Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 07

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Crusca mi creò Accademico; ma altri pensando forse che in me si avesse
a rinnuovare lo esempio di Nabuccodonosor, voglio dire che cadendo di
seggio diventassi bestia, mi ha radiato dal ruolo degli Accademici.
_Deus dedit, Deus abstulit, fiat voluntas Dei_! Intanto tre Collegi,
San Frediano in Firenze, Dicomano e Rosignano, mi elessero Deputato:
estratto a sorte rimasi di Rosignano; nè dal maggio in poi misi più
piede in Livorno. Fra la mia patria e me, rimaneva non dirò rancore, ma
un cotal poco di ruggine a cagione dei fatti del gennaio; e partendo,
io la lasciava in balía degli emuli, i quali la dominavano intera
con la Guardia Civica, di cui erano principali e caporioni. Correva
il 22 agosto 1848, quando i destini condussero a bordo del Piroscafo
l'_Achille_ il Padre Gavazzi a Livorno. Altre volte soggiornò in
Toscana. Uomo di spiriti accesissimi era egli, per professione del
sacerdozio, per impeto di eloquio e per vasta corporatura potente
sopra le turbe, molesto ospite al Ministero nostro. Il Ministero, che
si perdeva dietro ai bruscoli e non avvertiva le travi, dapprima volle
impedire lo sbarco al Barnabita tribuno; quando il Popolo lo volle in
terra, gli concesse e sbarco e transito traverso Toscana per Firenze.
La mattina del 23 agosto giungeva col mezzo del telegrafo cotesto
Dispaccio a Livorno, e in quella mattina stessa a mezzogiorno il Padre
partiva alla volta indicata. Dodici Livornesi lo accompagnavano per
fargli onore. Arrivati a Signa, trovarono apparato di Guardia Civica
e di Carabinieri commessi a non permettergli il passo per Firenze:
andasse a Pistoia, quinci a Bologna. Con la milizia venivano ancora
contadini armati. Non sembra che succedessero accoglienze oneste nè
liete, conciossiachè vi fossero ingiurie e percosse ricambiate; si
disse ancora di una bandiera tricolore arsa; degli accompagnatori,
dieci andarono a Firenze, due proseguirono il viaggio per a Bologna
col Frate. Il Popolo per queste notizie montò su le furie, ruppe
il telegrafo, corse ad armarsi; il Governatore L. Guinigi relegò in
Fortezza Nuova, i Dispacci governativi sorprese. Artatamente o a caso,
si sparse rumore una mano di soldati muovere contro Livorno; a crescere
il tumulto, le sentinelle avanzate scaricano gli schioppi; allora
presero a suonare le campane a stormo, il Popolo corse ad armarsi,
la Civica occupò le porte; gli Artiglieri disposero in battaglia tre
pezzi di artiglieria; ma il Governatore mandava ordine nessun corpo
armato s'inoltrasse contro la città, la bandiera supposta arsa tornava
sventolante a Livorno, deputati spediti al Principe ne riportavano
parole benigne: «Rincrescergli si dubitasse della sua fede e del suo
affetto verso Livorno, del quale aveva dato sempre prove non dubbie;
non avere mai avuto pensiero di mandare forze contro la città.» Pegni
certi di restaurata pace erano quelli: se non che quando ormai pareva
sicura, come il destino volle, ecco prorompere più tremendo motivo di
guerra. Cadde in alcuni il pensiero malaugurato di dispensare fucili
alla Guardia Civica attiva in Porta Murata; il Popolo minuto, che
avea sempre sopportato a malincuore trovarsi escluso dalla Guardia,
accorre e pretende le armi pur egli. — Una sezione di Civici muove
a comporre il subuglio, e vi riusciva, quando il comandante della
sezione ordinava facessero fuoco; lo fecero, e tre rimasero morti,
quattro feriti, di cui uno dopo poche ore spirava. Il Popolo adesso
inferocisce a mille doppii più terribile di prima; i Civici tutti
correvano pericolo presentissimo di vita, se molti di loro non
si nascondevano, e se l'esortazioni di sacerdoti e di spettabili
cittadini non avessero placato gl'incrudeliti animi, persuadendoli a
deporre ogni proponimento di privata vendetta, e aspettare il fine del
processo, che ormai s'iniziava contro i colpevoli di cotesta immanità.
