Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 13
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Allo scopo di rendere vane le voci, che si spargevano ad arte di
prorogata apertura del Parlamento toscano, a motivo di dissidii
intervenuti fra il Principe e il Ministero, nel _Monitore_ dell'8
gennaio 1849 così annunziava: «Possiamo assicurare, che tra Principe e
Ministero è pieno lo accordo; che fermo sta il giorno per l'apertura
del Parlamento toscano, e che se apparenza alcuna d'incertezza vi
è stata per alcun ritardo, notato nelle disposizioni necessarie
innanzi a questa patria solennità, non nel dissenso del Principe, ma
nella lontananza del medesimo dalla Capitale, se ne deve trovar la
cagione. _Del resto, noi bene ci augureremmo se in tutti gli Stati
Costituzionali, Principato e Governo si accordassero così mirabilmente,
come tra noi ne veggiamo lo esempio_.»
A Gio. Battista Alberti, alla persona del Granduca attaccatissimo, in
guisa riservata mandava: «A. C. Probabilissimamente S. A. _verrà solo
in Arezzo per ismentire con la sua presenza le triste insinuazioni
sul conto suo, e nostro_. Io ti raccomando, che le Deputazioni, le
quali si presenteranno certamente da lui, _lo tengano sollevato_, e lo
persuadano che la quiete in Toscana non può durare che continuando nel
sistema governativo iniziato.[144]»
Nel giorno ultimo di gennaio 1849, avvertito del prossimo sbarco
di Giuseppe Mazzini, mandavo al Governatore di Livorno il seguente
_Dispaccio telegrafico_:
«Sento che verrà Mazzini. Il Governo avverte il Governatore ad usare
ogni possibile prudenza. Il Granduca è lontano dalla Capitale. Un
moto in senso repubblicano basterebbe a non farlo tornare, _e questo
sarebbe il peggiore dei mali. Qui non si vuole affatto la Repubblica da
tutti_.»
Avvisato che Mazzini sarebbe andato a Civitavecchia sotto mentito nome,
senza toccare Livorno, rispondo: _Sta bene_.
Allo annunzio delle voci sparse di fuga del Principe, io ammonisco, con
Dispaccio telegrafico del _4 febbraio 1849_, il Governatore di Livorno:
«S. A. è a Siena, ove cadde ammalato. Firenze è tranquillissima;
_noi pure lo siamo, e continuiamo a stare in perfetta relazione col
Principe. Diffidi dei rumori sparsi dai speculatori di torbidi_.»
Nel 5 febbraio, onde tôrre via il sinistro effetto delle insinuazioni
di scissura fra la Corona e il Ministero, pei casi successi a Siena,
annunzio nel _Monitore_: «Cessi ogni trepidazione; la città si
rassicuri; _la stretta armonia fra il Principe e il suo Ministero,
anzichè soffrire alterazione, ogni dì più si conferma_.»
Per isbaldanzire i maneggi dei Repubblicani, e levare loro ogni male
concepita speranza, che il Governo potesse sopportarli pazientemente,
io componeva e faceva stampare nel Giornale Officiale il seguente
articoletto in forma di lettera, che immaginava pervenuta da Roma
_il 7 febbraio 1849_. «I buoni Italiani convenuti qui in Roma, pare
che abbiano deposto il pensiero di proclamare la Repubblica. Tutti
i frutti, in ispecie i politici, quando sono immaturi, guastano la
salute. Piemonte si chiuderebbe in politica isolata, seppure non
irrompesse manifestamente ostile. Toscana, _noi lo sappiamo, vuole il
Principato democratico e repugna dalla Repubblica_; — non parlo già
del Governo, che io non conosco, ma del _Popolo nella sua maggiorità_.
Così invece di stringerci per la guerra della Indipendenza, avremmo
la guerra civile, madre infelicissima di servitù interna ed esterna.
A questo pensino tutti quelli che si dicono amanti della Patria.
Se vuolsi avvantaggiare la veneranda madre Italia, è un conto; se
pescare nel torbido, incendiare un pagliaio per riscaldarsi le mani,
è un altro. Ma siccome io reputo coloro che professano concetti
repubblicani, uomini di ottima fede, almeno la massima parte, così
_richiamino la mente alla grave considerazione degli elementi che
ci stanno sotto mano_, e giudichino nella rettitudine del cuore. Gli
uomini sono uomini, e si dispongono con le persuasioni e col tempo; con
l'esorbitanze si rovesciano, e inferociscono.[145]»
Ma l'Accusa, che sospetta sempre in me trattato doppio, insorge, e
dice: tutte queste sono «_lustre, finte, e mostre per parere_;» voi
tenevate due corde al vostro arco; voi siete l'uomo _vafer, atque
callidissimus_, dei Latini; nella composizione del vostro corpo, per
tre quarti almeno, ci entra carne di volpe. Bene! Grazie! La fortuna,
fra tante acerbità, mi fu cortese di amici, fra i quali dilettissimo
e venerato il signor Giovanni Bertani, che, intrinseco già del padre
mio, me lo rappresenta adesso per affetto, per cura, per ogni altra
cosa più dolce; e la Istruzione lo sa. Ora può credersi sincero, almeno
quello che confidavo a lui: non era destinato a sapersi; dovevano
rimanere le mie espressioni riposte nello animo suo. E quando io gli
facevo la confidenza dei miei pensieri? Poche ore prima che Niccolini
mi annunziasse il successo di Siena, e mi aprisse il disegno di
proclamare la Repubblica, e me volere a forza Dittatore. — E come?
— Oh! non dubiti l'Accusa: in guisa, che i suoi stessi sospetti
rimarranno placati: con lettera, che porta il doppio marchio delle
Poste di Firenze e di Livorno. — E che dic'ella cotesta lettera? —
Giovanni Bertani, con lettera del 6 febbraio, mi ragguagliava come la
città andasse turbata nelle decorse notti con le grida di — _Viva la
Repubblica_! e giorni innanzi un certo tale avere tenuto parlamento
al Popolo dalla terrazza della Comunità, in senso _repubblicano e
comunista_. Io così gli rispondeva la sera del _7 febbraio 1849_:
«Tutto andrà pel meglio, purchè costà non avvengano disordini.
Screditate questi mestieranti torbidi e sviscerati della Repubblica per
aver pane dal Principato. S... va fischiato. Lo stesso sacramento in
bocca sua diventa sacrilegio: vergogna al Popolo che sopporta simili
Apostolati.»[146]
Ma l'Accusa (per adoperare il suo linguaggio) dirà: non sono questi
_atti univoci_, non _prove limpidissime_; gli è forza che vi scolpiate
_luminosamente, splendidamente_; bisognerebbe conoscere proprio quello
che ruminavate tra voi altri Ministri, quello che tenevate giù dentro
al profondo del cuore. — Ahimè!
_Facilis descensus Averni._
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
_Sed revocare gradum, superasque evadere ad auras,_
_Hoc opus, hic labor est._
Ebbene, voi lo volete sapere? Ve lo dirò. Quando il Presidente del
Consiglio partiva per Siena, io gli spediva dietro una lettera in data
del _6 febbraio 1849_, nella quale, dopo avere dettato al Segretario le
notizie pervenute in giornata, di mia mano aggiungevo per poscritto:
«P. S. Con Marmocchi e CC. bisogna dare prova sensibile a S. A., che
la sua sicurezza impone ch'egli e la sua famiglia tornino subito a
Firenze. _Bisogna salvarlo anche suo malgrado_.»
