Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 47
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mediatore fra il Principe e il suo Ministero, affinchè la dimissione
mai dal maestrato non avvenisse?
La notte dell'8 febbraio 1849 non mi assistè al fianco, chiamato,
l'onorevole vostro Gonfaloniere? Non udì le provvidenze, non approvò,
non confortò, e, piena la mente di quanto aveva udito e approvato,
non bandì la mattina che il Governo aveva provveduto alla salute
pubblica: i Cittadini quietassero? Municipio fiorentino e Commissione
Governativa, voi non mi potevate perseguitare per questo.
Vi disprezzai Membro del Governo Provvisorio? No certo, poichè voi il
_Governo sorto dalla necessità approvaste_, e gli prometteste _leali
soccorsi_, e così in magistrale deliberazione dichiaraste. Vi ascoltai
per l'abrogazione della Legge Stataria, vi ascoltai per le armi
distribuite al Popolo; e se due volte, due sole volte rimproveraste,
se non prendo errore, parmi poterne dedurre, che tutto l'altro vi
giovò e piacque. Il Municipio sovvenne il Governo nella esecuzione
delle Leggi su la Costituente Toscana, nel negozio delle armi, nella
Commissione per riorganizzare la Guardia Nazionale, di cui fu chiamato
a fare parte anche il signore conte Digny;[666] col Gonfaloniere
soventi volte conferimmo intorno alla Unificazione con Roma; e cadendo
d'accordo intorno alla impossibilità di promuoverla con profitto
fra noi, stabilimmo avrei adoperato ogni sforzo per impedire che la
Fazione Repubblicana la spuntasse a furia di Popolo, e per fare in modo
che tutto il Paese con solenne e pacato voto intorno alle sue sorti
decidesse. Qui dunque non ho peccato, onde voi, o Municipio fiorentino
e Commissione Governativa, aveste dovuto rompermi come una canna
fracida.
Da voi pure venne il consiglio di sciogliere il Parlamento e
interpellare il Paese col suffragio universale, e non una volta,
ma due; anzi da voi la minaccia che, dove il Governo di ciò fare si
fosse astenuto, i Deputati avrebbero rifuggito di adunarsi più oltre;
onde anche per questa parte, o Municipio di Firenze e Commissione
Governativa, io confidava andare immune dal rigore delle ire vostre.
E certo poi non meritai ira siffatta allora quando sofferto fu da
ciascuno, che la Fazione Repubblicana gavazzasse imponendo le sue
leggi al Paese, ed io solo, presente il Gonfaloniere del Municipio di
Firenze, felicemente mi opponeva a quella.
Nè immagino già avervi dato, o Municipio Fiorentino e Commissione
Governativa, causa di straziarmi allorchè curai che l'elezioni per la
Costituente Toscana accadessero liberissime; e se copia maggiore di
Costituzionali elettori non concorse a votare, certo non fu mio errore,
e voi lo confessaste, comecchè il numero non si potesse chiamare
scarso.
Ditemi, egli è perchè io usciva a risico della mia persona per tutelare
i cittadini, o perchè toglieva le armi alla gente dei Circoli, o
perchè ostava che la Repubblica per acclamazione si votasse, o perchè
solennemente dichiarai, e feci dal Ministro dello Interno dichiarare,
che la Toscana si mostrava aliena dalle forme repubblicane, o piuttosto
perchè mi accinsi dietro i _vostri conforti a salvare quel più che
si potesse di onore e d'indipendenza nazionale_, e mandai Deputati
in Provincia a consultare lo spirito pubblico al doppio scopo che la
restaurazione del Principato Costituzionale avvenisse per consenso,
senza discrepanza, di tutti, e che lo Stato si difendesse, o almeno di
difenderlo come ce ne correva l'obbligo si tentasse; — egli è per tutto
questo, o Municipio, io domando, e Commissione Governativa, che voi mi
avete tradito? Forse vi ravvisaste, e pensaste avere potuto provvedere
meglio da voi stessi; ed io vi ho detto, e vi ridico adesso, che non vi
biasimo, anzi, di questo vi lodo, e meco tutto il Paese vi loda e ve
ne rende grazie; voi dell'opera vostra andate alteri, e ne avete ben
donde: ma v'era bisogno che voi mi tradiste per completare la vostra
gloria? — Ma no: per avventura, in quei momenti estremi, io da me mi
mostrai diverso? inasprito, smentii in un giorno tutta la mia vita, e
commisi sevizie, o provocai le turbe livornesi a irrompere sopra questa
bella madre Patria a guisa di Barbari? — Nessun sospetto arrestai,
nessuno bandii; anzi, amorevole gli ammoniva affinchè si guardassero.
M'inganno; ad uno solo ordinai partisse, e tosto; e chi fu egli mai?
Niccolini, quel mio preteso cagnotto e lancia spezzata per commuovere
i Popoli ad acclamare Repubblica.[667] Vediamo se l'altro addebito mi
si conviene. — E avvertite che io raccolgo Documenti cascati dalle
mani dell'Accusa aperte come i lucchetti dello avaro, sicchè quando
saranno posti a disposizione mia gli Archivii, COME GIÀ FURONO ALLA
DIREZIONE DEGLI ATTI, potrò, spero, essere più completo. Antonio Fossi,
Segretario del Governo di Livorno, nel 9 aprile 1849 a ore 5 e 30
min. pom., per via telegrafica mi avvisa: «Il Popolo ha occupate le
carrozze per seguire i Volontarii. Le misure prese a nulla hanno valso.
Il Governatore e il Gonfaloniere accorrono alla Stazione per riparare.
Mi ordinano prevenirla pel possibile di un ritardo nello arrivo.»[668]
Lo egregio amico Giorgio Manganaro, nel giorno 10 aprile 1849 a ore 1
e 15 min. pom., per telegrafo annunzia: «Oggi il Popolo di Livorno è
tornato alle solite improntitudini. Comunque avessi fatto presidiare
la Stazione da numero 60 Guardie Nazionali, questa è stata invasa da
più di 600 persone, le quali si sono impossessate delle carrozze e dei
vagoni, e con estrema violenza hanno voluto viaggiare gratuitamente.
Mi sono trasferito col Gonfaloniere sul posto, ma la opera nostra è
andata perduta, e la mia voce è stata impotente per farli rientrare nel
dovere.»[669]
Ora sentano un po' come io coteste ribalderie provocassi e confortassi:
«Al Governatore di Livorno. — 10 aprile ore 3 antim. — Se il
Governatore ha senno, faccia indagare subito quali fossero le persone,
ne ordini l'arresto di notte, e le mandi a Volterra: facciasi tutto
prima del giorno.»[670]
Alle ore 11 e 40 min. pom, del medesimo giorno: «I Livornesi, per
_improntitudine di alcuni_, suscitano perigliose discordie quaggiù;
pure vengano e saranno accetti.»[671]
Nel giorno 11 aprile, ore 1, min. 55 pom.: «La Strada ferrata Leopolda
non continua le sue corse per cagione della _insolenza livornese_.
Vedete quanto danno questo produrrà al commercio. _Bisogna tutelare la
Stazione con ogni mezzo_.»[672]
Nel medesimo giorno, a ore 3 e m. 21 pom.: «Insisto pei disordini della
Strada ferrata. La Società sospende le corse. È cosa intollerabile.
