Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 45
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riaversi dei danni patiti nella disciplina, a cagione delle sorti
infelici della guerra. Bene è vero che il Governo piemontese crebbe
fino a 135 mila uomini lo esercito nel gennaio del 1849; ma come
nei corpi umani la grassezza è segno di floscio, così neanche negli
eserciti il numero denota forza; e a tutto vuolsi tempo, anche facendo
presto: la colpa _sta nel non fare nulla, e dare ad intendere di
aver fatto_. Napoleone sviluppato dalle nevi russe corre in Francia,
e prende gente sì, non soldati, per avventurarla ciecamente su le
pianure di Dresda e di Lipsia, come un giuocatore disperato si giuoca
il danaro dell'ultimo pegno che ha portato al Presto. Questo dicasi
rispetto alle milizie stanziali. In quanto ai Volontarii, gli spiriti
procedevano alquanto rimessi dopo la prima guerra in Lombardia, però
che a molti stava sul cuore la giornata del 29 maggio, in cui 3 mila
circa Toscani furono lasciati soli a combattere onoranda ma dolente
battaglia contro gli Austriaci grossi di 35,000 uomini, nonostante
che fossero stati confortati a tenere il fermo, con la promessa di
sollecito soccorso.[638] Arrogi, che fino a tanto resse Gioberti, egli
rifuggì da noi come il Diavolo dall'acqua santa; e quando gli subentrò
Presidente al Ministero il Generale Chiodo, là su le frontiere dove
tenevamo soldati per la comune difesa, ce li corrompevano i _maledetti
zelanti_ del Piemonte, peste dei Governi, e mille volte peggiori degli
stessi nemici, e li traevano a disertare con armi e bagagli.[639]
Il _Conciliatore_ riportava queste notizie senza un filo di biasimo
per gl'imbroglioni; e se punto io m'intendo di favella, con tale un
garbo che dava ad intendere come cotesti fatti non lo infastidissero
troppo:[640] sicchè pareva (per non dire troppo) strano, che dopo venti
giorni egli ci conciasse così di santa ragione, se non avevamo da dare
i soldati che ci portavano via, e se non volavamo a farci ammazzare per
fratelli che mostravano _volerci dare il pane con la balestra_.
Dopo che Creonte esultò per l'empie liti di Eteocle e Polinice, può
da un punto all'altro, mutati indole e costume, buttata là la clamide
greca, e vestito il ferraiuolo di Tartufo, farsi esprobatore dell'uno,
perchè guardasse l'altro in cagnesco? L'Accusa rovistando carte non
mie ha rinvenuto una lettera, dalla quale resulta che i Piemontesi nel
13 marzo 1849 armata mano avevano preso possesso di Calice, ravvivando
in mal punto la vecchia contesa.[641] — Ma chi pospone la Patria al
cordoglio d'ingiuria patita, non merita sedere al Governo degli Stati;
e noi considerando le necessità di questa nostra inclita Madre, e
le nobili parole della Corona Toscana, che, confortando il Popolo a
sopportare magnanimo i colpi di fortuna, diceva: «E noi non disperiamo
della Italia, e siamo risoluti di durare nel proposito, che ci fece
unire le nostre armi a quelle del re Carlo Alberto, nè per isventure
sapremo mai separarci da lui;»[642] non volemmo venire meno al dovere
nostro. Dica pertanto Lorenzo Valerio, se scrisse dirittamente Pasquale
Berghini (se pure lo scrisse) quanto si legge stampato nel Libro III,
pag. 132, dell'Opera di L. C. Farini, che avversi noi al Piemonte,
malgrado le misere superbie nostre, non avremmo avuto uno scudo nè un
soldato per la guerra della Indipendenza. Appena vedemmo questo amico
fidato, non ci versammo nelle sue braccia con amore, e non deplorammo
insieme le miserie le quali avevano impedito che il nostro Popolo e
il suo procedessero come a fratelli veri si addice? E dopochè furono
reiterate le affettuose accoglienze, più volte venendo a trattare dei
bisogni della Patria, non ci legammo per fede con lui, che la causa
del Piemonte, e con essa la causa d'Italia, avremmo con ogni supremo
sforzo soccorsa? Conobbe in noi punto, il Valerio, stupido astio per la
grandezza che il Piemonte deve avere, se piace a Dio, onde sia baluardo
efficace d'Italia? — Io penso che Lorenzo Valerio, aperto, schietto e
affettuoso Legato del Piemonte, avesse motivo di chiamarsi contento di
me, assai più di qualche altro che volle giocare meco di arguzia, e non
comprese nulla.
Le maliziette e le saccenterie, mel creda chi legge, arruffano più che
altri non pensa; e se ne giovano i guastamestieri e quelli che, non
avendo cuore nè mente da accogliere concetti grandi, apportano nella
trattativa dei negozii politici le arti del sensale. Fu conclusione
dei ragionamenti nostri, che per noi si sarebbe fatta diligentissima
provvista di danari e di soldati, intanto che pel medesimo ufficio
egli si recherebbe a Roma. Queste conferenze accadevano nel 10 marzo
1849; però lascio considerare quali fossero la mia maraviglia e il
mio dolore, quando nelle prime ore del giorno 16 marzo venni fatto
avvertito da Livorno, Domenico Buffa avere proclamato nel giorno
antecedente a Genova rotto lo armistizio Salasco. Mi condussi a casa
Montanelli, il quale da parecchi giorni giaceva infermo, e quivi mandai
per Valerio, che quantunque per i molti disagi sofferti, e per la
tremenda ansietà dell'animo, fosse anch'egli ridotto in pessimo stato
di salute, pur venne; e udita la novella, egli, la fronte includendo
nel cavo della destra e stringendola con le aperte dita, come persona
che la dolorosa moltitudine dei pensieri intenda concentrare in
uno solo, più volte esclamò: «Ed avevano promesso aspettare il mio
«ritorno!» — Credo potermi ricordare eziandio, ch'egli aggiungesse:
«Vogliono perdere tutto!» Non essendone sicuro, io non lo accerto. Ma
perchè riesca anche in questa parte compíta la difesa contro l'accusa
che mi mettono addosso, pongo senz'altro comento, chè tutto spiega
da sè, la minuta di lettera confidenziale trovata dall'Accusa negli
Archivii del Governo, e da lei stampata a pag. 220 del suo Volume.
«Signor Ministro,
«Appoggiandosi sul fatto dell'armistizio prosciolto e delle ostilità
riprese, il Generale La Marmora ha dichiarato d'occupare Pontremoli e
Fivizzano, sotto colore di essere spedito a scendere dall'Appennino in
Lombardia.
«Io e il Governo Provvisorio abbiamo sentito la trista nuova della
prepotenza che il Piemonte così stranamente ci arreca, e sebbene con
animo conturbatissimo, pure abbiamo dato ordine rapidamente alle nostre
truppe di lasciar passare le truppe sarde, perchè la guerra ripresa
non corresse l'orribile rischio di cominciare con un'avvisaglia fra
Piemontesi e Toscani.
«Questo contegno del Governo Sardo è per me inesplicabile: mi affretto
però a chiedere confidenzialmente tutte quelle spiegazioni che
reputerete più opportune a togliere di mezzo i dubbii che la condotta
del vostro Generale insinua gravissimi nell'animo mio.
«Avvezzo a conoscere le tergiversazioni e gl'indugi, coi quali
il Governo Piemontese ci ha condotti e tenuti sospesi sulle cose
di Lunigiana, io non posso infatti considerare come un semplice
avvenimento di guerra, quello della occupazione di Pontremoli e
Fivizzano, e credo quindi avere il diritto di ottenere convenevoli
spiegazioni.