L'Accusa ringhia, ma non lascia presa, e pretende la prova della mia
incolpabilità avere ad essere sfolgorante come la faccia di Giove
quando comparve a Semele. Cotesto fu mal consiglio; troppo volle
costei, e diventò cenere... pur va, Accusa, e cenere diventa. —
Avvisato dalla signora Laura Parra, che nella notte del 7 febbraio od
ella sarebbe andata, o avrebbe mandato (chè ciò non bene ricordo),
a Siena, le confidava, breve ora e forse pochi momenti innanzi che
giungesse lo annunzio della partenza del Granduca, la lettera qui oltre
impressa. Depositata presso persona di fiducia del presente Governo,
mi viene ora restituita, affinchè me ne valga a confondere la impronta
Accusa, che arreca ribrezzo e accoramento a quei medesimi, i quali
nella mia vita politica mi procederono più avversi. — Pubblicando
questa lettera dichiaro, che il giudizio quivi espresso da me intorno
alcuni individui, come formato sopra notizie altrui, non già sopra
osservazioni proprie, è erroneo, ed ebbi a doverlo riformare più
tardi. —
«A. C.
«_Modena_. — Non si verifica, nè si conferma la notizia.
«_Civica_. — Bisognerebbe ricorrere alle Camere per Legge speciale.
Concerto con D'Ayala se può farsi altrimenti; ingaggierei Volontarii
per un anno. Stasera conferiremo. I Circoli si offrono pronti a
secondarmi.
«_Mordini_. — Anche per le notizie della signora Laura è un cupo
ambizioso che ci mina sotto. Credi potertene servire con sicurezza, o
vuoi rovesciarlo nella polvere? Pensaci: dimmelo, e fa come vuoi.
«_Andreozzi_. — Rimandatemelo subito: ora è necessario a me: nulla
giova a voi.
«_Roma. — Non hanno proclamato la Repubblica; ed è bene._
«_Torino_. — Gioberti prevale adesso; ma vuole accostarsi: _per me,
sempre nei limiti omai stabiliti_, accolgo qualunque comunicazione.
«_Saracini_. — Pensate a sostituire persona democratica, energica,
cittadina sanese: se no, vedremo se va Del Medico; ma lo credo
difficile. Tenta Dell'Hoste. Io pure lo tenterò.
«_Marmocchi_. — Avrà quanto chiede: forse no la montura; per domani
certamente sì.
«_Se non crepo, reggerò ogni cosa. Retrogradi e Rossi mi tengono in
subuglio il Paese: bisogna dare una zampata ad ambedue._
«Saluta il Granduca, e digli da mia parte che oggi non gli scrivo,
perchè proprio non posso. Non mi muovo più di Palazzo. Abbia coraggio e
fede in noi, come noi ne abbiamo in Lui. Cacci via da sè gente che non
sa altro che atterrirlo e lasciarlo indifeso; e siccome io non ho mezze
misure, — se credi, leggigli anche questo periodo, ed anche tutta la
lettera. — Quando può, torni con la famiglia, conquisti e si mantenga i
cuori. Diavolo! Vuol egli acquistare fiducia mostrando sospetto? — Alla
Granduchessa soprattutto insinua questo; — si ricordi del proverbio: Il
Diavolo non è brutto come si dipinge; — e noi non siamo orsi. La mostra
(e sei tu) val meglio della balla (che sono io), e questo succede
sempre; ma non si offrono angioli per campioni di demonii.
«Saluti a Marmocchi; riguardati; addio.
«Firenze, 7 febbraio 1849.
«Am.o GUERRAZZI.»
Adesso che cosa dirà l'Accusa? L'Accusa dice, ch'è evidente come di
lunga mano, avanti il 7 febbraio e nel 7, cospirassi a instituire la
Repubblica, e a rovesciare il Principato Costituzionale, e a cacciare
via il Principe dalla Toscana; — e tale sia dell'Accusa!
XIII.
Mio concetto intorno alla Repubblica.
L'Accusa nel § 85 dichiara non importare nulla indagare se io riputassi
sempre od in massima la _Repubblica_ forma buona ed accettabile per
la Toscana, quando si sa[147] che fui elemento _disorganizzatore_.
— A me pare all'opposto che importi moltissimo, imperciocchè nelle
criminali disquisizioni, se io male non appresi nelle scuole, hassi
principalmente a ricercare lo _affetto_ che lo imputato può avere avuto
a commettere la colpa; ed invero quando non occorra veruna delle cause
che i legisti chiamano di _delinquere_, ed anzi ne occorrano contrarie,
viene la coscienza dei Giudici facilmente condotta ad escludere il dolo
dall'azione incriminata. L'Accusa da sè stessa discorda, dacchè nel §
83 la vediamo registrare la notizia «che ho _interessato_ altre volte,
e sempre per cause politiche, or la Giustizia, or la Grazia;» quasi
per dedurre l'abito vecchio a questa maniera di falli; e ciò sta bene,
perchè nel suo concetto cotesta sciagurata memoria poteva nuocere.
Nel § 85 poi quale sia stata la mia professione politica non importa
conoscere; e sta bene, perchè può giovare. E questa ricerca gioverà ad
un'altra cosa, voglio dire, a mostrare quale potesse essere il motivo
pel quale i Repubblicani me volessero piuttosto Mancipio, che Capo, in
potestà di loro.
La insipienza non cessa ingiuriare la Repubblica, come se non fosse
e non fosse stata forma governativa di Popoli incliti nella Storia,
ma sì piuttosto modo di vivere di gente usa alle rapine ed al sangue.
Da parte siffatte stupidezze; e giovi ripetere col signor Guizot:
«La Repubblica è in sè forma nobilissima di governo: suscita inclite
virtù, ha presieduto al destino e alla gloria di Popoli grandi.»[148]
Chiunque dia opera allo studio delle umane lettere facilmente della
Repubblica s'innamora, però che i precipui scrittori così greci come
latini appartengano al periodo repubblicano; i capitani famosi, le
geste sublimi per eccellenza si vedano apparire ed imprendere nelle
Repubbliche antiche; nè le Repubbliche del medio evo aggradiscono
meno per la vita feconda che le commuove; piacciono le vittorie contro
la barbarie; piacciono gli uomini che vi si agitano dentro, i quali,
portentosi per certa loro salvatica grandezza, dominano il pensiero.
Ancora: filosofi, per istituto di vita o per virtù di fantasia
appartatisi dalle condizioni effettuali degli uomini, si dettero a
speculare intorno al migliore governo della società, e astrattamente
parlando immaginarono ottimo essere quello dove le fortune fossero
pari o comuni, uguali le persone nelle prerogative, nei diritti e nei
doveri; non doversi fare inciampo alla volontà liberissima col vincolo
ingiurioso delle Leggi, conciossiachè lo spirito umano, memore della
sua origine divina, avrebbe inteso, senza posa, spontaneo,
Al decente, al gentile, al buono e al bello.
_Saturnia regna_! — In cosiffatte Repubbliche Tommaso Moro propone che
la pena capitale abbia a consistere nello appiccare un cerchio di oro,
io non ricordo bene se al naso o in quale altra parte del delinquente.
Sogni di Angioli sono cotesti, e Dio faccia tristo colui che desta i
sognatori! Ma gli uomini non dormono tutti, nè sempre; la massima parte
di loro uscendo dalle astrattezze forza è che si travagli per la dura
esperienza della vita. I poeti non hanno a tenere la mano al timone,
ma dalla prua del naviglio contemplare lo emisfero interminato, dove è
fede che troverà pace l'ansia irrequieta che affatica i petti mortali.