Si dichiari alla città che ella è unica in queste prepotenze. È un
furto. Si faccia conoscere. Appena giunti a Firenze ne prenderemo 10
per cento, e gli manderemo a Volterra. Questi sconsigliati rovinano il
commercio, e fanno perdere la reputazione al Paese. Provvedete. FIRENZE
SI MUOVE PIÙ TARDI, MA PIÙ DIGNITOSA.»[673]
E detti ordini perchè buona mano di costoro si arrestasse, e mandai
cavalli a posta; ma fra lo spandersi ch'essi fecero per i campi, e
gl'impedimenti opposti dalle barriere della strada ferrata da una
parte, e dall'altra la ritrosia della nostra milizia a operare cosa
che valesse, ebbero modo a fuggire. Ancora nel medesimo giorno, alle
ore 4, m. 35 pom., domando al Governatore di Livorno: «È vero, che
il Governatore di Livorno abbia risposto, credersi impossibilitato
a impedire, che le turbe invadano i vagoni a Livorno? È vero, che
abbia affermato, non potere impedire questo successo oggi e domani?
L'Amministrazione ha sospeso le gite da Pisa a Livorno per questo
motivo.»[674] Più tardi alle ore 5 e m. 20 pom.: «Il Capo del Potere
Esecutivo chiede se altra gente sia partita o partirà da Livorno.
Vengono Livornesi senza pagare? Sì, o no?»[675]
Questi Documenti parlano per me, e non sono soli; scelti dalla mano
dell'Accusa, certo non è da credersi, che cogliesse rose in fiocco
perchè io me ne tessa ghirlanda; e tuttavolta bastano.
Avete considerato voi con quanto, non dirò studio, ma accesissimo zelo
io proteggessi le strade ferrate, e qui e a Lucca e da per tutto, non
solo allora, sibbene in ogni tempo? E pure mi affermano per sicuro,
che uomini a me noti per antico commercio, e nelle loro richieste
soddisfatti sempre, nel giorno 12 aprile 1849 di subito, senza causa
come senza consiglio, mi si mostrarono avversi, e togliendo seco gli
operaj, e le guardie della Strada, ne componessero una schiera, e
costituitisi capitani di gente eletta muovessero a gridarmi: «_Morte!
Morte_!» Se questa cosa fosse vera, bisognerebbe dire, che coloro i
quali hanno che fare con la Strada di ferro, talvolta terminano col
parteciparne la durezza; e di più non dico. Esamineremo in breve se pei
fatti dei giorni 11 e 12 Aprile meritassi essere tradito.
XXIX.
Del giudizio pronunziato sul mio operato dal Decreto del 7 gennaio 1851.
Nel § 32 il Decreto della Camera di Accusa della Corte Regia per somma
grazia crede dovere concedere, che se io _in qualche circostanza_
distolsi o raffrenai le più accese voglie della Demagogia, pure
il complesso degli atti (comodissima formula quando non si trovano
ragioni) _autorizza_ a credere che tutto io facessi per conservare
nelle mie mani il potere. Ora è impossibile, che il complesso degli
atti conduca inevitabilmente a supporre cosa assurda. E qui i miei
lettori mi sieno benevoli a non appuntarmi, se alla medesima accusa,
ripetuta con singolare insistenza, la medesima serie di raziocinii io
contrapponga, conciossiachè io veda, che Cicerone adoperasse nella
medesima guisa, nella orazione per Sesto Roscio Amerino, sia che
anch'egli avesse a persuadere gente dura, o qualche altra necessità
lo sforzasse; — e nella fiducia che le mie preghiere verranno accolte,
continuo.
Il mio _potere_ era provvisorio; il suo termine segnato; convocata
l'Assemblea Costituente, ella doveva decidere per la Repubblica o
per la Monarchia Costituzionale. Nel primo caso, ricusando, come
avevo fatto, la carica di Triumviro a Roma, dimostravo animo alieno
dal proseguire nel duro incarico; inoltre, è egli verosimile, che
prevalendo i Repubblicani, volessero mostrarsi parziali a persona
reputata avversa, e riporre in sue mani la somma delle cose? I
Repubblicani mi avrebbero mandato in carcere, ne più nè meno, come gli
altri hanno fatto, ed in breve vi chiarirò; e la ragione sta nella
storia del Dottore spartitore di liti che ho raccontata di sopra.
Nel secondo caso, mi sembra che senza prova mi verrà concesso, che
me l'Assemblea non avrebbe scelto Principe! Il Decreto si compiaccia
ricordare, che invece di attaccarmi al Potere, nella notte 27-28
marzo _io feci tutto quanto da uomo onestamente può farsi per essere
liberato da tanto peso, e non mi riuscì affrancarmene_;[676] volga
altresì la mente alle istanze del Montanelli e dei suoi amici, perchè
accettassi il Ministero; non oblii, che al Governo Provvisorio io presi
parte per ineluttabile forza, da un lato, della Fazione trionfatrice;
dall'altro, per l'esortazioni non meno potenti dei cittadini, affinchè
dall'anarchia preservassi la Società;[677] e deh! consideri eziandio il
Decreto, che a quei giorni, durare in carica egli era peggio che posare
su pettini da lino; e se mi dicesse, che tra affanni punto minori
si sono veduti uomini non pure accettare il Potere, ma ricercarlo
ed ambirlo, io rispondo, ch'è vero per quelli i quali intesero fare
esperimento pratico di una loro astrattezza politica, potentissima
delle passioni umane, a cui ogni giorno osserviamo sagrificarsi
da molti riposo, sostanze, e persino la vita; ma non poteva essere
vero con me, che governavo per benefizio altrui e non per procurarmi
comodo privato, o per fondare monarchie alla napoleonica, ovvero
per compiacere a un mio concetto. Dunque mi è lecito dolermi, che il
Decreto non abbia rifuggito da scrivere così dissennate proposizioni,
le quali non reggono al confronto del fatto e del raziocinio.
E proseguendo il Decreto argomenta, che il pensiero del richiamo
del Principe, per certo inconciliabile con gli ordini da me dati di
cacciarlo violentemente dalla Toscana, sembra piuttosto sopraggiunto
in forza dei successi della guerra, e delle dichiarazioni del Ministro
Inglese, e non senza _frode_, se attendasi questa sentenza ricavata
da una Decisione del _10 marzo 1800_! «È vero, che ne contrapponeva
altrettante (_proposizioni_), che lo dimostravano tutto diverso: ma
oltrechè queste non distruggono quelle, un tale contegno altro non
spiega se non che procurava di stare, con l'arte solita usarsi da chi
_doppio ha il cuore_, preparato a far giuocare in ogni evento o l'una
o l'altra, nell'atto di gettarsi a quel Partito che avesse trionfato.»