Fu in quella occasione, che me, assente e inconsapevole, posero a
formare parte di una Commissione intenta a mansuefare il Popolo e a
condurlo a miti consigli,[71] e furono anche spediti uomini a posta in
Firenze per far prova di menarmi a Livorno; alla quale istanza _io mi
ricusai_, sì perchè temei la calunnia di provocare coteste turbolenze
a danno del Governo, sì perchè seppi formare parte della Commissione
uomini i quali io reputava largamente bastevoli di provvedere al
bene della patria comune.[72] Mentre però ricusava andare, confidando
nell'antica amicizia del Presidente Capponi, seco lui mi restringeva,
scongiurandolo a palesarmi quali deliberazioni intendesse prendere
riguardo alla mia patria; ed egli dicevami, avrebbe mandato Leone
Cipriani Commissario straordinario; alla quale notizia io mi turbai e
risposi: Leone Cipriani essermi amicissimo, conoscerlo uomo risoluto,
capace d'immaginare od eseguire forti proponimenti, ma appunto per
queste sue ottime qualità disacconcio alle parti di conciliatore.
Leone Cipriani non dissimula nè sopporta uno insulto, e siccome prevedo
probabilissimo che qualche oltraggio gli facciano, così riesce agevole
del pari il presagio, che simile negozio non possa sortire lieto
fine. — Queste cose ho voluto dire, perchè so che a Leone Cipriani
furono riportate diversamente; dal 1848 in poi noi non ci siamo più
visti: egli andando in California, io rimanendo prigione, forse in
questo mondo noi non ci rivedremo: ma desidero che di me conservi quel
buon concetto, che io (tranne la sua infelice commissione livornese)
serberò, vada certo, finchè io viva, di lui. — Altre pratiche feci
presso il Presidente Capponi e i suoi Colleghi per impedire la sciagura
imminente; sopraggiunse S. A., ed io mi allontanai con la promessa,
che se taluna delle mie proposte avessero accettato, me ne avrebbero
porto avviso prima del mezzogiorno a casa. — Venne mezzogiorno;
aspettai fino al tocco; allora uscii disperato di ogni buono esito
delle mie premure. Incontrando il signor avvocato Menichelli, mi
domandava perchè non assistessi alla Tornata straordinaria del
Consiglio Generale tenuta in cotesta mattina per discutere intorno ai
poteri eccezionali da conferirsi al Ministero per ridurre a partito la
città di Livorno: accorsi sollecito alle Camere, ma trovai discussi e
votati due Articoli della Legge del 27 agosto 1848; allora discutevasi
il terzo, e se non erro, orava il Trinci.[73] Mi ritirai col cuore
chiuso da funesti presentimenti. Mi sia permesso trapassare correndo
sopra i casi del 2 settembre. Sangue fraterno versavasi e da mani
fraterne! Dopo la scellerata battaglia, ecco come rimaneva una città
floridissima, emporio unico del commercio toscano: Autorità fuggite,
uffizii vuoti, Municipio disperso, cittadini trepidanti, milizie
incerte del proprio destino, Fortezze rese, avventurieri audacissimi
a capo del Popolo; plebe insanguinata, e orribilmente sospinta agli
estremi delitti. Orribili detti si udivano, ma peggiori fatti si
temevano; da per tutto affanno e paura; gl'incendii, le rapine e le
stragi immaginate nel gennaio, adesso paventavano davvero. In tanto
stremo, la Camera di Commercio mandava J. Moore, O. Lloyd, P. Pate e G.