Meditando su le Storie, conosciamo come le Repubbliche abbiano durato
fra procelle, e poco; lo esercizio smodato delle virtù che pure le
alimentano, averle condotte in rovina; la uguaglianza immaginata, fine
a conseguirsi impossibile; se tace la smania di superarsi in ricchezze,
subentra più intensa l'agonia di vincersi con le ambizioni, co' brogli
ed anche con lo splendore di gesti famosi; per cui Aristide un giorno
dirà agli Ateniesi, che, se desiderano pace, lui e l'emulo Temistocle
gittino giù nello _Apotete_. Ella cammina così la bisogna; se togliete
via le passioni, e l'uomo è fatto pietra; ma voi non le volete, nè
potete tôrre, e allora nelle società corrotte esse partoriranno turpi
gare di viltà, e di delitti; nelle sane, emulazioni di studii, ed
anche di gloria; nobilissime invero, e non pertanto seme immortale
di disuguaglianza fra gli uomini, nè meno delle altre dannose alla
Repubblica. Considerate le Storie, vediamo che virtù fa forza, forza
superbia, superbia corruttela; e l'ambita grandezza consuma i popoli
come macina molare; non mancano però uomini di peregrino intelletto,
i quali ostinati in certe loro immaginazioni si voltano alle Storie, e
le contemplano non come elleno sono, ma come loro talenta. Io non gli
maledico; mestiere plebeo è questo; ma gli assomiglio a quel Don Pietro
di Portogallo, che, acceso di amore per la morta moglie, la vestiva di
vesti magnifiche, le poneva in testa corona, al collo e agli orecchi
monili e gioie, e delirando la volea pur viva. — Essi vi diranno
presentare le Storie due periodi, quello dell'_autorità_ e quello della
_personalità_, per mettere capo al terzo, che è il Messia, quello
della _fratellanza_; ma la faccenda procede altrimenti, e troviamo
bene spesso, troppo spesso, Stati che invece di progredire verso il
periodo ultimo, stornano verso l'autorità; anzi, verso la barbarie;
anzi, verso lo assoluto potere della spada. Intendono volere distrutte
le disuguaglianze degli averi, della prestanza personale e perfino
degli intelletti, e predicano questo quando le disparità appaiono più
disperate. Nel secolo che vide Napoleone, Cuvier, Berzelius, e Goethe,
e Byron, e Alfieri, andate a parlare di uguaglianza d'ingegni! E
quando si arrivasse alla divisione degli averi, io vorrei un po' sapere
quanto ella avrebbe a durare, e come farebbero a impedire che nascesse
il prodigo e l'avaro, il cupido e il trascurato, lo industrioso e lo
infingardo. La società umana non può nè vuole uscire da uno stato
che conosce, e che spera migliorare mercè progressive riforme, per
precipitarsi dentro un abisso che non conosce, e che teme: _omne
ignotum terribile_. E almeno gli arditi riformatori andassero d'accordo
fra loro! Ma no; quegli vuole moneta e proprietà soppresse, questi
risparmia la moneta; uno pretende la donna libera, un altro chiusa;
chi lascia stare il matrimonio, chi lo abolisce; vi ha chi reputa il
suffragio universale ingiuria alla proprietà; non manca chi sostiene
la libertà di commercio tirannide commerciale; vi ha perfino chi
immagina pagare il debito pubblico della Inghilterra con le uova.[149]
Mentre però procurano rovesciare Dio, religione, matrimonio, famiglia,
eredità, proprietà, potenza individuale, tutto quanto insomma fin qui
venerammo e rispettammo, non sanno dove andremo a cascare. Qualche
esperimento hanno fatto, e capitò male: nonostante si ostinano, e forse
può darsi, ma non lo credo, che a sciogliere la società pervengano; a
riordinarla non mai.
Non ragioniamo di siffatte dottrine che, _con molta imprudenza e senno
poco_, vedo formare perpetuo argomento di qualche Giornale fra noi;
certo per imitazione francese, come se noi avessimo comuni con Francia
travagli e dolori. Torniamo a favellare delle forme del Governo.
I dottori della Repubblica di leggieri concedono vera la sentenza del
Montesquieu, che la Repubblica democratica si fondi sopra la virtù;
ma aggiungono subito, ch'egli ha confuso la causa con lo effetto; la
virtù dovere essere figlia, non madre di libertà; e questo diceva anche
Alfieri: — però aspettare, per vendicarci in libertà, ad avere fatto
procaccio, durante il servaggio, delle virtù necessarie per mantenerci
liberi, torna lo stesso che condannarci a catena perpetua. Nè siffatto
ragionamento è destituito di verità, se non che, invece di giovare alla
conseguenza che ne deducono, le nuoce. Di vero, invece di precipitare
la umanità a corsa, dove non le basteranno le piante, vediamo un po'
se ci fosse verso d'incamminarla mano a mano verso il meglio: se fu
cieca e brancolò per tenebre, perchè volere che duri cieca a brancolare
per non sopportabile luce? Quando lo schiavo rompe la catena, la sua
libertà appare vendetta e delirio;[150] l'adopera in usi pessimi,
finalmente si spossa, e allora di leggieri è restituito al pristino
stato.
I governi costituzionali pertanto, _purchè sinceri_ (e qui, secondo
me, è dove giace nocco), si adattano meravigliosamente alle attuali
condizioni della società, nè virtuose tutte, nè corrotte tutte, e
piuttosto penzolanti di qua che di là; eglino somministrano forme
abbastanza late, dove si può, senza scosse, camminare al meglio;
impresa non superiore alle nostre spalle, e però non disperata;
sistema nel quale capendo democrazia, aristocrazia e monarchia,
l'azione popolare nel progredire vi si afforza con la pratica dei
negozj pubblici, con le virtù, e soprattutto col diminuire l'amore per
sè, ed estendere l'amore per la patria. In questo modo si evitano le
cadute, più dure che non è soave il salire; quello che si acquista si
mantiene; delle riforme sociali si promuove quel tanto che i costumi
sono apparecchiati a ricevere. La umanità è corpo grave, disacconcia
a moti repentini; e quando tu la costringi a saltare, corre rischio
che si rompa le gambe o che affranta si accasci. Che qualcheduno la
preceda con la torcia accesa a schiarirle il cammino, bene sta; ma non
le vada tanto innanzi, che, fissa in quel lume lontanissimo, non veda
i pericoli che le si parano sotto i piedi.
Essendo pertanto avvenuto, che uomini, i quali speculativamente si
mostrarono parziali a forme di governo latissime, fossero assunti al
Potere, nè si trovassero abilitati a ridurre in pratica le teorie
manifestate, si ebbero, senz'altro, _rimprovero di mutata fede_, e
di peggio. Accusa, a mio parere, ingiusta; imperciocchè a comporre
un trattato e a scrivere un libro basti poca carta e inchiostro e il
proprio cervello, ma per condurre un Popolo sia forza consultare i
suoi desiderii, i suoi bisogni e la sua potenza. Nè si deve, senza le
solite stemperatezze dei Partiti, biasimare chi, vedendo che tutto non
si può nè ad un tratto, e forse alcune cose mai, con lealtà di cuore
e fede intemerata si mette a raccogliere le possibili. Così non si
biasimava Platone, se, avendo scritto il _Trattato della Repubblica_,
si conduceva a Siracusa per mansuefare lo efferato animo del tiranno
Dionigi; nè Tommaso Moro, il quale, comecchè dettasse il _Libro della
Utopia_, consentiva a tenere ufficio di Gran-Cancelliere d'Inghilterra
sotto Enrico VIII; nè il Moro perciò vendeva la sua coscienza a cotesto
re, e lo mostrò con la morte. — E Cocceio Nerva compiacque piuttosto
al suo fiero talento, che al bene della umanità, quando, pria che
vivere sotto Tiberio, sostenne morire, conciossiachè è da credersi
che con l'autorità, la quale esercitava grandissima, e l'amicizia che
l'Imperatore gli professava, avrebbe potuto, per avventura, temperare
la truce indole di quello.