«Per ciò che riguarda poi il Piemonte, io non penso che egli farebbe
opera utile neppure a sè stesso, cominciando con tali atti la guerra,
e non correggendoli colle spiegazioni opportune. Non penso neppure che
il Governo siasi portato convenientemente coll'istesso Valerio, che di
tutte queste cose va ignaro, e al quale noi abbiamo resa testimonianza
di tutta fiducia, e pei diritti d'un'antica personale amicizia, e più
per quelli della rappresentanza d'un Popolo fratello.
«Che anzi in questo stesso momento mi giunge notizia, che la presenza
di truppe sarde in Lunigiana abbia già suscitato una serie di atti
di rivolta, contro i quali io v'invito a protestare energicamente,
dichiarando lo scopo dello stanziamento delle dette truppe, e invitando
quella popolazione alla più severa osservanza degli ordini stabiliti.
Che se il Governo Piemontese poi non vorrà aderire a queste mie
giustissime richieste, io sento il dovere d'ammonirvi delle tristissime
conseguenze di un simil contegno, e di farvi noto che dove per voi si
tenti di rompere guerra alla Toscana, menomando il suo territorio o
_fomentando la ribellione_, la Toscana potrebbe bene accettarla e fare
proclamare la Repubblica a Genova, e sostenere con altri mezzi una
ostilità sconsigliata, colla quale dareste principio a una serie forse
infinita d'errori e di colpe, e dalla quale penso che aborrirete come
ogni generoso Italiano.
«Qui dunque è necessario che il Governo Piemontese dichiari apertamente
i suoi intendimenti, e corregga l'odiosità delle apparenze colle prove
più amichevoli verso di noi.
«Io e il Governo che rappresento non abbiamo che una via, e la
percorreremo energicamente (e il Proclama che vi accludo e la Legge
sull'imprestito coatto vi faranno fede di ciò); ma se le nostre
relazioni non sieno accompagnate dalla più illimitata fiducia, noi non
potremo percorrerla più, e su voi ricadrà tutta l'odiosità della nostra
impotenza. Si tolga dunque di mezzo ogni causa che spenge l'entusiasmo
e l'amore che deve congiungere i due Popoli e i due Governi, e
speditemi quanto prima potete le spiegazioni che chieggo. Vi saluto
distintamente ec.
«Dalla Residenza del Governo Provvisorio Toscano, li 17 marzo 1849.»
Nonostante che il Governo Provvisorio questi casi sentisse amaramente,
e lo significasse al Ministero Sardo, dissimulava il torto; e così,
riportando il Proclama del Generale La Marmora, coloriva la cosa nel
_Monitore_ del 22 marzo 1849:
«Il Generale La Marmora alla testa di un numero considerevole di
Piemontesi è entrato in Lunigiana; _e in forza di alcune disposizioni
che il Governo Sardo aveva preventivamente concordato col Governo
Toscano, per causa della guerra_, è da sperarsi che nulla conturberà
il momentaneo ricovero richiesto e ottenuto dalle truppe piemontesi nel
suo passaggio.»
Il Generale La Marmora pubblicava entrando il seguente Proclama:
«Abitanti della Lunigiana!
«Il Piemonte ha tenute le sue promesse. Spese l'intervallo della tregua
a rinforzare e migliorare l'armata, senza perdonare a sacrifizio di
sorta; accresciutene le file di ben 40,000 uomini, ecco che dichiara
la guerra, ed il Re si pone alla testa della magnanima impresa.
Per cooperarvi ho ordine di passare fra voi; ma la mia momentanea
occupazione di coteste valli non è che militare, ed affatto estranea
alla vostra interna politica. Qualche incomodo vi recherà forse il
nostro passaggio. Ogni cosa sarà però pagata esattamente, nè d'alcuna
molestia v'avrete a lagnare. Noi non vi chiediamo che un momentaneo
ricovero; e ben lo speriamo nella nostra qualità di fratelli vostri,
e per la missione nostra di liberare altri comuni infelici fratelli.
— E siccome la santa causa che siamo chiamati a sostenere vi desta
nell'animo quelli stessi generosi sentimenti che noi nutriamo, il
comune entusiasmo si confonda col solo grido di
«Viva la Indipendenza Italiana.
«_Il Generale_ — ALFONSO LA MARMORA.»
Io non accuso, mi discolpo, e neanche spontaneo, ma costretto; e non
sono andato già io a ricercare queste carte importune, bensì l'Accusa,
e le ha stampate, ed ora vendonsi; sicchè trovandosi oggimai di
pubblica ragione, chiedo in grazia di non essere ripreso di poco cuore,
come quello che alla dignità della Patria non abbia saputo donare il
proprio silenzio. Però supplico fervorosamente Dio a volere che queste
carte, invece (come altri iniquamente spera) di somministrare materia a
nuove ire, persuadano la tolleranza scambievole che nasce dal sentirci
tutti quanti siamo non immuni da errore; insegnino ad assumere la
severa gravità ch'è indizio di Popolo che si rigenera, e consiglino
gl'improvvidi scrittori, avvegnachè il Sammaritano non infondesse nelle
piaghe del trafitto asfalto, ma vino e olio; ed è così soltanto che
possono dirsi pace anche i Giudei ed i Sammaritani.
Esaminiamo adesso se la protervia mia nello attraversare il disegno
della Restaurazione, e nello instituire ad ogni costo la Repubblica, mi
facessero meritevole di cosa, che per demerito altrui non si giustifica
mai, voglio dire il tradimento.
Le mie tergiversazioni, per gittarmi poi al Partito trionfatore,
indignarono forse gli animi dei Costituzionali ortodossi, come
hanno commosso i Giudici del Decreto del 7 gennaio 1851, sicchè
vollero venire a mezzo ferro e farne un fine? Questo supposto può
scriversi dai Giudici, ma non può sostenersi da cui goda del bene
dello intelletto, perchè le mie informazioni sì antiche che recenti
m'istruivano che i toscani Popoli avversavano le forme repubblicane.
Riporto a testimonianza di fede, davanti gli uomini di tutti i partiti,
i Documenti che seguono. — Per somministrare schiette e leali notizie
ai miei avversarii, che parteggiavano per la Repubblica impossibile,
domando al Governo di Livorno: «Ditemi se gioverebbe più ad animare o
la idea della difesa della nostra terra, o la idea della Repubblica.
_Intendo che si presenta lo spirito di tutto il Popolo, non già di
una classe o di una fazione._»[643] Rispondeva il sagace uomo Avvocato
Massei:
«Al Cittadino Guerrazzi, Rappresentante il Governo Toscano.
«Crederei più opportuno toccare in genere della difesa della Patria
contro lo straniero, piuttosto che della forma di Governo col Popolo.
Così faccio io nelle mie brevi parole al balcone, e non senza qualche
effetto.»
Avuta questa risposta, insistevo col Dispaccio telegrafico del medesimo
giorno:
«Continui sempre a consultare lo spirito pubblico. Animi per la
difesa del territorio. Purchè vogliamo davvero, difenderemo il Paese
dall'invasione straniera. Chiunque vuol tutelare la Patria, parta
subito e faccia massa a Firenze. Qui si istruiscono, e poi s'inviano
al campo. Essendo uomo di Governo, non le raccomando di ridurre i
Livornesi a temperanza e modestia, e al vero amore della libertà.
«D'Apice è in viaggio. Ricevetelo come merita. Gioventù, alle armi. La
Patria non muore mai.»