Così veramente adoperarono molti, signori Giudici, anzi moltissimi
impiegati, per cui il _Conciliatore_, come altrove ho detto, ebbe ad
esclamare: «Che cosa possiamo sperare da quelli che s'inchinarono
a tutti i poteri, che stancarono le anticamere dei Ministri, e che
_oggi proclamano svisceratissimi la Repubblica_?» Ed io mandava,
come altrove ho avvertito, Dispacci telegrafici a Pisa e a Livorno di
questa sentenza: «Uomini, parte esagerati, parte male intenzionati,
JERI CODINI, hanno spedito in diverse parti della Toscana per
convenire giovedì a Firenze, per costringere il Governo a dichiarare
la _Repubblica_,» con quello che segue.[678] Così adoperarono molti,
signori Giudici, anzi moltissimi impiegati, che stavano allora
abbracciati allo impiego ferocemente tanto da disgradarne Ajace Oileo,
quando, naufrago, abbrancò lo scoglio.[679] Se mai venisse fatto
a chi tale mi giudica, voltare gli occhi su la cima dei campanili,
vedrà che le banderuole, per istare bene con tutti i venti, non li
contrastano mica, ma gli secondano. Le ventaruole politiche poi non
pure secondano il vento che tira, ma con tanto abbrivo gli si arrendono
agevolissimamente, che, soffiando Gherbino, le miri trascorrere fino
oltre a Greco. Bell'arte invero la mia di conciliarmi il Partito, che
fosse per trionfare, combattendoli tutti! Artifizioso giuoco quello,
per cui vincendo i Repubblicani mi dicono alla _ricisa_, ch'essi
avrebbero fatto mettermi in carcere;[680] e vincendo i loro oppositori,
mi ci hanno messo. Non osai io guardare in faccia i Retrogradi e
i Faziosi, e dire loro apertamente: _Voi siete iniqui_? Certo non
parranno queste le vie più acconcie per apparecchiarseli entrambi
benevoli. Non si ricordano i Giudici che furono giorni in cui la gente,
quanto più si sentiva nera, tanto più procedeva tinta in chermisi da
disgradarne le barbe bietole di agosto, e tutti smaniosi acclamavano
la Repubblica? Dov'erano allora gli sviscerati pel Principato? Se
qualcheduno, accostandosi loro, diceva: _anche tu sei di quelli_? essi,
imitando Pietro, rispondevano tosto: _non so quello che tu dici_.[681]
La Repubblica non era Partito vincitore allora? A che le resistenze,
a che gl'indugii? Guardando le tante bocche che mi schiamazzavano
attorno — _Repubblica! Repubblica!_ io pensai: parte di costoro sono
vili propugnatori di quanti danno loro la pietanza; parte sono ebbri;
— aspettiamo che smaltiscano il vino; — parte finalmente, comecchè
onestissimi, per passione travedono: e agli errori, alle ebbrezze e
alla viltà io solo contesi, e volli che il Popolo prima posasse, poi
giudicasse di sè. Nell'8 febbraio trionfò la Repubblica; l'accettai
io? Domando: l'accettai io? — No, la impedii. Dunque in quel giorno io
non era per lei. Se io non impedivo, sarebbe stata, o no, proclamata?
Sì, proclamata. Se io non mi fossi sagrificato, intendetelo bene,
o ingratissimi, sagrificato anima e corpo a tenere il Governo, chi
sarebbe salito al potere? Chi? — Rispondete! Allora lo sapevate, e
lo temevate; adesso, che vi credete sicuri, lo avete dimenticato, e
di me vi curate come di un cane morto! E se continuerete a dire breve
incendio sarebbe stato quello, io tornerò a rispondervi: sì, ma sarebbe
bisognato estinguerlo col sangue; sì, ma per ispegnere di fiamma,
le cose e le genti incenerite non si restituiscono.... Voi però,
riprendono i Giudici, nicchiaste, perchè non reputaste la Repubblica
sicura; ed io rispondo: se non la reputai sicura allora, o quando la
dovevo credere tale? Se nel giorno del trionfo si pensasse a quello
della sconfitta, io vi ripeto, che l'uomo starebbe perpetuamente
esitante tra il sì e il no: personaggio da commedia. Se i Giudici
miei intendessero politica; se invece di andare a pescare le loro
citazioni nelle Decisioni criminali del 1800, le avessero desunte
dalle opinioni degli uomini di Stato, avrebbero posto mente a queste
parole del Generale Cavaignac riferite nel _Monitore francese_ del 19
gennaio 1851: «In Francia, come per ogni dove, due cose sono possibili
adesso: egli è forza scegliere Monarchia, o Repubblica.» — (È vero! È
vero! _Voci da sinistra e da destra_.) — «Chiunque non è per l'una, è
per l'altra; e se ciò potesse applicarsi al passato, direi: quelli che
operarono malamente nella Monarchia, apparecchiavano la Repubblica; e
quelli che male si comportarono nella Repubblica, apparecchiarono la
Monarchia.»
Affermando, come l'Accusa fa, che i miei sforzi si restrinsero a
impedire la proclamazione della Repubblica, finchè il voto universale
si pronunziasse, prima di tutto non dice il vero, perchè molte
più pratiche impresi, e fu dimostrato; e quando anche fosse così,
basterebbe; perchè, come vedremo, la elezione di un libero Parlamento
in Inghilterra non solo fu sufficiente a impedire che la Repubblica
s'instituisse, ma instituitala soppresse, restaurando il Principato.
Ora mi urge tenere proposito stretto della citazione desunta dalla
Sentenza criminale del 1800! Cotesto insulto giaceva da 51 anno deposto
sotto la polvere nella obsoleta armeria criminale, ed a ragione, però
che i Giudici nel 1800, anneriti dal fumo degli uomini arsi vivi nella
scelleratissima Reazione del 1799, non si contentassero a quei tempi
condannare, ma insidiavano ancora. Adesso i Giudici hanno estimato
decoroso tôrre dalla armeria criminale cotesto insulto, forbirlo,
e tentare di sfregiarmene il volto.... È facile insultare un uomo
oppresso; più facile insultare un uomo che da ventinove mesi si tiene
chiuso in disonesto carcere; facilissimo insultare un uomo, cui hanno
legato e piedi e mani! — Però vi ha un Tribunale che giudica Giudici
e prevenuti, ed è la Coscienza Pubblica. Giudici del Decreto del
7 gennaio, io vi chiamo davanti a questa, perchè ella decida se io
meritassi lo ignobile oltraggio; se in voi fu gravità, e, quello che
più importa, giustizia, a dirmi improperio.
Francesco Forti, scrittore meritamente reputato fra noi, nel suo
Libro delle _Instituzioni Civili_, dimostra la fallacia del sistema
forense di citare particole di Decisioni antiche nelle Decisioni nuove;
conciossiachè i raziocinii che vi occorrono sieno speciali affatto al
caso contemplato, nè senza pericolo grande possano trasportarsi ad un
altro. Quasi impossibile è che si trovino due casi identici; quindi
quel curioso e matto gettito di Decisioni antiche, che i Curiali si
avvicendano nel capo, lo indefesso _disapplicare_ delle Decisioni
allegate, e l'opporre Decisione a Decisione; sicchè spesso si è veduto
(materia di riso, e lo doveva essere di pianto) citare la Decisione
medesima per sostenere _pro e contro_. In Prussia le allegazioni
delle Decisioni vietarono, ed hanno fatto bene. Se questo concetto
nelle materie civili fu rinvenuto giusto, tanto maggiormente si deve
reputare tale nelle criminali, essendovi troppo più importante il
subietto, necessaria la esattezza. Ora il prevenuto del 1800 era egli
uomo pubblico o privato? Si trovò in libertà piena, od agì costretto?
Ebbe due interessi da salvare, importanti entrambi, ma importantissimo
l'uno, e l'altro meno? Furono parole le sue, o atti? Tutto questo
s'ignora, e tutto questo era necessario esporre, se si voleva
dimostrare la parità di ragione, e salvare la citazione dalla taccia di
temeraria, per non dire di peggio.[682]
In politica quotidianamente avviene, che l'uomo non possa nè deva
procedere con la schiettezza, che neppure la buona morale desidera
nei commercii della vita privata. Di vero, ragionando gli antichi
intorno alla buona fede che deve presiedere ai contratti, consentirono
di leggieri in questa sentenza, che il venditore di un carico di
grano non fosse obbligato di palesare al compratore che altri ne
attendeva di Sicilia o di Egitto. Nella diplomazia senza offesa della
morale è mestieri ricorrere a certa dissimulazione persuasa dalla
necessità. Quante volte i successi stanno fuori di noi, indipendenti
dal nostro volere come dal nostro potere, e pel continuo alternare
di fortuna si modificano, o trasformano, agevolmente si comprende
che assoluti non ponno essere i consigli e il linguaggio degli
uomini politici. Così di rado avviene, che alla commissione patente
dei negoziatori non si aggiungano istruzioni segrete, le quali, a
seconda dei casi, la estendono, la restringono, o la mutano. Nelle
Storie italiane incontriamo ad ogni piè sospinto lettere in cifre, le
quali per certo dovevano contenere cose diverse dal mandato aperto.