Migliaia e migliaia di persone, tinte in chermisi fino alla radice dei
capelli, presero a impallidire da un lato dopo la battaglia di Novara,
e di tanto progredirono, che, svanito anche il verde, dopo il 12 aprile
si trovarono perfettamente partiti di rosso e di bianco. Cotesti esempj
non fanno per me: prima che la dignità umana abbia a ricevere offesa
per mia viltà, prego Dio a ritirarmi la vita. Io non aspettai questo
infortunio a chiarire come pensassi della Repubblica, e mi mostrai
avverso alla medesima prima dello Statuto, dopo lo Statuto, semplice
Deputato, e Deputato e Ministro, libero, e prigioniero. Pei tempi che
corrono, o non pare ella all'Accusa siffatta costanza mostruosa quasi?
Nel 19 novembre 1847 ragionando per lettera col marchese Gino Capponi
(che in quel tempo erami amico, e potrebbe essermi ancora, se fosse
rimasto sempre solo coll'anima sua) intorno ai miei concetti politici,
gli scriveva in questa sentenza: «Io vedo, e vedo certo, disordine
e impossibilità di scopo a cui tendiamo, per difetto di razionale
organismo. Per me la questione è semplice: il Governo cerca forza;
hanno a dargliela i cittadini? Se il Governo si mantiene assoluto,
_no_; — se modifica il suo principio convenientemente, _sì_. Io,
perdurante la mia vita, ho combattuto il primo, e certo non posso nè
devo sovvenire che al secondo. Nonostante, se questo mio fosse errore,
se dovesse contristare i migliori e più sicuri amici miei, io non
rinunzierò alla mia opinione, ma la chiuderò nel mio seno, e romperò
la penna, — pregando Dio che voglia abbreviare il termine prefisso alla
mia vita.»[151]
Nel _decembre del 1847_, scrivendo certe mie _Memorie_, m'indirizzava
a Giuseppe Mazzini con queste parole: «Molta terra e molto mare ci
dividono adesso: corrono _anni ben lunghi che noi non ci mandiamo
neppure un saluto: le opinioni diverse ci separarono_. Tu inebriato di
amore, e confidando troppo nella umana natura, nella casta ed ardente
fantasia immaginavi non possibili destini ai tuoi fratelli, e li volevi
ad un tratto felici e vendicati dal servaggio che è offesa a Dio ed
onta alla dignità dell'uomo. _Io, più provato alla dolorosa esperienza,
quel tuo soverchio volere non consentiva; e pretendere fuori di misura,
mi pareva tornasse il medesimo che non profittar nulla_. Ed in questo
ancora differivamo, che il bene divisavi _imporre ai popoli repugnanti
e ignoranti; io poi, forse di soverchio studioso dell'altrui libera
volontà, ricusava costringerla anche a quello che per avventura era
ottimo_.»[152] E favellando, a pagine 25, delle varie tirannidi che
contristano la terra, dichiarava: «Ho provato nella vita occorrere di
molte generazioni di tirannidi; nè sempre cingono corona di oro, _ma
bene spesso berretto frigio_; nè sempre muovono dai potenti, ma bene
spesso _dalla miseria importuna, dalla querula presunzione e dalla
cieca ignoranza_.»
Così nei tempi in cui potevasi non solo impunemente confessare, ma
anzi tôrre argomento di popolarità dalla confessione di avere promosso
o partecipato a sètte politiche, io volli manifestare come avessi mai
sempre rifuggito da quelle, e ne dissi il perchè; chiarii dividermi
da Mazzini antica e profonda diversità di opinione; lamentai la sua
corrispondenza da moltissimi anni interrotta; la tirannide del berretto
rosso stimatizzai. Nel medesimo anno pubblicai il libro _Al Principe e
al Popolo_, di cui ho favellato altrove.
Della libertà così vi ragiono: «Della libertà che per esercitarsi
offende la Legge, non è da godere: la libertà non iscambiamo con la
licenza: quella è vita, questa è morte dei Popoli. — «Di più ragioni
io conosco libertà, diceva il Parini: libertà vanitosa, libertà
soverchiatrice, libertà ciarliera, con tante altre specie ch'è più
onesto tacere: amo la libertà anche io, ma non la libertà fescennina.»
— Ed io consento con quel santissimo petto.»[153]
Avvertiva i pericoli dello essere andati prima troppo tardi, e
dello andare adesso troppo presto: «Sventura grande nelle società
umane è quella, che il tempo non procede mai equabilmente; prima noi
camminavamo un'ora dentro un anno: adesso in un'ora precipitiamo un
secolo: però, quello che parve ottimo ieri, apparisce disadatto oggi,
forse pessimo domani: una grandissima vertigine ci offusca tutti, ed io
non maraviglio se alcuno perde la bussola.»[154]
Ma soverchio sarebbe allegare citazioni; solo io prego i lettori
esaminare come a pagine 42 prevedessi i moti toscani, ne indicassi
le cause, e secondo il mio corto intelletto ne proponessi i rimedj,
fra i quali mi pareva efficace quello che il Governo precorresse le
voglie del Popolo discretissime allora, riprendesse forza ed autorità,
inspirasse fiducia co' fatti, la meritasse, e concedendo anche
più di quello che portavano i desiderii presenti, togliesse motivo
al nascere dei futuri.[155] Scendendo alle specialità, persuadevo
una Rappresentanza di uomini eletti e pagati dalle città, i quali
cooperassero alla formazione della Legge.[156] E la forma della
consigliata Rappresentanza desiderava non fosse inglese, o francese,
o spagnuola, ma italiana, confacente alla indole, ai costumi e alle
condizioni nostre, ed in modo che alcuno dei Potentati di Europa
potesse con la forza sì, ma non col diritto perseguitare.[157] Non
intendevo pertanto che al Principe s'imponessero leggi intorno alla
forma della Rappresentanza, pago di quello che suggeriva egregiamente
il signor marchese Daniele Zappi in certo suo libro intorno alle
condizioni della Toscana: «Se non che tanto ci avanzammo nella carriera
politica, che non più risponderebbe alla presente situazione delle
cose lo appello fatto ai provveditori delle Camere, e a pochi altri: in
quella vece si rende ora indispensabile, che dalle provincie toscane,
e in modo alquanto più largo della Romana Deputazione, sieno convocati
probi e savii cittadini, che a riformare le Comuni si adoperino
col Governo, e che innanzi di disciogliersi sappiano ottenere dalla
clemenza sovrana una forma di nazionale Deputazione, come istituzione
dello Stato, la quale concorra a coadiuvare il Governo, e valga
a sostenere gl'interessi del Popolo, vera ed unica base di nuovo
ordinamento politico dello Stato.»
Questa Rappresentanza, come al prelodato Marchese, sembrava anco
a me capace di salvare il Ministero dal popolare commovimento,
ponendosi fra Governo e Popolo: essa raccoglierebbe le speculazioni
degli scrittori politici, e dopo averle ponderate le presenterebbe
al Governo; riterrebbe il Popolo da seguitare dottrine diverse, e
varii capi, potendo riposare nei suoi Deputati; e finalmente, tra
gli eccellentissimi, ottimo il vantaggio che partorirebbe questa
istituzione: «guarentendo stabilmente il Popolo dagli abusi del potere;
non si potendo godere il bene della giustizia, se assicurata non sia
per lo avvenire: e come gli uomini, per buoni che sieno, mutabili
e mortali sono, così la continuata e salda guarentigia della opera
governativa non può venire dalle persone, ma deve essenzialmente
risiedere nelle instituzioni dello Stato.»[158]
prorogata apertura del Parlamento toscano, a motivo di dissidii
intervenuti fra il Principe e il Ministero, nel _Monitore_ dell'8
gennaio 1849 così annunziava: «Possiamo assicurare, che tra Principe e
Ministero è pieno lo accordo; che fermo sta il giorno per l'apertura
del Parlamento toscano, e che se apparenza alcuna d'incertezza vi
è stata per alcun ritardo, notato nelle disposizioni necessarie
innanzi a questa patria solennità, non nel dissenso del Principe, ma
nella lontananza del medesimo dalla Capitale, se ne deve trovar la
cagione. _Del resto, noi bene ci augureremmo se in tutti gli Stati
Costituzionali, Principato e Governo si accordassero così mirabilmente,
come tra noi ne veggiamo lo esempio_.»