Interrogato con diligenza il Prefetto di Pisa, informava sollecito: «La
Unificazione con Roma ha contro di sè l'opinione generale. La difesa
del Paese sarebbe la formula che concilierebbe senza confronto il
maggiore consenso. Ciò ritenuto, il pronunziarsi per questa gioverebbe
in quanto a rassicurare da ogni inquietudine sulla Unificazione. Ma
anche la formula della difesa non va esente dalle difficoltà per lo
spirito delle popolazioni di campagna poco disposte ad adattarsi ai
mezzi di esecuzione. È verità, e bisogna dirlo.»
Il Prefetto di Lucca anch'esso: «La Unificazione con Roma aumenterebbe
i mezzi materiali, ma diminuirebbe i morali religiosamente e
politicamente; nel primo senso sarebbe preferita; nel secondo temuta e
schivata.»[644]
Uguali rapporti venivano dalle altre provincie toscane, i quali non
mi è dato riferire, però che nel Volume dei Documenti dell'Accusa io
non li trovi impressi, e gli Archivii non mi sieno stati conceduti
fin qui. Nonostante questo, è sicuro che tutti suonassero nella stessa
guisa, avvegnadio nella conferenza segreta del 3 aprile io dichiarai
espresso la Toscana procedere, per la massima parte, avversa alla
Repubblica ed alla Unificazione con Roma, e il Ministro dello Interno,
più tardi, nella pubblica Assemblea, adempiendo al suo dovere, senza
rispetto significò: «Vi sono Rapporti dei nostri pubblici funzionarj,
e dei pubblici funzionarj di un ordine più elevato (per esempio i
Prefetti) intorno alla idea della Unificazione della Toscana con Roma.
Se debbo qui fedelmente esporre quello che a me da questi funzionarj
vien riferito, dirò, che la massima parte della popolazione toscana
recalcitra alla immediata Unificazione con Roma: alcuni perfino ne
fanno argomento di timore per non poter conservare l'ordine pubblico,
quando questa Unificazione fosse legalmente e definitivamente
proclamata da questa Assemblea, mentre all'opposto la opinione contro
qualunque ingiustissima invasione straniera potrebbe crescere fino al
furore.»
Nel 2 aprile 1849 indirizzo al signor Presidente dell'Assemblea
Costituente Toscana la lettera seguente:
«Signor Presidente dell'Assemblea Costituente Toscana.
«In coscienza, e sopra l'anima mia, considerate attentamente le volontà
e le cose, io credo che non possa salvarsi, o almeno tentare di salvare
il Paese, laddove non siano dall'Assemblea consentite queste cose:
«1º I pieni poteri non sieno illusione nè facoltà che scappano ogni
momento di mano, ma libero esercizio di pensare e attuare subito quanto
si reputa necessario per la salute della Patria.
«2º Proroga dell'Assemblea a tempo determinato o indeterminato, con
obbligo nel Potere Esecutivo di non risolvere intorno alle sorti del
Paese senza consultarla, — pena la dichiarazione di traditore.
«3º Sospensione di ogni quistione intorno alla forma del Governo.
«4º I Deputati rimangano a Firenze per condursi a richiesta del Potere
Esecutivo, in qualità di Commissarii per la Guerra, nelle Provincie, e
sovvenirlo in altra maniera.
«Per me non vi vedo altra via. L'Assemblea deliberi. Scelga chi vuole
per Capo, Dittatore, o che altro; le parole sono nulla, le cose tutto.
Io sarò lieto di mostrare come deva obbedire chi ama la Patria davvero.
Addio.
«A dì 2 aprile 1849.
«Amico — GUERRAZZI.»
Chiamo i signori Prefetto Massei e Consigliere Paoli a Firenze per
assistere alla Tornata dell'Assemblea del 3 aprile, perchè essi
somministrassero schiarimenti sul modo col quale avevano saggiato
lo spirito pubblico allorquando, a Livorno e a Pisa, lo avevano
detto contrario alla Repubblica, e la opinione loro sostenessero
apertamente.[645] In quel giorno mi viene offerto da Livorno un
Battaglione di Volontarii, ed importa apprendere il come: «Feci
conoscere (scrive Massei) al Ministro dello Interno la necessità
di decidersi per l'accettazione o il rifiuto della offerta di un
Battaglione di Volontarii fatto da alcuni patriotti livornesi,
sotto nome di _Battaglione repubblicano, pronti a renunziare al
nome_.»[646] Ed io rispondo come si legge a pag. 625. Poche ore dopo,
riparando all'oblio del nome, con Dispaccio telegrafico, aggiungo: «il
Battaglione può chiamarsi _Del Fante_, livornese, morto a Krasnoie.
Ritenuto quanto ho detto su le armi e su gli Ufficiali, si metta in
via.»[647]
Nel giorno 3 aprile accadde la Seduta memorabile dell'Assemblea, nella
quale per certo io non lusingai parte repubblicana, nè essa lusingò me,
e fu detto di sopra: in quel giorno stesso certo ufficiale della Posta
mi portava un plico aperto diretto a lui, dove stavano incluse lettere
per gli spettabili signori Ottavio Lenzoni, Cesare Capoquadri, Orazio
Ricasoli, Gino Capponi, conte Serristori, ed altri parecchi, di cui non
rammento il nome, raccomandandogli che facesse recapitarle al domicilio
dei segnati. Sospetto era lo invio; ritenni si trattasse di trame, e il
tenore della lettera breve mandata all'ufficiale confermava grandemente
il dubbio: pure rimisi ai mentovati Signori le lettere col sigillo
intatto, e solo gl'invitai a non volere partecipare ad intrighi,
rendendomi più grave il fascio già troppo per le mie braccia. Ora ho da
dire che commisi al Segretario scrivesse conoscerne io il contenuto, ma
il fatto sta che, non avendole aperte, io non lo conosceva. Siccome al
mondo tutta cortesia non è anche spenta, così qualcheduno, a cui duole
del mio non degno strazio, mi fa tenere per mezzo del mio Difensore una
copia della lettera da lui ricevuta onde me ne valga, la quale dichiara
così:
«Al vero Cittadino.
«Non vi è tempo da perdere. Movetevi una volta con coraggio, senza
timore. La Toscana tutta reclama anche da voi la sua salvezza, ed è
dovere di farlo. Correte, ma subito, dai soggetti in calce notati;
stringetevi con i medesimi, e _d'accordo col Municipio andate da
Guerrazzi per concertare il modo, prima per tutelare l'ordine, e quindi
per salvare la Patria da una invasione austriaca_. Il Principe confida
anche in voi, e i Toscani non dimenticheranno il vostro nome, che sarà
scolpito in un monumento inalzato a eterna memoria dei benemeriti della
Patria.»
N. B. La lettera non ha data, ma ha il bollo di Posta del 30 marzo
1849, ed è scritta, o sottoscritta così: «IL COMITATO DEI VERI
CITTADINI.»
Dunque, nel 3 aprile, nella comune estimativa io non era reputato
avverso alla restaurazione del Principato Costituzionale? All'opposto,
me giudicavano attissimo a restituirlo in Toscana. Dunque allora non
pensava la gente che i miei fatti e i miei detti mi palesassero uomo
capace di tenere due corde al suo arco. Dunque nessuno si avvisava che
io fossi di cuore _doppio_, ma sì all'opposto me tenevano per tale,
da sicuramente confidarmi il disegno del richiamo del Principe, e del
medesimo prendermi a parte.
