Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 54
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bastare per giorni, e si può dire per ore, io e i miei ci riduciamo
nelle stanze del Prevosto. Qui mi si mostrava assiduo al fianco il
Capitano Galeotti, e volendolo io dispensare dall'ufficio, risponde
secco: «avere ordine di guardarmi a vista.» Finalmente prendiamo stanza
nello alloggio preparato. Il Capitano Galeotti domanda se avessi armi
addosso per risparmiarmi la visita su la persona! «Ma che sono io
arrestato?» gli domandai. «Tali non sono i patti.» Il Capitano risponde
secco: «avere i suoi ordini.» La mattina appresso volendo accostarmi
alla finestra per bere un sorso di aria pura, m'impongono ritirarmi; nè
stette molto, che alle quattro finestre ebbero messo le ferrate, poi
le tramoggie, poi le graticole, poi le ribalte guarnite di festoni di
tela, le quali calavano alle ore 24; sicchè mi parve essere diventato
proprio Giona in corpo alla balena. Se l'ardore del Sole schiantava le
tavole tanto che _un pelo di luce_ passasse, ecco di subito calafati e
falegnami, che penzoloni imbracati con corde inchiodavano, sverzavano,
ristoppavano la fessura: poi visita alle finestre due volte il giorno,
nè la rimanente casa restava imperquisita: nè basta ancora: guardie di
sotto, guardie di sopra e all'uscio, e per le scale; nessuno usciva;
fu dopo qualche giorno, non senza difficoltà, e non so se previa
visita personale, concesso dal Cavaliere Galeotti castellano al _cane_
di prendere aria pel Forte, ma legato. — Colà stemmo raccolti sei:
rappresentai la indecenza che le donne non potessero avere stanza
appartata. Credei che _a gentiluomini e a padri di famiglia dovesse
comparire sacra la ragione del pudore: non risposero_. Rappresentai il
modo disonesto del prendermi, che mi pareva nato a un parto con quello
tenuto dal Valentino a Sinigaglia per ammazzare Vitellozzo Vitelli,
Oliverotto da Fermo e compagni: _non risposero_. In cotesta dimora, che
di bellissima erano riusciti a rendere infernale, durammo giorni 44,
tranne un servo (anch'egli, poveretto! côlto al laccio), che, caduto
infermo di febbre, era trasportato per refrigerio al Carcere delle
Murate.
Fu tramutato di Arno in Bacchiglione!
Così sepolto vivo, ignaro affatto di quello che pel mondo accadeva,
mando il nepote al suo zio in Roma credendo sottrarlo al pericolo,
quando ad un tratto con profondo rammarico conosco averlo esposto a
pericolo maggiore. E se vi talentasse sapere quali pericoli il mio
nipote, qui nella sua Patria, corresse, ve lo dirò. Giovane di 15 anni,
un bel giorno mi significò volere ridursi in campo per fare il suo
ufficio nell'arme dell'artiglieria. Io per distornelo gli dissi, che se
voleva andare si scrivesse soldato. La età novella, il duro mestiere,
la qualità del semplice gregario, gli affetti domestici e i comodi
della casa, non valsero a trattenerlo; nè io, premendo il dolore, lo
trattenni. Il giovanotto dopo il 12 aprile dai proprii camerati fu
preso in abbominio; — uno gli sparò dietro lo archibugio! — Non vi pare
questa una turpissima azione, o Signori? — Ed ora egli naviga l'Oceano
fuggendo una terra così poco amica al suo sangue. Forse i miei occhi
non lo rivedranno più; ma la mia benedizione lo accompagnerà da per
tutto; — e la nepote, che uscita di convento per visitare lo Zio si
trovò ad accompagnarlo in prigione, anch'essa come grano di spelda vive
balestrata fuori della Patria sua... Oh! il primo passo che mosse per
la vita fu doloroso per lei, — e queste sono le sventure che dissi:
mano di uomo non può riparare, quella di Dio consolare soltanto.
Dopo 44 giorni, certa notte di maggio con misterioso terrore mi
strappano allo improvviso dalle braccia della mia nepote, e mi
trasportano al Carcere delle Murate; quinci la notte appresso pure mi
rimuovono, e mandano a Volterra: di là finalmente, nel novembre del
1849, mi tolgono e ricacciano dentro alle Murate, dove fino da quel
tempo giaccio sepolto.
Qui per _ammenda_, dopo lunga procedura, un giorno, armati fino ai
denti di tutte armi, e a me nudo affatto, e legato, quasi per ischerno,
di repente dicono: _Difenditi!_ Per _ammenda_, l'Accusa, esordita da
uno Zagri barattiere e prevenuto adesso di falsità, sopra le traccie
somministrate da lui di continuare non rifuggono. Per _ammenda_, i
Documenti della mia Amministrazione all'Accusa concedonsi, che ad uno
ad uno gli esamina e gli sceglie; a me poi l'Accusa, e i Giudici fino
ad ora li contendono.[750] Per _ammenda_, si trovano Giudici, che
scrivono avermi colto in _fragranti_! quando mi trovavo in Belvedere,
dove dimoravo sotto fede che alla mia libertà non si attentasse.
Per _ammenda_, i miei Giudici naturali e necessarii, trattandosi
d'imputazione relativa alla malleveria ministeriale, dove intervenne
perfino Decreto firmato dalla Corona, non mi consentono. Per _ammenda_,
immaginano non so quale delitto _continuo_ e _complesso_, per cui
mi troverei esposto a rispondere perfino dei fatti, che io stesso mi
credei in dovere reprimere. Per _ammenda_ novella, congiungono il mio
con non so quale altro, processo di Pistoia, dove, per quanto intendo,
si tratta di espilazione e di altre simili turpitudini. Per _ammenda_
(incredibile a dirsi se non fosse vero!), L'ACCUSA IL TESTIMONE
ZANNETTI RIFIUTA, IL TESTIMONE DIGNY CHIAMA A DEPORRE, — e questo parmì
che tocchi la cima di quello che può osare un'Accusa... — Certo io sono
vivo... la morte violenta di Oliverotto da Fermo, nè del Carmagnola, ho
sofferto. Il secolo e il paese civili queste immanità non consentono...
dal sangue aborriscono... i troppo delicati nervi se ne irritano. Lo
imputato si lascia per anni e anni nella trista compagnia dei suoi
pensieri angosciosi; gli si dà spazio infinito a contemplare la sua
famiglia distratta, la dissoluzione del suo corpo, la etisia della
sua intelligenza; gli si nega un sorso di aria pura. — Era barbarie,
ma barbarie grande, quella di levare dal mondo un uomo per morte
violenta: oggi la carità persuade restituirglielo, decorso spazio che
reputasi conveniente di tempo. — Andate, affrettatevi al carcere, amici
e parenti; l'ora venne per riscattare dalle mani di questa carità il
prigioniero; ricevetelo, amici e parenti; ella vi consegna — che cosa
mai? — un _matto_ o un _moribondo_.
XXXI.
Di una Sentenza della _Corte Speciale_ di Parma del 1831.