Richelieu, cardinale, sappiamo come dentro le lettere officiali
soleva inserire certe note di proprio pugno scritte, sconosciute
perfino ai suoi Segretarii più intimi; in Inghilterra, l'uso della
doppia corrispondenza incominciò sotto la regina Elisabetta, e credo
che tuttavia duri, imperciocchè Pitt la raccomandò molto non solo
per le ragioni allegate, ma ancora perchè, trovandosi i Ministri
per la Costituzione costretti a comunicare gli Atti diplomatici al
Parlamento, non venissero a rendersi palesi le condizioni dei negozii
con indiscretezza somma, e, quello ch'è peggio, con danno del Paese.
Ma poniamo da parte questi esempii, e adduciamone uno che cade
singolarmente a taglio pel caso nostro. Prima però che mi faccia a
discorrerlo con qualche lunghezza, devo avvertire che, per quello
raccontano gli storici, Monk poco si curava delle libertà della sua
Patria, e suo intento era consegnarla in assoluta balía di Carlo II. Se
così fu, come dicono, io non gl'invidio il suo ducato di Albermarle, nè
la contea di Torrington, nè la baronia di Potheridge, e sto contento
al mio carcere. Noto altresì che Monk rovesciò un Governo costituito
nel suo Paese, ingannando per privata comodità: — io impedii che si
costituisse per violenza di Parte, e volli si consultasse il voto
libero e pacato del Popolo, senza badare a me, come si è visto. Monk
aveva esercito disciplinato, e devotissimo ai suoi voleri: — io non
avevo armi disciplinate, nè devote. Monk era uomo da tempo antico
avvezzo ai garbugli sanguinosi dei Partiti estremi: — io dedito agli
studii. Egli di provato coraggio su cento campi di battaglia:[683] —
io per professione alieno dalle armi. Dalle quali cose tutte ricavo
ch'egli avrebbe potuto e dovuto mostrarsi più franco di quello che non
fece.
Queste cose avvertite, è da sapersi come tenendosi Inghilterra a
Repubblica, re Carlo II mandasse da Colonia una lettera nel 12
agosto 1656 al Monk, molto raccomandandosi a lui, e facendogli
grandi profferte, la quale lettera egli spedì difilato al Protettore
Cronvello, per suo governo![684]
Morto Cronvello durava la Repubblica, agitata più che condotta dal
_lungo_ Parlamento, pieno di uomini violenti, e tra loro nemici.
A chi considerava nella prima scorza le cose, pareva la Repubblica
non soltanto gagliarda, ma rigogliosa della vita irrequieta della
giovanezza; però i meglio avvisati conoscevano cotesta essere febbre
di parossismo che consuma. «La restaurazione degli Stuardi speravano
e desideravano i Popoli numerosi, _anonimi_, i quali, se eccettui
i momenti di esaltazione, amano il riposo politico per accudire
tranquilli ai commercii della vita civile.»[685]
Deposto Riccardo Cronvello, giudica Hume, Monk concepiva il disegno
della restaurazione di Carlo II;[686] ma non era piccolo negozio
operarla; difficilissimo poi, senza mettere in fiamme il Paese; e
Monk voleva uscirne vincitore senza sangue. Giorgio Booth nel 1º
agosto 1659 prende le armi nella contea di Chester, col pretesto di
ottenere un Parlamento libero, o almeno il richiamo nel Parlamento
_lungo_ dei membri dimessi da Cronvello: fine vero era la restaurazione
di Carlo II. Realisti e Repubblicani si voltano a Monk. Re Carlo
gl'invia Stefano Fox fidato messaggio, con lettere regie per indurlo a
collegarsi col Booth e procedere uniti contro il Parlamento lungo: ma
il Monk riceve tutto chiuso in sè la lettera, non risponde, e lascia
partire sconclusionato il messaggio. Sollecitato dal Colonnello Atkins
di accontarsi col Booth per favorire la causa regia, replica brusco:
«io gli muoverò contro; nello stato nel quale mi trovo non posso farne
a meno.»[687] A questa epoca sembra referirsi l'altra spedizione fatta
da re Carlo, del dottore Niccola Monk al Generale suo fratello, con
nuova lettera autografa per impegnarlo a cessare dalle incertezze.
Il Dottore arriva mentre il Generale stavasi a conferenza con gli
ufficiali; trattenendosi allora il fratello col cappellano Price,
uomo di provata fede ed amicissimo al Re, gli palesa lo scopo della
sua missione; al fine, presentatosi al fratello, dopo gli affettuosi
abbracciari, incomincia a scuoprirgli il trattato. Monk, rompendogli
le parole a mezzo, lo interroga se per avventura ne abbia tenuto
discorso con altri che con lui; e udendo come ne avesse favellato col
Cappellano, accomiatollo con Dio senza volerne sapere altro:[688]
«non si fidando» avverte Hume «neppure di un fratello, dal punto
ch'ei conobbe avere egli confidato il segreto a persona a cui pure lo
avrebbe confidato egli stesso.»[689] Nonostante Monk si apparecchiava
a sostenere il Booth, e già aveva dato gli ordini per mettersi in
cammino, e scritto lettere al Parlamento _lungo_ perchè richiamasse
i membri dimessi, o si sciogliesse convocandone un nuovo; quando,
meglio considerando il negozio, gli parve intempestivo il momento,
per la quale cosa revocati gli ordini, e soppresse le lettere, decise
aspettare. Al cappellano Price, che non rifiniva spronarlo, con mal
viso gridò: «Dunque volete rovinare ogni cosa e farmi perdere il capo
sotto la scure?»[690] Il giorno successivo arrivava notizia che Booth
era stato disfatto, sicchè a buon fine tornavano le prudenti dimore.
Allora nei Repubblicani sorse una allegrezza smoderata, e i gridi, e
i vituperii contro re Carlo andarono a cielo. Avendo taluno detto in
questa occasione alla presenza del Generale, come i vinti avessero
disegnato restaurare Carlo Stuardo, egli riprese: «Io per me vorrei che
il Parlamento promulgasse una legge per impiccare su l'atto chiunque
parlasse soltanto di richiamarlo!» Le divisioni fra i Repubblicani
inasprendosi, Lambert e i compagni costringono il Parlamento a
dimettersi dal Governo, ed eglino stessi lo usurpano sotto nome di
Commissione di Sicurezza; Monk si dichiara a favore del Parlamento
_lungo_, e così arringa i soldati: «Quanto a me, credo che il mio
dovere stia nel sottoporre le milizie alle autorità civili; e il vostro
è difendere il Parlamento, che vi dà la paga, e gl'impieghi: _se però
alcuno di voi pensa diversamente, è libero di abbandonare le bandiere,
e andarsene dove meglio gli torna_.»[691]
Monk pubblica lettere con le quali dichiara avere preso le armi
«per la difesa della libertà e dei privilegii del Parlamento, e
per sostenere, contro tutti, i diritti e le libertà del Popolo;» e,
lasciata la Scozia, si muove con lo esercito contro Londra; il Comitato
tratta con lui; egli lo inganna, e si avanza indirizzando lettere al
Municipio di Londra, con istanza caldissima che facesse causa comune
col Parlamento lungo per rivendicarsi dalla tirannide del Comitato
militare. Il Parlamento _lungo_ recupera la sua autorità nel 25
decembre 1659 mercè gli aiuti di Monk. Così sono varii gli eventi, e
fanno forza agli umani disegni, che Monk, il quale partendo di Scozia
si era proposto completare il Parlamento con la restituzione dei membri
dimessi, o abolirlo affatto convocandone uno nuovo che collo assenso
di tutti governasse la nazione, si era trovato adesso a sostenerlo
con l'autorità e con le armi! Non pertanto questo era il suo scopo,
e, malgrado l'operato in contrario, noi lo vediamo affaticarsi a
conseguirlo con tutti i nervi.[692] Monk accostandosi a Londra, dopo
mai dal maestrato non avvenisse?
