Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 02
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opporsi alle mene dei Retrogradi, scrive al Circolo di Siena chiedente
soccorso; stesse di buono animo, recarsi costà Montanelli, Marmocchi,
e Niccolini, i quali avrebbero posto il capo a partito ai malvagi e
agli stolti; e Montanelli infatti partiva in compagnia degli altri
mentovati, recando seco lire 1400, e Siena per la infausta presenza
loro, improvvisamente mutata, tumultuava, sicchè il Principe temendo
gravi calamità dall'approvazione della Legge, e diffidando in tanta
esaltazione del libero esercizio del veto nella Capitale e in Siena,
si allontana da questo luogo cercando altrove un asilo contro alle
violenze, protestando però di non volere abbandonare il suo diletto
paese, come apparisce dalle sue lettere ai ministri. Niccolini torna
frettoloso a Firenze a recare notizia del caso al Guerrazzi, e seco lui
si rimane _gran parte della notte_; poco dopo sopraggiunge Montanelli
_lieto in vista_, e, convocati i Ministri, deliberano adunare per
urgenza il Consiglio generale, e rassegnare lo ufficio; nè i soli
Ministri convennero nella notte del 7 all'8 febbraio in Palazzo
Vecchio, ma, invitati, ancora, Mordini, Dragomanni, e i fratelli
Mori, che usciti di là col Niccolini si conducono al convento di Santa
Trinita, e adunano il Circolo, il quale _in preferenza delle Camere
riceveva primo le partecipazioni ministeriali_; agli adunati i Faziosi
palesano la partenza del Principe, e lo vituperano; invitano il popolo,
promettendo pagamento, a intervenire pel giorno successivo a pubblica
adunanza sotto le Logge dell'Orgagna. A tutte queste operazioni non
dovè rimanere estraneo il Ministero, o _almeno alcuni di coloro i quali
lo componevano_, sì perchè lo allontanamento del Principe da Siena,
qualificato abbandono, presentava opportunità a operare la rivoluzione
per cupide o ambiziose voglie meditata da tempo remoto; sì perchè
Niccolini disse a Montazio, intenzione di Montanelli e Mazzoni essere
che il Circolo prendesse la iniziativa per la formazione del Governo
provvisorio; sì perchè il Mazzoni dichiarò, che la riunione dei Circoli
venne provocata dal Governo; sì perchè gli agitatori del Circolo
furono dal Governo confessati suoi commessi, e pagati, secondo che si
ricava dal biglietto del Mazzoni dell'8 febbraio 1849. — Gli Agitatori
per mandare a compimento i disegni macchinati nella notte, traggono
tumultuanti sotto le Logge dell'Orgagna; Mordini apre la seduta con
apparato di bandiere e di cartelli, in mezzo a curiosi e tristi pagati
poi coi danari dello Stato; quivi notificano la partenza del Principe,
la sua condotta calunniano, il suo nome vituperano, _la sua decadenza
decretano_, il Governo provvisorio proclamano, una mano di plebe
è spinta contro l'Assemblea per imporle la sua volontà. In questa
i Deputati si adunavano per udire le comunicazioni del Ministero.
Invano il Presidente Vanni, avvertito poche ore innanzi, prevedendo
saviamente i pericoli della seduta, propose la riunione del Comitato
segreto; Guerrazzi si oppone, _dicendo volere seduta pubblica; non
temesse il Presidente, perchè le disposizioni erano prese per tutelare
la libertà della discussione_; invano alcuni Deputati la proposta del
Vanni rinnuovano; invano il Presidente torna ad invitare il Ministero
a condursi nella sala delle Conferenze per tenere _tranquillamente_
una discussione preparatoria; Guerrazzi e Montanelli vi si ricusano
pertinaci. Si apre alfine la seduta pubblica. Montanelli salito
in tribuna annunzia la partenza del Principe da Siena, e legge le
granducali lettere. Non era terminata la lettura, quando il _Popolo_
da un lato irrompe _minaccioso e fremente_ nelle tribune, dall'altro
13 o 20 forsennati invadono l'emiciclo, preceduti da un cartello, dove
a grandi caratteri stava scritto: _Governo provvisorio — Guerrazzi
— Mazzoni — Montanelli_. Niccolini antesignano degl'invasori presa
la parola bandisce: _decaduto_ il Principe, le Camere _sciolte_, il
Governo provvisorio deliberato dal popolo padrone; _l'Assemblea vi
aggiunga per formalità il suo voto_: altramente guai! — Il Presidente
alla strana intimazione risponde: vietata la parola ai non Deputati;
se il popolo ha petizioni da presentare, le depositi, la Camera si
ritirerebbe, e le prenderebbe in considerazione; al che fieramente
Niccolini soggiunge: non essere quella petizione, ma comando del popolo
al quale la Camera deve obbedire. Plaudono i tristi con minaccie e con
urli; il Presidente seguito da alcuni Deputati si ritira nella sala
delle Conferenze; il tumulto continua; Niccolini salito in tribuna
legge il decreto del Circolo intorno alla decadenza del Principe.