Come pei tragedi antichi si costuma mettere in fondo delle loro
tragedie il Coro, il quale veniva a raccontare agli uditori la
catastrofe di tutta la favola; così l'Accusa, sul finire del suo
Volume, stampa la Sentenza del Tribunale di Appello di Genova, del
24 luglio 1849. Dove poi io m'ingannassi, e non l'avesse posta per
disporre gli animi alla già immaginata catastrofe, in osservanza al
precetto della _Poetica_ di Orazio: _Segnius irritant animos demissa
per aures_, — potrebbe dubitarsi che l'Accusa lo avesse fatto per
dimostrare come in Piemonte si astenessero dallo iniziare Giudizio,
se prima non si erano bene accertati, che tutti i prevenuti si fossero
posti in salvo; mentre, all'opposto, in Toscana si sono bene accertati
prima di tenerli sottomano, quantunque, se qui fra noi religione di
patto e santità di fede valessero, quanto (e non domando troppo) una
volta valevano per le spiaggie di Algeri o di Salè, me e lo egregio
uomo Lionardo Romanelli non dovessero tenere. La sentenza finale
e capitale di Genova non ha fatto piangere nessuno; mentre per la
Procedura fiorentina già furono le famiglie disperse, le intelligenze
spente, ed altre che non vo' dire lacrimevoli sventure patite. Quando
il condannato a morte può andare a cena e a dormire col Giudice che lo
condannò, le sentenze danno materia di piacevolezze convivali;[751]
ma occhi non bastano per piangere le blandizie di queste carceri
_umanitarie_. Ormai, se male non mi appongo, dubito forte non abbia a
correre il detto: «meglio condanna capitale del Tribunale di Genova,
che assoluzione in Toscana;» però messo questo da parte, riporterò
ancora io una Sentenza per _Coro_ della mia _Apologia_, intorno alla
quale importa innanzi tratto avvertire com'essa fosse pronunziata
da _Tribunale Speciale_, e negli ardori di Rivoluzione pure ora
repressa; come tre mesi soli, e forse nè anche tanti, gl'imputati
avessero a travagliarsi nel carcere, nè uscendo da mangiare pane di
dolore si trovarono ormai per tutta la restante vita imbandito pane
di disperazione. Certo, io sento rispondermi dall'Accusa: «ora ad
affrettarti tocca a te; io per me sono lesta.» Oh! lo credo, che tu
sia lesta, e da tempo non piccolo; e forse ogni ora che passa ti par
mille anni di concludere: ma io ti ricordo le parole di Ugo Foscolo
al Direttore della Polizia del Cantone di Zurigo, e ti ammonisco che
se alla Difesa fossero stati consentiti gli Archivii, come furono
sbirciati da te, e se tu non avessi potuto ricusare lo esame del
Processo al mio Difensore fino oltre maggio passato, e così _due_ e più
anni dopo il mio arresto, potremmo avere veramente concluso. — Intanto,
se ti piace, leggi, o Accusa, la Sentenza di una CORTE SPECIALE.
«Parma, 7 luglio 1831. —
«La Commissione dichiara essere risultato dal dibattimento:
«Che una grave sedizione scoppiò in Parma nei giorni 13, 14 febbraio
prossimo passato, nella quale gran parte del Popolo prese le armi,
inalberato lo stendardo della Libertà ad esempio degl'insorti di
Reggio, Modena e Bologna, _e disarmò una porzione_ del reggimento di
S. M., ed _obbligò_ la M. S., che non volle consentire le domande dei
rivoltosi, ad abbandonare la sua residenza nella notte del 14 al 15
febbraio suddetto, trasferendosi a Casalmaggiore, donde per la via di
Cremona _si recò nella sua città di Piacenza_, ove pervenne il 18 dello
stesso mese;
«Che nel detto giorno 15 febbraio il _Potestà di Parma_ riunì il
Consiglio Comunitativo, il quale ampliato per l'aggiunta di 30
Cittadini, e su la _considerazione che gli Stati erano rimasti senza
Governo per lo allontanamento di S. M._, seguíta dal primo Magistrato
dello Stato S. E. il Presidente dello Interno, _senza che gli
constasse a malgrado delle fatte indagini, avere essa lasciato chi la
rappresentasse, nominò un Governo Provvisorio voluto dalla necessità,
onde evitare i mali dell'anarchia, da tenere luogo_ di quello che si
era allontanato, composto dei signori Conte Filippo Linati, Antonio
Casa, Conte Gregorio Ferdinando da Castagnolo, Conte Iacopo Sanvitale,
Cavaliere Francesco Malegari;
«Che cotesto Governo Provvisorio, al quale vennero aggiunti altri due
membri, nelle persone dei signori Macedonio Melloni ed Ermenegildo
Ortalli, con deliberazione di quel Consiglio Civico, _emanò molti
atti i quali sono certamente contrarii al governo di S. M., e che
secondavano la Rivoluzione avvenuta in Parma nei giorni indicati 13,
14 febbraio, a diversi dei quali atti sono concorsi ed hanno apposta
la loro firma gli accusati, Conte Filippo Linati e Cavaliere Malegari_,
escluso però il proclama agli abitanti della città e provincia di Parma
e Guastalla dell'8 marzo;
«Considerando ch'è pure eminentemente resultato dal dibattimento
dall'una parte, che tale era la _effervescenza, e sì violento il
moto rivoluzionario in Parma, che non era più in potere di alcuno
resistervi_, che esso non poteva essere vinto o compresso se non se
da una imponente forza straniera, e che _sarebbe stato per avventura
pericoloso (senza d'altronde alcun vantaggio alla buona causa) il
ritirarsi dal Governo Provvisorio_, siccome si potrebbe inferire da
ciò che accadde il 10 marzo, imperciocchè su la voce che si sparse di
una vicina invasione austriaca essendosi quel Governo dimesso, alcuni
membri vennero arrestati e tenuti prigioni; e dall'altra, che essi
signori Conte Linati e Conte Malegari accettarono _con repugnanza
l'affidato incarico_ di membri del Governo Provvisorio, e a condizione,
_che le cose rimanessero nello stato in cui si trovavano_, e che appena
seppero la nomina del signor Melloni su mentovato vollero dimettersi,
_se non che furono istantemente pregati dai buoni e fedeli sudditi di
S. M. a restare in carica, onde gl'interessi del Pubblico, che sono poi
quelli dell'ottima nostra Sovrana, non pericolassero_;
«Che eglino oltre di essere persone di riconosciuta _probità
ed onoratezza_ hanno manifestato, anche durante la Rivoluzione,
_sentimenti di attaccamento e di devozione a S. M._; che in particolare
il Conte Linati _si prese ogni cura per la conservazione delle cose
proprie della prefata M. S. lasciate in Parma_;
«Che disapprovarono gli ostaggi fatti dal Popolo in seguito dello
avvenimento di Firenzuola, e s'interessarono per la loro liberazione;
«_Che con la loro fermezza poterono qualche volta frenare la foga di
qualche loro collega, e che si opposero costantemente a troppo ardite
domande allo estremo offensive alla Maestà del Trono, sicchè essi erano
venuti in odio agli esaltati, e fu più volte cancellato il nome loro
negli affissi al Pubblico, ed in particolare il Cavaliere Malegari era
stato trattato di spia e di traditore_;
«Che lo stesso Cavaliere Malegari fu inteso disapprovare altamente la
Prolusione del Professore Melloni suddetto, e dire, che il Governo di
S. M. era stato indulgente verso di lui; che durante la Rivoluzione
consigliò il sacerdote Bichieri ad aspettare il ritorno di S. M. per
pagare un suo debito verso il Tesoro, e che non volle fosse ammesso al
giuramento il notaro Begani per correre pericolo che fosse cambiata la
formula del giuramento, e che fece alcun tentativo per ricondurre Parma
alla sommissione di S. M.;
«Dal che tutto, si deve considerare, che la reità degli accusati Conte
Linati e Cavaliere Malegari, per essere concorsi o avere apposta la
loro firma in qualità di membri del Governo Provvisorio a diversi atti
su menzionati, non fu che apparente, e che essi assunsero e tennero
il carico di membri di quel Governo _senza dolo nè ree intenzioni, ma
cedendo alla forza irresistibile delle circostanze, e col proposito di
far sì, che la condizione delle cose fosse la meno triste per la loro
parte_;
«In conseguenza di che, la Commissione proscioglie il Conte Filippo
Linati, e Cavaliere Francesco Malegari, e ordina che i medesimi sieno
posti in libertà ove non sieno ritenuti per altre cause.