La notte dell'8 febbraio 1849 non mi assistè al fianco, chiamato,
l'onorevole vostro Gonfaloniere? Non udì le provvidenze, non approvò,
non confortò, e, piena la mente di quanto aveva udito e approvato,
non bandì la mattina che il Governo aveva provveduto alla salute
pubblica: i Cittadini quietassero? Municipio fiorentino e Commissione
Governativa, voi non mi potevate perseguitare per questo.
Vi disprezzai Membro del Governo Provvisorio? No certo, poichè voi il
_Governo sorto dalla necessità approvaste_, e gli prometteste _leali
soccorsi_, e così in magistrale deliberazione dichiaraste. Vi ascoltai
per l'abrogazione della Legge Stataria, vi ascoltai per le armi
distribuite al Popolo; e se due volte, due sole volte rimproveraste,
se non prendo errore, parmi poterne dedurre, che tutto l'altro vi
giovò e piacque. Il Municipio sovvenne il Governo nella esecuzione
delle Leggi su la Costituente Toscana, nel negozio delle armi, nella
Commissione per riorganizzare la Guardia Nazionale, di cui fu chiamato
a fare parte anche il signore conte Digny;[666] col Gonfaloniere
soventi volte conferimmo intorno alla Unificazione con Roma; e cadendo
d'accordo intorno alla impossibilità di promuoverla con profitto
fra noi, stabilimmo avrei adoperato ogni sforzo per impedire che la
Fazione Repubblicana la spuntasse a furia di Popolo, e per fare in modo
che tutto il Paese con solenne e pacato voto intorno alle sue sorti
decidesse. Qui dunque non ho peccato, onde voi, o Municipio fiorentino
e Commissione Governativa, aveste dovuto rompermi come una canna
fracida.
Da voi pure venne il consiglio di sciogliere il Parlamento e
interpellare il Paese col suffragio universale, e non una volta,
ma due; anzi da voi la minaccia che, dove il Governo di ciò fare si
fosse astenuto, i Deputati avrebbero rifuggito di adunarsi più oltre;
onde anche per questa parte, o Municipio di Firenze e Commissione
Governativa, io confidava andare immune dal rigore delle ire vostre.
E certo poi non meritai ira siffatta allora quando sofferto fu da
ciascuno, che la Fazione Repubblicana gavazzasse imponendo le sue
leggi al Paese, ed io solo, presente il Gonfaloniere del Municipio di
Firenze, felicemente mi opponeva a quella.
Nè immagino già avervi dato, o Municipio Fiorentino e Commissione
Governativa, causa di straziarmi allorchè curai che l'elezioni per la
Costituente Toscana accadessero liberissime; e se copia maggiore di
Costituzionali elettori non concorse a votare, certo non fu mio errore,
e voi lo confessaste, comecchè il numero non si potesse chiamare
scarso.
Ditemi, egli è perchè io usciva a risico della mia persona per tutelare
i cittadini, o perchè toglieva le armi alla gente dei Circoli, o
perchè ostava che la Repubblica per acclamazione si votasse, o perchè
solennemente dichiarai, e feci dal Ministro dello Interno dichiarare,
che la Toscana si mostrava aliena dalle forme repubblicane, o piuttosto
perchè mi accinsi dietro i _vostri conforti a salvare quel più che
si potesse di onore e d'indipendenza nazionale_, e mandai Deputati
in Provincia a consultare lo spirito pubblico al doppio scopo che la
restaurazione del Principato Costituzionale avvenisse per consenso,
senza discrepanza, di tutti, e che lo Stato si difendesse, o almeno di
difenderlo come ce ne correva l'obbligo si tentasse; — egli è per tutto
questo, o Municipio, io domando, e Commissione Governativa, che voi mi
avete tradito? Forse vi ravvisaste, e pensaste avere potuto provvedere
meglio da voi stessi; ed io vi ho detto, e vi ridico adesso, che non vi
biasimo, anzi, di questo vi lodo, e meco tutto il Paese vi loda e ve
ne rende grazie; voi dell'opera vostra andate alteri, e ne avete ben
donde: ma v'era bisogno che voi mi tradiste per completare la vostra
gloria? — Ma no: per avventura, in quei momenti estremi, io da me mi
mostrai diverso? inasprito, smentii in un giorno tutta la mia vita, e
commisi sevizie, o provocai le turbe livornesi a irrompere sopra questa
bella madre Patria a guisa di Barbari? — Nessun sospetto arrestai,
nessuno bandii; anzi, amorevole gli ammoniva affinchè si guardassero.
M'inganno; ad uno solo ordinai partisse, e tosto; e chi fu egli mai?
Niccolini, quel mio preteso cagnotto e lancia spezzata per commuovere
i Popoli ad acclamare Repubblica.[667] Vediamo se l'altro addebito mi
si conviene. — E avvertite che io raccolgo Documenti cascati dalle
mani dell'Accusa aperte come i lucchetti dello avaro, sicchè quando
saranno posti a disposizione mia gli Archivii, COME GIÀ FURONO ALLA
DIREZIONE DEGLI ATTI, potrò, spero, essere più completo. Antonio Fossi,
Segretario del Governo di Livorno, nel 9 aprile 1849 a ore 5 e 30
min. pom., per via telegrafica mi avvisa: «Il Popolo ha occupate le
carrozze per seguire i Volontarii. Le misure prese a nulla hanno valso.
Il Governatore e il Gonfaloniere accorrono alla Stazione per riparare.
Mi ordinano prevenirla pel possibile di un ritardo nello arrivo.»[668]
Lo egregio amico Giorgio Manganaro, nel giorno 10 aprile 1849 a ore 1
e 15 min. pom., per telegrafo annunzia: «Oggi il Popolo di Livorno è
tornato alle solite improntitudini. Comunque avessi fatto presidiare
la Stazione da numero 60 Guardie Nazionali, questa è stata invasa da
più di 600 persone, le quali si sono impossessate delle carrozze e dei
vagoni, e con estrema violenza hanno voluto viaggiare gratuitamente.
Mi sono trasferito col Gonfaloniere sul posto, ma la opera nostra è
andata perduta, e la mia voce è stata impotente per farli rientrare nel
dovere.»[669]
Ora sentano un po' come io coteste ribalderie provocassi e confortassi:
«Al Governatore di Livorno. — 10 aprile ore 3 antim. — Se il
Governatore ha senno, faccia indagare subito quali fossero le persone,
ne ordini l'arresto di notte, e le mandi a Volterra: facciasi tutto
prima del giorno.»[670]
Alle ore 11 e 40 min. pom, del medesimo giorno: «I Livornesi, per
_improntitudine di alcuni_, suscitano perigliose discordie quaggiù;
pure vengano e saranno accetti.»[671]
Nel giorno 11 aprile, ore 1, min. 55 pom.: «La Strada ferrata Leopolda
non continua le sue corse per cagione della _insolenza livornese_.
Vedete quanto danno questo produrrà al commercio. _Bisogna tutelare la
Stazione con ogni mezzo_.»[672]
Nel medesimo giorno, a ore 3 e m. 21 pom.: «Insisto pei disordini della
Strada ferrata. La Società sospende le corse. È cosa intollerabile.