Guerrazzi invitato per la terza volta a recarsi nella sala delle
Conferenze risponde: «_Io non mi muovo di qui perchè non ho paura
del Popolo_.» Montanelli pregato dal Tabarrini a sedare il tumulto
replica: «non è più in mia mano farlo.» Si sentono minaccie di morte
ai Deputati che si assentassero. Vanni ritorna nella pubblica sala
cedendo al timore, incussogli dal Montanelli, di guerra civile e di
strage. — Riapertasi la seduta, Guerrazzi legge il Processo verbale
dettato nella notte dai Ministri, concludendo deporre il potere _per
lasciare il paese a sè stesso_. Incomincia un simulacro di discussione
alla presenza degl'Invasori e dei Tumultuanti, dopo la quale, _sotto
la coazione evidente della forza maggiore_, la Camera delibera un
Governo provvisorio, senza determinarne lo scopo nè le attribuzioni,
nominando a comporlo le persone indicate dagli agitatori che lo
avevano imposto, e finalmente si scioglie al grido del Montanelli:
«Se Leopoldo di Austria ci ha abbandonato, Dio non ci abbandonerà!» I
Faziosi, conseguito lo intento, _conducono_ gli eletti sotto le Logge
dell'Orgagna, dove, per attestare fiducia al popolo, e confermarlo
nella presa deliberazione, arringando dicono: — fuggito il Principe,
— falso pretesto lo scrupolo di coscienza allegato, — motivo vero
il desiderio di dare luogo all'anarchia e alla guerra civile.... —
rammentasse il Popolo i suoi diritti.... Dio avere scritto sotto i
merli del ballatoio di Palazzo Vecchio la parola _Libertas_, perchè il
Popolo dopo tanti secoli vi rientrasse padrone. Ciò fatto, i Triumviri
salgono in palazzo, il Circolo _si ritira_ a Santa Trinita imprecando
a Leopoldo secondo, e _acclamando la repubblica_. Il Governo, per
mostrarsi grato ai suoi partigiani, invita per mezzo del Guerrazzi
il Circolo a tenere la sua adunanza nel salone del Palazzo Vecchio
nella sera del 9 febbraio, come di fatto avvenne, e a spese dello
Erario vi fu festeggiata la partenza del Principe, vilipeso il nome,
applaudito il Governo provvisorio, preparata la instituzione della
Repubblica; nè qui si ristette, chè, ricompensando coloro che avevano
violentato il Consiglio generale, promosse Mordini a ministro degli
Esteri, Ciofi gestatore del cartello nell'emiciclo mandato a Siena,
Dragomanni cancelliere della legazione toscana a Costantinopoli;
Niccolini ricompensato con danari (da Guerrazzi ebbe _dieci scudi_!).
Da questi fatti emergono fino di ora bastanti argomenti a convincere,
che il Governo dell'8 febbraio ed i suoi principali aderenti avevano
artificiosamente _preparata_, o per _lo meno accettata_ coi suoi
criminosi caratteri la rivoluzione, considerando abolito lo Statuto
da essi giurato, e reputandosi commessi non già a mantenere il potere
conferito alla persona del Principe secondo il _diritto universale in
casi analoghi_, ma sì a consolidare le basi della Rivoluzione.» —
Per ora basti fin qui, chè il rimanente sarà tema doloroso della
speciale Difesa.
IV.
Confronto del metodo praticato dall'Accusa con le dottrine del Guizot.