Nesi, a scongiurare il Ministero inviasse a Livorno Don Neri Corsini
e me, per impedire la rovina della città.[74] Il Ministero rispose
acerbamente, non accogliendo la istanza. Allora si volsero a Don
Neri Corsini. Io non ricordo bene se questo signore non reperissero,
ossiovvero si recusasse; però se lo rinvennero, ed ei rifiutò, io non
lo biasimo: disperata impresa era quella di andare a gettarsi nella
fossa dei leoni, e per di più, col Governo non bene disposto.[75]
Finalmente, smaniosi si fecero alla mia dimora, e grandi e reiterati
furono gli scongiuri perchè non consentissi che la mia patria, il
luogo della mia nascita, sobbissasse; la Provvidenza apprestarmi
prodigiosa occasione di potere salvarla da quei danni medesimi, che
indegnissimamente l'odio di parte mi aveva imputato; afferrassi la
occasione, la benevolenza degli amici mi confermassi, quella degli
avversarii conquistassi, benemeritassi della Patria e della Umanità.
Cotesti scongiuri bastavano, anzi erano troppi, non però vincevano le
difficoltà che andavo loro esponendo: — temere grandemente ch'essi
esagerassero il mio credito sul Popolo di Livorno; ignota la plebe
a me, io alla plebe, e, se ricordavano, averla io provata più di
una volta contraria: non sapere come venire a capo di superare gli
avventurieri armati, che soffiavano in cotesto incendio: pericoloso
sempre darsi in balía del Popolo commosso, insania adesso, ch'era
montato in delirio. Dall'altra parte, non isperimentare il Governo
benevolo, e la opera mia non pure egli non seconderebbe, ma l'avrebbe
forse aborrita. — In questa condizione di cose prevedere la perdita
della fama certa; forse della vita, e benefizio nessuno per la patria.
— Ma per queste ragioni non si ristavano, e tanto meno consentivano
lasciarmi andare, in quanto me tenevano suprema tavola nel naufragio,
onde fervorosamente incalzavano: «non essere sagrifizio quello che
calcola così sottile; vederlo pur troppo, covarmi riposto nell'anima
il rancore contro la patria per la memoria dell'antica offesa; bene
altro concetto avere essi formato di me; adesso a prova trovarmi non
generoso, non magnanimo siccome mi avevano tenuto.» Non vi ha cosa al
mondo che tanto mi ponga paura, quanto il sospetto che altri mi abbia
a trovare inferiore alla estimazione che mi onora; non so se a caso
o ad arte coteste parole adoperassero, ma certo elleno erano tali a
cui non poteva e non potrò mai resistere io; però, tronco a mezzo ogni
ragionamento, uscii in questo discorso, il quale sarà sempre, io non
ne dubito, presente a quei Signori: — A Dio non piaccia, che io non
abbia a meritarmi la vostra stima: verrò, come volete; e se mi accadrà
sventura, farete testimonianza che non fui cieco nè imprudente, ma
che prevedendola io mi vi sottoposi, perchè voi reputaste che per me
si potesse avvantaggiare la patria. — E partimmo; fra Pisa e Livorno
rovesciò la carrozza e andammo sottosopra dentro una fossa: quale più
quale meno, rimanemmo ammaccati tutti. Mentre versavamo in cotesto
pencolo io dissi: — questa è la prima, non la più grave delle disgrazie
che mi attendono. — Venuti alla meglio in prossimità di Livorno,
trovammo sentinelle avanzate che ne circondarono, e per un laberinto di
barricate dopo lunga ora ci fecero pervenire nel centro della città.