Quantunque non sia mio instituto esaminare le risposte date dai
testimoni, che l'Accusa stessa ricercò, tuttavolta, occorrendomi
leggere i deposti relativi ai giorni 11 e 12 aprile, poichè mi cade
il taglio mi giova riportare quello che intorno alla mia propensione
di restaurare il Principato Costituzionale dichiarino alcuni
spettabili Cittadini. Il signor Dottore Venturucci, animoso e dabbene,
interrogato se per me si manifestassero tendenze alla Restaurazione,
risponde: «A onore del vero, dirò, che interpellando io il Guerrazzi
come Capo del Potere Esecutivo, mentre si parlava di dover fare una
guerra insurrezionale, su le disposizioni del Popolo Toscano, su
quelle delle Milizie, intorno ai termini della Toscana con gli Stati
Italiani ed Esteri, il signor Guerrazzi si mostrò molto pago di queste
interpellazioni, e si diè a rispondere: — _La disposizione del Popolo
Toscano è manifestamente per Leopoldo II_: la soldatesca si compone di
gente non buona, in ispecie Volontarii; — e rivoltosi _a Montanelli
ch'era tornato di recente_, soggiunse: — dillo tu. — E Montanelli
assentiva con lacrimevole storia. — Inoltre, egli aggiungeva, tranne
che con Venezia e con Roma, non siamo in buoni termini con altri
Governi; _anzi, nè anche con Roma ci troviamo in perfetto accordo, e
nella intimità_ che uomo potrebbe credere, però che il Mazzini quando
stette a Firenze fu poco contento di noi, non avendo io voluto che si
alzassero gli Alberi, nè si proclamasse la Unione con Roma, e dovei
penare molto perchè ciò non si facesse. Noi non siamo in termini
officiali con nessuna Potenza; nessuna ci ha voluto riconoscere; solo
il Ministro inglese mantiene con noi termini officiosi.»
I Giudici del 7 gennaio 1851, questo chiamano _parlare coperto_. «Onde,
— il signor Venturucci continua, — da tutte queste cose, ed _anche da
altre risposte_ del Guerrazzi, sembrerebbe potesse ragionevolmente
arguirsi essere in lui stata la tendenza a operare la Restaurazione
Costituzionale, _e che per questo soltanto cercasse ottenere un voto di
fiducia, e avere in mano il potere assoluto_.»
Vuolsi notare come il Montanelli tornasse di Lunigiana il 10 marzo
1849,[648] e però cotesti discorsi accadevano nel 12 o 13 dello stesso
mese, che secondo il calendario della onesta Accusa succederebbero
il 27 marzo, che fu giorno doloroso per la notizia della battaglia di
Novara.
Il Professore Taddei, schietto e leale, testimoniando del vero, dice:
«Posso rispondere, che dalle sue espressioni sì di quel giorno (12
aprile 1849), che dei _giorni precedenti_, si rilevava benissimo
ch'egli non solo non avversava la ripristinazione della Monarchia,
ma che anzi vi si mostrava proclive. La quale proclività dava a me
fondamento per lusingarmi, che egli volesse e sapesse trovare modo di
fare questo passaggio in conformità del desiderio universale nei modi
più atti _per risparmiare il sangue, e per conciliare nel tempo stesso
la dignità del Paese_.» Nè alla età del signor Taddei si mentisce,
perchè potrebbero fare all'illustre vecchio mali gravi, non lunghi, e
l'uomo compreso nei casti pensieri del sepolcro aborrisce macchiare
d'infamia la veneranda canizie. Di Ferdinando Zannetti ho favellato
altrove. Potrei citare i signori Emilio Nespoli e Avvocato Giuseppe
Panattoni, ma per non allungare di soverchio le citazioni, ed essendo
eglino meno espliciti degli allegati, credo bene porre fine a questo
negozio, che più propriamente è materia dell'Avvocato difensore.
Nè questa opinione furono soli a concepirla i Fiorentini, chè nel
_Messaggere del Galignani_, in data del 7 aprile 1849, occorre questa
notizia: «Leggiamo in una lettera da Firenze del 1º. Corre fama che
Guerrazzi, _il quale non è stato mai partigiano della Repubblica_,
siasi fatto Dittatore unicamente allo scopo di avere più agio a
restaurare l'autorità del Granduca.»[649]
Ed appartiene eziandio a questo periodo il Documento che segue:
_Istruzioni che il Ministro della Guerra dà al Generale D'Apice, state
precedentemente concertate col Capo del Governo_.
«1. Provocherà in Lucca, Pietrasanta, Massa ec., lo spirito pubblico
per la difesa del Paese, mostrando tutti i pericoli della invasione,
e rammentando di frequente gli orrori di cosiffatta sventura. Saggerà
bene il genio del Popolo; e se gioverà, per allacciare più consensi,
lasciar da parte la questione sulla forma di Governo, sì il faccia. —
Però la mobilizzazione deve essere immediata; si metta d'accordo con le
Autorità, e avvenga per amore o per forza, in specie per le campagne.
«2. Destramente conosca, e mi referisca se proclamare la Repubblica e
la Unione con Roma sarebbe adesso argomento di forza, o piuttosto di
dissoluzione.
«3. Avvenendo qualche moto di ribellione o attentato alle vite ed
alle sostanze, secondi le Autorità locali per reprimerlo e punirlo
acerbissimamente.
«4. Non concedendo il tempo ristabilire la disciplina con modi graduali
e blandi, bisogna tentare, se si può, con modi severi. Quindi sia
inesorabile: non raccomando giusto, sapendo quanta sia la giustizia
sua. Per _converso_, largheggi ai meritevoli di ricompense. Faccia
sentire al soldato, la guerra essere un mestiere che giova, il merito
cosa da trarne immediato vantaggio, la disciplina fruttare onore e
sicurezza.
«5. Tenga ilare e _perpetuamente occupato_ il soldato. Qui sta il
gran segreto della disciplina. Il Capitano che può affaticare di più
i soldati gli avrà meglio disciplinati; perchè il lavoro afforza le
membra, persuade la condotta regolare, e stanca la persona. Vorrei si
esercitassero ai lavori di zappa, vanga ec.
«6. Con la solita sua prudenza può mostrare il Generale che la difesa
del Paese, e della integrità del territorio, è cosa che tutti i Partiti
desiderano, e di cui _tutti i Governi_ domanderanno conto ai soldati,
qualora vilmente si ricusino. _Ritornando anche Leopoldo, terrà in
dispregio un'armata che non seppe conservare alla Toscana la Lunigiana,
Massa e Carrara_.»
«7. Difenderà la Frontiera ad ogni costo; e cercherà con ogni diligenza
conoscere gli avvenimenti oltre la Frontiera, così per la parte dei
Piemontesi, come per quella degli Estensi, e ne darà ragguaglio fino a
Lucca con staffetta; da Lucca a Firenze per telegrafo.
«8. Adoprerà tutti i mezzi per accordarsi col Governo Piemontese e
co' Liguri, per far causa comune contro il nemico tenendosi sopra la
difensiva; però non gli si toglie la facoltà d'imprendere l'offensiva
quante volte giovi alla difensiva.
«9. Lo stesso anche più ampiamente dicasi per la parte degli Stati
Romani, che considererà sempre come destinati a formare una stessa
famiglia con noi, se i casi non vogliono altrimenti.
«10. Finalmente vigilerà a impedire qualunque complicanza col suscitare
inopportune quistioni politiche con gli Stati confinanti.
«11. Non gli si raccomanda che in ogni evento salvi l'onore del Paese,
perchè in questo il General D'Apice non ha mestieri di raccomandazione.
«12. Le migliori truppe saranno postate nei passi più deboli della
linea di difesa. — Organizzare una riserva in seconda linea in modo da
soccorrere con celerità i posti attaccati.
«Firenze a dì 1º aprile 1849.
«G. MANGANARO.»