Questo metodo presenta i caratteri indicati dal Guizot? Furono
accumulati fatti a me estranei? Fui immerso dentro una atmosfera vaga
e indefinita dove non si trova la strada per uscirne? Si espose la
storia, o piuttosto la novella dello stato del paese, e delle pubbliche
disposizioni, per appuntarmela al petto? Fuori dei fatti dell'accusa
speciale non fu egli costruito uno edifizio per rovesciarmelo sul
capo? Ebrei con Sammaritani mescolaronsi o no? La Chimera favolosa
non si doveva vedere ridotta a verità nei Documenti della Accusa? La
lunga rete non si strascinava per tratto largo di mare onde pescare di
tutto un po' ai miei danni; fatti estranei, induzioni, rumori plebei,
calunnie, rabbia di partiti, sofismi, per invilupparmici dentro? Non si
è prima tentato di stabilire una cospirazione diretta a distruggere la
Monarchia Costituzionale, e poi si è detto: _ecco il colpevole_?
È stato fatto anche più; dopo avere con faticosa solerzia raccolto
un cumulo di pietre destinate a lapidarmi, ad un tratto me lo hanno
mostrato, e incominciando a gittarmele contro la persona soggiunsero:
difendetevi! — Al punto stesso però mi negarono gli atti della mia
Amministrazione[5] capaci a chiarire le condizioni toscane in cotesti
tempi quali erano, e gli sforzi supremi da me adoperati per mantenere
i popoli alla devozione della Monarchia Costituzionale, che l'Accusa
pretende da me insidiata mai sempre, e la ragione, anzi pure la
necessità, delle opere incriminate. — Difendetevi! — Ma in mezzo alla
bufera rivoluzionaria, fra tremende perplessità, e incessanti terrori,
che da un punto all'altro subbissasse la società, per ispossatezza,
e per vigilia febbricitante, avevo io modo di notare i singoli casi?
Quando si apre una via all'acqua nel corpo della nave, bada egli il
pilota quale delle sartie le schianti la tempesta? — Come rammentarsi
di tutti i successi, che varii, moltiplici, infiniti, si tenevano
dietro con ispaventevole rapidità? Chi conosce a nome le migliaia delle
persone che mi passavano davanti, in ispecie se si consideri che da
tempo breve io avevo stanza a Firenze? E conoscendole ancora, come
ricordarmene dopo spazio sì lungo di tempo? Perchè non concedermi le
conferenze co' segretarii miei, e con le persone che mi circondavano,
onde potere instituire ricerche a difesa, come l'Accusa le instituiva
laboriosamente e per anni ben lunghi ad offesa? — Difendetevi! — Ma
se mi legate le mani, se mi chiudete la bocca, se da due anni e più
mi tenete iniquissimamente in carcere segreta, come ho a fare per
difendermi io? — Difendetevi! — Ma se le testimonianze avverse al
concetto, che vi tramandate dall'uno all'altro _stereotipato_, non
curate; se, giudicando della mia amministrazione, gli archivj della mia
amministrazione a voi e ad altrui chiudete; se invece di dissetarvi
a cotesta fonte viva, correte dietro a rigagnoli di acqua fangosa;
se i documenti e i riscontri non leggete; se le deduzioni rigorose di
logica aborrite, a che e come mi difenderei io davanti a voi? Invece
di distinguere confondete, vero a falso mescolate, la progressione dei
tempi invertite; gli stessi errori, le medesime enormezze, anzi pure le
stesse parole da un Decreto all'altro (funesto augurio di non possibile
difesa) trasportate; e con quale cuore poi voi mi dite: — Difendetevi? —
Invocherò il diritto, che m'insegna il Guizot nella opera citata, ma
nessuno mi ascolterà. Questo diritto consiste «nel pretendere, che la
mia colpa sia cercata là dove io mi trovo, e fabbricata con le mie
proprie azioni; si esaminino i fatti che a me si referiscono, e nei
quali sostengo una parte.»
Il Pubblico Ministero con l'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851, come
di già notava, seguitò lo esempio dei Decreti che lo hanno preceduto,
anzi intristiva quello che già appariva tristissimo, e sarà dimostrato.
