Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 17

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sazia con la promozione alla carica di Ministro, e forse, in breve,
a quella di Presidente del Consiglio? Lo intento che aveva potuto
proporsi il mio cuore era già conseguito, e consisteva nel fare palese,
col perdono, con la tutela, col beneficio di coloro che non pure mi
erano proceduti avversi, ma nemici, quanto io fossi diverso da quello
che mi avevano dipinto. E se dico questo, non faccio per rimbrottarlo,
no, — o per suscitare memorie oggimai date all'oblio; io lo faccio
costretto a difendermi, perchè la mia vita non è stata altro che
affanno; — compatitemi, e non rimettete della vostra benevolenza che mi
ridonaste. Continuiamo amici, dacchè siamo miseri assai. Intanto corse
un grido che diceva: «Chiunque vuole aver bene dal Guerrazzi, bisogna
che gli faccia del male.» Esagerava questo, ma la esagerazione stessa
prova la verità delle cose. Possano dunque le ambizioni altrui proporsi
sempre uno scopo non diverso dal mio!
Forse, avvertirà l'Accusa sottilissima, v'increbbe il Governo
Costituzionale, perchè vedeste durarvi _instabili_ i Ministeri. Certo,
i Ministeri vi sono instabili e pericolosi, ma nelle Repubbliche
appaiono instabilissimi e pericolosissimi; sicchè il sospetto non
ha luogo. Ma l'Accusa insisterà dicendo: Forse vi prese cupidità di
più alto seggio. — Vennero da Roma, una volta, deputazione di uomini
distinti per natali e per condizione, ed un'altra, di messi speciali
nelle ore più tarde della notte, a offerirmi carica suprema, ed io la
rifiutai; e prova di quanto affermo occorre nel Decreto proposto dal
Principe C. G. Bonaparte all'Assemblea della Repubblica Romana, che
suona così:
«Visto che il Popolo tanto della Toscana quanto della Repubblica
Romana, hanno più che bastantemente dimostrato che vogliono la
unificazione sotto un regime repubblicano; l'Assemblea sovrana della
Repubblica Romana:
«1º Invita i 120 Deputati, componenti la Costituente Toscana, a venire
a sedere fra noi per formare la Costituente della Repubblica della
Italia Centrale.
«2º Offre al Guerrazzi un seggio nel Triumvirato della Repubblica
complessiva ec.»[196]
Dunque nè anche la supposta cupidità mi mosse. — Intorno ai fini
opinativi è chiarito come io, dall'incominciare delle Riforme,
speculando sul genio del Paese, mi scoprissi contrario alla Repubblica.
Se per me si fosse voluta, nell'8 febbraio sarebbe stata proclamata in
Toscana, come si vedrà più largamente in seguito; se con giudizio o no,
se per durare o passare a modo di spettro, se a sostegno o a rovina del
Paese, è diversa ricerca: nessuno si opponeva; i dissidenti vi erano,
ma non avevano coraggio di fiatare; anzi si spenzolavano, smaniosi più
degli altri, a proclamare la Repubblica; mani e piedi pestavano per
volerla, e subito: per poco me non accusavano di traditore opponendomi
ai legittimi voti del Popolo, al _desiderio eterno riposto nell'intimo
del loro cuore repubblicano_. Io contemplava la nuova viltà, e
sorrideva. Udite un po' come si esprimeva il _Conciliatore_ del 28
febbraio 1849: «Che cosa possiamo sperare da coloro che s'inchinano
a tutti i poteri, che stancarono le anticamere delle Corti e dei
Ministeri, e che _oggi proclamano svisceratissimi la Repubblica? O
Libertà.... quando il tuo culto era proscritto, tu conoscevi a nome i
tuoi addetti; oggi, che hai altari su le piazze e su i trivii, anche
i tuoi_ più crudeli ed antichi nemici _ti portano pubbliche offerte
fra le acclamazioni delle immemori turbe_.» Non ti pare quasi sentire
un lamento del _Conciliatore_ che altri gli abbia vinta la mano, e
possa essere reputato più amante della Repubblica di lui? Bassa voglia
poi sarebbe indicare chi questi svisceratissimi della Repubblica si
fossero: la morale pubblica ne scapiterebbe; e poi picchiandosi il
petto, essi si confessarono pentiti e dichiararono di non peccare
mai più.... fino alla prima occasione. Io non mi prevalsi nè della
ebbrezza, nè del furore, nè della pazienza, nè della viltà. Eletto
tutore del Popolo, e consapevole dei suoi veri desiderii, mi sarebbe
parso fare opera di ladro, che carpisce la firma ad una cambiale
dall'uomo preso dal vino, sospingendolo al Partito della Repubblica.
