come uomo inetto; si lasciasse Montanelli, finchè non si trovasse
meglio. Dai Documenti raccolti per opera dell'Accusa resultano le
prove di questi fatti, i quali vengono per altri riscontri confermati
in processo. Spedito Marmocchi a Livorno a investigare le cose,
così riferisce nel 5 marzo: «Non ho scritto fino ad ora, perchè ora
solamente ho un concetto preciso delle cose in questa città. Ho sentito
molte persone di opinione diversa. Vado per la diagonale e vado bene.
La cosa principale per la quale sono qua è una ridicolezza. Pigli è
lo stesso amico di prima, sincero e ardente. La differenza è nella
salute, perchè io l'ho trovato veramente decaduto. Si regge mercè
lo spirito, e considererebbe siccome gran favore la sua licenza, o
almeno una gita di riposo nel suo paese per un mese. Bisogna dare un
collocamento conveniente a La Cecilia. In tutti i modi, subito. Non
ha il seguito che credete, no, _ma manca l'antica amicizia_, e di gran
cuore se ne andrebbe. Quel di Lerici è un fatuo; non è nulla; vorrebbe
vendere al Governo Provvisorio alcuni bastimenti, ecco la chiave di
tutto. Il Popolo livornese è sempre eroico e grande; è anche moderato.
_La Repubblica non è proclamata_. Siamo qui come a Firenze su questo
proposito, con la differenza, _che Firenze è una selva di alberi,
e qui non ve ne sono che tre o quattro soli_. Volete si tolgano di
Piazza, e si portino in Chiesa fino al giorno che l'Assemblea decreti
definitivamente la Repubblica? Livorno aderisce, e Firenze non sarebbe
così docile. Vedete dunque che cosa è Livorno.»[350]
Il Rapporto del Marmocchi non poteva persuadermi: comunque vogliasi
tenere in poco conto la vita, pure sentirti dire, che il disegno di
ammazzarti è cosa da nulla, non garba ad un tratto; e il successo venne
dimostrando, che Marmocchi per soverchio di dolcezza neanche nelle
altre cose si era apposto al vero. Ad ogni modo risposi: non potere
offerire altro ufficio, che di secondo segretario a Parigi; però poco
dopo aggiungevo, _che se l'uomo meritava congedo, non capivo perchè
si avesse a impiegare; ed avvertisse che la mansuetudine, quando
è troppa, rovina_.[351] Marmocchi replica: La Cecilia accettare;
egli essermi ancora molto amico, ma _disgraziato_; non potere
dirmi tutto per telegrafo; venire La Cecilia a Firenze: pregarmi
riceverlo, in considerazione della lunga amicizia; nessuno credere
a tradimento; _quel di Lerici essere fatuo come lo scrittore della
Frusta repubblicana_; la passata intrinsechezza con La Cecilia avrebbe
fatto vedere con dolore la presente severità; esultare gli amici
ch'egli partisse, ma non derelitto da me; bene altri nemici avere il
Governo; _trovarsi chi traendo argomento dalla miseria corrompe la
plebe; mi manderebbe nella notte uno di questi facinorosi incatenato a
Firenze_.[352] Qualche ora più tardi nello stesso giorno, aggiungeva
avere veduto il Gonfaloniere, il quale si rallegrava col Governo per
la misura presa relativamente a La Cecilia, e la opinione pubblica
commendarla.[353]
Nonostante scrissi per via telegrafica: «_desiderare non vederlo;
fosse trattenuto, potendo, in Livorno_;»[354] pure egli venne, ed io lo
accolsi con volto sereno e mente pacata; e dopo avergli posta davanti
gli occhi la lettera del Frugoni, lo interrogai, che cosa avrebbe fatto
nel caso mio. Rispose non essere in sua potestà impedire _allo stolto
che favellasse secondo la sua stoltezza_; e siccome questa mi parve
convenevole scusa, tacqui; non ugualmente bene poteva scolparsi intorno
alla guerra mossa contro il Governo per istrascinarlo di viva forza
alla Unione con Roma, e a proclamare la Repubblica, o rovesciarlo.
«Orsù via, partiti di Toscana,» gli dissi. «e tutto è posto in oblio.»
Partì per Livorno menando a lungo la partenza, finchè crescendo le
manifestazioni di anarchia, aombrate dal pretesto della Repubblica
nel 14 marzo, contemporaneamente al richiamo del Governatore a Firenze
per via telegrafica, scrissi a Livorno: «S'inviti La Cecilia a partire
_subito_, anche per terra, per Genova, _donde recarsi al suo destino_.