Sporsi il capo dallo sportello della carrozza, e vidi con apprensione
non piccola, come moltissimi degli armati camminassero senza scarpe e
in capelli; eravamo arrivati in fondo davvero! La mattina per tempo,
consigliai uno dei due Priori rimasti a mandare inviti al Clero,
ai Collegi Legale e Medico, alla Camera di Commercio, alla Guardia
Civica, alla Milizia di linea, ai Possidenti e a parecchi del Popolo
minuto, perchè intervenissero ad una adunanza nella sala terrena
del Municipio; intanto io facevo opera perchè i buoni cittadini gli
smarriti spiriti ricuperassero; mostrassero buon viso alla fortuna;
si aiutassero insomma se volevano che Dio gli aiutasse;[76] pubblicai
proclami, adoperando parole di lode verso il Principe per deliberato
consiglio.[77] Io mi era accorto presto che la grandissima maggiorità
del Paese, affezionata al Principe Costituzionale, da una parte
deplorava la inettezza del Ministero che l'aveva condotta a questo
estremo; dall'altra stava paurosa della plebe armata, indigente,
infellonita, e dei capi che si era messi alla testa. Invero non era
affare di lieve momento cotesto. Torres, che si chiamava Generale, uomo
rotto ad imprese arditissime, il quale mescendosi fra il Popolo, fino
dal 3 settembre si era fatto dichiarare Comandante della forza armata
di Livorno, aveva costretto la Commissione di sicurezza a dimettersi;
capitolò per la resa del Forte di Porta Murata;[78] seguíto da una
turba di gente sinistra svillaneggiava, minacciava, incuteva terrore.
A questa gente non tornava conto la pace; usa a pescare nel torbido,
voleva permanente la tempesta e la provocava. — Due cose erano da
farsi, e presto: dare animo alle menti sbigottite di manifestare voto
solenne di volere stare congiunte alla famiglia toscana e rifuggire da
ogni mutamento politico; togliere al Torres la male usurpata autorità:
così veniva a spuntarsi la speranza alla turba del Torres di sopraffare
la maggioranza dei cittadini con violenti partiti. Aperta la seduta,
io incominciai, e lo ricordano tutti, proclamando _essere intenzione
universale, starci uniti alla Toscana e al Principe Costituzionale_,
imperciocchè volere diversamente sarebbe stato non pure _empio_, ma
_assurdo_. Unanime consenso approvò la proposta, e i pochissimi che
sentivano diversamente ebbero a tacere. Poi trapassando a discutere
intorno alle cose necessarie per ricondurre stabilmente la pace nella
città, furono con buone ragioni respinte le intemperanti richieste
e ridotte a queste quattro: 1º Oblio per tutti, e di tutto. 2º
Cambiamento dello Stato-maggiore e dei primi Capitani della Civica.
3º Organizzazione e armamento della Riserva. 4º Revoca dei poteri
eccezionali. E finalmente fu deliberato una Deputazione di 20 Cittadini
si recasse a Firenze a esporre le domande dei Livornesi al Ministero;
un'altra di 12 governasse provvisoriamente la città: il comando della
forza armata si confidasse all'ufficiale Ghilardi giunto in Livorno in
quella stessa mattina.
Prima di proseguire nella narrativa, giovi trattenermi un momento
su quelle operazioni. I due fini erano conseguíti; impedire sommosse
repubblicane e violenze, remuovere il comando delle armi dal Torres.