I Repubblicani in questo fanno appunto consistere la mia colpa;
io la mia probità. A me piace proporre al Popolo, dopo pranzo, le
risoluzioni ch'egli confermerà anche la mattina a digiuno: perfida mi
è parsa sempre la dottrina di mettere a repentaglio così moltitudini,
come individui: più tardi, risensati, lacerano lo ingannatore, ne
maledicono la fama. Io di altri Popoli nè so, nè parlo; ma affermo,
che non ostante la ebbrezza e il furore di molti, gli eccitamenti
interni ed esterni, la viltà e la pazienza, — la grande maggioranza
dei Toscani, finchè vissi nel mondo politico, non era repubblicana;
il Partito compariva, più che non bisognava, gagliardo a violentare
e a distruggere, ma per creare cosa durevole, non sarebbe bastato.
Questa gente, infervorata nella sua idea, non vuole comprendere come
con uomini, che al vedere bandiere, udire tamburi, gridi e simili
altre diavolerie, guardano trasognati, poi si ritirano in casa
chiudendo le finestre, non si può creare Repubbliche. La grandissima
maggioranza delle persone educate in Toscana, stando al Ministero e
prima, conobbi appassionata delle vere libertà costituzionali, e non
delle bugiarde che si gittano alle genti come un osso da rodere, e poi
non si vogliono o non si possono mantenere; agli altri, in ispecie ai
campagnuoli, bisognava dare ad intendere la Libertà come la dottrina
cristiana. Io certa volta dissi alla Corona, che il Governo doveva
essere educatore di libertà in Toscana, e mi parve dire bene; se i
tempi sono mutati dopo due e più anni di carcere, non so, nè m'importa
conoscere; ma allora era così. Intanto i Repubblicani mi regalano il
titolo di _stolto_, e sarò; mi basta quello di onesto: ma quello che
parrà più strano a credersi, si è che mentre i miei Giudici mi tengono
in prigione per avere cospirato contro il Principato, e promossa la
Repubblica, i Repubblicani protestano che mi ci avrebbero messo eglino
medesimi, per averla attraversata: «La Repubblica Romana era divenuta
per esso come uno spino, e quello spino vie più gli era infesto,
allorchè gli si parlava di Unione.»[197] E poco oltre, a pagina 174,
così si esprime il signor Rusconi: «Una Commissione fu istituita,
che disse governare in nome del Principe, e gli amici del Principato
toscano cominciarono dal retribuire Guerrazzi dei servigi fatti loro,
con quella _carcere che da tutti altri che da essi avrebbe dovuto
meritare_.»
Sicchè, a quanto pare, non ci è rimedio; io nacqui proprio nel mondo
sotto la costellazione della prigione!!! — _Pericula in mare, pericula
in terra_, — diceva S. Paolo.
Sembra pertanto che io non avessi motivo alcuno a sovvertire il
Principato Costituzionale; all'opposto lo avessi grandissimo a
mantenerlo.


XIX.
Della contradizione notata dai Documenti dell'Accusa fra la potenza e
la impotenza di resistere alle pretensioni del Partito repubblicano.