Anche al Ministero Pubblico, anzi a lui principalmente, rivolgendo
il Guizot la sua grave parola, scriveva nella opera citata: «ma che
il Ministero Pubblico a cagione di un uomo o di un fatto stabilisca
la presenza di una fazione, ve lo inviluppi dentro, declami contro i
_tristi_, e i desiderii, e i disegni loro; che in appoggio di accusa
speciale svolga tutte le considerazioni generali, che possono addursi
in favore di una misura del Governo....... questo è sovvertimento di
giustizia, è introdurre le procelle della tribuna nel Santuario della
Legge.» L'Atto di Accusa del 27 gennaio 1851 non ha fatto altro che
questo. — Oh! Il Ministero Pubblico pensando unicamente sostenere
l'interesse dell'Accusa, s'inganna intorno alla nobiltà del suo
ufficio: non sono, no, i soli interessi dell'Accusa quelli che vengono
confidati nelle sue mani, ma eziandio quelli più santi della innocenza
perseguitata, della morale pubblica, della intera civiltà. —
Chi cerca lo errore confonde, chi indaga il vero distingue. Ora a me
pare che, volendo instituire diritta indagine intorno alle ragioni
della mia vita politica, debbansi nella seguente maniera determinare le
ricerche:
1º Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori di
Toscana, e in casa.
2º Lo Incolpato, prima e durante il suo Ministero, fu aiutatore,
complice, o docile arnese di questa forza rivoluzionaria?
3º Come agisse questa forza, e a quale intento. Condizione dello
Imputato di contro alla forza rivoluzionaria.
4º Come vi si opponesse lo Imputato, e in che cosa riuscisse; in che no.
5º Come lo Imputato provvedesse alla società minacciata; — primario
scopo del mandato ricevuto dalle Camere, dal Popolo, dalla sua
Coscienza, da Dio.
6º Come lo Imputato intendesse alla restaurazione della forma politica;
— secondario scopo del mandato medesimo.
7º Se sia vero, che lo Imputato si opponesse alla Restaurazione.
Io entro nella difesa a mani ignude, come lo schiavo romano gittato
nel circo alle belve: non ho esaminato il processo; ignoro il deposto
dei testimoni; non ho conferito con persone che portino alla mia
travagliata memoria il soccorso delle loro reminiscenze; non parlerò
di Diritto, e nonostante confido disarmare l'Accusa. Esporrò una serie
di fatti e di raziocinii, non perchè i primi sieno tutti, e molto più
stringenti non possano argomentarsi i secondi; ma perchè mi è parso,
che in causa propria io dovessi, parlando, somministrare alcuna guida
alla Difesa, e tema al Pubblico, onde se dico il vero, e la mia causa
gli sembri giusta, egli mi approvi, e mi ami; se invece trova la mia
_lingua dolosa_, e la mia causa ingiusta, allora si chiuda le orecchie
e il cuore, e mi scagli la pietra.
V.
Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori e in casa.
La Storia male si accomoda sempre con le Accuse; e forse, anche
ad uomini che accusatori per indole e per instituto non sieno,
riesce, per non dire impossibile, male agevole assai dettare storie
contemporanee, chè la passione guida la mano a chi tiene la penna, e
versa nel calamaio i suoi colori, e troppo spesso la rabbia: — comunque
sia favellerò, per quanto possa, imparziale. — Varii sono i sistemi
immaginati intorno alle origini della Società; ma o tu vogli credere
(ed è questa la più dannata ipotesi) che un violento avendo legato per
forza o per inganno i suoi simili abbia detto loro: io non vi sciorrò
se prima non promettete servirmi; o si reputi più dirittamente, che
gli uomini convenendo in sociale consorzio abbiano pattuito cedere
tanta parte di naturale libertà quanta era necessaria al vivere
civile: fatto sta, che torna nell'uomo irrevocabile il desiderio di
rivendicare la sua alienata libertà, o perchè la Società gliel'abbia
sottratta tutta, o perchè, come sembra più consentaneo al vero, gliene
abbia tolta troppa. Carissima è poi la libertà nella estimazione di
coloro che la dispensano, e di quelli che la ricevono, conciossiachè
i primi sogliono concederla o per cuore magnanimo, o per molta paura,
e i secondi l'accolgono con allegrezza, che talora è delirio. Invano
la libertà viene duramente respinta, perseguitata, e sepolta; essa
vive anche nei sepolcri, e, quando vengono i tempi, rompe la lapide, e
torna a chiedere la sua giustizia. Lord Brougham l'ha paragonata alla
Sibilla di Tarquinio, la quale quante volte era ributtata, altrettante
tornava offrendo numero di libri più scarso, prezzo maggiore. La
libertà gira perpetuamente pel mondo: poserà ella mai? Questo non