A Gio. Battista Alberti, alla persona del Granduca attaccatissimo, in
guisa riservata mandava: «A. C. Probabilissimamente S. A. _verrà solo
in Arezzo per ismentire con la sua presenza le triste insinuazioni
sul conto suo, e nostro_. Io ti raccomando, che le Deputazioni, le
quali si presenteranno certamente da lui, _lo tengano sollevato_, e lo
persuadano che la quiete in Toscana non può durare che continuando nel
sistema governativo iniziato.[144]»
Nel giorno ultimo di gennaio 1849, avvertito del prossimo sbarco
di Giuseppe Mazzini, mandavo al Governatore di Livorno il seguente
_Dispaccio telegrafico_:
«Sento che verrà Mazzini. Il Governo avverte il Governatore ad usare
ogni possibile prudenza. Il Granduca è lontano dalla Capitale. Un
moto in senso repubblicano basterebbe a non farlo tornare, _e questo
sarebbe il peggiore dei mali. Qui non si vuole affatto la Repubblica da
tutti_.»
Avvisato che Mazzini sarebbe andato a Civitavecchia sotto mentito nome,
senza toccare Livorno, rispondo: _Sta bene_.
Allo annunzio delle voci sparse di fuga del Principe, io ammonisco, con
Dispaccio telegrafico del _4 febbraio 1849_, il Governatore di Livorno:
«S. A. è a Siena, ove cadde ammalato. Firenze è tranquillissima;
_noi pure lo siamo, e continuiamo a stare in perfetta relazione col
Principe. Diffidi dei rumori sparsi dai speculatori di torbidi_.»
Nel 5 febbraio, onde tôrre via il sinistro effetto delle insinuazioni
di scissura fra la Corona e il Ministero, pei casi successi a Siena,
annunzio nel _Monitore_: «Cessi ogni trepidazione; la città si
rassicuri; _la stretta armonia fra il Principe e il suo Ministero,
anzichè soffrire alterazione, ogni dì più si conferma_.»
Per isbaldanzire i maneggi dei Repubblicani, e levare loro ogni male
concepita speranza, che il Governo potesse sopportarli pazientemente,
io componeva e faceva stampare nel Giornale Officiale il seguente
articoletto in forma di lettera, che immaginava pervenuta da Roma
_il 7 febbraio 1849_. «I buoni Italiani convenuti qui in Roma, pare
che abbiano deposto il pensiero di proclamare la Repubblica. Tutti
i frutti, in ispecie i politici, quando sono immaturi, guastano la
salute. Piemonte si chiuderebbe in politica isolata, seppure non
irrompesse manifestamente ostile. Toscana, _noi lo sappiamo, vuole il
Principato democratico e repugna dalla Repubblica_; — non parlo già
del Governo, che io non conosco, ma del _Popolo nella sua maggiorità_.
Così invece di stringerci per la guerra della Indipendenza, avremmo
la guerra civile, madre infelicissima di servitù interna ed esterna.
A questo pensino tutti quelli che si dicono amanti della Patria.
Se vuolsi avvantaggiare la veneranda madre Italia, è un conto; se
pescare nel torbido, incendiare un pagliaio per riscaldarsi le mani,
è un altro. Ma siccome io reputo coloro che professano concetti
repubblicani, uomini di ottima fede, almeno la massima parte, così
_richiamino la mente alla grave considerazione degli elementi che
ci stanno sotto mano_, e giudichino nella rettitudine del cuore. Gli
uomini sono uomini, e si dispongono con le persuasioni e col tempo; con
l'esorbitanze si rovesciano, e inferociscono.[145]»
Ma l'Accusa, che sospetta sempre in me trattato doppio, insorge, e
dice: tutte queste sono «_lustre, finte, e mostre per parere_;» voi
tenevate due corde al vostro arco; voi siete l'uomo _vafer, atque
callidissimus_, dei Latini; nella composizione del vostro corpo, per
tre quarti almeno, ci entra carne di volpe. Bene! Grazie! La fortuna,
fra tante acerbità, mi fu cortese di amici, fra i quali dilettissimo
e venerato il signor Giovanni Bertani, che, intrinseco già del padre
mio, me lo rappresenta adesso per affetto, per cura, per ogni altra
cosa più dolce; e la Istruzione lo sa. Ora può credersi sincero, almeno
quello che confidavo a lui: non era destinato a sapersi; dovevano
rimanere le mie espressioni riposte nello animo suo. E quando io gli
facevo la confidenza dei miei pensieri? Poche ore prima che Niccolini
mi annunziasse il successo di Siena, e mi aprisse il disegno di
proclamare la Repubblica, e me volere a forza Dittatore. — E come?
— Oh! non dubiti l'Accusa: in guisa, che i suoi stessi sospetti
rimarranno placati: con lettera, che porta il doppio marchio delle
Poste di Firenze e di Livorno. — E che dic'ella cotesta lettera? —
Giovanni Bertani, con lettera del 6 febbraio, mi ragguagliava come la
città andasse turbata nelle decorse notti con le grida di — _Viva la
Repubblica_! e giorni innanzi un certo tale avere tenuto parlamento
al Popolo dalla terrazza della Comunità, in senso _repubblicano e
comunista_. Io così gli rispondeva la sera del _7 febbraio 1849_:
«Tutto andrà pel meglio, purchè costà non avvengano disordini.
Screditate questi mestieranti torbidi e sviscerati della Repubblica per
aver pane dal Principato. S... va fischiato. Lo stesso sacramento in
bocca sua diventa sacrilegio: vergogna al Popolo che sopporta simili
Apostolati.»[146]
Ma l'Accusa (per adoperare il suo linguaggio) dirà: non sono questi
_atti univoci_, non _prove limpidissime_; gli è forza che vi scolpiate
_luminosamente, splendidamente_; bisognerebbe conoscere proprio quello
che ruminavate tra voi altri Ministri, quello che tenevate giù dentro
al profondo del cuore. — Ahimè!
_Facilis descensus Averni._
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
_Sed revocare gradum, superasque evadere ad auras,_
_Hoc opus, hic labor est._
Ebbene, voi lo volete sapere? Ve lo dirò. Quando il Presidente del
Consiglio partiva per Siena, io gli spediva dietro una lettera in data
del _6 febbraio 1849_, nella quale, dopo avere dettato al Segretario le
notizie pervenute in giornata, di mia mano aggiungevo per poscritto:
«P. S. Con Marmocchi e CC. bisogna dare prova sensibile a S. A., che
la sua sicurezza impone ch'egli e la sua famiglia tornino subito a
Firenze. _Bisogna salvarlo anche suo malgrado_.»