Or come, dice l'Accusa, potete voi sostenere a un punto la potenza
e la impotenza a reprimere? Questo suona contradittorio: anzi, deve
dirsi, che siccome a parecchie enormità opponendovi le impediste, così
a tutte le altre successe voi non vi opponeste, nè le voleste impedire.
(Decreti del 10 giugno 1850 § 54, e del 7 gennaio 1851 § 53.)
Due erano, come ho detto, i fini che io pensai essermi affidati, e
mi affidarono certo gli onesti cittadini e il Parlamento: la salute
della società, e questo principalissimo; l'altro di preservare il Paese
da avventurosi esperimenti; o, se si vuole più chiaro, di consultare
con pacatezza i Toscani intorno al modo col quale intendevano essere
governati. Al primo scopo provvidi, e corrisposi, confido almeno, alla
aspettativa universale; ma in questa parte ebbi a compagni anche gli
onesti Repubblicani, i quali pure aborrivano dalle violenze, dalle
rapine, e dal sangue; la coscienza pubblica mi sovvenne con la sua
grande voce; e una tal quale esitanza provavano ancora quelli che
procedevano più rotti, sicchè, comunque aspra lotta durassi, pure,
Dio aiutando, mi venne fatto conservare illesa, anche in mezzo ai
trambusti, l'antica fama di civiltà, di cui, meritamente, godeva, e
dovrebbe continuare a godere il nostro Paese. Ma se a tutto non avessi
potuto riparare, come sarebbe giusto imputarmelo? Se portai le mille
libbre e non potei le due mila, i miei Giudici non solo mi negheranno
la mercede per le mille libbre portate, ma pretenderanno multarmi
per le mille che non ho potuto portare? Egli è invano, che i miei
Giudici rigetterebbero questo paragone e questa conseguenza; i loro
argomenti procedono sempre così. In quanto poi al secondo scopo che mi
era proposto, ecco come riuscii a salvare la somma delle cose. Vuolsi
principalmente avvertire, come principio emesso dai Repubblicani, in
ispecie quando si agitò la questione se la Lombardia dovesse unificarsi
al Piemonte, fu consultare il voto universale, _imperciocchè, abolita
ogni idea di diritto divino, reputino il Popolo origine di tutta
sovranità_. Il quale principio oggi non pure è dei Repubblicani, ma
vi si accostano eziandio quelli che si mostrano caldi promotori delle
regie prerogative. «Io credo che la sovranità, secondo la teoria
costituzionale, risieda esclusivamente nel Popolo, il quale delega
a questo il potere legislativo, a quell'altro il potere esecutivo;»
diceva il Montalembert (il quale, credo che non importi avvertire che
non è Repubblicano) nell'Assemblea di Francia il 10 febbraio 1851.
Il Governatore di Livorno con Dispaccio dell'8 febbraio avvisava,
come Giuseppe Mazzini arrivato (al mal fagli male), su l'alba di
quello stesso giorno, a bordo dell'_Ellesponto_, arringando al Popolo
avesse concluso: «che la Toscana doveva aspettare le determinazioni
della Costituente — e di Roma.»[198] E sue precise parole furono: «La
nazione, per mezzo dei rappresentanti del Popolo, eletti col suffragio
universale e con libero mandato, _farà conoscere le sue volontà, e noi
c'inchineremo al sovrano_.»[199]
Questo stava bene in teoria; ma in pratica non istava più bene; anzi,
secondo le contingenze, aveva ad esser tutto a rovescio. Là dove il
Popolo propende alla Repubblica, si consulti col voto universale; dove
no, cotesto diventa fastidioso puritanismo, e bastano le petizioni dei
Circoli, gl'indirizzi dei Municipii (che oggimai noi conosciamo a prova
di che cosa essi sappiano), e i clamori di piazza. Logica è questa
di ogni Partito di cui lo scopo consiste nel riuscire a qualsivoglia
costo. — In Toscana il Popolo, non ostante la vertigine che lo agitava,
consultato a cose quiete, non avrebbe risposto nella maggioranza
alla Repubblica: questo aveva subodorato Giuseppe Mazzini, ed invero,
informando l'Assemblea romana su le condizioni della Toscana, spiega
chiaro: «che le tendenze della parte più _energica_, più importante
della popolazione, sono altamente unificatrici, e dicendo unificatrici
intendo escludere il dubbio vocabolo di unione. Tutti i Giornali sono
unanimi in questa espressione.... tutti i Circoli, — molti Municipii, —
parecchi Comandi della Guardia Nazionale, dichiararono nella _penultima
domenica del mese scorso_, con una manifestazione solenne seguita da
altre adesioni nei giorni seguenti, che il voto della Toscana era la
forma repubblicana e la unificazione con Roma.»[200] Le quali parole
lasciano pur troppo intendere, che la parte più _energica_ era per
la Repubblica, ma lo stesso non poteva dirsi della più numerosa.