«_Sottoscritti_: Rossi. — Bertolini. — Cortesi. — Parolini. — Della
Valle. — Vincenzi.»
Così giudicano gli uomini virtuosi, i quali, prima di entrare nel
Tribunale a scrivere sentenze, non si fermano sopra la soglia per
vedere da che parte corrano i nugoli, onde regolarsi nei _Motivi,
Attesochè_, o _Considerando_ che si vogliano chiamare; ed in Toscana
ancora, un Senatore, il quale dovrebbe giudicarmi (e tu considera,
Lettore, quanto i conforti del Regio Procuratore Generale presso la
Corte di Cassazione, per farmi stare contento a Tribunale che non
sia quello del Senato, possano persuadermi), antico di esperienza e
di dottrina, dettando uno scritto intorno alla vita del Prof. Pietro
Obici, allorchè viene a favellare dei moti modanesi del 1831, di cui
l'Obici fece parte, così gravemente si esprime: «Invitato l'Obici a
far parte dello Stato Maggiore, agevolmente ne vide il pericolo; ma
non credè possibile o conveniente almeno il rifiuto. — E qui ricorrono
le dottrine sostenute con tanto zelo e tanta eloquenza da Lally
Tolendal nella sua _Difesa degli Emigrati Francesi_. Negli avvolgimenti
politici dee distinguersi la situazione dell'individuo, e considerare
le cagioni, o per dir meglio le strettezze che lo spingono a volgersi
all'una o all'altra parte. Il più delle volte la scelta non dipende dal
volere, ma dalla necessità.»[752]
Però facendomi a ponderare sopra la Sentenza della Corte Speciale
di Parma, e confrontandola alle proposizioni della Accusa toscana,
meritano avvertimento grandissimo i fatti sopra i quali venne
profferita. Maria Luisa, armata mano, era costretta colla fuga a
salvarsi. Maria Luisa, come quella che reggeva assoluta quando rimase
sola, o in compagnia di Ministri, in una parte qualunque dei suoi
Stati, non può dirsi averne derelitto il Governo, e nondimeno la
necessità del Governo Provvisorio fu ritenuta. La Duchessa cacciata
con violenza alla fuga, non ebbe abilità di lasciare un Governo;
tuttavolta la necessità del Governo Provvisorio non era contrastata.
A Parma bastò per la elezione legale del Governo Provvisorio il solo
consenso del Municipio. Atti si commisero contrarii veramente alla
Duchessa, e secondanti la Rivoluzione in nome del Collegio del Governo
Provvisorio; nonostante questo i Giudici parmensi si astennero dalla
bestemmia ereticale d'immaginare un delitto _continuo_ e _complesso_,
che mette dentro una caldaja a bollire insieme Romani e Cartaginesi,
Giudei e Sammaritani, Angioli e Demonii, e fatto un impasto infernale
pretendere che uno debba rispondere delle azioni dell'altro. La
pressura generale che nasce dal tempo e dalle tendenze degli uomini si
apprezza, e si ritiene sufficiente così a muovere come a giustificare
il contegno di uomini politici. Il timore probabile di danno futuro
si dichiara motivo bastevole a costringere, e la preghiera degli
onesti per assumere o durare nel maestrale. La probità dell'uomo, le
condizioni della vita, lo attaccamento dimostrato anche da fugaci detti
o da lievi fatti, si valutano per iscusare. Lo studio che gl'interessi
del Pubblico non sinistrassero, i quali (ottimamente si nota) sono, a
fine di conto, quelli del Sovrano, si considera causa onorevole a non
disertare gli ufficii supremi nel giorno del pericolo. Si pregia la
cura di conservare le cose appartenenti alla Duchessa; la volontà di
dimettersi anche dopo la invasione straniera valutasi; la tutela e la
difesa dei cittadini valutasi; la industria spesa a frenare _qualche
volta_ la foga di _qualche_ collega valutasi; tutto quanto insomma
dai Giudici toscani del 1850 e 1851 si disprezza, e si tiene a vile
appo i Giudici parmensi nel 1831, si accoglie e si stima per rimandare
assoluto il Conte Linati. Pel Cavaliere Malegari si contentarono ancora
di meno, e gli ottennero assoluzione l'essersi opposto a domande troppo
ardite, essere venuto in sospetto dei Rivoluzionarii, la disapprovata
Prolusione del Professore Melloni, il conforto a non pagare un debito,
la dissuasione a non prestare un giuramento. — Tanto alla coscienza
dei Giudici parmensi del 1831 bastò per assolvere e rispettare: troppo
maggiori cose, riscontri bene altramente gravi e copiosi ai Giudici
toscani del 1850 e 1851 hanno somministrato argomento per _accusare e
insultare_!
Sono venuto al termine di questa opera condotta fra mortale tedio del
carcere, difficoltà di ogni aiuto, deficienza di cose maggiormente
necessarie, travagli infiniti e amaritudini ineffabili; e nondimeno
me ne separo con tristezza: perchè il fastidio, che a poco a poco
intirizzisce l'anima, fa che si ponga amore agli oggetti più miseri;
ma ormai vada a trovare sua ventura _fra magnanimi pochi a chi 'l
ben piace_. Però io non posso concludere, nè debbo, senza richiamare
l'attenzione del mondo civile sopra due punti principali. Incominciando
io dalla parte con la quale termino, avrei dovuto dire: — 1º sorta
la necessità del Governo Provvisorio, gli atti che operai per la
salute pubblica, a giudizio dei Savii universale, vanno immuni dal
titolo di _lesa maestà_; ed è soltanto in offesa manifesta delle
dottrine comunemente accettate, che i Giudici hanno loro attribuito un
carattere, che non hanno e non possono avere: 2º per patto espresso
non si poteva attentare alla mia libertà, perocchè la mia prigionia
desuma la sua origine dal tradimento; e se i Partiti scapigliati sono
capaci di queste e di bene altre ignominie, un Governo regolare non può
per religione, per fede e per dignità, giovarsene; ma sì all'opposto
conviene che quanto in suo nome fu promesso, procuri che lealmente e
dirittamente si mantenga.
Io ho voluto riserbare queste ragioni per ultimo, non parendo dicevole
alla integrità mia opporre eccezioni perentorie; adesso poi che di
punto in punto, se pure io non m'inganno, sono venuto giustificandomi,
non mi pare vergogna valermene, e me ne valgo. Mantenete il patto. La
Italia ricorda un'altra capitolazione tradita, e ancora Inghilterra
la rammenta; imperciocchè, se mai favellando di Nelson ammiraglio tu
pronunzii il nome di Trafalgar, non vi sia Inglese di cui gli occhi non
balenino di nobile orgoglio; ma dove ti venisse fatto susurrare quello
di Napoli, non troverai Inglese che non abbassi al suolo sbigottito la
faccia.[753]
E in questa parte io volli riserbare eziandio a far conoscere, quale
sia stato il palpito ultimo della mia vita al Potere, che io tenni, e
me ne onoro, da cittadino e da cristiano. Nel giorno 12 aprile alle ore
8 e m. 57 antim., per via telegrafica, mandava:
«Al Governatore di Livorno.