Qualora non volesse appagare questi nostri desiderii, noi l'avremmo
per tradita amicizia. Gli si partecipi il Dispaccio.»[355] Allora
si condusse a Genova; e quivi si andò indugiando sotto vario colore,
finchè i successi della guerra gli dettero campo di presentarsi come
utile alla difesa del Paese.
Da Genova nel 27 marzo mi scrisse La Cecilia la lettera che leggiamo
a pagine 222 dei Documenti dell'Accusa; in questa ei parla di errori
commessi dai Comandanti piemontesi nella battaglia di Novara; poi
propone due mezzi di difesa, di cui il primo sarebbe stato plausibile
per quello che in tempi antichi e moderni ne hanno scritto peritissimi
uomini di guerra; il secondo avventuroso e impossibile. Di questa
lettera giova riportare la frase che accenna al pertinace proposito di
fare sempre a suo modo: «Insomma se nulla si conclude qui tra oggi e
domani, io torno; mi metterai in prigione, ma devo, ma voglio dividere
le vostre sorti.»
_Non tali auxilio, nec defensoribus istis_
_Tempus eget! —_
La Cecilia non era uomo da dire le cose e non farle; piuttosto prima
le compiva, poi le diceva. Di vero il giorno seguente eccolo a Massa,
donde m'invia la lettera in data del 28 marzo 1849, nella quale si
propongono tre progetti: il 1º contenuto in altra lettera, che io non
ricordo, ove non fosse taluno degl'indicati nella lettera del 27; il
2º di seppellirci tutti sotto le rovine delle nostre città; il 3º di
fare offrire la corona al figlio del Granduca; _questo ultimo mezzo
repugna di molto_, egli scrive, _ma il Paese vorrà difendersi?_ E tanto
basti per dimostrare come io provassi contrario La Cecilia nel periodo
del Governo Provvisorio, da quando mi mostrai reluttante ad appagare i
desiderii di parte repubblicana.
Ora continuo esponendo i fatti attinenti a Carlo Pigli Governatore
di Livorno; diventato, più che capitano, mancipio della Fazione
demagogica, ormai egli non ha più potenza di fare il bene e d'impedire
il male. Cotesta egregia Patria di cima in fondo compariva guasta. Il
Governo, assentendo ai consigli del signor Marmocchi, pensa scambiare
la Guardia Municipale di Livorno con quella di Firenze; e chiamata
qui la prima, purgarla e spartirla in altre compagnie. Inoltre, ai
suggerimenti del Ministro della Guerra Tommi compiacendo, accorda
che il primo Battaglione di Linea si spedisca a Livorno, e quivi si
riordini mediante un campo da stabilirsi nelle campagne littorane.[356]
Annunziando io queste provvidenze a Livorno, aggiungo: «Il Popolo
attenda vigilante le disposizioni del Governo _ormai disposto a
procedere con severa giustizia contro tutti i perturbatori, e nemici
delle libertà, sia civili che militari_.»[357] Queste parole ai
caporali della Fazione erano _savor di forte agrume_; nell'anarchia
confidando, per soverchiare il Governo, ecco s'industriano a lavorarlo
di straforo, mettendo male biette tra il Popolo. «Badate, dicevano, a
non lasciare partire la Guardia Municipale Livornese, e sostituirla
dalla Fiorentina, però che questa sia qua mandata per opprimere la
libertà.»[358] In quanto al Battaglione di Linea avviato a Livorno, si
guardassero dal Colonnello Reghini, a cui avevano commesso di trarre
a palla sul Popolo, come già aveva fatto sul Popolo pistoiese.[359]
Il Popolo si commuove, e circondato il Palazzo del Governatore in
numero di 4,000 persone, domanda a morte il Colonnello; altri urlano
che si cacci in carcere. «Il Governatore, narra il signor Reghini
nel suo Rapporto, si addimostrò sgomento, varii dei suoi spaventati,
perchè circuito il Palazzo, e l'anticamera invasa da turbe, che
esaltate chiedevano la mia persona in loro possesso, e _i moderati
gridavano venissi posto alle segrete_.[360] Ed io, ben contento di
secondare la volontà del Popolo indignato (non so perchè), esortai
ad essere dal Popolo stesso condotto in segrete, dove giunsi molto
a stento: ma coadiuvato dai buoni che mi fecero corona, mi restò
lontano lo stiletto, nè si ottenne di gettarmi a terra.» Io rimasi
fieramente percosso per tanto vituperio, imperciocchè il Governatore
dovesse nel suo Palazzo, come in asilo inviolabile, custodirlo, nè
mai consentire, se non che calpestando il proprio petto, cotesti
furibondi giungessero al petto del Colonnello. Avvertito per telegrafo,
adoperando la destrezza persuasa dalla gravità dello accidente, senza
intermissione rispondo: «Importa grandemente sia fatto il processo ai