Si dichiari alla città che ella è unica in queste prepotenze. È un
furto. Si faccia conoscere. Appena giunti a Firenze ne prenderemo 10
per cento, e gli manderemo a Volterra. Questi sconsigliati rovinano il
commercio, e fanno perdere la reputazione al Paese. Provvedete. FIRENZE
SI MUOVE PIÙ TARDI, MA PIÙ DIGNITOSA.»[673]
E detti ordini perchè buona mano di costoro si arrestasse, e mandai
cavalli a posta; ma fra lo spandersi ch'essi fecero per i campi, e
gl'impedimenti opposti dalle barriere della strada ferrata da una
parte, e dall'altra la ritrosia della nostra milizia a operare cosa
che valesse, ebbero modo a fuggire. Ancora nel medesimo giorno, alle
ore 4, m. 35 pom., domando al Governatore di Livorno: «È vero, che
il Governatore di Livorno abbia risposto, credersi impossibilitato
a impedire, che le turbe invadano i vagoni a Livorno? È vero, che
abbia affermato, non potere impedire questo successo oggi e domani?
L'Amministrazione ha sospeso le gite da Pisa a Livorno per questo
motivo.»[674] Più tardi alle ore 5 e m. 20 pom.: «Il Capo del Potere
Esecutivo chiede se altra gente sia partita o partirà da Livorno.
Vengono Livornesi senza pagare? Sì, o no?»[675]
Questi Documenti parlano per me, e non sono soli; scelti dalla mano
dell'Accusa, certo non è da credersi, che cogliesse rose in fiocco
perchè io me ne tessa ghirlanda; e tuttavolta bastano.
Avete considerato voi con quanto, non dirò studio, ma accesissimo zelo
io proteggessi le strade ferrate, e qui e a Lucca e da per tutto, non
solo allora, sibbene in ogni tempo? E pure mi affermano per sicuro,
che uomini a me noti per antico commercio, e nelle loro richieste
soddisfatti sempre, nel giorno 12 aprile 1849 di subito, senza causa
come senza consiglio, mi si mostrarono avversi, e togliendo seco gli
operaj, e le guardie della Strada, ne componessero una schiera, e
costituitisi capitani di gente eletta muovessero a gridarmi: «_Morte!
Morte_!» Se questa cosa fosse vera, bisognerebbe dire, che coloro i
quali hanno che fare con la Strada di ferro, talvolta terminano col
parteciparne la durezza; e di più non dico. Esamineremo in breve se pei
fatti dei giorni 11 e 12 Aprile meritassi essere tradito.
XXIX.
Del giudizio pronunziato sul mio operato dal Decreto del 7 gennaio 1851.
Nel § 32 il Decreto della Camera di Accusa della Corte Regia per somma
grazia crede dovere concedere, che se io _in qualche circostanza_
distolsi o raffrenai le più accese voglie della Demagogia, pure
il complesso degli atti (comodissima formula quando non si trovano
ragioni) _autorizza_ a credere che tutto io facessi per conservare
nelle mie mani il potere. Ora è impossibile, che il complesso degli
atti conduca inevitabilmente a supporre cosa assurda. E qui i miei
lettori mi sieno benevoli a non appuntarmi, se alla medesima accusa,
ripetuta con singolare insistenza, la medesima serie di raziocinii io
contrapponga, conciossiachè io veda, che Cicerone adoperasse nella
medesima guisa, nella orazione per Sesto Roscio Amerino, sia che
anch'egli avesse a persuadere gente dura, o qualche altra necessità
lo sforzasse; — e nella fiducia che le mie preghiere verranno accolte,
continuo.
Il mio _potere_ era provvisorio; il suo termine segnato; convocata
l'Assemblea Costituente, ella doveva decidere per la Repubblica o
per la Monarchia Costituzionale. Nel primo caso, ricusando, come
avevo fatto, la carica di Triumviro a Roma, dimostravo animo alieno
dal proseguire nel duro incarico; inoltre, è egli verosimile, che
prevalendo i Repubblicani, volessero mostrarsi parziali a persona
reputata avversa, e riporre in sue mani la somma delle cose? I
Repubblicani mi avrebbero mandato in carcere, ne più nè meno, come gli
altri hanno fatto, ed in breve vi chiarirò; e la ragione sta nella
storia del Dottore spartitore di liti che ho raccontata di sopra.
Nel secondo caso, mi sembra che senza prova mi verrà concesso, che
me l'Assemblea non avrebbe scelto Principe! Il Decreto si compiaccia
ricordare, che invece di attaccarmi al Potere, nella notte 27-28
marzo _io feci tutto quanto da uomo onestamente può farsi per essere
liberato da tanto peso, e non mi riuscì affrancarmene_;[676] volga
altresì la mente alle istanze del Montanelli e dei suoi amici, perchè
accettassi il Ministero; non oblii, che al Governo Provvisorio io presi
parte per ineluttabile forza, da un lato, della Fazione trionfatrice;
dall'altro, per l'esortazioni non meno potenti dei cittadini, affinchè
dall'anarchia preservassi la Società;[677] e deh! consideri eziandio il
Decreto, che a quei giorni, durare in carica egli era peggio che posare
su pettini da lino; e se mi dicesse, che tra affanni punto minori
si sono veduti uomini non pure accettare il Potere, ma ricercarlo
ed ambirlo, io rispondo, ch'è vero per quelli i quali intesero fare
esperimento pratico di una loro astrattezza politica, potentissima
delle passioni umane, a cui ogni giorno osserviamo sagrificarsi
da molti riposo, sostanze, e persino la vita; ma non poteva essere
vero con me, che governavo per benefizio altrui e non per procurarmi
comodo privato, o per fondare monarchie alla napoleonica, ovvero
per compiacere a un mio concetto. Dunque mi è lecito dolermi, che il
Decreto non abbia rifuggito da scrivere così dissennate proposizioni,
le quali non reggono al confronto del fatto e del raziocinio.
E proseguendo il Decreto argomenta, che il pensiero del richiamo
del Principe, per certo inconciliabile con gli ordini da me dati di
cacciarlo violentemente dalla Toscana, sembra piuttosto sopraggiunto
in forza dei successi della guerra, e delle dichiarazioni del Ministro
Inglese, e non senza _frode_, se attendasi questa sentenza ricavata
da una Decisione del _10 marzo 1800_! «È vero, che ne contrapponeva
altrettante (_proposizioni_), che lo dimostravano tutto diverso: ma
oltrechè queste non distruggono quelle, un tale contegno altro non
spiega se non che procurava di stare, con l'arte solita usarsi da chi
_doppio ha il cuore_, preparato a far giuocare in ogni evento o l'una
o l'altra, nell'atto di gettarsi a quel Partito che avesse trionfato.»