«Nei dolorosi casi avvenuti ieri in Firenze, non si ha a vedere altro
che la insidia dei nostri eterni nemici. Livornesi e Fiorentini,
entrambi traditi, hanno apprestato spettacolo gradito a costoro. I
Livornesi sieno generosi, con l'esempio dimostrino che non furono
rettamente giudicati, e si apparecchino a difendere la Patria che essi
amano tanto. Pubblica se credi.
«F. D. GUERRAZZI.»
E Manganaro, amico degno della Patria e di me, rispondeva:
«Al Potere Esecutivo.
«La Città è tranquilla nè si pensa da alcuno, per ora, di recarsi a
Firenze; anzi si sta redigendo un Indirizzo di pace ai Fiorentini che
sarà firmato da molti.»
Così, mentre altri squassava con vigore estremo di braccia l'Albero
della Discordia, e ne faceva cadere su la terra i frutti dell'odio, io,
improvvido di tradimento, attendevo a insinuare nelle anime inacerbite
sensi di magnanimità e di perdono, ed anche vi riuscivo: — e come il
perdono fu il palpito ultimo della mia vita al Potere, così prego Dio
onde mi mandi virtù che mi basti a fare sì, che la parola la quale
ultima verrà profferita dalle mie labbra mortali sia: _perdono a quelli
che mi hanno tanto atrocemente lacerato_!
FINE DELL'APOLOGIA.
APPENDICE.
A
VII. Tumulti quando incominciassero. — Pag. 37.
«_Il Consiglio_, — non obliando la miserabile condizione
nella quale, per effetto dei mutamenti politici, era caduta
la Toscana, — _deliberava unanime questa dichiarazione di
fiducia, formulandola così_: «Siamo grati agli espedienti che il
Governo si affrettò di adottare.» — _Non era anche venuta l'ora
dell'ingratitudine_!»
Con quali intenzioni il signor Guerrazzi salisse al Ministero, e
perdurasse in quello, si ricava dalle seguenti lettere, di cui le prime
due dirette al cavaliere Niccolò Puccini; la terza ad egregia Donna
lucchese, che il Prefetto di Lucca prima di rimettere fece copiare, e
in copia conservò; l'ultima confidenziale al prelodato signor Prefetto.
«Amico.
«Tu molte cose hai indovinato: altre no. La troppa acutezza sfonda
il foglio. Io quando scherzo ragiono come te; ma in questo mi sento
superiore a te: che credo in più e migliori cose, come, a modo di
esempio, nella capacità del Popolo a diventare superiore a quelli
che lo hanno superato. Mi raccomandi giustizia; io ti assicuro che il
tuo amico mostrerà sempre giustizia e generosità. Scusami la brevità.
Tu se' discreto, e pensa che non istò in prigione per avere tempo di
scrivere a lungo. Addio.
«Firenze, 27 ottobre 1848.
«Affez.mo F.-D. GUERRAZZI.
«Al Cittadino Niccolò Puccini. — Pistoia.»
«Amico Carissimo.
Sai tu? le lettere mie saranno brevi, in istile di XII Tavole. — Per
ora fo bene? Tu gridi: bravo Cecco! — Perchè dai di occhio ai tuoi
poderi; e finchè faccio gli affari vostri, io vo d'incanto. Sta benone.
Il Ministero _canaglia_ non parti che ritenga del gentiluomo più che
non credevano? Lasciamo gli scherzi, frutto fuori di stagione. Io vado
innanzi secondo la mia coscienza, che, comunque inasprita, _fu sempre
onesta e buona_. Se io non potrò dire come Pericle sul termine della
vita, cioè: non avere mai offeso nessuno; spero potrò affermare non
averlo offeso senza giustizia. E sta sano, mandandomi _democratici_
deputati, — se più tardi non li volete avere _escamisados_.
«Firenze, 16 novembre 1848.
«Affez.mo F.-D. GUERRAZZI.
«All'Ill.mo signore C. Niccolò Puccini.»
«Signora.
«Tre cose voleva Del Re, e le ha ottenute:
«Si mutasse in parte lo Stato maggiore della Civica. — Io lo aveva
già mutato tutto, ponendone a capo Lelio Guinigi con moltissimi
rispettabili e amati cittadini.
«Si comprimessero le Fazioni. — Io comprimerò qualunque Partito
inesorabilmente, — _Bigionisti e Riformisti_, e lo vedrà.
«Si procurasse il bene di Lucca. — Lucca è carissima nostra sorella,
e non abbiamo mai confusi i buoni Lucchesi _con i pochi faziosi,
Bigionisti_, che fanno chiasso e lo perchè non sanno; _Riformisti_, che
si agitano per avere impieghi che non avranno mai. — Pace, concordia e
giustizia internamente, gloria italiana fuori. — Credo la Deputazione
sia rimasta contenta: forse qualche individuo della medesima no: che ne
pensate voi?
«Firenze, 3 del 49.
«Aff.mo A.o GUERRAZZI.»
«Signor Prefetto di Lucca.
«A. C.
«Desidero vedervi presto: venite più presto che potete; superata la
prima prova, il Ministero ha speranza _di salvare anche quelli che
l'odiano_. Non sono quello che fui; non dirò che morì gran parte di
me; ma se posso, _voglio costringere i nemici, se non ad amarmi, ch'è
impossibil cosa, almeno a rendermi giustizia_. Addio.
«10 gennaio 1849.
«GUERRAZZI.»
B
VIII. Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a
chiarire le sofferte ingiurie per parte della Polizia. — Pag. 75.
«_Questo Partito.... da me ardiva pretendere un atto di
contrizione delle colpe commesse, poi si contentava di_ un atto
di fede, _che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni
tempo la mia futura condotta.... Intanto il Governo, liberati i
compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato
non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole
riparazione_.»
Delle trattative intorno a tale argomento, degli artifizii del Partito
avverso, delle premure degli amici, onde il signor Guerrazzi uscisse
finalmente del carcere, porgono testimonianza diversi Documenti, dei
quali basteranno al lettore le due Lettere che qui riportiamo.
«Amico Carissimo.
«Avrei desiderato ricevere altre lettere da te, per aver notizie di
tua salute. — Sento, è vero, con piacere, che sei sano, grazie alla tua
coscienza e filosofia; ma ben sai che i caratteri di un amico sono cari
agli occhi, e più al cuore.
«Ogni giorno si dice che vieni: pure io dubito, che il tuo ritorno
possa ritardare ancora. Corre voce, che qui vogliano accoglierti con
festa, e mi dispiace, perchè così facendo si potrebbe forse recare
danno alla città ed a te. — Io dico a tutti coloro che si chiamano
amici tuoi, che si astengano da qualunque dimostrazione clamorosa, e
ti lascino, per così dire, passare inosservato; ma non sono essi che
bisogna trattenere; è la plebe, e con quella mal si ragiona. — Credo
che non mi porrai nel numero dei soffocatori, ma dei prudenti; perchè
mentre faccio a tutti tale raccomandazione per amore della patria
e dell'amico, non saprei mai impedirti di procurarti una decorosa
e legale giustificazione; e so che non sei capace di cercarne una
diversa. È giusto che si conosca chi ha errato; ma ciò deve farlo la
legge, e non gli esaltati, ai quali potrebbero unirsi i tristi, che pur
troppo devono esservi fra noi. — Ora
Le leggi sono, e ognun pon mano ad esse.
«Se qualche volta ti ho consigliato, ho sempre avuto in mira l'utile
tuo; e la lunga amicizia che esiste fra noi ti è pegno sicuro.