L'Accusa ringhia, ma non lascia presa, e pretende la prova della mia
incolpabilità avere ad essere sfolgorante come la faccia di Giove
quando comparve a Semele. Cotesto fu mal consiglio; troppo volle
costei, e diventò cenere... pur va, Accusa, e cenere diventa. —
Avvisato dalla signora Laura Parra, che nella notte del 7 febbraio od
ella sarebbe andata, o avrebbe mandato (chè ciò non bene ricordo),
a Siena, le confidava, breve ora e forse pochi momenti innanzi che
giungesse lo annunzio della partenza del Granduca, la lettera qui oltre
impressa. Depositata presso persona di fiducia del presente Governo,
mi viene ora restituita, affinchè me ne valga a confondere la impronta
Accusa, che arreca ribrezzo e accoramento a quei medesimi, i quali
nella mia vita politica mi procederono più avversi. — Pubblicando
questa lettera dichiaro, che il giudizio quivi espresso da me intorno
alcuni individui, come formato sopra notizie altrui, non già sopra
osservazioni proprie, è erroneo, ed ebbi a doverlo riformare più
tardi. —
«A. C.
«_Modena_. — Non si verifica, nè si conferma la notizia.
«_Civica_. — Bisognerebbe ricorrere alle Camere per Legge speciale.
Concerto con D'Ayala se può farsi altrimenti; ingaggierei Volontarii
per un anno. Stasera conferiremo. I Circoli si offrono pronti a
secondarmi.
«_Mordini_. — Anche per le notizie della signora Laura è un cupo
ambizioso che ci mina sotto. Credi potertene servire con sicurezza, o
vuoi rovesciarlo nella polvere? Pensaci: dimmelo, e fa come vuoi.
«_Andreozzi_. — Rimandatemelo subito: ora è necessario a me: nulla
giova a voi.
«_Roma. — Non hanno proclamato la Repubblica; ed è bene._
«_Torino_. — Gioberti prevale adesso; ma vuole accostarsi: _per me,
sempre nei limiti omai stabiliti_, accolgo qualunque comunicazione.
«_Saracini_. — Pensate a sostituire persona democratica, energica,
cittadina sanese: se no, vedremo se va Del Medico; ma lo credo
difficile. Tenta Dell'Hoste. Io pure lo tenterò.
«_Marmocchi_. — Avrà quanto chiede: forse no la montura; per domani
certamente sì.
«_Se non crepo, reggerò ogni cosa. Retrogradi e Rossi mi tengono in
subuglio il Paese: bisogna dare una zampata ad ambedue._
«Saluta il Granduca, e digli da mia parte che oggi non gli scrivo,
perchè proprio non posso. Non mi muovo più di Palazzo. Abbia coraggio e
fede in noi, come noi ne abbiamo in Lui. Cacci via da sè gente che non
sa altro che atterrirlo e lasciarlo indifeso; e siccome io non ho mezze
misure, — se credi, leggigli anche questo periodo, ed anche tutta la
lettera. — Quando può, torni con la famiglia, conquisti e si mantenga i
cuori. Diavolo! Vuol egli acquistare fiducia mostrando sospetto? — Alla
Granduchessa soprattutto insinua questo; — si ricordi del proverbio: Il
Diavolo non è brutto come si dipinge; — e noi non siamo orsi. La mostra
(e sei tu) val meglio della balla (che sono io), e questo succede
sempre; ma non si offrono angioli per campioni di demonii.
«Saluti a Marmocchi; riguardati; addio.
«Firenze, 7 febbraio 1849.
«Am.o GUERRAZZI.»
Adesso che cosa dirà l'Accusa? L'Accusa dice, ch'è evidente come di
lunga mano, avanti il 7 febbraio e nel 7, cospirassi a instituire la
Repubblica, e a rovesciare il Principato Costituzionale, e a cacciare
via il Principe dalla Toscana; — e tale sia dell'Accusa!
XIII.
Mio concetto intorno alla Repubblica.
L'Accusa nel § 85 dichiara non importare nulla indagare se io riputassi
sempre od in massima la _Repubblica_ forma buona ed accettabile per
la Toscana, quando si sa[147] che fui elemento _disorganizzatore_.
— A me pare all'opposto che importi moltissimo, imperciocchè nelle
criminali disquisizioni, se io male non appresi nelle scuole, hassi
principalmente a ricercare lo _affetto_ che lo imputato può avere avuto
a commettere la colpa; ed invero quando non occorra veruna delle cause
che i legisti chiamano di _delinquere_, ed anzi ne occorrano contrarie,
viene la coscienza dei Giudici facilmente condotta ad escludere il dolo
dall'azione incriminata. L'Accusa da sè stessa discorda, dacchè nel §
83 la vediamo registrare la notizia «che ho _interessato_ altre volte,
e sempre per cause politiche, or la Giustizia, or la Grazia;» quasi
per dedurre l'abito vecchio a questa maniera di falli; e ciò sta bene,
perchè nel suo concetto cotesta sciagurata memoria poteva nuocere.
Nel § 85 poi quale sia stata la mia professione politica non importa
conoscere; e sta bene, perchè può giovare. E questa ricerca gioverà ad
un'altra cosa, voglio dire, a mostrare quale potesse essere il motivo
pel quale i Repubblicani me volessero piuttosto Mancipio, che Capo, in
potestà di loro.
La insipienza non cessa ingiuriare la Repubblica, come se non fosse
e non fosse stata forma governativa di Popoli incliti nella Storia,
ma sì piuttosto modo di vivere di gente usa alle rapine ed al sangue.
Da parte siffatte stupidezze; e giovi ripetere col signor Guizot:
«La Repubblica è in sè forma nobilissima di governo: suscita inclite
virtù, ha presieduto al destino e alla gloria di Popoli grandi.»[148]
Chiunque dia opera allo studio delle umane lettere facilmente della
Repubblica s'innamora, però che i precipui scrittori così greci come
latini appartengano al periodo repubblicano; i capitani famosi, le
geste sublimi per eccellenza si vedano apparire ed imprendere nelle
Repubbliche antiche; nè le Repubbliche del medio evo aggradiscono
meno per la vita feconda che le commuove; piacciono le vittorie contro
la barbarie; piacciono gli uomini che vi si agitano dentro, i quali,
portentosi per certa loro salvatica grandezza, dominano il pensiero.
Ancora: filosofi, per istituto di vita o per virtù di fantasia
appartatisi dalle condizioni effettuali degli uomini, si dettero a
speculare intorno al migliore governo della società, e astrattamente
parlando immaginarono ottimo essere quello dove le fortune fossero
pari o comuni, uguali le persone nelle prerogative, nei diritti e nei
doveri; non doversi fare inciampo alla volontà liberissima col vincolo
ingiurioso delle Leggi, conciossiachè lo spirito umano, memore della
sua origine divina, avrebbe inteso, senza posa, spontaneo,
Al decente, al gentile, al buono e al bello.
_Saturnia regna_! — In cosiffatte Repubbliche Tommaso Moro propone che
la pena capitale abbia a consistere nello appiccare un cerchio di oro,
io non ricordo bene se al naso o in quale altra parte del delinquente.
Sogni di Angioli sono cotesti, e Dio faccia tristo colui che desta i
sognatori! Ma gli uomini non dormono tutti, nè sempre; la massima parte
di loro uscendo dalle astrattezze forza è che si travagli per la dura
esperienza della vita. I poeti non hanno a tenere la mano al timone,
ma dalla prua del naviglio contemplare lo emisfero interminato, dove è
fede che troverà pace l'ansia irrequieta che affatica i petti mortali.