Così veramente adoperarono molti, signori Giudici, anzi moltissimi
impiegati, per cui il _Conciliatore_, come altrove ho detto, ebbe ad
esclamare: «Che cosa possiamo sperare da quelli che s'inchinarono
a tutti i poteri, che stancarono le anticamere dei Ministri, e che
_oggi proclamano svisceratissimi la Repubblica_?» Ed io mandava,
come altrove ho avvertito, Dispacci telegrafici a Pisa e a Livorno di
questa sentenza: «Uomini, parte esagerati, parte male intenzionati,
JERI CODINI, hanno spedito in diverse parti della Toscana per
convenire giovedì a Firenze, per costringere il Governo a dichiarare
la _Repubblica_,» con quello che segue.[678] Così adoperarono molti,
signori Giudici, anzi moltissimi impiegati, che stavano allora
abbracciati allo impiego ferocemente tanto da disgradarne Ajace Oileo,
quando, naufrago, abbrancò lo scoglio.[679] Se mai venisse fatto
a chi tale mi giudica, voltare gli occhi su la cima dei campanili,
vedrà che le banderuole, per istare bene con tutti i venti, non li
contrastano mica, ma gli secondano. Le ventaruole politiche poi non
pure secondano il vento che tira, ma con tanto abbrivo gli si arrendono
agevolissimamente, che, soffiando Gherbino, le miri trascorrere fino
oltre a Greco. Bell'arte invero la mia di conciliarmi il Partito, che
fosse per trionfare, combattendoli tutti! Artifizioso giuoco quello,
per cui vincendo i Repubblicani mi dicono alla _ricisa_, ch'essi
avrebbero fatto mettermi in carcere;[680] e vincendo i loro oppositori,
mi ci hanno messo. Non osai io guardare in faccia i Retrogradi e
i Faziosi, e dire loro apertamente: _Voi siete iniqui_? Certo non
parranno queste le vie più acconcie per apparecchiarseli entrambi
benevoli. Non si ricordano i Giudici che furono giorni in cui la gente,
quanto più si sentiva nera, tanto più procedeva tinta in chermisi da
disgradarne le barbe bietole di agosto, e tutti smaniosi acclamavano
la Repubblica? Dov'erano allora gli sviscerati pel Principato? Se
qualcheduno, accostandosi loro, diceva: _anche tu sei di quelli_? essi,
imitando Pietro, rispondevano tosto: _non so quello che tu dici_.[681]
La Repubblica non era Partito vincitore allora? A che le resistenze,
a che gl'indugii? Guardando le tante bocche che mi schiamazzavano
attorno — _Repubblica! Repubblica!_ io pensai: parte di costoro sono
vili propugnatori di quanti danno loro la pietanza; parte sono ebbri;
— aspettiamo che smaltiscano il vino; — parte finalmente, comecchè
onestissimi, per passione travedono: e agli errori, alle ebbrezze e
alla viltà io solo contesi, e volli che il Popolo prima posasse, poi
giudicasse di sè. Nell'8 febbraio trionfò la Repubblica; l'accettai
io? Domando: l'accettai io? — No, la impedii. Dunque in quel giorno io
non era per lei. Se io non impedivo, sarebbe stata, o no, proclamata?
Sì, proclamata. Se io non mi fossi sagrificato, intendetelo bene,
o ingratissimi, sagrificato anima e corpo a tenere il Governo, chi
sarebbe salito al potere? Chi? — Rispondete! Allora lo sapevate, e
lo temevate; adesso, che vi credete sicuri, lo avete dimenticato, e
di me vi curate come di un cane morto! E se continuerete a dire breve
incendio sarebbe stato quello, io tornerò a rispondervi: sì, ma sarebbe
bisognato estinguerlo col sangue; sì, ma per ispegnere di fiamma,
le cose e le genti incenerite non si restituiscono.... Voi però,
riprendono i Giudici, nicchiaste, perchè non reputaste la Repubblica
sicura; ed io rispondo: se non la reputai sicura allora, o quando la
dovevo credere tale? Se nel giorno del trionfo si pensasse a quello
della sconfitta, io vi ripeto, che l'uomo starebbe perpetuamente
esitante tra il sì e il no: personaggio da commedia. Se i Giudici
miei intendessero politica; se invece di andare a pescare le loro
citazioni nelle Decisioni criminali del 1800, le avessero desunte
dalle opinioni degli uomini di Stato, avrebbero posto mente a queste
parole del Generale Cavaignac riferite nel _Monitore francese_ del 19
gennaio 1851: «In Francia, come per ogni dove, due cose sono possibili
adesso: egli è forza scegliere Monarchia, o Repubblica.» — (È vero! È
vero! _Voci da sinistra e da destra_.) — «Chiunque non è per l'una, è
per l'altra; e se ciò potesse applicarsi al passato, direi: quelli che
operarono malamente nella Monarchia, apparecchiavano la Repubblica; e
quelli che male si comportarono nella Repubblica, apparecchiarono la
Monarchia.»
Affermando, come l'Accusa fa, che i miei sforzi si restrinsero a
impedire la proclamazione della Repubblica, finchè il voto universale
si pronunziasse, prima di tutto non dice il vero, perchè molte
più pratiche impresi, e fu dimostrato; e quando anche fosse così,
basterebbe; perchè, come vedremo, la elezione di un libero Parlamento
in Inghilterra non solo fu sufficiente a impedire che la Repubblica
s'instituisse, ma instituitala soppresse, restaurando il Principato.
Ora mi urge tenere proposito stretto della citazione desunta dalla
Sentenza criminale del 1800! Cotesto insulto giaceva da 51 anno deposto
sotto la polvere nella obsoleta armeria criminale, ed a ragione, però
che i Giudici nel 1800, anneriti dal fumo degli uomini arsi vivi nella
scelleratissima Reazione del 1799, non si contentassero a quei tempi
condannare, ma insidiavano ancora. Adesso i Giudici hanno estimato
decoroso tôrre dalla armeria criminale cotesto insulto, forbirlo,
e tentare di sfregiarmene il volto.... È facile insultare un uomo
oppresso; più facile insultare un uomo che da ventinove mesi si tiene
chiuso in disonesto carcere; facilissimo insultare un uomo, cui hanno
legato e piedi e mani! — Però vi ha un Tribunale che giudica Giudici
e prevenuti, ed è la Coscienza Pubblica. Giudici del Decreto del
7 gennaio, io vi chiamo davanti a questa, perchè ella decida se io
meritassi lo ignobile oltraggio; se in voi fu gravità, e, quello che
più importa, giustizia, a dirmi improperio.
Francesco Forti, scrittore meritamente reputato fra noi, nel suo
Libro delle _Instituzioni Civili_, dimostra la fallacia del sistema
forense di citare particole di Decisioni antiche nelle Decisioni nuove;
conciossiachè i raziocinii che vi occorrono sieno speciali affatto al
caso contemplato, nè senza pericolo grande possano trasportarsi ad un
altro. Quasi impossibile è che si trovino due casi identici; quindi
quel curioso e matto gettito di Decisioni antiche, che i Curiali si
avvicendano nel capo, lo indefesso _disapplicare_ delle Decisioni
allegate, e l'opporre Decisione a Decisione; sicchè spesso si è veduto
(materia di riso, e lo doveva essere di pianto) citare la Decisione
medesima per sostenere _pro e contro_. In Prussia le allegazioni
delle Decisioni vietarono, ed hanno fatto bene. Se questo concetto
nelle materie civili fu rinvenuto giusto, tanto maggiormente si deve
reputare tale nelle criminali, essendovi troppo più importante il
subietto, necessaria la esattezza. Ora il prevenuto del 1800 era egli
uomo pubblico o privato? Si trovò in libertà piena, od agì costretto?
Ebbe due interessi da salvare, importanti entrambi, ma importantissimo
l'uno, e l'altro meno? Furono parole le sue, o atti? Tutto questo
s'ignora, e tutto questo era necessario esporre, se si voleva
dimostrare la parità di ragione, e salvare la citazione dalla taccia di
temeraria, per non dire di peggio.[682]
In politica quotidianamente avviene, che l'uomo non possa nè deva
procedere con la schiettezza, che neppure la buona morale desidera
nei commercii della vita privata. Di vero, ragionando gli antichi
intorno alla buona fede che deve presiedere ai contratti, consentirono
di leggieri in questa sentenza, che il venditore di un carico di
grano non fosse obbligato di palesare al compratore che altri ne
attendeva di Sicilia o di Egitto. Nella diplomazia senza offesa della
morale è mestieri ricorrere a certa dissimulazione persuasa dalla
necessità. Quante volte i successi stanno fuori di noi, indipendenti
dal nostro volere come dal nostro potere, e pel continuo alternare
di fortuna si modificano, o trasformano, agevolmente si comprende
che assoluti non ponno essere i consigli e il linguaggio degli
uomini politici. Così di rado avviene, che alla commissione patente
dei negoziatori non si aggiungano istruzioni segrete, le quali, a
seconda dei casi, la estendono, la restringono, o la mutano. Nelle
Storie italiane incontriamo ad ogni piè sospinto lettere in cifre, le
quali per certo dovevano contenere cose diverse dal mandato aperto.