L'Accusa legge con l'occhio cieco del Bano di Croazia l'ordine di
lasciare da parte la quistione su la forma del Governo, e l'altro
infelici della guerra. Bene è vero che il Governo piemontese crebbe
fino a 135 mila uomini lo esercito nel gennaio del 1849; ma come
nei corpi umani la grassezza è segno di floscio, così neanche negli
eserciti il numero denota forza; e a tutto vuolsi tempo, anche facendo
presto: la colpa _sta nel non fare nulla, e dare ad intendere di
aver fatto_. Napoleone sviluppato dalle nevi russe corre in Francia,
e prende gente sì, non soldati, per avventurarla ciecamente su le
pianure di Dresda e di Lipsia, come un giuocatore disperato si giuoca
il danaro dell'ultimo pegno che ha portato al Presto. Questo dicasi
rispetto alle milizie stanziali. In quanto ai Volontarii, gli spiriti
procedevano alquanto rimessi dopo la prima guerra in Lombardia, però
che a molti stava sul cuore la giornata del 29 maggio, in cui 3 mila
circa Toscani furono lasciati soli a combattere onoranda ma dolente
battaglia contro gli Austriaci grossi di 35,000 uomini, nonostante
che fossero stati confortati a tenere il fermo, con la promessa di
sollecito soccorso.[638] Arrogi, che fino a tanto resse Gioberti, egli
rifuggì da noi come il Diavolo dall'acqua santa; e quando gli subentrò
Presidente al Ministero il Generale Chiodo, là su le frontiere dove
tenevamo soldati per la comune difesa, ce li corrompevano i _maledetti
zelanti_ del Piemonte, peste dei Governi, e mille volte peggiori degli
stessi nemici, e li traevano a disertare con armi e bagagli.[639]
Il _Conciliatore_ riportava queste notizie senza un filo di biasimo
per gl'imbroglioni; e se punto io m'intendo di favella, con tale un
garbo che dava ad intendere come cotesti fatti non lo infastidissero
troppo:[640] sicchè pareva (per non dire troppo) strano, che dopo venti
giorni egli ci conciasse così di santa ragione, se non avevamo da dare
i soldati che ci portavano via, e se non volavamo a farci ammazzare per
fratelli che mostravano _volerci dare il pane con la balestra_.
Dopo che Creonte esultò per l'empie liti di Eteocle e Polinice, può
da un punto all'altro, mutati indole e costume, buttata là la clamide
greca, e vestito il ferraiuolo di Tartufo, farsi esprobatore dell'uno,
perchè guardasse l'altro in cagnesco? L'Accusa rovistando carte non
mie ha rinvenuto una lettera, dalla quale resulta che i Piemontesi nel
13 marzo 1849 armata mano avevano preso possesso di Calice, ravvivando
in mal punto la vecchia contesa.[641] — Ma chi pospone la Patria al
cordoglio d'ingiuria patita, non merita sedere al Governo degli Stati;
e noi considerando le necessità di questa nostra inclita Madre, e
le nobili parole della Corona Toscana, che, confortando il Popolo a
sopportare magnanimo i colpi di fortuna, diceva: «E noi non disperiamo
della Italia, e siamo risoluti di durare nel proposito, che ci fece
unire le nostre armi a quelle del re Carlo Alberto, nè per isventure
sapremo mai separarci da lui;»[642] non volemmo venire meno al dovere
nostro. Dica pertanto Lorenzo Valerio, se scrisse dirittamente Pasquale
Berghini (se pure lo scrisse) quanto si legge stampato nel Libro III,
pag. 132, dell'Opera di L. C. Farini, che avversi noi al Piemonte,
malgrado le misere superbie nostre, non avremmo avuto uno scudo nè un
soldato per la guerra della Indipendenza. Appena vedemmo questo amico
fidato, non ci versammo nelle sue braccia con amore, e non deplorammo
insieme le miserie le quali avevano impedito che il nostro Popolo e
il suo procedessero come a fratelli veri si addice? E dopochè furono
reiterate le affettuose accoglienze, più volte venendo a trattare dei
bisogni della Patria, non ci legammo per fede con lui, che la causa
del Piemonte, e con essa la causa d'Italia, avremmo con ogni supremo
sforzo soccorsa? Conobbe in noi punto, il Valerio, stupido astio per la
grandezza che il Piemonte deve avere, se piace a Dio, onde sia baluardo
efficace d'Italia? — Io penso che Lorenzo Valerio, aperto, schietto e
affettuoso Legato del Piemonte, avesse motivo di chiamarsi contento di
me, assai più di qualche altro che volle giocare meco di arguzia, e non
comprese nulla.
Le maliziette e le saccenterie, mel creda chi legge, arruffano più che
altri non pensa; e se ne giovano i guastamestieri e quelli che, non
avendo cuore nè mente da accogliere concetti grandi, apportano nella
trattativa dei negozii politici le arti del sensale. Fu conclusione
dei ragionamenti nostri, che per noi si sarebbe fatta diligentissima
provvista di danari e di soldati, intanto che pel medesimo ufficio
egli si recherebbe a Roma. Queste conferenze accadevano nel 10 marzo
1849; però lascio considerare quali fossero la mia maraviglia e il
mio dolore, quando nelle prime ore del giorno 16 marzo venni fatto
avvertito da Livorno, Domenico Buffa avere proclamato nel giorno
antecedente a Genova rotto lo armistizio Salasco. Mi condussi a casa
Montanelli, il quale da parecchi giorni giaceva infermo, e quivi mandai
per Valerio, che quantunque per i molti disagi sofferti, e per la
tremenda ansietà dell'animo, fosse anch'egli ridotto in pessimo stato
di salute, pur venne; e udita la novella, egli, la fronte includendo
nel cavo della destra e stringendola con le aperte dita, come persona
che la dolorosa moltitudine dei pensieri intenda concentrare in
uno solo, più volte esclamò: «Ed avevano promesso aspettare il mio
«ritorno!» — Credo potermi ricordare eziandio, ch'egli aggiungesse:
«Vogliono perdere tutto!» Non essendone sicuro, io non lo accerto. Ma
perchè riesca anche in questa parte compíta la difesa contro l'accusa
che mi mettono addosso, pongo senz'altro comento, chè tutto spiega
da sè, la minuta di lettera confidenziale trovata dall'Accusa negli
Archivii del Governo, e da lei stampata a pag. 220 del suo Volume.
«Signor Ministro,
«Appoggiandosi sul fatto dell'armistizio prosciolto e delle ostilità
riprese, il Generale La Marmora ha dichiarato d'occupare Pontremoli e
Fivizzano, sotto colore di essere spedito a scendere dall'Appennino in
Lombardia.
«Io e il Governo Provvisorio abbiamo sentito la trista nuova della
prepotenza che il Piemonte così stranamente ci arreca, e sebbene con
animo conturbatissimo, pure abbiamo dato ordine rapidamente alle nostre
truppe di lasciar passare le truppe sarde, perchè la guerra ripresa
non corresse l'orribile rischio di cominciare con un'avvisaglia fra
Piemontesi e Toscani.
«Questo contegno del Governo Sardo è per me inesplicabile: mi affretto
però a chiedere confidenzialmente tutte quelle spiegazioni che
reputerete più opportune a togliere di mezzo i dubbii che la condotta
del vostro Generale insinua gravissimi nell'animo mio.
«Avvezzo a conoscere le tergiversazioni e gl'indugi, coi quali
il Governo Piemontese ci ha condotti e tenuti sospesi sulle cose
di Lunigiana, io non posso infatti considerare come un semplice
avvenimento di guerra, quello della occupazione di Pontremoli e
Fivizzano, e credo quindi avere il diritto di ottenere convenevoli
spiegazioni.