so: solo io conosco, che dove ella non trovi la compagnia della
religione, dei costumi onesti, del temperato vivere, e della concordia
fraterna, passa senza fermarsi, o breve soggiorna. La libertà poi non
arriva come ladro notturno, ma invia davanti a sè nunzii precursori
a prepararle la stanza per potersi presentare pacata col saluto su
i labbri: _la pace sia con voi_; ma la gente che l'odia, invece di
accogliere i nunzii festosamente, mostra loro il viso dell'arme, li
perseguita come _liberali_, — più tardi come _demagoghi_, — più tardi
ancora come _rossi_, e gli uccide, o gl'imprigiona. Intanto la libertà
sopraggiunge, e non trovando albergo apparecchiato ad ospitarla, si
ferma dove si trova, e prende più che non bisogna, donde poi nascono
disordini, e perturbamenti grandissimi attribuiti alla sua presenza,
mentre da un lato hassene ad incolpare la incauta trascuraggine dei
suoi avversarii, e dall'altro le giunterie dei _trecconi_ e degli
_zingani_, che in difetto dei veri e buoni rappresentanti della
libertà, cacciati in prigione, ne usurpano il titolo di gestori di
negozii. Giuseppe II e Leopoldo I, imperatori (ai tempi che corrono
lasciati mordere poco meno che per eretici), furono prudenti reggitori
dei popoli, e gli avrebbero condotti, a prova di arte, a lido amico
di libertà duratura, se la Francia non era. Sia detto senza ira come
senza disprezzo, la Libertà di questa nobilissima nazione, che si vanta
_battistrada_ dei Popoli, troppo spesso porta in mano una torcia che
incendia, invece di fiaccola che illumini il cammino; precipitando
negli orrori del 93, spaventò Principi, sbigottì Popoli; sè stessa
spossò nei delirii di sangue, e rifinita cadde fra le braccia di
Napoleone che la uccise con uno amplesso da soldato. Napoleone barattò
alla Francia la sua libertà in tanta moneta falsa di gloria bugiarda;
però, che egli imprendesse la perpetua guerra in benefizio della
umanità, poco è da credersi; la monarchia universale di Carlo Magno, di
Carlo V, e di Filippo II, nella vasta mente mulinava, o piuttosto il
sospetto che i Francesi quietando, la libertà smarrita cominciassero
a desiderare. Intanto i Popoli, distinguendo a prova i vizii degli
uomini dalla bontà della dottrina, tornarono ad amare i benefizii
della onesta libertà, e ad infastidire il superbo giogo del soldato
imperiale. I Principi vennero fomentando con sommo studio siffatti
umori dei Popoli, e gli adoperarono come leva potentissima a sovvertire
la buonapartiana onnipotenza; nè la tirannide di Napoleone, nè la
libertà dei Popoli essi amavano; però la prima allora maggiormente
temevano. Sortito il fine desiderato, le promesse fatte ricusarono
mantenere. Di qui, e unicamente di qui, la lotta talora violenta, più
spesso di parola, eterna di desiderio, fra governanti e governati. I
Governi si logorarono nella contesa, e l'aborrita pianta stancava le
braccia a tagliare piuttosto che ella si stancasse a mettere fronde; e
sradicarsi non si poteva, nè si può. La passione, compagna infallibile
di principii perseguitati, sorgeva a fare più veemente il cordoglio. Da
per tutto alla fine straripò torrente, che mena in volta sassi e fango;
rovina dei luoghi coltivali.
Nè il ciclo infelice di questo avvicendarsi di successi sembra completo
fin qui, mercè i consigli di una gente improvvida, che non comprende,
come la fede mancata assai più nuoccia alla causa delle Monarchie, che
le grida insensate pel socialismo. «Quando la buona fede fosse bandita
da tutta la terra, dovrebbe ricoverarsi nel cuore dei Re,» il senno
antico ammaestrò; la quale sentenza io non so bene se più corrisponda
co' precetti della morale, o con quelli della politica (seppure
questa distinzione può farsi), comecchè sappia, che con entrambi
necessariamente la lealtà si mantenga.
VI.
Agitazione in Toscana.
Ma inopportuno ragionamento sarebbe qui discorrere le vicende di
Europa; mi ristringo in più modesto confine; parlo di Toscana.
La lunga amministrazione precedente al Ministero Ridolfi aveva, da una
parte, aumentato fra noi universale disgusto: delle cause non tratto,
nè mi gioverebbe trattarle: accenno un fatto, che male può revocarsi
in dubbio: dall'altra, si disfacevano nel disprezzo e nell'odio gli
agenti dell'autorità, utili in Istato che goda la pubblica opinione,
necessarii negli Stati che dalla pubblica opinione si scompagnano,
perchè, se essi difettano di credito e di forza, chi gli sosterrà?