Nell'attuale stato di cose, stimerei ben fatto, quando sarai per
tornare, che con tacito permesso superiore, che credo non ti sarebbe
negato, ti facessi precedere da un avviso, pregando, anzi intimando
nelle stanze del Prevosto. Qui mi si mostrava assiduo al fianco il
Capitano Galeotti, e volendolo io dispensare dall'ufficio, risponde
secco: «avere ordine di guardarmi a vista.» Finalmente prendiamo stanza
nello alloggio preparato. Il Capitano Galeotti domanda se avessi armi
addosso per risparmiarmi la visita su la persona! «Ma che sono io
arrestato?» gli domandai. «Tali non sono i patti.» Il Capitano risponde
secco: «avere i suoi ordini.» La mattina appresso volendo accostarmi
alla finestra per bere un sorso di aria pura, m'impongono ritirarmi; nè
stette molto, che alle quattro finestre ebbero messo le ferrate, poi
le tramoggie, poi le graticole, poi le ribalte guarnite di festoni di
tela, le quali calavano alle ore 24; sicchè mi parve essere diventato
proprio Giona in corpo alla balena. Se l'ardore del Sole schiantava le
tavole tanto che _un pelo di luce_ passasse, ecco di subito calafati e
falegnami, che penzoloni imbracati con corde inchiodavano, sverzavano,
ristoppavano la fessura: poi visita alle finestre due volte il giorno,
nè la rimanente casa restava imperquisita: nè basta ancora: guardie di
sotto, guardie di sopra e all'uscio, e per le scale; nessuno usciva;
fu dopo qualche giorno, non senza difficoltà, e non so se previa
visita personale, concesso dal Cavaliere Galeotti castellano al _cane_
di prendere aria pel Forte, ma legato. — Colà stemmo raccolti sei:
rappresentai la indecenza che le donne non potessero avere stanza
appartata. Credei che _a gentiluomini e a padri di famiglia dovesse
comparire sacra la ragione del pudore: non risposero_. Rappresentai il
modo disonesto del prendermi, che mi pareva nato a un parto con quello
tenuto dal Valentino a Sinigaglia per ammazzare Vitellozzo Vitelli,
Oliverotto da Fermo e compagni: _non risposero_. In cotesta dimora, che
di bellissima erano riusciti a rendere infernale, durammo giorni 44,
tranne un servo (anch'egli, poveretto! côlto al laccio), che, caduto
infermo di febbre, era trasportato per refrigerio al Carcere delle
Murate.
Fu tramutato di Arno in Bacchiglione!
Così sepolto vivo, ignaro affatto di quello che pel mondo accadeva,
mando il nepote al suo zio in Roma credendo sottrarlo al pericolo,
quando ad un tratto con profondo rammarico conosco averlo esposto a
pericolo maggiore. E se vi talentasse sapere quali pericoli il mio
nipote, qui nella sua Patria, corresse, ve lo dirò. Giovane di 15 anni,
un bel giorno mi significò volere ridursi in campo per fare il suo
ufficio nell'arme dell'artiglieria. Io per distornelo gli dissi, che se
voleva andare si scrivesse soldato. La età novella, il duro mestiere,
la qualità del semplice gregario, gli affetti domestici e i comodi
della casa, non valsero a trattenerlo; nè io, premendo il dolore, lo
trattenni. Il giovanotto dopo il 12 aprile dai proprii camerati fu
preso in abbominio; — uno gli sparò dietro lo archibugio! — Non vi pare
questa una turpissima azione, o Signori? — Ed ora egli naviga l'Oceano
fuggendo una terra così poco amica al suo sangue. Forse i miei occhi
non lo rivedranno più; ma la mia benedizione lo accompagnerà da per
tutto; — e la nepote, che uscita di convento per visitare lo Zio si
trovò ad accompagnarlo in prigione, anch'essa come grano di spelda vive
balestrata fuori della Patria sua... Oh! il primo passo che mosse per
la vita fu doloroso per lei, — e queste sono le sventure che dissi:
mano di uomo non può riparare, quella di Dio consolare soltanto.
Dopo 44 giorni, certa notte di maggio con misterioso terrore mi
strappano allo improvviso dalle braccia della mia nepote, e mi
trasportano al Carcere delle Murate; quinci la notte appresso pure mi
rimuovono, e mandano a Volterra: di là finalmente, nel novembre del
1849, mi tolgono e ricacciano dentro alle Murate, dove fino da quel
tempo giaccio sepolto.
Qui per _ammenda_, dopo lunga procedura, un giorno, armati fino ai
denti di tutte armi, e a me nudo affatto, e legato, quasi per ischerno,
di repente dicono: _Difenditi!_ Per _ammenda_, l'Accusa, esordita da
uno Zagri barattiere e prevenuto adesso di falsità, sopra le traccie
somministrate da lui di continuare non rifuggono. Per _ammenda_, i
Documenti della mia Amministrazione all'Accusa concedonsi, che ad uno
ad uno gli esamina e gli sceglie; a me poi l'Accusa, e i Giudici fino
ad ora li contendono.[750] Per _ammenda_, si trovano Giudici, che
scrivono avermi colto in _fragranti_! quando mi trovavo in Belvedere,
dove dimoravo sotto fede che alla mia libertà non si attentasse.
Per _ammenda_, i miei Giudici naturali e necessarii, trattandosi
d'imputazione relativa alla malleveria ministeriale, dove intervenne
perfino Decreto firmato dalla Corona, non mi consentono. Per _ammenda_,
immaginano non so quale delitto _continuo_ e _complesso_, per cui
mi troverei esposto a rispondere perfino dei fatti, che io stesso mi
credei in dovere reprimere. Per _ammenda_ novella, congiungono il mio
con non so quale altro, processo di Pistoia, dove, per quanto intendo,
si tratta di espilazione e di altre simili turpitudini. Per _ammenda_
(incredibile a dirsi se non fosse vero!), L'ACCUSA IL TESTIMONE
ZANNETTI RIFIUTA, IL TESTIMONE DIGNY CHIAMA A DEPORRE, — e questo parmì
che tocchi la cima di quello che può osare un'Accusa... — Certo io sono
vivo... la morte violenta di Oliverotto da Fermo, nè del Carmagnola, ho
sofferto. Il secolo e il paese civili queste immanità non consentono...
dal sangue aborriscono... i troppo delicati nervi se ne irritano. Lo
imputato si lascia per anni e anni nella trista compagnia dei suoi
pensieri angosciosi; gli si dà spazio infinito a contemplare la sua
famiglia distratta, la dissoluzione del suo corpo, la etisia della
sua intelligenza; gli si nega un sorso di aria pura. — Era barbarie,
ma barbarie grande, quella di levare dal mondo un uomo per morte
violenta: oggi la carità persuade restituirglielo, decorso spazio che
reputasi conveniente di tempo. — Andate, affrettatevi al carcere, amici
e parenti; l'ora venne per riscattare dalle mani di questa carità il
prigioniero; ricevetelo, amici e parenti; ella vi consegna — che cosa
mai? — un _matto_ o un _moribondo_.
XXXI.
Di una Sentenza della _Corte Speciale_ di Parma del 1831.