«Per ciò che riguarda poi il Piemonte, io non penso che egli farebbe
opera utile neppure a sè stesso, cominciando con tali atti la guerra,
e non correggendoli colle spiegazioni opportune. Non penso neppure che
il Governo siasi portato convenientemente coll'istesso Valerio, che di
tutte queste cose va ignaro, e al quale noi abbiamo resa testimonianza
di tutta fiducia, e pei diritti d'un'antica personale amicizia, e più
per quelli della rappresentanza d'un Popolo fratello.
«Che anzi in questo stesso momento mi giunge notizia, che la presenza
di truppe sarde in Lunigiana abbia già suscitato una serie di atti
di rivolta, contro i quali io v'invito a protestare energicamente,
dichiarando lo scopo dello stanziamento delle dette truppe, e invitando
quella popolazione alla più severa osservanza degli ordini stabiliti.
Che se il Governo Piemontese poi non vorrà aderire a queste mie
giustissime richieste, io sento il dovere d'ammonirvi delle tristissime
conseguenze di un simil contegno, e di farvi noto che dove per voi si
tenti di rompere guerra alla Toscana, menomando il suo territorio o
_fomentando la ribellione_, la Toscana potrebbe bene accettarla e fare
proclamare la Repubblica a Genova, e sostenere con altri mezzi una
ostilità sconsigliata, colla quale dareste principio a una serie forse
infinita d'errori e di colpe, e dalla quale penso che aborrirete come
ogni generoso Italiano.
«Qui dunque è necessario che il Governo Piemontese dichiari apertamente
i suoi intendimenti, e corregga l'odiosità delle apparenze colle prove
più amichevoli verso di noi.
«Io e il Governo che rappresento non abbiamo che una via, e la
percorreremo energicamente (e il Proclama che vi accludo e la Legge
sull'imprestito coatto vi faranno fede di ciò); ma se le nostre
relazioni non sieno accompagnate dalla più illimitata fiducia, noi non
potremo percorrerla più, e su voi ricadrà tutta l'odiosità della nostra
impotenza. Si tolga dunque di mezzo ogni causa che spenge l'entusiasmo
e l'amore che deve congiungere i due Popoli e i due Governi, e
speditemi quanto prima potete le spiegazioni che chieggo. Vi saluto
distintamente ec.
«Dalla Residenza del Governo Provvisorio Toscano, li 17 marzo 1849.»
Nonostante che il Governo Provvisorio questi casi sentisse amaramente,
e lo significasse al Ministero Sardo, dissimulava il torto; e così,
riportando il Proclama del Generale La Marmora, coloriva la cosa nel
_Monitore_ del 22 marzo 1849:
«Il Generale La Marmora alla testa di un numero considerevole di
Piemontesi è entrato in Lunigiana; _e in forza di alcune disposizioni
che il Governo Sardo aveva preventivamente concordato col Governo
Toscano, per causa della guerra_, è da sperarsi che nulla conturberà
il momentaneo ricovero richiesto e ottenuto dalle truppe piemontesi nel
suo passaggio.»
Il Generale La Marmora pubblicava entrando il seguente Proclama:
«Abitanti della Lunigiana!
«Il Piemonte ha tenute le sue promesse. Spese l'intervallo della tregua
a rinforzare e migliorare l'armata, senza perdonare a sacrifizio di
sorta; accresciutene le file di ben 40,000 uomini, ecco che dichiara
la guerra, ed il Re si pone alla testa della magnanima impresa.
Per cooperarvi ho ordine di passare fra voi; ma la mia momentanea
occupazione di coteste valli non è che militare, ed affatto estranea
alla vostra interna politica. Qualche incomodo vi recherà forse il
nostro passaggio. Ogni cosa sarà però pagata esattamente, nè d'alcuna
molestia v'avrete a lagnare. Noi non vi chiediamo che un momentaneo
ricovero; e ben lo speriamo nella nostra qualità di fratelli vostri,
e per la missione nostra di liberare altri comuni infelici fratelli.
— E siccome la santa causa che siamo chiamati a sostenere vi desta
nell'animo quelli stessi generosi sentimenti che noi nutriamo, il
comune entusiasmo si confonda col solo grido di
«Viva la Indipendenza Italiana.
«_Il Generale_ — ALFONSO LA MARMORA.»
Io non accuso, mi discolpo, e neanche spontaneo, ma costretto; e non
sono andato già io a ricercare queste carte importune, bensì l'Accusa,
e le ha stampate, ed ora vendonsi; sicchè trovandosi oggimai di
pubblica ragione, chiedo in grazia di non essere ripreso di poco cuore,
come quello che alla dignità della Patria non abbia saputo donare il
proprio silenzio. Però supplico fervorosamente Dio a volere che queste
carte, invece (come altri iniquamente spera) di somministrare materia a
nuove ire, persuadano la tolleranza scambievole che nasce dal sentirci
tutti quanti siamo non immuni da errore; insegnino ad assumere la
severa gravità ch'è indizio di Popolo che si rigenera, e consiglino
gl'improvvidi scrittori, avvegnachè il Sammaritano non infondesse nelle
piaghe del trafitto asfalto, ma vino e olio; ed è così soltanto che
possono dirsi pace anche i Giudei ed i Sammaritani.
Esaminiamo adesso se la protervia mia nello attraversare il disegno
della Restaurazione, e nello instituire ad ogni costo la Repubblica, mi
facessero meritevole di cosa, che per demerito altrui non si giustifica
mai, voglio dire il tradimento.
Le mie tergiversazioni, per gittarmi poi al Partito trionfatore,
indignarono forse gli animi dei Costituzionali ortodossi, come
hanno commosso i Giudici del Decreto del 7 gennaio 1851, sicchè
vollero venire a mezzo ferro e farne un fine? Questo supposto può
scriversi dai Giudici, ma non può sostenersi da cui goda del bene
dello intelletto, perchè le mie informazioni sì antiche che recenti
m'istruivano che i toscani Popoli avversavano le forme repubblicane.
Riporto a testimonianza di fede, davanti gli uomini di tutti i partiti,
i Documenti che seguono. — Per somministrare schiette e leali notizie
ai miei avversarii, che parteggiavano per la Repubblica impossibile,
domando al Governo di Livorno: «Ditemi se gioverebbe più ad animare o
la idea della difesa della nostra terra, o la idea della Repubblica.
_Intendo che si presenta lo spirito di tutto il Popolo, non già di
una classe o di una fazione._»[643] Rispondeva il sagace uomo Avvocato
Massei:
«Al Cittadino Guerrazzi, Rappresentante il Governo Toscano.
«Crederei più opportuno toccare in genere della difesa della Patria
contro lo straniero, piuttosto che della forma di Governo col Popolo.
Così faccio io nelle mie brevi parole al balcone, e non senza qualche
effetto.»
Avuta questa risposta, insistevo col Dispaccio telegrafico del medesimo
giorno:
«Continui sempre a consultare lo spirito pubblico. Animi per la
difesa del territorio. Purchè vogliamo davvero, difenderemo il Paese
dall'invasione straniera. Chiunque vuol tutelare la Patria, parta
subito e faccia massa a Firenze. Qui si istruiscono, e poi s'inviano
al campo. Essendo uomo di Governo, non le raccomando di ridurre i
Livornesi a temperanza e modestia, e al vero amore della libertà.
«D'Apice è in viaggio. Ricevetelo come merita. Gioventù, alle armi. La
Patria non muore mai.»