Però Mazzini _intende_, ma non _approva_ più che sia consultato il
Popolo.... «perchè l'unica legalità nelle rivoluzioni sta nello
interrogare.... _nello indovinare_ il volere del Popolo, e nello
attuarlo.»[201] Tra _interrogare_ e _indovinare_ passa divario grande,
quasi quanto tra il _complice_ e lo _impotente_, o tra _tutti_ e
_taluno_ dell'Accusa. Ma egli è così: là dove lo spirito di parte detta
i giudizii, si affacciano sempre le medesime formule di sofisma. Fatto
sta, che si voleva commuovere, rimescolare il Popolo, e, s'era ebbro
d'acqua arzente, dargli a bere olio di vetriolo. Così s'incendiano
gli Stati, non si costituiscono, ed io non ho voluto rovine. E poi
neanche poteva conseguirsi quello a cui tendeva, perchè ai deliranti
non faceva mestieri aumentare delirio, e pei repugnanti ogni argomento
tornava inutile, per la ragione dichiarata poco anzi dello starsi a
vedere e poi chiudere le finestre. — Abbiamo veduto altrove Popoli
interi muoversi e insorgere al nome di Repubblica: ma io credo che
vadano grandemente errati coloro che immaginano le moltitudini si
muovessero unicamente per forma di governo, che neppure intendevano;
parte si mossero per fame, parte per ingiurie patite, parte per odio
di feudali istituti, parte per amore di libertà: altri per altre
cose. La formula delle rivoluzioni somministrano gl'intelligenti,
le passioni, il Popolo: donde avviene che tutte le tendenze unite a
distruggere, disaccordino poi sul modo di fabbricare. La ragione,
per la quale i Partiti compaiono a prova prodigiosamente deboli a
governare, si è questa, che il fascio, stretto durante la battaglia,
si scioglie dopo la vittoria. Or qui in Toscana mancavano (e prego
Dio che abbiano sempre a mancare) ingiurie sanguinose a vendicare,
odii antichi a sbramarsi; solo in molti, ma non nei più, Toscani,
era vaghezza di forme repubblicane; molti ancora, non può negarsi,
si agitavano per cupidigie o per bisogni, e, non frenati, stavano per
partorire deplorabili lutti; piantatrice e spiantatrice degli alberi
della Libertà, per la massima parte, era di questa sorta gente, che
ama le baruffe e le provoca solo per pescare nel torbido; taccio di
quelli che non erano di qui. Ma per amore della Repubblica, per quante
ne sapessero fare, non si muovevano davvero i mezzaioli in campagna,
nè i borghesi in città, i proprietarii grandi, la nobiltà, il clero.