Certo la forza poco dura; ma finchè dura, costringe. Così il Popolo,
un giorno commosso dal medesimo impulso (e a torto si affaticano
qui a rintracciare instigazioni di sètte), prese a imprigionare e a
manomettere tutti gli ufficiali superiori e subalterni della Polizia.
Io non assumo di certo la difesa della vecchia Polizia: troppo bene
conosco che i Governi la nutrivano e l'accarezzavano allora, come si
sopportano i gatti in casa, per prendere i topi: oggi poi, mi dicono,
che non è più così; _amen_! — ma nel giorno che il Popolo incomincia
a fare da sè, mi sembra che pel Governo sia finita, là dove egli non
sappia adoperare i mezzi acconci pel restauro della smarrita autorità.
Nè si obietti, che in Inghilterra costrinsero Giovanni Senza-terra
a segnare la magna carta, e nonostante la Monarchia si resse;
conciossiachè non il Popolo, ma i baroni gli usarono violenza, pei
quali, quanto importava circoscrivere l'autorità regia per estendere
il proprio dominio, altrettanto poi premeva conservarla in piede,
come quella che era fondamento dell'ordine feudale. E di vero, indi
a poco, qui fra noi, ebbero a cansarsi tutte o la massima parte delle
Autorità governative partecipi della medesima animavversione. Allora
corse un plauso generale, ed io udii battere le palme con gli altri
a Magistrati gravissimi, che mi avevano garbo del folle che menava
trionfo nel contemplare lo incendio di casa sua. Il Governo non osò
difendere (e nemmeno lo avrebbe potuto) la Polizia, e la lasciò, come
la mignatta, morire dentro al sangue ch'ella aveva succhiato. Così
rimase in un subito disarmato di forza per farsi rispettare, e soli
avanzarono i partiti di sapienza e di conciliante composizione, i quali
si reputarono allora, e tuttavia dovrebbero reputarsi, meglio alla
toscana civiltà convenevoli. Però che la mente che considera quanto sia
arduo revocare gli uomini dalla naturale ferocia alla mansuetudine, e
quanto, per lo contrario, facile farli trascorrere ai bestiali istinti,
trema ogni volta che vede gittare a piene mani la semenza dell'odio nei
cuori che Cristo destinava ad amarsi.
Dalla parte del Vaticano soffiava un vento, che non pure in Toscana,
ma in Italia, in Europa, anzi, per tutto il mondo, alzava le menti
a incredibile aspettativa. Allora _uomini_, che io voglio credere
inspirati da puro amore di patria, allo scopo di condurre Toscana a
migliore governo, e alle riforme troppo ritardate, _impresero a far
circolare_ per le vene del Popolo stampe clandestine eccitatrici a
desiderarle, ed a chiederle.
La Legge sopra la stampa si promulgava: egli è evidente, che il Popolo
minuto, il quale poco legge o punto, non poteva poi fare le stimate per
cosiffatta Legge: nonostante _invitato_ ad applaudire, si rese _allo
invito_, ed applause. Coloro, che primi lo invitarono, per certo a
fine di bene, non avvertirono come sia più agevole sprigionare i venti
dall'otre di Ulisse, che ricacciarveli dentro, e come, _appellato_ il
Popolo una volta in piazza ad _approvare_, bisognava sopportarlo quando
_spontaneo avrebbe disapprovato più tardi_. Fu in quel tempo, che
considerando io come il Popolo ricevuto cotesto impulso non si sarebbe
rimasto soddisfatto alla Legge della stampa, ma avrebbe richiesto cose
maggiori mano a mano che gliene fosse venuto il desiderio; nè essere
senza grandissimo pericolo per l'Autorità esporsi a lasciarsi svellere
ora questa concessione, ora quell'altra, imperciocchè, così operando,
il potere non acquista il merito del pronto concedere, e il Popolo
si educa a crescere più intemperante nelle domande; fu, dico, in quel
tempo ed in questo concetto, che dettai il libro _Del Principe e del
Popolo_, il quale prima di stampare sottoposi allo esame di Magistrato
per altezza di mente distinto, e fu tenuto allora non indegno dei
casi consigliere discreto di quelli ai quali m'indirizzavo, presago
poi delle sopravvenute vicende. Era mio conforto al Governo ritirarsi
indietro dallo immediato contatto del Popolo minuto, concedendo
subito quanto reputava prudente, riacquistare credito, e temprato per
nuova opinione, prendere tempo a ricostruire gli arnesi necessarii di
Governo. Questo non volle fare il Ministero; lasciò che gli eventi
lo strascinassero legato dietro il carro. Di qui gratitudine poca,
esitanza a concedere crescente, su le labbra concordia, in cuore
sospetto.