Interrogato con diligenza il Prefetto di Pisa, informava sollecito: «La
Unificazione con Roma ha contro di sè l'opinione generale. La difesa
del Paese sarebbe la formula che concilierebbe senza confronto il
maggiore consenso. Ciò ritenuto, il pronunziarsi per questa gioverebbe
in quanto a rassicurare da ogni inquietudine sulla Unificazione. Ma
anche la formula della difesa non va esente dalle difficoltà per lo
spirito delle popolazioni di campagna poco disposte ad adattarsi ai
mezzi di esecuzione. È verità, e bisogna dirlo.»
Il Prefetto di Lucca anch'esso: «La Unificazione con Roma aumenterebbe
i mezzi materiali, ma diminuirebbe i morali religiosamente e
politicamente; nel primo senso sarebbe preferita; nel secondo temuta e
schivata.»[644]
Uguali rapporti venivano dalle altre provincie toscane, i quali non
mi è dato riferire, però che nel Volume dei Documenti dell'Accusa io
non li trovi impressi, e gli Archivii non mi sieno stati conceduti
fin qui. Nonostante questo, è sicuro che tutti suonassero nella stessa
guisa, avvegnadio nella conferenza segreta del 3 aprile io dichiarai
espresso la Toscana procedere, per la massima parte, avversa alla
Repubblica ed alla Unificazione con Roma, e il Ministro dello Interno,
più tardi, nella pubblica Assemblea, adempiendo al suo dovere, senza
rispetto significò: «Vi sono Rapporti dei nostri pubblici funzionarj,
e dei pubblici funzionarj di un ordine più elevato (per esempio i
Prefetti) intorno alla idea della Unificazione della Toscana con Roma.
Se debbo qui fedelmente esporre quello che a me da questi funzionarj
vien riferito, dirò, che la massima parte della popolazione toscana
recalcitra alla immediata Unificazione con Roma: alcuni perfino ne
fanno argomento di timore per non poter conservare l'ordine pubblico,
quando questa Unificazione fosse legalmente e definitivamente
proclamata da questa Assemblea, mentre all'opposto la opinione contro
qualunque ingiustissima invasione straniera potrebbe crescere fino al
furore.»
Nel 2 aprile 1849 indirizzo al signor Presidente dell'Assemblea
Costituente Toscana la lettera seguente:
«Signor Presidente dell'Assemblea Costituente Toscana.
«In coscienza, e sopra l'anima mia, considerate attentamente le volontà
e le cose, io credo che non possa salvarsi, o almeno tentare di salvare
il Paese, laddove non siano dall'Assemblea consentite queste cose:
«1º I pieni poteri non sieno illusione nè facoltà che scappano ogni
momento di mano, ma libero esercizio di pensare e attuare subito quanto
si reputa necessario per la salute della Patria.
«2º Proroga dell'Assemblea a tempo determinato o indeterminato, con
obbligo nel Potere Esecutivo di non risolvere intorno alle sorti del
Paese senza consultarla, — pena la dichiarazione di traditore.
«3º Sospensione di ogni quistione intorno alla forma del Governo.
«4º I Deputati rimangano a Firenze per condursi a richiesta del Potere
Esecutivo, in qualità di Commissarii per la Guerra, nelle Provincie, e
sovvenirlo in altra maniera.
«Per me non vi vedo altra via. L'Assemblea deliberi. Scelga chi vuole
per Capo, Dittatore, o che altro; le parole sono nulla, le cose tutto.
Io sarò lieto di mostrare come deva obbedire chi ama la Patria davvero.
Addio.
«A dì 2 aprile 1849.
«Amico — GUERRAZZI.»
Chiamo i signori Prefetto Massei e Consigliere Paoli a Firenze per
assistere alla Tornata dell'Assemblea del 3 aprile, perchè essi
somministrassero schiarimenti sul modo col quale avevano saggiato
lo spirito pubblico allorquando, a Livorno e a Pisa, lo avevano
detto contrario alla Repubblica, e la opinione loro sostenessero
apertamente.[645] In quel giorno mi viene offerto da Livorno un
Battaglione di Volontarii, ed importa apprendere il come: «Feci
conoscere (scrive Massei) al Ministro dello Interno la necessità
di decidersi per l'accettazione o il rifiuto della offerta di un
Battaglione di Volontarii fatto da alcuni patriotti livornesi,
sotto nome di _Battaglione repubblicano, pronti a renunziare al
nome_.»[646] Ed io rispondo come si legge a pag. 625. Poche ore dopo,
riparando all'oblio del nome, con Dispaccio telegrafico, aggiungo: «il
Battaglione può chiamarsi _Del Fante_, livornese, morto a Krasnoie.
Ritenuto quanto ho detto su le armi e su gli Ufficiali, si metta in
via.»[647]
Nel giorno 3 aprile accadde la Seduta memorabile dell'Assemblea, nella
quale per certo io non lusingai parte repubblicana, nè essa lusingò me,
e fu detto di sopra: in quel giorno stesso certo ufficiale della Posta
mi portava un plico aperto diretto a lui, dove stavano incluse lettere
per gli spettabili signori Ottavio Lenzoni, Cesare Capoquadri, Orazio
Ricasoli, Gino Capponi, conte Serristori, ed altri parecchi, di cui non
rammento il nome, raccomandandogli che facesse recapitarle al domicilio
dei segnati. Sospetto era lo invio; ritenni si trattasse di trame, e il
tenore della lettera breve mandata all'ufficiale confermava grandemente
il dubbio: pure rimisi ai mentovati Signori le lettere col sigillo
intatto, e solo gl'invitai a non volere partecipare ad intrighi,
rendendomi più grave il fascio già troppo per le mie braccia. Ora ho da
dire che commisi al Segretario scrivesse conoscerne io il contenuto, ma
il fatto sta che, non avendole aperte, io non lo conosceva. Siccome al
mondo tutta cortesia non è anche spenta, così qualcheduno, a cui duole
del mio non degno strazio, mi fa tenere per mezzo del mio Difensore una
copia della lettera da lui ricevuta onde me ne valga, la quale dichiara
così:
«Al vero Cittadino.
«Non vi è tempo da perdere. Movetevi una volta con coraggio, senza
timore. La Toscana tutta reclama anche da voi la sua salvezza, ed è
dovere di farlo. Correte, ma subito, dai soggetti in calce notati;
stringetevi con i medesimi, e _d'accordo col Municipio andate da
Guerrazzi per concertare il modo, prima per tutelare l'ordine, e quindi
per salvare la Patria da una invasione austriaca_. Il Principe confida
anche in voi, e i Toscani non dimenticheranno il vostro nome, che sarà
scolpito in un monumento inalzato a eterna memoria dei benemeriti della
Patria.»
N. B. La lettera non ha data, ma ha il bollo di Posta del 30 marzo
1849, ed è scritta, o sottoscritta così: «IL COMITATO DEI VERI
CITTADINI.»
Dunque, nel 3 aprile, nella comune estimativa io non era reputato
avverso alla restaurazione del Principato Costituzionale? All'opposto,
me giudicavano attissimo a restituirlo in Toscana. Dunque allora non
pensava la gente che i miei fatti e i miei detti mi palesassero uomo
capace di tenere due corde al suo arco. Dunque nessuno si avvisava che
io fossi di cuore _doppio_, ma sì all'opposto me tenevano per tale,
da sicuramente confidarmi il disegno del richiamo del Principe, e del
medesimo prendermi a parte.