— E qui importa sapere, che il Ghilardi, come soldato agli stipendii
toscani, e spedito dal Ministero Ridolfi con una colonna dei nostri
alla guerra lombarda, inspirava fiducia. Le domande dei Livornesi non
parevano esorbitanti, considerati i tempi, e paragonate con quelle
di cui si fecero portatori nei giorni decorsi, in meno difficili
congiunture, il Deputato Malenchini e il Prete Zacchi, e che pure il
Ministero aveva promesso esaudire.[79] L'organizzazione e l'armamento
della Riserva fu concertato per questo motivo: impossibile appariva
levare le armi al Popolo; tanto era strappare i denti al leone! E le
armi indisciplinate atterrivano; col partito proposto incominciava
ad operarsi lo scevramento fra Popolo e plebe, piaga vergognosa di
ordinata città; e amicato il primo, poteva ricorrersi alla forza per
disarmare la seconda; le armi composte in mano al Popolo cessavano
apparire pericolose; nei regolamenti erami avviso determinare per pena
ai falli di disciplina la perdita temporaria o perpetua delle armi;
pel quale ordinamento ne veniva di due cose l'una: o il Popolo si
disciplinava, e meglio che mai; o non si disciplinava, e perdeva le
armi. Nè mi sembrava impossibile riuscire a questo, perchè costringere
la universalità a rispettare il comando, massime in tempi torbidi, è
arduo, ma agire partitamente sopra i singoli diventa agevole. L'Atto
di Accusa, nel § VI, riporta certe espressioni di un Manifesto che
nel 25 settembre m'indirizzarono i cittadini: «È incontrastabile,
che voi avete diritto alla riconoscenza dei Livornesi, _ed è pure
incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere
ogni movimento_; compite dunque l'opera, e fate deporre le armi.»
Ahimè! In mano dell'Accusa le fronde di alloro diventano cipresso;
non dubitate, no, che cotesto elogio ella saprà bene convertire in
ronciglio, e ne trarrà la benevola conseguenza, che a senso dei miei
stessi concittadini potendo io dirigere a mia posta ogni moto del
Popolo, segno è certo che tutto quanto successe di reprensibile fu
da me provocato, o da me non impedito; e stringendo in brevi termini,
fui _complice_ o _impotente_, però adesso non per _peccato originale_,
ma per volontà![80] — O miei concittadini, il fato vuole che voi mi
abbiate a nuocere e quando mi lodate e quando mi redarguite! E sì che
l'Accusa doveva sapere che lo elogio non corrisponde quasi mai alla
_vera verità_; che difficile è sempre potere ciò che si vuole, e che la
fortuna del favore popolare
è color d'erba,
Che viene e va, e quei la discolora
Per cui ell'esce della terra acerba.
Ad ogni modo, in quanto alle armi, io aveva provvisto prudentemente
e con partito possibile; se questo non avvenne, l'Accusa ne incolpi
il Ministero, che ad ogni punto che io cuciva per rammendare i
suoi strappi, mi cresceva la mercede di avversione. Necessaria mi
pareva la rassegna dei poteri eccezionali, perchè essendo stati
provati e riusciti male, ormai bisognava ricorrere alle provvisioni
conciliatorie; e così essendo, a che convocare Popoli di Toscana a
Pisa come i Sette incontro a Tebe? Perchè, desiderando che il tumulto
cessasse, le cause del tumulto mantenevansi? Era, non dirò savio, ma
cristiano, educare figli della famiglia medesima ad odiarsi fra loro?
Lo so che fu detto, tale non essere il fine dell'adunata, e voglio
crederlo: ma intanto appariva così, e le apparenze bastavano perchè
effetti pessimi partorissero. — Ora proseguo la storia.