soldati di cotesto reggimento che si ribellarono. A ciò è necessario
il Rapporto del Reghini. Bisogna mettere il Reghini in libertà onde
faccia cotesto Rapporto. _Non accendasi il Popolo già acceso. Si lasci
fare al Governo_; ha i suoi fini, e vuole essere libero per il bene
della libertà. Dicasi al Reghini, che il Governo penserà a lui. Si
risponda subito.»[361] Il giorno seguente, soccorrendo al mal capitato
Colonnello, insisto: «Esatte informazioni ci persuadono a conservare
Costa-Reghini; però non si vorrebbe urtare la Popolazione. Il Governo
vorrebbe formare un campo in prossimità di Livorno, e quindi riordinare
il reggimento. Reghini rimarrebbe a riorganizzarlo, e sembra essere
adattatissimo per questo. _Procuri che la Popolazione applauda a questo
progetto, e ci renda intesi dello effetto delle sue premure. Comprende
la necessità della prestezza_.»[362]
Ancora nel medesimo giorno 10 marzo: «Intorno al Reghini, sarà
collocato. Del reggimento sarà fatto un campo. Forza, tranquillità,
coraggio e gravità; — e forse riusciremo.... forse, perchè i tempi
ingrossano; e _disfacendo tutto, nulla si fabbrica_.»[363]
Il Generale D'Apice, giunto a Firenze, scriveva al Governo Provvisorio
la seguente lettera, la quale non abbisogna di comento:
«Ieri al mio arrivo in questa città, seppi che il signor Costa-Reghini
Colonnello del 1º Reggimento Infanteria di Linea, fu immeritamente
insultato dal Popolo di Livorno, e poi vilmente abbandonato ai suoi
persecutori, dalla prima Autorità costituita in quella città, dal
Governatore, presso cui il detto signor Colonnello si era rifugiato. —
Un tal fatto è talmente grave, che io lo considero come una vera offesa
fatta allo esercito, che ho in questo momento l'onore di comandare.
Come capo dunque di questo esercito, e nell'interesse del servizio,
credo mio stretto dovere dirigermi alla giustizia del Governo, perchè
un'ampia e pubblica soddisfazione sia data allo esercito, e al signor
Colonnello Costa-Reghini, elevando questo al posto di Generale di
Brigata, e dimettendo dal suo posto il signor Governatore di Livorno.
Qualora il Governo non credesse a proposito di accedere alla mia
richiesta, lo prego in risposta di volere degnarsi spedirmi la mia
dimissione dal servizio.»[364]
In tutto questo negozio io procedeva d'accordo col Generale, parendomi
fosse pur giunta occasione di potere alla fine allontanare Carlo Pigli
da Livorno, e precidere i disegni di coloro che agognavano alla estrema
demagogia. — Invano il Colonnello Reghini scrive, averlo voluto libero
il Popolo livornese, e accompagnato dal Governatore, e da parecchi
Uffiziali della Guardia Nazionale, fra plausi e banda essere stato
condotto al Palazzo Governativo; invano _dichiara, per questo modo
adempirsi l'ordine del Governo che lo voleva fino da ieri l'altro
posto in libertà, ordine non ancora eseguito per timore di collisioni,
non tutti i Circoli andando d'accordo nella mia liberazione_;[365]
invano informa per via telegrafica il Ministro della guerra: «Sono in
libertà per acclamazione popolare e generalissima. La mia confusione
è grande: vorrei dimostrare al Popolo la mia gratitudine, al Governo
la mia devozione; supplico la di lei ministeriale autorità, essermi
interpetre, come lo è stato, a mio sommo vantaggio, il signor
Governatore Pigli.»[366]
Io ben conobbi cotesta essere mala toppa allo strappato, e conoscevo
a prova di che cosa sapessero cotesti Dispacci imposti dai presenti,
e da loro prima letti, e poi mandati; però nel 13 marzo 1849, allo
intento di superare le resistenze, conforto il Generale D'Apice a
tenere il fermo nel domandato congedo: finalmente nel Consiglio le
provvidenze da me proposte si mettono a partito, e si vincono; allora
senza porre tempo fra mezzo, nel giorno 13 marzo, alla ora prima
pomeridiana, mando per telegrafo a Livorno: «Il Governo invita il
Governatore di Livorno a venire in giornata a Firenze, per conferire
insieme su cose importantissime.»[367] Arrivato a Firenze alle _7
pomeridiane_, alle 9 si ordina al Colonnello Costa-Reghini: «È pregato
a portarsi domani col primo treno a Firenze. Il Generale D'Apice lo
vedrà appena arrivato;»[368] e alquante ore trascorse, di nuovo, alle
_3 antimeridiane del giorno 14 marzo_, intímo a La Cecilia la partenza
immediata, sotto minaccia, che avremmo lo indugio per tradita amicizia,
come già in altro luogo opportuno fu debitamente notato.