Come pei tragedi antichi si costuma mettere in fondo delle loro
tragedie il Coro, il quale veniva a raccontare agli uditori la
catastrofe di tutta la favola; così l'Accusa, sul finire del suo
Volume, stampa la Sentenza del Tribunale di Appello di Genova, del
24 luglio 1849. Dove poi io m'ingannassi, e non l'avesse posta per
disporre gli animi alla già immaginata catastrofe, in osservanza al
precetto della _Poetica_ di Orazio: _Segnius irritant animos demissa
per aures_, — potrebbe dubitarsi che l'Accusa lo avesse fatto per
dimostrare come in Piemonte si astenessero dallo iniziare Giudizio,
se prima non si erano bene accertati, che tutti i prevenuti si fossero
posti in salvo; mentre, all'opposto, in Toscana si sono bene accertati
prima di tenerli sottomano, quantunque, se qui fra noi religione di
patto e santità di fede valessero, quanto (e non domando troppo) una
volta valevano per le spiaggie di Algeri o di Salè, me e lo egregio
uomo Lionardo Romanelli non dovessero tenere. La sentenza finale
e capitale di Genova non ha fatto piangere nessuno; mentre per la
Procedura fiorentina già furono le famiglie disperse, le intelligenze
spente, ed altre che non vo' dire lacrimevoli sventure patite. Quando
il condannato a morte può andare a cena e a dormire col Giudice che lo
condannò, le sentenze danno materia di piacevolezze convivali;[751]
ma occhi non bastano per piangere le blandizie di queste carceri
_umanitarie_. Ormai, se male non mi appongo, dubito forte non abbia a
correre il detto: «meglio condanna capitale del Tribunale di Genova,
che assoluzione in Toscana;» però messo questo da parte, riporterò
ancora io una Sentenza per _Coro_ della mia _Apologia_, intorno alla
quale importa innanzi tratto avvertire com'essa fosse pronunziata
da _Tribunale Speciale_, e negli ardori di Rivoluzione pure ora
repressa; come tre mesi soli, e forse nè anche tanti, gl'imputati
avessero a travagliarsi nel carcere, nè uscendo da mangiare pane di
dolore si trovarono ormai per tutta la restante vita imbandito pane
di disperazione. Certo, io sento rispondermi dall'Accusa: «ora ad
affrettarti tocca a te; io per me sono lesta.» Oh! lo credo, che tu
sia lesta, e da tempo non piccolo; e forse ogni ora che passa ti par
mille anni di concludere: ma io ti ricordo le parole di Ugo Foscolo
al Direttore della Polizia del Cantone di Zurigo, e ti ammonisco che
se alla Difesa fossero stati consentiti gli Archivii, come furono
sbirciati da te, e se tu non avessi potuto ricusare lo esame del
Processo al mio Difensore fino oltre maggio passato, e così _due_ e più
anni dopo il mio arresto, potremmo avere veramente concluso. — Intanto,
se ti piace, leggi, o Accusa, la Sentenza di una CORTE SPECIALE.
«Parma, 7 luglio 1831. —
«La Commissione dichiara essere risultato dal dibattimento:
«Che una grave sedizione scoppiò in Parma nei giorni 13, 14 febbraio
prossimo passato, nella quale gran parte del Popolo prese le armi,
inalberato lo stendardo della Libertà ad esempio degl'insorti di
Reggio, Modena e Bologna, _e disarmò una porzione_ del reggimento di
S. M., ed _obbligò_ la M. S., che non volle consentire le domande dei
rivoltosi, ad abbandonare la sua residenza nella notte del 14 al 15
febbraio suddetto, trasferendosi a Casalmaggiore, donde per la via di
Cremona _si recò nella sua città di Piacenza_, ove pervenne il 18 dello
stesso mese;
«Che nel detto giorno 15 febbraio il _Potestà di Parma_ riunì il
Consiglio Comunitativo, il quale ampliato per l'aggiunta di 30
Cittadini, e su la _considerazione che gli Stati erano rimasti senza
Governo per lo allontanamento di S. M._, seguíta dal primo Magistrato
dello Stato S. E. il Presidente dello Interno, _senza che gli
constasse a malgrado delle fatte indagini, avere essa lasciato chi la
rappresentasse, nominò un Governo Provvisorio voluto dalla necessità,
onde evitare i mali dell'anarchia, da tenere luogo_ di quello che si
era allontanato, composto dei signori Conte Filippo Linati, Antonio
Casa, Conte Gregorio Ferdinando da Castagnolo, Conte Iacopo Sanvitale,
Cavaliere Francesco Malegari;
«Che cotesto Governo Provvisorio, al quale vennero aggiunti altri due
membri, nelle persone dei signori Macedonio Melloni ed Ermenegildo
Ortalli, con deliberazione di quel Consiglio Civico, _emanò molti
atti i quali sono certamente contrarii al governo di S. M., e che
secondavano la Rivoluzione avvenuta in Parma nei giorni indicati 13,
14 febbraio, a diversi dei quali atti sono concorsi ed hanno apposta
la loro firma gli accusati, Conte Filippo Linati e Cavaliere Malegari_,
escluso però il proclama agli abitanti della città e provincia di Parma
e Guastalla dell'8 marzo;
«Considerando ch'è pure eminentemente resultato dal dibattimento
dall'una parte, che tale era la _effervescenza, e sì violento il
moto rivoluzionario in Parma, che non era più in potere di alcuno
resistervi_, che esso non poteva essere vinto o compresso se non se
da una imponente forza straniera, e che _sarebbe stato per avventura
pericoloso (senza d'altronde alcun vantaggio alla buona causa) il
ritirarsi dal Governo Provvisorio_, siccome si potrebbe inferire da
ciò che accadde il 10 marzo, imperciocchè su la voce che si sparse di
una vicina invasione austriaca essendosi quel Governo dimesso, alcuni
membri vennero arrestati e tenuti prigioni; e dall'altra, che essi
signori Conte Linati e Conte Malegari accettarono _con repugnanza
l'affidato incarico_ di membri del Governo Provvisorio, e a condizione,
_che le cose rimanessero nello stato in cui si trovavano_, e che appena
seppero la nomina del signor Melloni su mentovato vollero dimettersi,
_se non che furono istantemente pregati dai buoni e fedeli sudditi di
S. M. a restare in carica, onde gl'interessi del Pubblico, che sono poi
quelli dell'ottima nostra Sovrana, non pericolassero_;
«Che eglino oltre di essere persone di riconosciuta _probità
ed onoratezza_ hanno manifestato, anche durante la Rivoluzione,
_sentimenti di attaccamento e di devozione a S. M._; che in particolare
il Conte Linati _si prese ogni cura per la conservazione delle cose
proprie della prefata M. S. lasciate in Parma_;
«Che disapprovarono gli ostaggi fatti dal Popolo in seguito dello
avvenimento di Firenzuola, e s'interessarono per la loro liberazione;
«_Che con la loro fermezza poterono qualche volta frenare la foga di
qualche loro collega, e che si opposero costantemente a troppo ardite
domande allo estremo offensive alla Maestà del Trono, sicchè essi erano
venuti in odio agli esaltati, e fu più volte cancellato il nome loro
negli affissi al Pubblico, ed in particolare il Cavaliere Malegari era
stato trattato di spia e di traditore_;
«Che lo stesso Cavaliere Malegari fu inteso disapprovare altamente la
Prolusione del Professore Melloni suddetto, e dire, che il Governo di
S. M. era stato indulgente verso di lui; che durante la Rivoluzione
consigliò il sacerdote Bichieri ad aspettare il ritorno di S. M. per
pagare un suo debito verso il Tesoro, e che non volle fosse ammesso al
giuramento il notaro Begani per correre pericolo che fosse cambiata la
formula del giuramento, e che fece alcun tentativo per ricondurre Parma
alla sommissione di S. M.;
«Dal che tutto, si deve considerare, che la reità degli accusati Conte
Linati e Cavaliere Malegari, per essere concorsi o avere apposta la
loro firma in qualità di membri del Governo Provvisorio a diversi atti
su menzionati, non fu che apparente, e che essi assunsero e tennero
il carico di membri di quel Governo _senza dolo nè ree intenzioni, ma
cedendo alla forza irresistibile delle circostanze, e col proposito di
far sì, che la condizione delle cose fosse la meno triste per la loro
parte_;
«In conseguenza di che, la Commissione proscioglie il Conte Filippo
Linati, e Cavaliere Francesco Malegari, e ordina che i medesimi sieno
posti in libertà ove non sieno ritenuti per altre cause.