Meditando su le Storie, conosciamo come le Repubbliche abbiano durato
fra procelle, e poco; lo esercizio smodato delle virtù che pure le
alimentano, averle condotte in rovina; la uguaglianza immaginata, fine
a conseguirsi impossibile; se tace la smania di superarsi in ricchezze,
subentra più intensa l'agonia di vincersi con le ambizioni, co' brogli
ed anche con lo splendore di gesti famosi; per cui Aristide un giorno
dirà agli Ateniesi, che, se desiderano pace, lui e l'emulo Temistocle
gittino giù nello _Apotete_. Ella cammina così la bisogna; se togliete
via le passioni, e l'uomo è fatto pietra; ma voi non le volete, nè
potete tôrre, e allora nelle società corrotte esse partoriranno turpi
gare di viltà, e di delitti; nelle sane, emulazioni di studii, ed
anche di gloria; nobilissime invero, e non pertanto seme immortale
di disuguaglianza fra gli uomini, nè meno delle altre dannose alla
Repubblica. Considerate le Storie, vediamo che virtù fa forza, forza
superbia, superbia corruttela; e l'ambita grandezza consuma i popoli
come macina molare; non mancano però uomini di peregrino intelletto,
i quali ostinati in certe loro immaginazioni si voltano alle Storie, e
le contemplano non come elleno sono, ma come loro talenta. Io non gli
maledico; mestiere plebeo è questo; ma gli assomiglio a quel Don Pietro
di Portogallo, che, acceso di amore per la morta moglie, la vestiva di
vesti magnifiche, le poneva in testa corona, al collo e agli orecchi
monili e gioie, e delirando la volea pur viva. — Essi vi diranno
presentare le Storie due periodi, quello dell'_autorità_ e quello della
_personalità_, per mettere capo al terzo, che è il Messia, quello
della _fratellanza_; ma la faccenda procede altrimenti, e troviamo
bene spesso, troppo spesso, Stati che invece di progredire verso il
periodo ultimo, stornano verso l'autorità; anzi, verso la barbarie;
anzi, verso lo assoluto potere della spada. Intendono volere distrutte
le disuguaglianze degli averi, della prestanza personale e perfino
degli intelletti, e predicano questo quando le disparità appaiono più
disperate. Nel secolo che vide Napoleone, Cuvier, Berzelius, e Goethe,
e Byron, e Alfieri, andate a parlare di uguaglianza d'ingegni! E
quando si arrivasse alla divisione degli averi, io vorrei un po' sapere
quanto ella avrebbe a durare, e come farebbero a impedire che nascesse
il prodigo e l'avaro, il cupido e il trascurato, lo industrioso e lo
infingardo. La società umana non può nè vuole uscire da uno stato
che conosce, e che spera migliorare mercè progressive riforme, per
precipitarsi dentro un abisso che non conosce, e che teme: _omne
ignotum terribile_. E almeno gli arditi riformatori andassero d'accordo
fra loro! Ma no; quegli vuole moneta e proprietà soppresse, questi
risparmia la moneta; uno pretende la donna libera, un altro chiusa;
chi lascia stare il matrimonio, chi lo abolisce; vi ha chi reputa il
suffragio universale ingiuria alla proprietà; non manca chi sostiene
la libertà di commercio tirannide commerciale; vi ha perfino chi
immagina pagare il debito pubblico della Inghilterra con le uova.[149]
Mentre però procurano rovesciare Dio, religione, matrimonio, famiglia,
eredità, proprietà, potenza individuale, tutto quanto insomma fin qui
venerammo e rispettammo, non sanno dove andremo a cascare. Qualche
esperimento hanno fatto, e capitò male: nonostante si ostinano, e forse
può darsi, ma non lo credo, che a sciogliere la società pervengano; a
riordinarla non mai.
Non ragioniamo di siffatte dottrine che, _con molta imprudenza e senno
poco_, vedo formare perpetuo argomento di qualche Giornale fra noi;
certo per imitazione francese, come se noi avessimo comuni con Francia
travagli e dolori. Torniamo a favellare delle forme del Governo.
I dottori della Repubblica di leggieri concedono vera la sentenza del
Montesquieu, che la Repubblica democratica si fondi sopra la virtù;
ma aggiungono subito, ch'egli ha confuso la causa con lo effetto; la
virtù dovere essere figlia, non madre di libertà; e questo diceva anche
Alfieri: — però aspettare, per vendicarci in libertà, ad avere fatto
procaccio, durante il servaggio, delle virtù necessarie per mantenerci
liberi, torna lo stesso che condannarci a catena perpetua. Nè siffatto
ragionamento è destituito di verità, se non che, invece di giovare alla
conseguenza che ne deducono, le nuoce. Di vero, invece di precipitare
la umanità a corsa, dove non le basteranno le piante, vediamo un po'
se ci fosse verso d'incamminarla mano a mano verso il meglio: se fu
cieca e brancolò per tenebre, perchè volere che duri cieca a brancolare
per non sopportabile luce? Quando lo schiavo rompe la catena, la sua
libertà appare vendetta e delirio;[150] l'adopera in usi pessimi,
finalmente si spossa, e allora di leggieri è restituito al pristino
stato.
I governi costituzionali pertanto, _purchè sinceri_ (e qui, secondo
me, è dove giace nocco), si adattano meravigliosamente alle attuali
condizioni della società, nè virtuose tutte, nè corrotte tutte, e
piuttosto penzolanti di qua che di là; eglino somministrano forme
abbastanza late, dove si può, senza scosse, camminare al meglio;
impresa non superiore alle nostre spalle, e però non disperata;
sistema nel quale capendo democrazia, aristocrazia e monarchia,
l'azione popolare nel progredire vi si afforza con la pratica dei
negozj pubblici, con le virtù, e soprattutto col diminuire l'amore per
sè, ed estendere l'amore per la patria. In questo modo si evitano le
cadute, più dure che non è soave il salire; quello che si acquista si
mantiene; delle riforme sociali si promuove quel tanto che i costumi
sono apparecchiati a ricevere. La umanità è corpo grave, disacconcia
a moti repentini; e quando tu la costringi a saltare, corre rischio
che si rompa le gambe o che affranta si accasci. Che qualcheduno la
preceda con la torcia accesa a schiarirle il cammino, bene sta; ma non
le vada tanto innanzi, che, fissa in quel lume lontanissimo, non veda
i pericoli che le si parano sotto i piedi.
Essendo pertanto avvenuto, che uomini, i quali speculativamente si
mostrarono parziali a forme di governo latissime, fossero assunti al
Potere, nè si trovassero abilitati a ridurre in pratica le teorie
manifestate, si ebbero, senz'altro, _rimprovero di mutata fede_, e
di peggio. Accusa, a mio parere, ingiusta; imperciocchè a comporre
un trattato e a scrivere un libro basti poca carta e inchiostro e il
proprio cervello, ma per condurre un Popolo sia forza consultare i
suoi desiderii, i suoi bisogni e la sua potenza. Nè si deve, senza le
solite stemperatezze dei Partiti, biasimare chi, vedendo che tutto non
si può nè ad un tratto, e forse alcune cose mai, con lealtà di cuore
e fede intemerata si mette a raccogliere le possibili. Così non si
biasimava Platone, se, avendo scritto il _Trattato della Repubblica_,
si conduceva a Siracusa per mansuefare lo efferato animo del tiranno
Dionigi; nè Tommaso Moro, il quale, comecchè dettasse il _Libro della
Utopia_, consentiva a tenere ufficio di Gran-Cancelliere d'Inghilterra
sotto Enrico VIII; nè il Moro perciò vendeva la sua coscienza a cotesto
re, e lo mostrò con la morte. — E Cocceio Nerva compiacque piuttosto
al suo fiero talento, che al bene della umanità, quando, pria che
vivere sotto Tiberio, sostenne morire, conciossiachè è da credersi
che con l'autorità, la quale esercitava grandissima, e l'amicizia che
l'Imperatore gli professava, avrebbe potuto, per avventura, temperare
la truce indole di quello.