Difficile cosa era che i partiti deliberati non si disfacessero
per opera degli agitatori; e la fortuna ne porse loro terribile
occasione. Ad un tratto corre voce di agguati tesi ai cittadini per
le campagne adiacenti, di vie solcate di polvere, di mine, di feriti,
di morti. Ribollono le ire, i persuasi rompono i patti, gli agitatori
si scatenano. Accorsi su la ringhiera del Palazzo Municipale, e
vidi un mare di capi in tempesta, e la mia voce appunto si udiva
come se io l'avessi alzata su la costiera quando vi si rompono i
frangenti. Alle ore cinque circa, alcuni barrocci sboccando dalla Via
Ferdinanda lenti lenti, traversano diagonalmente la Piazza di Arme
piegando all'ospedale; le ruote segnavano traccia sanguinosa sopra il
terreno.... portavano undici feriti nella esplosione delle polveri al
Calambrone.[81] — Sorse un grido immenso: _tradimento! tradimento!_
E gli agitatori prevalendosi del caso, con feroce consiglio,
aggiungevano: _anch'egli è traditore_.... e mi segnavano a dito, e qui
vidi numero grande di archibugi prendere la mira alla ringhiera dove io
mi stava in compagnia di Ufficiali e cittadini: chiusi gli occhi, feci
delle braccia croce raccomandandomi a Dio. Poco dopo mi avventurai a
riguardare, e conobbi come i migliori cittadini con mani e con bastoni
stornassero i fucili gridando: _non fate.... non fate_! — Accanto a
me notai un solo Ufficiale rimasto, il maggiore Ghilardi, pallido in
faccia; come io mi apparissi non so: veramente fu un tristo quarto
d'ora cotesto. Tememmo in quel tempo che gente nemica questi successi
apparecchiasse, onde il Popolo rompendo le deliberazioni prese, ella
potesse del continuato tumulto raccogliere il mal frutto;[82] forse
non era vero, e si ha a credere piuttosto che si prevalesse della
occasione. Immensi sforzi usarono i buoni cittadini a placare il nuovo
furore: ad ogni patto intendevano le genti prorompere fuori delle
porte, e portarsi al Calambrone; si acquietavano appena su la promessa
del Maggiore Ghilardi gli avrebbe egli medesimo condotti all'alba del
giorno venturo. La mia opera diventava più ardua assai; tuttavolta
esposi con le parole che seppi più acconce, le deliberazioni fermate
la mattina, e scongiurai il Popolo ad accettarle; ma le migliaia della
gente raccolta tentennavano; di tratto in tratto scoppiavano urli
di rabbia: allora infervorandomi nel dire, mostrai la empietà della
separazione di Livorno dalla Toscana, ricordai la fiorentina origine
del Popolo livornese, il mutuo affetto di Firenze con Livorno, il motto
_fides_ dato per impresa dalla Signoria fiorentina alla mia patria
in mercede della costanza e della fedeltà sue; separai la causa del
Principe umanissimo da quella del Ministero; invocai la religione e lo
esempio di Cristo per perdonare, e comporsi in fratellevole concordia
col Governo e con la rimanente Toscana; conclusi dicendo: «porteremo le
proposte vostre al Governo; dov'ei le rigettasse ritorneremo fra voi,
e voi farete quello che la vostra coscienza v'ispirerà.»[83] Le mie
parole toccarono il cuore degli adunati, e dichiararono contentarsene;
di più promisero, sotto parola _di onore_ della città, fino al nostro
ritorno avrebbero obbedito alla Commissione governativa, posando da
qualunque tumulto. Però cotesta vittoria non mi assicurava; io aveva
notato fremere parecchia gente, e temeva non prorompesse; gran parte
della notte spesi a blandire cuori esacerbati, a raumiliarli con parole
affettuose; alla fine, estenuato, mi ridussi a casa per riposarmi
qualche ora. La partenza della Commissione era appuntata alle 4 del
mattino.