A ben comprendere quanta industria fosse posta da me per indebolire
la parte che strascinava il Paese alla demagogia, e quanta difficoltà
incontrassi nella perigliosa impresa, prezzo della opera è sospendere
alquanto questo racconto, e continuare quello che spetta alla Guardia
Municipale.
La Guardia Municipale corrotta e governata da taluni che trovavano
il proprio conto a mostrarsi smaniosi libertini, mercè la diligenza
fatta, viene a Firenze, ed è stanziata a Santa Maria Novella. Qui
noi attendevamo a mandare ad esecuzione il disegno di cui già tenni
proposito, allorchè, avendolo i più audaci subodorato, si ribellano
con minaccie di morte: ordinai si trasportassero due cannoni, e al
Quartiere, intimati prima i pacifici a separarsi dai rivoltosi, si
appuntassero. Però essi non ne aspettarono la vista, e più che di
passo trassero alla Porta San Frediano incamminandosi verso Livorno,
dove tolleravansi o di leggieri erano scusati. Il Dispaccio del 10
marzo così ammonisce il Governatore: «Accade un fatto gravissimo
che dev'essere ad ogni costo, intenda bene, ad ogni costo represso.
_Una parte_ della Municipale di Livorno si è ribellata. Prima, nel
Convento di Santa Maria Novella, aveva fatto mostra di difendersi;
poi è uscita da Porta San Frediano, e non si sa dove siasi diretta.
Verrà forse a Livorno. Prenda, con la massima segretezza e con vigore,
le misure onde venga arrestata. Si concerti con _Frisiani_ e con
altri Ufficiali di testa. L'avviso a tempo, onde a tempo provveda.
Non intende il Governo mezzi termini nè pietà. Se mostriamo mollezza
per la Guardia Municipale, è finita: _invece di difensori avremo un
branco di assassini_.»[369] Il Maggiore Frisiani raggiunge le Guardie
ribellate a Pisa, con ordine di tradurle da capo a Firenze sotto
scorta; si sottomettono, ma implorano andare a Livorno, _e non tornare
alla Capitale presso il Governo Provvisorio_. Frisiani non si reputando
facultato (come invero non era) ad arbitrare, viene per ordini.[370] Le
Guardie promettono aspettarne arrestate il ritorno; i Maggiori Frisiani
e Magagnini mallevano per loro; fa lo stesso Mastacchi; se non che le
Guardie, mutato consiglio, dai Quartieri di San Martino si recano,
nella sera del giorno 12 marzo, alla Stazione della strada ferrata,
e quivi _per amore o per forza intendono volere essere trasportate a
Livorno_.[371] Il Governo, sentinella perduta dell'ordine, alacremente
commette al Governatore: «L'arrivo dei Municipali a Livorno è fatto
gravissimo, e tale da cimentare la pubblica sicurezza. _Se forza non
rimane alla Legge, il Governo è d'uopo che si dimetta, e con esso
cadano tutti i funzionarii pubblici per dare luogo ad uomini facinorosi
che condurrebbero a irreparabile ruina il Paese_.[372] È necessario
pertanto che cotesti ribelli sieno per forza o per arte arrestati e
disarmati. Procurate con ogni mezzo che ciò si ottenga, il Governo
penserà in giornata a darvi le istruzioni in proposito. Se in un corpo,
che tutto deve imporre con la forza morale, si lasciano introdurre
germi d'immorale dissoluzione, io non so più qual forza resti al