— Agitate, agitate, perchè le minorità vincono le maggiorità; — le
vincono, è vero, o piuttosto le stupefanno, ma per durare ci vogliono
gli annegamenti nella Loira, le mitraglie di Lione; e questi estremi
rendono spaventevole la Libertà, e la fanno precipitare alla tirannide
soldatesca. Tuttavolta, questo volevasi, intendetelo bene, signori
Giudici, e questo sarebbesi fatto: e poichè la vostra coscienza non
ve lo ha saputo dire, vi dica il Paese intero, cui mi giova sperare
non ingrato, chi impedì questo, e a qual prezzo. — Agitate, agitate, e
troveremo cannoni, armi ed armati; — ahimè! la esperienza ha dimostrato
non succedere così; e senza un buon nervo di esercito disciplinato, i
volontarii o fuggono, come i Francesi a _Grand Pré,_ o muoiono, come i
Toscani a Montanara — gloriosamente, sì, ma non vincono....
Finchè pertanto i Repubblicani si stavano ai ragionamenti, che erano:
inutile consultare il Popolo, dacchè per le petizioni dei Circoli,
dei Municipii, della Guardia Civica, e per le acclamazioni delle
genti, il voto si dimostrava patente; io rispondeva: tanto meglio: s'è
vero come supponete, apparirà solennemente manifesta la propensione
dell'universale per la Repubblica; ma non falsiamo il principio del
suffragio da voi stessi predicato: guardate a non comparire apostoli
bugiardi: parmi, ed è indegno di uomini che si vantano creatori di
nuovo ordine di cose, incominciare con la menzogna, ch'è vizio della
viltà. Così non ho mai veduto incominciare i reggimenti gagliardi.
Romolo inizia il suo regno con un atto di ferocia, ma non di bassezza.
Ora con quale fronte vorrete adoperare voi le medesime arti, che più
diceste aborrire negli avversarii vostri? Voi sostiene la opinione
di lealtà; di amici sinceri del Popolo, voi diventate sopraffattori
e tiranni. Voi, Mazzini, avversaste Vincenzo Gioberti, quando, prima
che la vittoria decidesse le fortune italiane, voleva che Lombardia si
aggiungesse al Piemonte, e dicevate non essere quello il momento di
sturbare con importune trattative il pensiero dei Popoli, che unico
doveva concentrarsi nella guerra della Indipendenza; ed io vi detti
ragione.[202] Ed ora quello ch'era buono per Lombardia e Piemonte,
non è più vero per Toscana e per Roma? Ma lasciamo questo da parte:
come potete pretendere onestamente proclamata la Repubblica a tumulto,
mentre l'aria dura commossa dalla vibrazione della vostra voce, che
diceva: «che la nazione deve dichiarare la sua volontà per mezzo
dei rappresentanti eletti col suffragio universale?...» E fino dal
16 febbraio a Mazzini opponeva Mazzini, gittandogli in volto le sue
dichiarazioni predicate a Livorno; «ecco le parole piene di fede, e di
senno, che Mazzini rispondeva al Popolo di Livorno, che saputa la fuga
del Granduca domandava ad alte grida la Repubblica: — Io repubblicano
per tutta la mia vita, vi esorto ad attenderne la iniziativa da Roma;
sono là i veri rappresentanti del Popolo, e noi dobbiamo inchinarci
a quel potere sovrano.»[203] — L'Accusa io qui l'ascolto esultare
dicendo: dunque, vedi, anche tu accennavi aderire all'Assemblea
Costituente di Roma, — ed io le rispondo: tu non capisci niente; —
allora importava non irrompesse la Repubblica a furia, e non era a
guardarsi la natura del rimedio, purchè salvasse dal male presente:
poi cosa fa cosa, e tempo la governa. Mazzini pertanto, ed i seguaci
suoi non potevano replicarmi in viso senza inverecondia, _imperciocchè
adoperava a combatterli le loro stesse parole_. Allora furono tentate
altre vie.