Quantunque non sia mio instituto esaminare le risposte date dai
testimoni, che l'Accusa stessa ricercò, tuttavolta, occorrendomi
leggere i deposti relativi ai giorni 11 e 12 aprile, poichè mi cade
il taglio mi giova riportare quello che intorno alla mia propensione
di restaurare il Principato Costituzionale dichiarino alcuni
spettabili Cittadini. Il signor Dottore Venturucci, animoso e dabbene,
interrogato se per me si manifestassero tendenze alla Restaurazione,
risponde: «A onore del vero, dirò, che interpellando io il Guerrazzi
come Capo del Potere Esecutivo, mentre si parlava di dover fare una
guerra insurrezionale, su le disposizioni del Popolo Toscano, su
quelle delle Milizie, intorno ai termini della Toscana con gli Stati
Italiani ed Esteri, il signor Guerrazzi si mostrò molto pago di queste
interpellazioni, e si diè a rispondere: — _La disposizione del Popolo
Toscano è manifestamente per Leopoldo II_: la soldatesca si compone di
gente non buona, in ispecie Volontarii; — e rivoltosi _a Montanelli
ch'era tornato di recente_, soggiunse: — dillo tu. — E Montanelli
assentiva con lacrimevole storia. — Inoltre, egli aggiungeva, tranne
che con Venezia e con Roma, non siamo in buoni termini con altri
Governi; _anzi, nè anche con Roma ci troviamo in perfetto accordo, e
nella intimità_ che uomo potrebbe credere, però che il Mazzini quando
stette a Firenze fu poco contento di noi, non avendo io voluto che si
alzassero gli Alberi, nè si proclamasse la Unione con Roma, e dovei
penare molto perchè ciò non si facesse. Noi non siamo in termini
officiali con nessuna Potenza; nessuna ci ha voluto riconoscere; solo
il Ministro inglese mantiene con noi termini officiosi.»
I Giudici del 7 gennaio 1851, questo chiamano _parlare coperto_. «Onde,
— il signor Venturucci continua, — da tutte queste cose, ed _anche da
altre risposte_ del Guerrazzi, sembrerebbe potesse ragionevolmente
arguirsi essere in lui stata la tendenza a operare la Restaurazione
Costituzionale, _e che per questo soltanto cercasse ottenere un voto di
fiducia, e avere in mano il potere assoluto_.»
Vuolsi notare come il Montanelli tornasse di Lunigiana il 10 marzo
1849,[648] e però cotesti discorsi accadevano nel 12 o 13 dello stesso
mese, che secondo il calendario della onesta Accusa succederebbero
il 27 marzo, che fu giorno doloroso per la notizia della battaglia di
Novara.
Il Professore Taddei, schietto e leale, testimoniando del vero, dice:
«Posso rispondere, che dalle sue espressioni sì di quel giorno (12
aprile 1849), che dei _giorni precedenti_, si rilevava benissimo
ch'egli non solo non avversava la ripristinazione della Monarchia,
ma che anzi vi si mostrava proclive. La quale proclività dava a me
fondamento per lusingarmi, che egli volesse e sapesse trovare modo di
fare questo passaggio in conformità del desiderio universale nei modi
più atti _per risparmiare il sangue, e per conciliare nel tempo stesso
la dignità del Paese_.» Nè alla età del signor Taddei si mentisce,
perchè potrebbero fare all'illustre vecchio mali gravi, non lunghi, e
l'uomo compreso nei casti pensieri del sepolcro aborrisce macchiare
d'infamia la veneranda canizie. Di Ferdinando Zannetti ho favellato
altrove. Potrei citare i signori Emilio Nespoli e Avvocato Giuseppe
Panattoni, ma per non allungare di soverchio le citazioni, ed essendo
eglino meno espliciti degli allegati, credo bene porre fine a questo
negozio, che più propriamente è materia dell'Avvocato difensore.
Nè questa opinione furono soli a concepirla i Fiorentini, chè nel
_Messaggere del Galignani_, in data del 7 aprile 1849, occorre questa
notizia: «Leggiamo in una lettera da Firenze del 1º. Corre fama che
Guerrazzi, _il quale non è stato mai partigiano della Repubblica_,
siasi fatto Dittatore unicamente allo scopo di avere più agio a
restaurare l'autorità del Granduca.»[649]
Ed appartiene eziandio a questo periodo il Documento che segue:
_Istruzioni che il Ministro della Guerra dà al Generale D'Apice, state
precedentemente concertate col Capo del Governo_.
«1. Provocherà in Lucca, Pietrasanta, Massa ec., lo spirito pubblico
per la difesa del Paese, mostrando tutti i pericoli della invasione,
e rammentando di frequente gli orrori di cosiffatta sventura. Saggerà
bene il genio del Popolo; e se gioverà, per allacciare più consensi,
lasciar da parte la questione sulla forma di Governo, sì il faccia. —
Però la mobilizzazione deve essere immediata; si metta d'accordo con le
Autorità, e avvenga per amore o per forza, in specie per le campagne.
«2. Destramente conosca, e mi referisca se proclamare la Repubblica e
la Unione con Roma sarebbe adesso argomento di forza, o piuttosto di
dissoluzione.
«3. Avvenendo qualche moto di ribellione o attentato alle vite ed
alle sostanze, secondi le Autorità locali per reprimerlo e punirlo
acerbissimamente.
«4. Non concedendo il tempo ristabilire la disciplina con modi graduali
e blandi, bisogna tentare, se si può, con modi severi. Quindi sia
inesorabile: non raccomando giusto, sapendo quanta sia la giustizia
sua. Per _converso_, largheggi ai meritevoli di ricompense. Faccia
sentire al soldato, la guerra essere un mestiere che giova, il merito
cosa da trarne immediato vantaggio, la disciplina fruttare onore e
sicurezza.
«5. Tenga ilare e _perpetuamente occupato_ il soldato. Qui sta il
gran segreto della disciplina. Il Capitano che può affaticare di più
i soldati gli avrà meglio disciplinati; perchè il lavoro afforza le
membra, persuade la condotta regolare, e stanca la persona. Vorrei si
esercitassero ai lavori di zappa, vanga ec.
«6. Con la solita sua prudenza può mostrare il Generale che la difesa
del Paese, e della integrità del territorio, è cosa che tutti i Partiti
desiderano, e di cui _tutti i Governi_ domanderanno conto ai soldati,
qualora vilmente si ricusino. _Ritornando anche Leopoldo, terrà in
dispregio un'armata che non seppe conservare alla Toscana la Lunigiana,
Massa e Carrara_.»
«7. Difenderà la Frontiera ad ogni costo; e cercherà con ogni diligenza
conoscere gli avvenimenti oltre la Frontiera, così per la parte dei
Piemontesi, come per quella degli Estensi, e ne darà ragguaglio fino a
Lucca con staffetta; da Lucca a Firenze per telegrafo.
«8. Adoprerà tutti i mezzi per accordarsi col Governo Piemontese e
co' Liguri, per far causa comune contro il nemico tenendosi sopra la
difensiva; però non gli si toglie la facoltà d'imprendere l'offensiva
quante volte giovi alla difensiva.
«9. Lo stesso anche più ampiamente dicasi per la parte degli Stati
Romani, che considererà sempre come destinati a formare una stessa
famiglia con noi, se i casi non vogliono altrimenti.
«10. Finalmente vigilerà a impedire qualunque complicanza col suscitare
inopportune quistioni politiche con gli Stati confinanti.
«11. Non gli si raccomanda che in ogni evento salvi l'onore del Paese,
perchè in questo il General D'Apice non ha mestieri di raccomandazione.
«12. Le migliori truppe saranno postate nei passi più deboli della
linea di difesa. — Organizzare una riserva in seconda linea in modo da
soccorrere con celerità i posti attaccati.
«Firenze a dì 1º aprile 1849.
«G. MANGANARO.»
L'Accusa legge con l'occhio cieco del Bano di Croazia l'ordine di
lasciare da parte la quistione su la forma del Governo, e l'altro
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