Gli _agitatori_, i quali dapprima non furono i _demagoghi_, chè questi
vennero in fondo, ma sì uomini chiari per fama, e per condizione
cospicui, ottennero le riforme da loro reputate sufficienti. Giusta
il costume antico di quelli che commuovono le moltitudini, pretesero
allora, ch'esse posassero; contenti loro, contenti tutti. Il Popolo
minuto, poco soddisfatto della Legge sopra la stampa perchè non legge,
nè della Guardia Civica perchè n'era escluso, _continuò ad agitarsi per
conto proprio_.
Giuseppe Mazzoni deputato, con molta verità accennava a questo con le
parole profferite nella Seduta del Consiglio Generale toscano del 16
ottobre 1848: «Però le agitazioni anteriori al settembre dell'anno
passato, le quali non _si disapprovavano nemmeno da certi alti
personaggi_, furono generalmente riguardate come politiche necessità; e
s'esse non erano, l'antica Babele della Polizia non sarebbe espugnata,
e le libertà dello Statuto, che tutti stimiamo carissime, sarebbero
tuttora un sogno.»[6]
Io però non dubito punto affermare, che i Toscani di natura
contentabile, acquistate le libertà costituzionali, sarebbonsi tenuti
soddisfatti, se anche sopra di loro non fosse passato il vento che
sconvolse l'Europa intera dal Mediterraneo al Baltico, dall'Atlantico
al Mar Nero, e minacciò portar via, come la polvere di una strada
maestra, i troni di Vienna, di Berlino, di Roma, di gran parte della
Germania, e d'Italia, nella guisa stessa che disperse quello di
Francia; ed in ispecie poi il prossimo incendio di Sicilia, di Milano,
e di Venezia, la guerra della Indipendenza prima, poi i disastri della
guerra.
Per la rivoluzione di Francia si diffuse la idea della Repubblica, e
parecchi fra noi presero a coltivarla, non perchè ve ne fosse bisogno,
ma per fare qualche cosa; e poi corre sciaguratamente nelle contrade
nostre antico il vezzo di ricavare dalla Francia pensieri e voglie,
e begli e fatti i vestiti. Le moltitudini rimasero un cotal poco
spruzzate di _comunismo_ e di _socialismo_, di cui però non conobbero
le dottrine, e giova che le ignorino. Imprudenti, a mio parere,
suonarono le parole del Lamartine nel suo Manifesto alla Europa,
affermando essere la Repubblica il punto estremo dove giunge la civiltà
di un Popolo per mezzo di reggimenti costituzionali, imperciocchè
somministrassero a molti motivo di non posare, finchè non avessero
toccato il vertice, e nei Principi mettessero sospetto di confidarsi
intieri sopra una via sdrucciolevole; nè lo avere raccomandato,
com'egli fece, ai Popoli i quali non fossero peranche giunti alla
maturità dei Francesi, rimanessero indietro ad ammaestrarsi, assicurava
punto, avvegnadio facesse comprendere ai Principi, che potevano sperare
tregua, pace non mai. E come imprudenti, se male non mi appongo,
furono coteste parole non vere, però che nella Inghilterra le libertà
costituzionali durino dal 19 giugno 1214 in poi, nè mostrino per ora
di volere cessare, e la Repubblica v'ebbe vita brevissima dal 1649 al
1660; per la quale cosa evidentemente apparisce, come nella formula
costituzionale i destini dei popoli possano quietarsi, almeno per tempo
lunghissimo.[7] Nè danno minore, io penso, ci ridondò dal proclamare
che fece il Lamartine, non avrebbe sofferto in pace la Francia,
che alcuna Potenza si fosse mossa contro i Popoli rivendicantisi in
libertà; imperciocchè questa sicurezza rese baldanzose a insorgere
nazioni, le quali forse diversamente ci avrebbero pensato due volte.