Imitate, dicevano i Repubblicani, il Governo Provvisorio di Francia;
ordinate provvisoriamente la Repubblica, salva la sanzione del Popolo,
come fece Lamartine. Per questo modo, proseguivano essi giovandosi
degli argomenti di lui, farete cosa a un punto rivoluzionaria, e
conservatrice; imperciocchè da un lato lo sperimento della Repubblica,
durante certo spazio più o meno lungo di tempo, sarà sempre tanto
guadagno fatto pei governi liberali, e pei vantaggi del Popolo;
dall'altro, dove anche più tardi l'Assemblea disfacesse la Repubblica,
partorirà adesso entusiasmo nel Popolo, soddisfazione agli animi
agitati, maraviglia alla Europa, impulso e forza per traversare lo
abisso senza fine cupo della rivoluzione.[204]
E questo era intoppo duro davvero. Se non che, ripreso animo, io
rispondeva: di grazia, ascoltatemi; voi altri sapete come il Cormenin,
favellando del Lamartine, abbia detto che un castaldo avvezzo alle
faccende di villa mostrerebbe facilmente a prova, anche in quelle
della politica, più giudizio del Lamartine; ed io del Lamartine, del
Cormenin, e degli altri uomini di Stato francesi non ripeterò, chè
non sarebbe giusto, quello che già scrisse il Machiavelli di loro,
cioè, che i mali orditi del cervello sanno rinforzare con le mani; e
nè anche quello che ei disse al Cardinale di Ambosa: «di Stato, voi
altri Francesi, non intendete niente;» ma è certo, che tutti quelli
i quali in Francia fanno professione di politica, non intendono
troppo. Però posto questo da parte, e stringendoci a ragionare del
Lamartine, vi pare egli discorso cotesto suo di mettere in cimento la
Repubblica, come si farebbe, a modo di esempio, nelle scuole, di un
calcolo, o di una dimostrazione geometrica? A questo ufficio bastano
una lavagna e un pezzo di pietra da sarto; e se il calcolo non riesce,
si strofina col ruotolo della cimosa, e da capo. Volendo sperimentare
la Repubblica, se ti attieni al metterne fuori unicamente il nome,
converti il Governo in bersaglio, onde tutti i Partiti contrarii
gli tirino addosso di punto in bianco; ma al nome solo non puoi
attenerti, nè devi; quindi per durare anche una settimana ti trovi
condotto a imprimere nel Governo e nel Popolo un moto corrispondente
al fine proposto, accomodarvi i provvedimenti e le leggi, scansare gli
uomini disadatti o contrarii, altri sostituirne amorevoli e acconci,
distruggere antichi interessi, altri crearne,... e tutto questo per
prova? E tutto questo, incerti se la Repubblica possa sostenersi?
Bel giudizio davvero, moltiplicare le cause di perturbazioni e di
contrasti, allorchè vi proponete ricomporre l'ordine sociale sconvolto!
Poi, Francia è Francia, e Toscana è Toscana: la Repubblica in Francia
può dare argomento di maraviglia alla Europa; in Toscana, di riso:
costà fra 36 milioni di uomini, qualche milione può sorgere a sostenere
con le armi la opinione del Governo, e propria; ma qui fra noi conviene
starci contenti alle migliaia, ed anche poche. Nè mi parlate di Roma,
di Sicilia e di Venezia: queste ultime due, male si reggono in vita; e
invece di trasmettere altrui, chiedono forza per loro. Roma e Toscana,
sommate insieme fanno una debolezza, perchè non possiedono armi, nè
pecunia, nè eserciti addestrati, i quali da un punto all'altro non si
arriva a formare. Ancora: Francia, per lunghi anni educata nella vita
politica, per avventura potè credersi giunta al grado convenevole di
maturità per adattarsi alla nuova forma di Governo, quantunque voi
sappiate come grave sia il subuglio dei Partiti colà, perfidiandosi
intorno alla libera scelta della Repubblica, con danno inestimabile