Migliaia e migliaia di persone, tinte in chermisi fino alla radice dei
capelli, presero a impallidire da un lato dopo la battaglia di Novara,
e di tanto progredirono, che, svanito anche il verde, dopo il 12 aprile
si trovarono perfettamente partiti di rosso e di bianco. Cotesti esempj
non fanno per me: prima che la dignità umana abbia a ricevere offesa
per mia viltà, prego Dio a ritirarmi la vita. Io non aspettai questo
infortunio a chiarire come pensassi della Repubblica, e mi mostrai
avverso alla medesima prima dello Statuto, dopo lo Statuto, semplice
Deputato, e Deputato e Ministro, libero, e prigioniero. Pei tempi che
corrono, o non pare ella all'Accusa siffatta costanza mostruosa quasi?
Nel 19 novembre 1847 ragionando per lettera col marchese Gino Capponi
(che in quel tempo erami amico, e potrebbe essermi ancora, se fosse
rimasto sempre solo coll'anima sua) intorno ai miei concetti politici,
gli scriveva in questa sentenza: «Io vedo, e vedo certo, disordine
e impossibilità di scopo a cui tendiamo, per difetto di razionale
organismo. Per me la questione è semplice: il Governo cerca forza;
hanno a dargliela i cittadini? Se il Governo si mantiene assoluto,
_no_; — se modifica il suo principio convenientemente, _sì_. Io,
perdurante la mia vita, ho combattuto il primo, e certo non posso nè
devo sovvenire che al secondo. Nonostante, se questo mio fosse errore,
se dovesse contristare i migliori e più sicuri amici miei, io non
rinunzierò alla mia opinione, ma la chiuderò nel mio seno, e romperò
la penna, — pregando Dio che voglia abbreviare il termine prefisso alla
mia vita.»[151]
Nel _decembre del 1847_, scrivendo certe mie _Memorie_, m'indirizzava
a Giuseppe Mazzini con queste parole: «Molta terra e molto mare ci
dividono adesso: corrono _anni ben lunghi che noi non ci mandiamo
neppure un saluto: le opinioni diverse ci separarono_. Tu inebriato di
amore, e confidando troppo nella umana natura, nella casta ed ardente
fantasia immaginavi non possibili destini ai tuoi fratelli, e li volevi
ad un tratto felici e vendicati dal servaggio che è offesa a Dio ed
onta alla dignità dell'uomo. _Io, più provato alla dolorosa esperienza,
quel tuo soverchio volere non consentiva; e pretendere fuori di misura,
mi pareva tornasse il medesimo che non profittar nulla_. Ed in questo
ancora differivamo, che il bene divisavi _imporre ai popoli repugnanti
e ignoranti; io poi, forse di soverchio studioso dell'altrui libera
volontà, ricusava costringerla anche a quello che per avventura era
ottimo_.»[152] E favellando, a pagine 25, delle varie tirannidi che
contristano la terra, dichiarava: «Ho provato nella vita occorrere di
molte generazioni di tirannidi; nè sempre cingono corona di oro, _ma
bene spesso berretto frigio_; nè sempre muovono dai potenti, ma bene
spesso _dalla miseria importuna, dalla querula presunzione e dalla
cieca ignoranza_.»
Così nei tempi in cui potevasi non solo impunemente confessare, ma
anzi tôrre argomento di popolarità dalla confessione di avere promosso
o partecipato a sètte politiche, io volli manifestare come avessi mai
sempre rifuggito da quelle, e ne dissi il perchè; chiarii dividermi
da Mazzini antica e profonda diversità di opinione; lamentai la sua
corrispondenza da moltissimi anni interrotta; la tirannide del berretto
rosso stimatizzai. Nel medesimo anno pubblicai il libro _Al Principe e
al Popolo_, di cui ho favellato altrove.
Della libertà così vi ragiono: «Della libertà che per esercitarsi
offende la Legge, non è da godere: la libertà non iscambiamo con la
licenza: quella è vita, questa è morte dei Popoli. — «Di più ragioni
io conosco libertà, diceva il Parini: libertà vanitosa, libertà
soverchiatrice, libertà ciarliera, con tante altre specie ch'è più
onesto tacere: amo la libertà anche io, ma non la libertà fescennina.»
— Ed io consento con quel santissimo petto.»[153]
Avvertiva i pericoli dello essere andati prima troppo tardi, e
dello andare adesso troppo presto: «Sventura grande nelle società
umane è quella, che il tempo non procede mai equabilmente; prima noi
camminavamo un'ora dentro un anno: adesso in un'ora precipitiamo un
secolo: però, quello che parve ottimo ieri, apparisce disadatto oggi,
forse pessimo domani: una grandissima vertigine ci offusca tutti, ed io
non maraviglio se alcuno perde la bussola.»[154]
Ma soverchio sarebbe allegare citazioni; solo io prego i lettori
esaminare come a pagine 42 prevedessi i moti toscani, ne indicassi
le cause, e secondo il mio corto intelletto ne proponessi i rimedj,
fra i quali mi pareva efficace quello che il Governo precorresse le
voglie del Popolo discretissime allora, riprendesse forza ed autorità,
inspirasse fiducia co' fatti, la meritasse, e concedendo anche
più di quello che portavano i desiderii presenti, togliesse motivo
al nascere dei futuri.[155] Scendendo alle specialità, persuadevo
una Rappresentanza di uomini eletti e pagati dalle città, i quali
cooperassero alla formazione della Legge.[156] E la forma della
consigliata Rappresentanza desiderava non fosse inglese, o francese,
o spagnuola, ma italiana, confacente alla indole, ai costumi e alle
condizioni nostre, ed in modo che alcuno dei Potentati di Europa
potesse con la forza sì, ma non col diritto perseguitare.[157] Non
intendevo pertanto che al Principe s'imponessero leggi intorno alla
forma della Rappresentanza, pago di quello che suggeriva egregiamente
il signor marchese Daniele Zappi in certo suo libro intorno alle
condizioni della Toscana: «Se non che tanto ci avanzammo nella carriera
politica, che non più risponderebbe alla presente situazione delle
cose lo appello fatto ai provveditori delle Camere, e a pochi altri: in
quella vece si rende ora indispensabile, che dalle provincie toscane,
e in modo alquanto più largo della Romana Deputazione, sieno convocati
probi e savii cittadini, che a riformare le Comuni si adoperino
col Governo, e che innanzi di disciogliersi sappiano ottenere dalla
clemenza sovrana una forma di nazionale Deputazione, come istituzione
dello Stato, la quale concorra a coadiuvare il Governo, e valga
a sostenere gl'interessi del Popolo, vera ed unica base di nuovo
ordinamento politico dello Stato.»
Questa Rappresentanza, come al prelodato Marchese, sembrava anco
a me capace di salvare il Ministero dal popolare commovimento,
ponendosi fra Governo e Popolo: essa raccoglierebbe le speculazioni
degli scrittori politici, e dopo averle ponderate le presenterebbe
al Governo; riterrebbe il Popolo da seguitare dottrine diverse, e
varii capi, potendo riposare nei suoi Deputati; e finalmente, tra
gli eccellentissimi, ottimo il vantaggio che partorirebbe questa
istituzione: «guarentendo stabilmente il Popolo dagli abusi del potere;
non si potendo godere il bene della giustizia, se assicurata non sia
per lo avvenire: e come gli uomini, per buoni che sieno, mutabili
e mortali sono, così la continuata e salda guarentigia della opera
governativa non può venire dalle persone, ma deve essenzialmente
risiedere nelle instituzioni dello Stato.»[158]
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