Governo per fare eseguire le Leggi; qual tutela resti al Popolo
della propria sicurezza. Uno esempio è necessario. I cinquanta militi
municipali venuti costà non appartengono più al corpo. Restituite con
un atto di coraggio la fiducia che deesi avere dal Popolo nella Guardia
Municipale, e che le mancherebbe, qualora questi sciagurati, indegni
di appartenervi, andassero anche questa volta impuniti. I Maggiori
Magagnini, il Frisiani, e il Mastacchi hanno cimentato la loro parola
in questo affare. Agiscano; chè altrimenti ne va del loro onore. Ogni
buon Livornese deve vergognarsi di convivere nelle stesse cerchia e di
chiamarsi concittadino di uomini così indisciplinati e ribelli come
sono cotesti Municipali.»[373] La pubblica indignazione levandosi
a danno loro, altri non potè assumerne le parti di protettore e
avvocato; figli di predilezione erano essi, ma sul momento fu mestieri
abbandonarli, bensì con fiducia poterli restaurare dello smacco
largamente ed in breve. Il Governatore, verso le ore due pomeridiane
del giorno 13, annunzia i Municipali disarmati essere stati tradotti
in Fortezza; «chiedere intanto essere autorizzato a inviarli a Pisa
per essere ivi custoditi e giudicati; implora _molta indulgenza e
sollecita_, non senza però il più ampio apparato di Giustizia.»[374]
Fu il richiamarlo risposta. La Fazione sentendosi percossa, prorompe
in aperte minaccie; Pigli torna a Livorno; una parte del Popolo
tumultua, e intende impedirne la partenza;[375] ma egli ormai privato
del comando, increscioso a molti per le sue avventate parole, a
parecchi ancora dei suoi partigiani caduto novellamente in fastidio
pel non degno abbandono del Colonnello Reghini, comprende essere
migliore partito per lui abbandonare Livorno riducendosi a Firenze:
quello che vi venisse a fare lo dichiarano i Documenti officiali
dell'Accusa; egli venne a osteggiare il Governo, nelle Assemblee e
fuori, istando ardentissimo perchè la Repubblica e la Unione con Roma
si proclamassero.
Nel giorno _14 marzo_ stavano radunati nella mia stanza i signori
Montanelli, Mazzoni, Pigli, Reghini, e D'Apice, a cui Reghini
su la prima giunta aveva esposto per filo e per segno com'erano
andate le cose. Io invitai il Colonnello a contestarle in presenza
al Governatore; ma egli, si peritasse per gentilezza, o per altro
motivo, si andava tuttavia schermendo: allora lo confortai a favellare
senza ritegno; poichè la sua sentenza adesso suonava diversa dalla
manifestata testè.... nella stessa mattina al suo Superiore. Egli,
fattosi animo, confessava essere stato abbandonato pur troppo alla
furia popolare dal signor Pigli, e nel venire tratto giù per le
scale avere creduto arrivata la estrema ora per lui. Il Pigli si
scusava affermando avere adempito a quanto era in potestà sua di
fare. Congedati il Generale e il Colonnello, gli palesai aperto non
lo potere più oltre conservare in Livorno; e siccome i miei Colleghi
assentivano al detto, egli si piegò a dimettersi ponendo innanzi certe
sue pretensioni di pecunia, le quali lasciai che altri regolasse con
lui, contento ch'egli dal governo di Livorno ad ogni modo cessasse.