alla reputazione di questa: ma Toscana si leva adesso, e non ha ben
desti gli occhi; gli animi vi sono rimessi, inerti a molti gli spiriti,
i partiti estremi impossibili; speculatori arguti sono per la più
parte i Toscani, e più facili a fare per consiglio della mente che per
subitezza del cuore; anzi quel continuo rombo di parole superlative, e
di concetti esorbitanti, gl'inquieta come api che fuggono dai bugni,
se odano rumore di lebeti percossi; e sopra tutto vi raccomando a
considerare, che la Toscana delle libertà costituzionali si chiamava
non ha guari soddisfatta; nè ella operò rivoluzione alcuna; nè credo
che la voglia operare: lo scettro è in mano al Popolo, non perchè ei
volesse strapparlo, o lo strappasse, ma perchè gli fu lasciato. Questo
abisso di mandare in perdizione la Società, noi da vicino non minaccia;
di comunismo per ora, se spruzzate, non paionmi contaminate le
moltitudini; la Repubblica, anzichè diminuire le perturbazioni, avrebbe
virtù di aumentarle, e rendere forse disperato un male di per sè stesso
gravissimo. Ad ogni modo, che il Popolo universo a decidere delle sue
sorti consentisse, questo prometteste, questo promisi, e questo hassi
a mantenere: leali vi chiamaste, e leali perdurate, chè bene v'incorrà
della conservata rettitudine. — E alle ragioni, che procrastinando
si sfiduciavano gli animi, i malfermi alienavansi, sfocavansi gli
ardenti, e si dava luogo a insinuare che il Governo procedesse
avverso alla Repubblica, io replicava: questo non essere da temersi,
imperciocchè il Governo fino dai suoi primordii aveva dichiarato, che
per pronunziare la decadenza del Principe e la Repubblica, dovesse
aspettarsi che lo universo Popolo toscano emettesse liberissimo
il voto. La _requisitoria_ del Pubblico Ministero Regio dichiara
francamente,_ che tutto il mio sforzo si ridusse a persuadere, ed agire
in qualche contingenza, perchè non venisse la Repubblica attuata troppo
sollecitamente_: la _requisitoria_ del Pubblico Ministero Repubblicano,
rappresentato dal sig. Carlo Rusconi, mi accusa: «Che giunto al Potere,
ebbi modo di fare proclamare la Repubblica, e non volli. — Che quando
mi fu dato unificare due provincie _assecondando_ i voti del Popolo,
comecchè unitario ed entusiasta del Popolo mi fossi detto, bramai
persistere in una disunione _insensata_. — Il dottore Maestri inviato
da Roma instava perchè — il desiderio di unificazione, che _nel Popolo
si manifestava_, fosse appagato. _Lottando quotidianamente_ col toscano
Triumviro, a cui tutti quegli argomenti adduceva che sogliono far
forza in chi non ha preconcetta opinione ec.» Chi ci era, racconta
che _quotidiane_ erano le istanze, (e istanze di gente arrabbiata,
fanatica, e forte su le armi, si sa che cosa vogliano dire); chi non ci
era sostiene che furono rade; chi ci era mi accusa che procrastinando
rovinai il concetto repubblicano, chi non ci era, sprezza cotesta
opera come di piccolo momento. I Repubblicani, i quali di rivoluzioni
s'intendono più assai del Regio Procuratore Generale (e spero che
questi non me lo vorrà contrastare) dicono, che _occasione passata è
occasione perduta_; ed hanno ragione: la Repubblica poteva instituirsi
in Toscana, ma nel modo che nelle antecedenti carte ho avvertito; ed
io ripeto, fui tutore del Paese, non capo delirante di fazione. Anche
quando fosse vero, come non è, che il mio sforzo tendesse unicamente
a procrastinare, l'Accusa dovrebbe sapere che ciò sarebbe più che non
bisogna nelle rivoluzioni. Una notte di pensiero cangia le tendenze
dell'animo, il quale senza impulso veemente ed attuale schiva, almeno
nei più, precipitare a partiti disperati.