Richelieu, cardinale, sappiamo come dentro le lettere officiali
soleva inserire certe note di proprio pugno scritte, sconosciute
perfino ai suoi Segretarii più intimi; in Inghilterra, l'uso della
doppia corrispondenza incominciò sotto la regina Elisabetta, e credo
che tuttavia duri, imperciocchè Pitt la raccomandò molto non solo
per le ragioni allegate, ma ancora perchè, trovandosi i Ministri
per la Costituzione costretti a comunicare gli Atti diplomatici al
Parlamento, non venissero a rendersi palesi le condizioni dei negozii
con indiscretezza somma, e, quello ch'è peggio, con danno del Paese.
Ma poniamo da parte questi esempii, e adduciamone uno che cade
singolarmente a taglio pel caso nostro. Prima però che mi faccia a
discorrerlo con qualche lunghezza, devo avvertire che, per quello
raccontano gli storici, Monk poco si curava delle libertà della sua
Patria, e suo intento era consegnarla in assoluta balía di Carlo II. Se
così fu, come dicono, io non gl'invidio il suo ducato di Albermarle, nè
la contea di Torrington, nè la baronia di Potheridge, e sto contento
al mio carcere. Noto altresì che Monk rovesciò un Governo costituito
nel suo Paese, ingannando per privata comodità: — io impedii che si
costituisse per violenza di Parte, e volli si consultasse il voto
libero e pacato del Popolo, senza badare a me, come si è visto. Monk
aveva esercito disciplinato, e devotissimo ai suoi voleri: — io non
avevo armi disciplinate, nè devote. Monk era uomo da tempo antico
avvezzo ai garbugli sanguinosi dei Partiti estremi: — io dedito agli
studii. Egli di provato coraggio su cento campi di battaglia:[683] —
io per professione alieno dalle armi. Dalle quali cose tutte ricavo
ch'egli avrebbe potuto e dovuto mostrarsi più franco di quello che non
fece.
Queste cose avvertite, è da sapersi come tenendosi Inghilterra a
Repubblica, re Carlo II mandasse da Colonia una lettera nel 12
agosto 1656 al Monk, molto raccomandandosi a lui, e facendogli
grandi profferte, la quale lettera egli spedì difilato al Protettore
Cronvello, per suo governo![684]
Morto Cronvello durava la Repubblica, agitata più che condotta dal
_lungo_ Parlamento, pieno di uomini violenti, e tra loro nemici.
A chi considerava nella prima scorza le cose, pareva la Repubblica
non soltanto gagliarda, ma rigogliosa della vita irrequieta della
giovanezza; però i meglio avvisati conoscevano cotesta essere febbre
di parossismo che consuma. «La restaurazione degli Stuardi speravano
e desideravano i Popoli numerosi, _anonimi_, i quali, se eccettui
i momenti di esaltazione, amano il riposo politico per accudire
tranquilli ai commercii della vita civile.»[685]
Deposto Riccardo Cronvello, giudica Hume, Monk concepiva il disegno
della restaurazione di Carlo II;[686] ma non era piccolo negozio
operarla; difficilissimo poi, senza mettere in fiamme il Paese; e
Monk voleva uscirne vincitore senza sangue. Giorgio Booth nel 1º
agosto 1659 prende le armi nella contea di Chester, col pretesto di
ottenere un Parlamento libero, o almeno il richiamo nel Parlamento
_lungo_ dei membri dimessi da Cronvello: fine vero era la restaurazione
di Carlo II. Realisti e Repubblicani si voltano a Monk. Re Carlo
gl'invia Stefano Fox fidato messaggio, con lettere regie per indurlo a
collegarsi col Booth e procedere uniti contro il Parlamento lungo: ma
il Monk riceve tutto chiuso in sè la lettera, non risponde, e lascia
partire sconclusionato il messaggio. Sollecitato dal Colonnello Atkins
di accontarsi col Booth per favorire la causa regia, replica brusco:
«io gli muoverò contro; nello stato nel quale mi trovo non posso farne
a meno.»[687] A questa epoca sembra referirsi l'altra spedizione fatta
da re Carlo, del dottore Niccola Monk al Generale suo fratello, con
nuova lettera autografa per impegnarlo a cessare dalle incertezze.
Il Dottore arriva mentre il Generale stavasi a conferenza con gli
ufficiali; trattenendosi allora il fratello col cappellano Price,
uomo di provata fede ed amicissimo al Re, gli palesa lo scopo della
sua missione; al fine, presentatosi al fratello, dopo gli affettuosi
abbracciari, incomincia a scuoprirgli il trattato. Monk, rompendogli
le parole a mezzo, lo interroga se per avventura ne abbia tenuto
discorso con altri che con lui; e udendo come ne avesse favellato col
Cappellano, accomiatollo con Dio senza volerne sapere altro:[688]
«non si fidando» avverte Hume «neppure di un fratello, dal punto
ch'ei conobbe avere egli confidato il segreto a persona a cui pure lo
avrebbe confidato egli stesso.»[689] Nonostante Monk si apparecchiava
a sostenere il Booth, e già aveva dato gli ordini per mettersi in
cammino, e scritto lettere al Parlamento _lungo_ perchè richiamasse
i membri dimessi, o si sciogliesse convocandone un nuovo; quando,
meglio considerando il negozio, gli parve intempestivo il momento,
per la quale cosa revocati gli ordini, e soppresse le lettere, decise
aspettare. Al cappellano Price, che non rifiniva spronarlo, con mal
viso gridò: «Dunque volete rovinare ogni cosa e farmi perdere il capo
sotto la scure?»[690] Il giorno successivo arrivava notizia che Booth
era stato disfatto, sicchè a buon fine tornavano le prudenti dimore.
Allora nei Repubblicani sorse una allegrezza smoderata, e i gridi, e
i vituperii contro re Carlo andarono a cielo. Avendo taluno detto in
questa occasione alla presenza del Generale, come i vinti avessero
disegnato restaurare Carlo Stuardo, egli riprese: «Io per me vorrei che
il Parlamento promulgasse una legge per impiccare su l'atto chiunque
parlasse soltanto di richiamarlo!» Le divisioni fra i Repubblicani
inasprendosi, Lambert e i compagni costringono il Parlamento a
dimettersi dal Governo, ed eglino stessi lo usurpano sotto nome di
Commissione di Sicurezza; Monk si dichiara a favore del Parlamento
_lungo_, e così arringa i soldati: «Quanto a me, credo che il mio
dovere stia nel sottoporre le milizie alle autorità civili; e il vostro
è difendere il Parlamento, che vi dà la paga, e gl'impieghi: _se però
alcuno di voi pensa diversamente, è libero di abbandonare le bandiere,
e andarsene dove meglio gli torna_.»[691]
Monk pubblica lettere con le quali dichiara avere preso le armi
«per la difesa della libertà e dei privilegii del Parlamento, e
per sostenere, contro tutti, i diritti e le libertà del Popolo;» e,
lasciata la Scozia, si muove con lo esercito contro Londra; il Comitato
tratta con lui; egli lo inganna, e si avanza indirizzando lettere al
Municipio di Londra, con istanza caldissima che facesse causa comune
col Parlamento lungo per rivendicarsi dalla tirannide del Comitato
militare. Il Parlamento _lungo_ recupera la sua autorità nel 25
decembre 1659 mercè gli aiuti di Monk. Così sono varii gli eventi, e
fanno forza agli umani disegni, che Monk, il quale partendo di Scozia
si era proposto completare il Parlamento con la restituzione dei membri
dimessi, o abolirlo affatto convocandone uno nuovo che collo assenso
di tutti governasse la nazione, si era trovato adesso a sostenerlo
con l'autorità e con le armi! Non pertanto questo era il suo scopo,
e, malgrado l'operato in contrario, noi lo vediamo affaticarsi a
conseguirlo con tutti i nervi.[692] Monk accostandosi a Londra, dopo
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