Appena posato il capo sul guanciale, domandano alcuni Ufficiali, a
grande istanza, favellarmi: introdotti nella mia stanza da letto,
conosco il Colonnello Costa Reghini, in compagnia di due Tenenti. Il
Colonnello, commosso, mi diceva: «per le passate vicende, e per quelle
che prevedeva imminenti, dubitare della sua vita: avere contemplata sul
campo di battaglia la morte e non averla temuta, nè temerla adesso;
solo stringergli il cuore un'angoscia insopportabile pei figli suoi,
che paventava vittime, e soprattutto per la madre loro che giacente
inferma non si dava pace, e travagliata da convulsioni lo scongiurava
a sottrarre i cari capi alle furie del Popolo; invitarmi pertanto
in nome della umanità a dargli un foglio di _lascia passare_ alle
porte, che certo lo avrebbero rispettato.» Inoltre aggiungeva: «Io vi
propongo di mandare con essi loro uno di questi Ufficiali travestito,
con lettere pel Generale Ferrari, ammonendolo, che non inoltri milizie
verso Livorno, per ovviare qualunque scontro che sarebbe fatale.» Io
rispondeva dichiarandomi pronto a sollevare le sue paterne ansietà,
e quelle della povera madre; lodai la proposta delle lettere al
Generale Ferrari; ma gli faceva osservare che la mia autorità non
era tanta quanta egli immaginava; pendere attaccata ad un capello, e
averlo veduto poche ore prima; per paura di un male rimoto e incerto
ci guardassimo da incappare in male prossimo e sicuro. Intanto, chi
dice a lui che sarà conosciuta la mia firma? Ed ancorchè la conoscano,
se ravvisano i suoi figliuoli, se il generoso Ufficiale,[84] se
frugandolo gli trovassero la lettera addosso, chi sa che cosa mai
fantasticherebbero quei cervelli sospettosi? Se mai venissero a
dubitare di tradimento.... guai a tutti noi! In mezzo a così fiera
concitazione non bastarmi la mente, su quel subito, a considerare
qual fosse il partito migliore; mi lasciassero un'ora tranquillo; più
riposato, in breve, avrei pensato a dargli risposta. — Il Colonnello
profferiva ritirarsi ad aspettare nelle prossime stanze; ma io, per
fortuna, insisteva perchè partisse di casa, non mi parendo essere
libero col pensiero se qualcheduno aspettava. Dieci minuti dopo la
sua partenza, le porte risuonano di colpi: aperte dal servo, invade
le stanze una torma di gente invelenita, e circondatomi il letto,
me chiama a morte come traditore, con baionette spianate e sciabole
brandite. Balzai a sedere sul letto, e domandai risoluto chi fossero
— e che volessero. _Nega_, gridavano, _che sono venuti qui poco anzi
Ufficiali di linea; che cosa ci sono venuti a fare_? — Voi lo sapete.
— No, non lo sappiamo. — Come no? Voi lo dovete sapere, perchè dite
che io sono traditore; e se temevate che fossi tale, perchè mi avete
mandato a chiamare? Voi siete peggio del vento; ora vi fidate troppo,
ed ora diffidate di tutto. Volete sapere che cosa sono venuti a fare
cotesti Ufficiali da me? Ve lo dirò, ascoltatemi. — E qui a parte a
parte narrava loro il colloquio tenuto col Colonnello Reghini.[85] —
Si ritirarono confusi domandando perdono. — Da questo apprenda l'Accusa
quanto sia facile il Popolo a sospettare, e come vigili inquieto anche
coloro nei quali sembra riporre sconfinata fiducia.
Giunse la Deputazione a Firenze, e tenne due consulte col Ministero.
Fino dal principio insorse ostacolo impreveduto, e mi sia lecito
aggiungere strano, per la parte del Governo: pareva a lui indecoroso
inviare le Autorità in paese sconvolto; a me all'opposto pareva,
lasciamo da parte il decoro, dovere del Governo cogliere ogni occasione
per impedire che il disordine aumentasse, e una floridissima città si
perdesse; nè sapevo comprendere come l'ordine in paese abbandonato a
sè medesimo potesse ristabilirsi. Da questo fatto erano da aspettarsi
due conseguenze: o la confusione aumentava, e troppo biasimo ne
veniva al Governo non avendola, come poteva, impedita con mandarvi
Autorità acconcie all'uopo; o si riordinava mercè Collegio o persona
extra-legale con provvedimenti di compenso, e si correva rischio che il
fatto riuscisse difficile, e forse impossibile a disfarsi. Per quanto
i Deputati si affaticassero a chiarire cotesto errore manifesto, non
ne vennero a capo; il Ministero proponeva reggesse il Municipio, ma i
due Priori municipali osservarono essere il Municipio disperso, non
trovarsi in numero da deliberare secondo i regolamenti, nè sentirsi
capaci da tanto. Allora il Ministero propose ne assumesse lo incarico
la _Camera di Commercio_! ma i Deputati della Camera dimostrarono
non avere attitudine, nè autorità per farlo. Dopo molti dibattiti,
nei quali alternativamente fu offerto lo incarico di eleggere una
Commissione governativa al Municipio, e alla Camera di Commercio, venne
alla perfine stabilito che si cercasse raccogliere il Municipio onde
eleggesse una Commissione per governare in assenza delle Autorità; e
la sera del 6 settembre 1848 rimasero approvate le seguenti Convenzioni
fra il Ministero e i 20 Deputati livornesi:
1º Oblio di tutto a tutti, militari, forestieri e cittadini.