Devo confessare come fra le infinite umiliazioni con le quali fu
saziato il mio cuore, nessuna tanto profondamente mi tocca quanto
quella del trovarmi condotto a esporre la mia ragione a tale, che le
verità volgarissime della Storia s'infinge ignorare; e dico s'infinge,
conciossiachè riesca duro a credere, che abbia animo per giudicare di
politica chi di politica si senta siffattamente inesperto. Il sig.
De Barante, uomo di senno antico, e per pratica di negozii pubblici
rinomato assai, dettando il suo libro della _Storia della Convenzione
di Francia_, assicura che tutto il male della Rivoluzione venne dal non
trovarsi persona capace a resistere allo impeto dei primi moti, onde
si componesse una opinione giusta delle cose, una bandiera sorgesse
dove i cittadini sbigottiti si assembrassero; — all'opposto, persuasi
fino dai primi giorni che ogni Governo era cessato, si trovarono in
balía di tutte le autorità imposte di mano in mano dalla violenza, _le
quali comandavano in virtù del meccanismo delle sètte, mentre l'ordine
nella Società era venuto meno. — Tutto il mio sforzo si ridusse ad
agire perchè la Repubblica non venisse attuata troppo sollecitamente_!
— Fatto sta, che la non venne proclamata mai; pur sia come vuole
lo Accusatore: ma sa egli, che cosa importi un giorno, una notte
nelle rivoluzioni? Lo vuole egli sapere? Se di una notte sola avesse
potuto ottenere indugio il virtuoso Malesherbes, per presentare le
sue osservazioni sul modo di contare i voti, la vita di Luigi XVI era
salva; e certamente poi, se nella giornata del 19 gennaio fosse stato
vinto il partito dello aggiornamento alla esecuzione della sentenza:
«car (nota Thiers) _un délai était pour Louis XVI_ la vie mème.[205]»
Vuol egli sapere, che cosa giovi un'ora? La mattina dell'_8 termidoro_
cadde reciso il gentil capo di Andrea Chènier, a cui, poveretto! doleva
morire così giovane, e con tanta potenza di poesia nell'anima... Un
poco più tardi, nel sangue che aveva fatto versare, affoga Robespierre,
e seco va disperso il regno del terrore.[206]
Infatti il _Regio_ Procuratore _Repubblicano_ afferma, che non mi
mancavano gli avvertimenti: «come nulla vi fosse di peggio in politica,
specialmente in tempi di rivoluzione, che il non far nulla, e lo
aspettare gli avvenimenti con la stolta lusinga di dominarli.»[207]
Ma i condottieri della fazione repubblicana erano oltre ogni credere
tenacissimi, e vedendo che le parole non bastavano, fecero prova di
operare una nuova rivoluzione nel giorno 18 febbraio. Nel giorno 18
febbraio una immensa moltitudine conveniva in Piazza; nel 18 febbraio
Niccolini arringando diceva con parole aperte: «Il Popolo ingannarsi
sul conto mio, avversare io la Repubblica, intendermela col Granduca;
entrasse il Popolo in palazzo, mi costringesse a proclamare la
Repubblica: se assentissi, bene; se no, giù dai balconi!»
Questa minaccia fu ripetuta più volte: si aizzava il Popolo a
trucidarmi. Quanti tremavano allora per la mia vita, che ora non
dirò lieti, ma in parte certo profondamente indifferenti, del mio
non degno infortunio! Ma allora ero una trincera dietro la quale
riparavano sbigottiti; adesso sono diventato documento increscioso
d'ingratitudine. Però fu detto dei nostri vecchi: mala bestia è quella,
che dà di calcio al vaglio dopo avere mangiato la biada...
Poco dopo, il fatto tenne dietro alla minaccia. Il Popolo allagò
imperante e furioso. Che cosa fare? A qual Santo votarmi? In mezzo al
tumulto era difficile farmi intendere, e folle il parlare quello che
sentivo; ridotto allo estremo, dicevo: «Ora via, Cittadini, dacchè
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