La Guardia Municipale ebbe a venire in Firenze e sottomettersi; a
Livorno proposi una Commissione governativa composta dei signori
Fabbri, Pappudoff, e Manganaro.[376] Certo, Luigi Fabbri fu soldato
prestantissimo, e dei primi della guerra della Indipendenza; e
spesso (chè spessissime volte col fine di bene inculcarlo nella
mente degl'ignavi ascoltatori ei lo disse) con l'orgoglio che ogni
concittadino sente in cuore pei forti detti e pei generosi gesti dei
suoi compatriotti, lo udii, e ben mille altri meco lo udirono ripetere
le parole con le quali, tutto infiammato, usciva nella Seduta del 23
gennaio 1849: «Tra questi v'è un uomo, e sono io, che, all'istante nel
quale fu dichiarata la guerra, prese le armi, e, senza diffondersi in
vane parole o in semplici grida sulle pubbliche piazze, o in esagerati
concetti per istrappare l'applauso dal sentire generoso del Popolo, ha
pugnato nella guerra della Indipendenza, ed ha affrontato la morte;
e non solo ha affrontato la morte lasciando teneri figli ed amata
consorte, ma adesso dichiara, in presenza a tutto questo onorevole
Consesso, che ritornando le armi nostre su i campi lombardi, sarà
pronto di nuovo a cingere la spada.»[377] — Ma non per questo nè allora
nè poi fu Repubblicano il Fabbri, e, se ne avesse bisogno, gliene
potrei far fede; e il signor Pappudoff nemmeno, comecchè amico delle
oneste libertà. In quanto a Giorgio Manganaro, basti dirne questo: che
la parte faziosa lo ebbe ad oltraggiare con la brutta minaccia: «_Devi
fare come il Pigli, o ti butteremo dalla finestra_.»[378]
Tutte queste cose io volli dire seguitatamente, affinchè si
comprendesse come, amici Pigli e La Cecilia una volta, meco una
volta concordi per sostenere e promuovere gl'interessi del Principato
Costituzionale toscano,[379] poco oltre l'8 febbraio, acconsentendo
ad altre persuasioni, gli avessi prima segreti, poi alla scoperta
avversarii. Da Firenze in prima si estorcono commissioni onde al
Governatore di Livorno sia fatta abilità di eseguire, con nome e
credito governativi, ufficii contrarii alla mente del Governo; a
suo arbitrio estenderli; a norma degli ordini di tale che in quei
giorni troppo più di me poteva, ed era obbedito, applicarli; indi a
breve, nemmeno gli ordini si aspettano o si cercano; e già in Livorno
spunta costituito il Governo, che, passandomi sul corpo, si augura la
Repubblica, la Unione con Roma, e la Decadenza del Principe proclamate.
Così vedremo con quanta diligenza e pertinace volere da una parte,
difficoltà e pericolo dall'altra, pervenni di mano in mano a contenere
la Setta, che dello intero Popolo toscano piccola parte, ma prepotente
di audacia e di gagliardía, mentre attende cupidissima a sospingere
il Paese nella Repubblica, non si accorge precipitarlo fra gli orrori
rivoluzionarii nell'anarchia.
Secondo l'ordine dell'Accusa succede la lettera scritta nello stesso
giorno _14 febbraio_ a Tommaso Paoli, consigliere della Prefettura
di Pisa, la quale, comecchè dettata nelle condizioni medesime di
tempo e di luogo, forza è che si giustifichi con le ragioni addotte
in proposito del Dispaccio al Governatore Carlo Pigli. E dove si
ricerchi argutamente la materia, tu vedi in cotesta lettera espressa
la traccia di pressura attuale. Invero, ricordisi quanto nel § della
_Dimostrazione_ provai con la testimonianza dei Giornali, voglio dire
le Deputazioni dei Circoli una succedentesi all'altra nel giorno 13
febbraio, e con quanta mansuetudine oggimai è manifesto, _per essere
ragguagliate di quanto sapeva e operava_; e allora si comprenderà come,
per ischermirmi dall'accusa di negligenza (e insinuavasi tradimento),
rimproverato, rimprovero di essere lasciato privo di novità. Ancora:
il linguaggio che correva su per le bocche degli uomini in quei tempi,
ed usavasi nelle scritture, nelle petizioni dei Circoli, ed in quel
punto si favellava dalle persone che mi stavano al fianco, forza è che
trapassi nel Dispaccio, siccome nel Dispaccio dell'8 febbraio fecero
passaggio le parole: «il Principe è decaduto;» e oggimai per mille
documenti è provato com'io questa decadenza conflittassi e impedissi.
Finalmente, quantunque commosso dalla presenta perturbazione, bene
ordino radunarsi uomini, ma parte inviarsi a Lucca, e parte tenerne _a
disposizione_ del Governatore di Livorno, il quale a sua volta aveva a
dipendere dal Generale D'Apice, come fu dimostrato di sopra.