2º Il Municipio elegga la Commissione la quale governi nell'assenza
delle ordinarie Autorità, allo scopo di ricondurre la quiete, e
riorganizzare la Civica provvisoria, che rimane sciolta per Decreto del
Principe.
3º Sta bene, che, rientrato l'ordine, la Costituzione riprenda il suo
vigore normale.[86]
Il Ministero inoltre invitava i Deputati a condursi nella notte alla
Stazione della strada ferrata, dove avrebbero trovato i Dispacci
convenuti, e treno speciale per tornare a Livorno; e così fu. Aperto
il Dispaccio, non mi parve corrispondere con le cose stabilite,
imperciocchè mi sembra che vi fosse scritto, governerebbe il Municipio
autorizzato ad aggiungersi quel numero di cittadini che meglio
credesse; ma i Deputati mi osservarono, che non faceva differenza. Il 7
settembre era dato ragguaglio del trattato a cinque e più mila persone,
stipate sotto la ringhiera del Palazzo Municipale; la Commissione
governativa era acclamata dal Popolo, a patto che la sanzionasse il
Municipio, nelle persone del conte Larderel, del popolano Petracchi, e
di me; ma in mezzo alle acclamazioni, sorgeva mal represso il grido di
vendetta, che chiamava a morte Cipriani e Cappellini, ed io rispondeva:
— vendetta essere urlo da lupi, giustizia da uomini. — E instando
quella parte cui doleva la pace a gridare vendetta, replicava: — «Le
famiglie degli uccisi intenteranno processo, e avranno restauro a norma
delle leggi.» Non per questo la turba lasciava presa, e accennava più
specialmente al Cappellini, di cui sono prossime le case alla Piazza,
pruno quasi posto su gli occhi per sospingere il Popolo agli eccessi.
Allora gittava questa parola audace per riabilitare il Cappellini,
e confortare la milizia: «Egli è soldato, ed adempiendo gli ordini
ha fatto il suo dovere.» Ma questo era troppo, e di fatti la gente
incominciò a fremere, onde riputai convenevole aggiungere: — «Ebbene,
se anch'egli è colpevole i Tribunali provvederanno.»[87]
Prima però che per me si esponga quello che in Livorno operai, mi
giovi rammentare le difficoltà che mi circondavano. Le più gravi mi
vennero dalla parte del Governo. Geloso egli che esercitassi autorità
a pro del Principato Costituzionale, incomincia a bisticciare intorno
alla origine e allo esercizio di cotesta autorità; nè solo rimansi a
bisticciare, ma con isfrontatezza di cui le pagine più ignobili della
storia parlamentaria non somministrano esempio alla ricisa le cose
pattuite negò. Cotesta curiosa Accusa, che volle ficcare le mani dove
non importava, e dove importava non le ha ficcate, fra le mie carte
trovò l'originale della Dichiarazione emessa nel 19 settembre 1848 da
ben quattordici testimoni presenti alle convenzioni, e poichè essa la
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