«_Sottoscritti_: Rossi. — Bertolini. — Cortesi. — Parolini. — Della
Valle. — Vincenzi.»
Così giudicano gli uomini virtuosi, i quali, prima di entrare nel
Tribunale a scrivere sentenze, non si fermano sopra la soglia per
vedere da che parte corrano i nugoli, onde regolarsi nei _Motivi,
Attesochè_, o _Considerando_ che si vogliano chiamare; ed in Toscana
ancora, un Senatore, il quale dovrebbe giudicarmi (e tu considera,
Lettore, quanto i conforti del Regio Procuratore Generale presso la
Corte di Cassazione, per farmi stare contento a Tribunale che non
sia quello del Senato, possano persuadermi), antico di esperienza e
di dottrina, dettando uno scritto intorno alla vita del Prof. Pietro
Obici, allorchè viene a favellare dei moti modanesi del 1831, di cui
l'Obici fece parte, così gravemente si esprime: «Invitato l'Obici a
far parte dello Stato Maggiore, agevolmente ne vide il pericolo; ma
non credè possibile o conveniente almeno il rifiuto. — E qui ricorrono
le dottrine sostenute con tanto zelo e tanta eloquenza da Lally
Tolendal nella sua _Difesa degli Emigrati Francesi_. Negli avvolgimenti
politici dee distinguersi la situazione dell'individuo, e considerare
le cagioni, o per dir meglio le strettezze che lo spingono a volgersi
all'una o all'altra parte. Il più delle volte la scelta non dipende dal
volere, ma dalla necessità.»[752]
Però facendomi a ponderare sopra la Sentenza della Corte Speciale
di Parma, e confrontandola alle proposizioni della Accusa toscana,
meritano avvertimento grandissimo i fatti sopra i quali venne
profferita. Maria Luisa, armata mano, era costretta colla fuga a
salvarsi. Maria Luisa, come quella che reggeva assoluta quando rimase
sola, o in compagnia di Ministri, in una parte qualunque dei suoi
Stati, non può dirsi averne derelitto il Governo, e nondimeno la
necessità del Governo Provvisorio fu ritenuta. La Duchessa cacciata
con violenza alla fuga, non ebbe abilità di lasciare un Governo;
tuttavolta la necessità del Governo Provvisorio non era contrastata.
A Parma bastò per la elezione legale del Governo Provvisorio il solo
consenso del Municipio. Atti si commisero contrarii veramente alla
Duchessa, e secondanti la Rivoluzione in nome del Collegio del Governo
Provvisorio; nonostante questo i Giudici parmensi si astennero dalla
bestemmia ereticale d'immaginare un delitto _continuo_ e _complesso_,
che mette dentro una caldaja a bollire insieme Romani e Cartaginesi,
Giudei e Sammaritani, Angioli e Demonii, e fatto un impasto infernale
pretendere che uno debba rispondere delle azioni dell'altro. La
pressura generale che nasce dal tempo e dalle tendenze degli uomini si
apprezza, e si ritiene sufficiente così a muovere come a giustificare
il contegno di uomini politici. Il timore probabile di danno futuro
si dichiara motivo bastevole a costringere, e la preghiera degli
onesti per assumere o durare nel maestrale. La probità dell'uomo, le
condizioni della vita, lo attaccamento dimostrato anche da fugaci detti
o da lievi fatti, si valutano per iscusare. Lo studio che gl'interessi
del Pubblico non sinistrassero, i quali (ottimamente si nota) sono, a
fine di conto, quelli del Sovrano, si considera causa onorevole a non
disertare gli ufficii supremi nel giorno del pericolo. Si pregia la
cura di conservare le cose appartenenti alla Duchessa; la volontà di
dimettersi anche dopo la invasione straniera valutasi; la tutela e la
difesa dei cittadini valutasi; la industria spesa a frenare _qualche
volta_ la foga di _qualche_ collega valutasi; tutto quanto insomma
dai Giudici toscani del 1850 e 1851 si disprezza, e si tiene a vile
appo i Giudici parmensi nel 1831, si accoglie e si stima per rimandare
assoluto il Conte Linati. Pel Cavaliere Malegari si contentarono ancora
di meno, e gli ottennero assoluzione l'essersi opposto a domande troppo
ardite, essere venuto in sospetto dei Rivoluzionarii, la disapprovata
Prolusione del Professore Melloni, il conforto a non pagare un debito,
la dissuasione a non prestare un giuramento. — Tanto alla coscienza
dei Giudici parmensi del 1831 bastò per assolvere e rispettare: troppo
maggiori cose, riscontri bene altramente gravi e copiosi ai Giudici
toscani del 1850 e 1851 hanno somministrato argomento per _accusare e
insultare_!
Sono venuto al termine di questa opera condotta fra mortale tedio del
carcere, difficoltà di ogni aiuto, deficienza di cose maggiormente
necessarie, travagli infiniti e amaritudini ineffabili; e nondimeno
me ne separo con tristezza: perchè il fastidio, che a poco a poco
intirizzisce l'anima, fa che si ponga amore agli oggetti più miseri;
ma ormai vada a trovare sua ventura _fra magnanimi pochi a chi 'l
ben piace_. Però io non posso concludere, nè debbo, senza richiamare
l'attenzione del mondo civile sopra due punti principali. Incominciando
io dalla parte con la quale termino, avrei dovuto dire: — 1º sorta
la necessità del Governo Provvisorio, gli atti che operai per la
salute pubblica, a giudizio dei Savii universale, vanno immuni dal
titolo di _lesa maestà_; ed è soltanto in offesa manifesta delle
dottrine comunemente accettate, che i Giudici hanno loro attribuito un
carattere, che non hanno e non possono avere: 2º per patto espresso
non si poteva attentare alla mia libertà, perocchè la mia prigionia
desuma la sua origine dal tradimento; e se i Partiti scapigliati sono
capaci di queste e di bene altre ignominie, un Governo regolare non può
per religione, per fede e per dignità, giovarsene; ma sì all'opposto
conviene che quanto in suo nome fu promesso, procuri che lealmente e
dirittamente si mantenga.
Io ho voluto riserbare queste ragioni per ultimo, non parendo dicevole
alla integrità mia opporre eccezioni perentorie; adesso poi che di
punto in punto, se pure io non m'inganno, sono venuto giustificandomi,
non mi pare vergogna valermene, e me ne valgo. Mantenete il patto. La
Italia ricorda un'altra capitolazione tradita, e ancora Inghilterra
la rammenta; imperciocchè, se mai favellando di Nelson ammiraglio tu
pronunzii il nome di Trafalgar, non vi sia Inglese di cui gli occhi non
balenino di nobile orgoglio; ma dove ti venisse fatto susurrare quello
di Napoli, non troverai Inglese che non abbassi al suolo sbigottito la
faccia.[753]
E in questa parte io volli riserbare eziandio a far conoscere, quale
sia stato il palpito ultimo della mia vita al Potere, che io tenni, e
me ne onoro, da cittadino e da cristiano. Nel giorno 12 aprile alle ore
8 e m. 57 antim., per via telegrafica, mandava:
«Al Governatore di Livorno.