Ora l'Accusa (ma di siffatti studii non si occupano le Accuse) se
avesse desiderato chiarirsi, poteva mettere a parallelo degli atti
che incolpa, altri atti che pure ella raccolse nel suo Volume, e
confrontando avrebbe acquistato la conferma (dove facesse mestieri)
della patita coazione. E innanzi tratto io pongo il Dispaccio
mandato allo stesso Consigliere Paoli, dove lo avviso della infermità
sopraggiuntami, ed in bel modo lo conforto a procedere prudentemente
e con temperanza grandissima, a impedire ingiurie ed offese, a rendere
amabile la libertà proteggendo tutti, e conservando il diritto ordine
fecondatore del vivere civile.[380] — Di molto maggiore importanza
apparisce l'altro Dispaccio del pari indirizzato al Consigliere Paoli:
«A BUONO INTENDITORE POCHE PAROLE. — Armatevi — armatevi — armatevi. —
Esaltate i soldati; — NON ABBIAMO BISOGNO DEL GIURAMENTO, — ma pure se
lo prestano meglio che mai.
«Bisogna che diate forza al Partito democratico di Lucca.
«NON SI PRECIPITI NULLA IN QUANTO A REPUBBLICA.
«_1º Perchè tutta Toscana ha da esprimere il suo voto._
«_2º Perchè Francia e Inghilterra, stando così, proteggono da
invasione straniera_; — se no, abbassano le armi, e abbandonano il
Paese: giudizio dunque. _Partecipi agli amici, non che al Prefetto, se
crede_.»
E sapete voi quando io dettava cotesto Dispaccio? Il 13 FEBBRAIO
1849 nelle ore pomeridiane, e per tal modo poco tempo innanzi che
per me si scrivesse il Dispaccio incriminato. Voi lo vedete adunque:
intorno al giuramento non metto sollecitazione veruna, anzi dichiaro
non averne bisogno; raccomando impedirsi la Repubblica; ammonisco
intorno ai pericoli non mica transeunti, bensì permanenti, e tali
da non iscomparire da un giorno all'altro dove sconsigliatamente si
proclamasse; tra siffatte disposizioni dell'animo mio manifestate
nel _13_ febbraio, ponete le strette e le violenze, che in parte
vennero raccolte nel § della _Dimostrazione_; e si abbiano anche i più
diffidenti prova non dubbia della sofferta pressura. Le discrepanze, o
meglio le contradizioni fra il Dispaccio del _13_ e l'altro del _14_
febbraio, somministrerebbero di leggieri materia a lungo discorso:
io però amo il lettore di per sè stesso le senta, piuttosto che
andargliele ad una ad una enumerando partitamente io.
Per quanto in queste angustie mi è dato, ricorderò alcuni pochi
atti, onde il paragone sempre più riesca convincente. Nel giorno _8
di febbraio 1849_, instituisco una Commissione, perchè provveda alla
custodia dei mobili tutti appartenenti al Granduca, ond'egli (se la
fama mi porge il vero) ebbe a dire a Sir Carlo Hamilton, delle cose
sue non avere perduto la più piccola; nel _9_, alla domanda (ed era
minaccia): «nasce dubbio nel _Pubblico_, che la proclamazione del
Governo Provvisorio Toscano abbia fatto cessare le attribuzioni dei
pubblici funzionarii,» rispondo sollecito dopo _pochi minuti_: «il
dubbio non è fondato; stieno al posto; chè il mandato dura finchè non
sia revocato.»[381] Chiunque attende a mutare forma di Governo, non ne
conserva la organizzazione e gli ufficiali; ma quella immediatamente
disfa, questi licenzia. Nel _10_, riavutomi alcun poco dallo
sbigottimento, malgrado la decadenza del Principe proclamata dal Popolo
l'_8 febbraio_, e malgrado che io pure fossi costretto a scrivere
quella parola in quel giorno, annunzio:
«Cittadini. — Abbandonato il Paese a sè stesso, noi fummo dal
Parlamento toscano e dal Popolo eletti custodi della pubblica
sicurezza. Fermo proponimento nostro è mantenerla, e difenderla. I
Cittadini cui preme la Patria si stringano intorno a noi. Chiunque
con fatti o detti attenta alla salute pubblica, commette scandali, ed
eccita la guerra civile, sarà considerato traditore della Patria, e
come tale punito. — Firenze, _10 febbraio 1849_.»
Il giorno seguente, osando di più, il Governo dichiara: suo primo
dovere consistere nel mantenere la pubblica sicurezza; in quanto
alle sorti toscane, aversi queste a decidere dalla intera Nazione col
mezzo dei suoi Deputati; rispetterebbe allora il Governo le volontà
del Popolo sovrano: — con le quali sentenze davo ad intendere senza
ambage, che tutto quanto era stato deliberato da parte del Popolo a
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