«Nei dolorosi casi avvenuti ieri in Firenze, non si ha a vedere altro
che la insidia dei nostri eterni nemici. Livornesi e Fiorentini,
entrambi traditi, hanno apprestato spettacolo gradito a costoro. I
Livornesi sieno generosi, con l'esempio dimostrino che non furono
rettamente giudicati, e si apparecchino a difendere la Patria che essi
amano tanto. Pubblica se credi.
«F. D. GUERRAZZI.»
E Manganaro, amico degno della Patria e di me, rispondeva:
«Al Potere Esecutivo.
«La Città è tranquilla nè si pensa da alcuno, per ora, di recarsi a
Firenze; anzi si sta redigendo un Indirizzo di pace ai Fiorentini che
sarà firmato da molti.»
Così, mentre altri squassava con vigore estremo di braccia l'Albero
della Discordia, e ne faceva cadere su la terra i frutti dell'odio, io,
improvvido di tradimento, attendevo a insinuare nelle anime inacerbite
sensi di magnanimità e di perdono, ed anche vi riuscivo: — e come il
perdono fu il palpito ultimo della mia vita al Potere, così prego Dio
onde mi mandi virtù che mi basti a fare sì, che la parola la quale
ultima verrà profferita dalle mie labbra mortali sia: _perdono a quelli
che mi hanno tanto atrocemente lacerato_!
FINE DELL'APOLOGIA.
APPENDICE.
A
VII. Tumulti quando incominciassero. — Pag. 37.
«_Il Consiglio_, — non obliando la miserabile condizione
nella quale, per effetto dei mutamenti politici, era caduta
la Toscana, — _deliberava unanime questa dichiarazione di
fiducia, formulandola così_: «Siamo grati agli espedienti che il
Governo si affrettò di adottare.» — _Non era anche venuta l'ora
dell'ingratitudine_!»
Con quali intenzioni il signor Guerrazzi salisse al Ministero, e
perdurasse in quello, si ricava dalle seguenti lettere, di cui le prime
due dirette al cavaliere Niccolò Puccini; la terza ad egregia Donna
lucchese, che il Prefetto di Lucca prima di rimettere fece copiare, e
in copia conservò; l'ultima confidenziale al prelodato signor Prefetto.
«Amico.
«Tu molte cose hai indovinato: altre no. La troppa acutezza sfonda
il foglio. Io quando scherzo ragiono come te; ma in questo mi sento
superiore a te: che credo in più e migliori cose, come, a modo di
esempio, nella capacità del Popolo a diventare superiore a quelli
che lo hanno superato. Mi raccomandi giustizia; io ti assicuro che il
tuo amico mostrerà sempre giustizia e generosità. Scusami la brevità.
Tu se' discreto, e pensa che non istò in prigione per avere tempo di
scrivere a lungo. Addio.
«Firenze, 27 ottobre 1848.
«Affez.mo F.-D. GUERRAZZI.
«Al Cittadino Niccolò Puccini. — Pistoia.»
«Amico Carissimo.
Sai tu? le lettere mie saranno brevi, in istile di XII Tavole. — Per
ora fo bene? Tu gridi: bravo Cecco! — Perchè dai di occhio ai tuoi
poderi; e finchè faccio gli affari vostri, io vo d'incanto. Sta benone.
Il Ministero _canaglia_ non parti che ritenga del gentiluomo più che
non credevano? Lasciamo gli scherzi, frutto fuori di stagione. Io vado
innanzi secondo la mia coscienza, che, comunque inasprita, _fu sempre
onesta e buona_. Se io non potrò dire come Pericle sul termine della
vita, cioè: non avere mai offeso nessuno; spero potrò affermare non
averlo offeso senza giustizia. E sta sano, mandandomi _democratici_
deputati, — se più tardi non li volete avere _escamisados_.
«Firenze, 16 novembre 1848.
«Affez.mo F.-D. GUERRAZZI.
«All'Ill.mo signore C. Niccolò Puccini.»
«Signora.
«Tre cose voleva Del Re, e le ha ottenute:
«Si mutasse in parte lo Stato maggiore della Civica. — Io lo aveva
già mutato tutto, ponendone a capo Lelio Guinigi con moltissimi
rispettabili e amati cittadini.
«Si comprimessero le Fazioni. — Io comprimerò qualunque Partito
inesorabilmente, — _Bigionisti e Riformisti_, e lo vedrà.
«Si procurasse il bene di Lucca. — Lucca è carissima nostra sorella,
e non abbiamo mai confusi i buoni Lucchesi _con i pochi faziosi,
Bigionisti_, che fanno chiasso e lo perchè non sanno; _Riformisti_, che
si agitano per avere impieghi che non avranno mai. — Pace, concordia e
giustizia internamente, gloria italiana fuori. — Credo la Deputazione
sia rimasta contenta: forse qualche individuo della medesima no: che ne
pensate voi?
«Firenze, 3 del 49.
«Aff.mo A.o GUERRAZZI.»
«Signor Prefetto di Lucca.
«A. C.
«Desidero vedervi presto: venite più presto che potete; superata la
prima prova, il Ministero ha speranza _di salvare anche quelli che
l'odiano_. Non sono quello che fui; non dirò che morì gran parte di
me; ma se posso, _voglio costringere i nemici, se non ad amarmi, ch'è
impossibil cosa, almeno a rendermi giustizia_. Addio.
«10 gennaio 1849.
«GUERRAZZI.»
B
VIII. Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a
chiarire le sofferte ingiurie per parte della Polizia. — Pag. 75.
«_Questo Partito.... da me ardiva pretendere un atto di
contrizione delle colpe commesse, poi si contentava di_ un atto
di fede, _che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni
tempo la mia futura condotta.... Intanto il Governo, liberati i
compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato
non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole
riparazione_.»
Delle trattative intorno a tale argomento, degli artifizii del Partito
avverso, delle premure degli amici, onde il signor Guerrazzi uscisse
finalmente del carcere, porgono testimonianza diversi Documenti, dei
quali basteranno al lettore le due Lettere che qui riportiamo.
«Amico Carissimo.
«Avrei desiderato ricevere altre lettere da te, per aver notizie di
tua salute. — Sento, è vero, con piacere, che sei sano, grazie alla tua
coscienza e filosofia; ma ben sai che i caratteri di un amico sono cari
agli occhi, e più al cuore.
«Ogni giorno si dice che vieni: pure io dubito, che il tuo ritorno
possa ritardare ancora. Corre voce, che qui vogliano accoglierti con
festa, e mi dispiace, perchè così facendo si potrebbe forse recare
danno alla città ed a te. — Io dico a tutti coloro che si chiamano
amici tuoi, che si astengano da qualunque dimostrazione clamorosa, e
ti lascino, per così dire, passare inosservato; ma non sono essi che
bisogna trattenere; è la plebe, e con quella mal si ragiona. — Credo
che non mi porrai nel numero dei soffocatori, ma dei prudenti; perchè
mentre faccio a tutti tale raccomandazione per amore della patria
e dell'amico, non saprei mai impedirti di procurarti una decorosa
e legale giustificazione; e so che non sei capace di cercarne una
diversa. È giusto che si conosca chi ha errato; ma ciò deve farlo la
legge, e non gli esaltati, ai quali potrebbero unirsi i tristi, che pur
troppo devono esservi fra noi. — Ora
Le leggi sono, e ognun pon mano ad esse.
«Se qualche volta ti ho consigliato, ho sempre avuto in mira l'utile
tuo; e la lunga amicizia che esiste fra noi ti è pegno sicuro.
Nell'attuale stato di cose, stimerei ben fatto, quando sarai per
tornare, che con tacito permesso superiore, che credo non ti sarebbe
negato, ti facessi precedere da un avviso, pregando, anzi intimando
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