soccorso; stesse di buono animo, recarsi costà Montanelli, Marmocchi,
e Niccolini, i quali avrebbero posto il capo a partito ai malvagi e
agli stolti; e Montanelli infatti partiva in compagnia degli altri
mentovati, recando seco lire 1400, e Siena per la infausta presenza
loro, improvvisamente mutata, tumultuava, sicchè il Principe temendo
gravi calamità dall'approvazione della Legge, e diffidando in tanta
esaltazione del libero esercizio del veto nella Capitale e in Siena,
si allontana da questo luogo cercando altrove un asilo contro alle
violenze, protestando però di non volere abbandonare il suo diletto
paese, come apparisce dalle sue lettere ai ministri. Niccolini torna
frettoloso a Firenze a recare notizia del caso al Guerrazzi, e seco lui
si rimane _gran parte della notte_; poco dopo sopraggiunge Montanelli
_lieto in vista_, e, convocati i Ministri, deliberano adunare per
urgenza il Consiglio generale, e rassegnare lo ufficio; nè i soli
Ministri convennero nella notte del 7 all'8 febbraio in Palazzo
Vecchio, ma, invitati, ancora, Mordini, Dragomanni, e i fratelli
Mori, che usciti di là col Niccolini si conducono al convento di Santa
Trinita, e adunano il Circolo, il quale _in preferenza delle Camere
riceveva primo le partecipazioni ministeriali_; agli adunati i Faziosi
palesano la partenza del Principe, e lo vituperano; invitano il popolo,
promettendo pagamento, a intervenire pel giorno successivo a pubblica
adunanza sotto le Logge dell'Orgagna. A tutte queste operazioni non
dovè rimanere estraneo il Ministero, o _almeno alcuni di coloro i quali
lo componevano_, sì perchè lo allontanamento del Principe da Siena,
qualificato abbandono, presentava opportunità a operare la rivoluzione
per cupide o ambiziose voglie meditata da tempo remoto; sì perchè
Niccolini disse a Montazio, intenzione di Montanelli e Mazzoni essere
che il Circolo prendesse la iniziativa per la formazione del Governo
provvisorio; sì perchè il Mazzoni dichiarò, che la riunione dei Circoli
venne provocata dal Governo; sì perchè gli agitatori del Circolo
furono dal Governo confessati suoi commessi, e pagati, secondo che si
ricava dal biglietto del Mazzoni dell'8 febbraio 1849. — Gli Agitatori
per mandare a compimento i disegni macchinati nella notte, traggono
tumultuanti sotto le Logge dell'Orgagna; Mordini apre la seduta con
apparato di bandiere e di cartelli, in mezzo a curiosi e tristi pagati
poi coi danari dello Stato; quivi notificano la partenza del Principe,
la sua condotta calunniano, il suo nome vituperano, _la sua decadenza
decretano_, il Governo provvisorio proclamano, una mano di plebe
è spinta contro l'Assemblea per imporle la sua volontà. In questa
i Deputati si adunavano per udire le comunicazioni del Ministero.
Invano il Presidente Vanni, avvertito poche ore innanzi, prevedendo
saviamente i pericoli della seduta, propose la riunione del Comitato
segreto; Guerrazzi si oppone, _dicendo volere seduta pubblica; non
temesse il Presidente, perchè le disposizioni erano prese per tutelare
la libertà della discussione_; invano alcuni Deputati la proposta del
Vanni rinnuovano; invano il Presidente torna ad invitare il Ministero
a condursi nella sala delle Conferenze per tenere _tranquillamente_
una discussione preparatoria; Guerrazzi e Montanelli vi si ricusano
pertinaci. Si apre alfine la seduta pubblica. Montanelli salito
in tribuna annunzia la partenza del Principe da Siena, e legge le
granducali lettere. Non era terminata la lettura, quando il _Popolo_
da un lato irrompe _minaccioso e fremente_ nelle tribune, dall'altro
13 o 20 forsennati invadono l'emiciclo, preceduti da un cartello, dove
a grandi caratteri stava scritto: _Governo provvisorio — Guerrazzi
— Mazzoni — Montanelli_. Niccolini antesignano degl'invasori presa
la parola bandisce: _decaduto_ il Principe, le Camere _sciolte_, il
Governo provvisorio deliberato dal popolo padrone; _l'Assemblea vi
aggiunga per formalità il suo voto_: altramente guai! — Il Presidente
alla strana intimazione risponde: vietata la parola ai non Deputati;
se il popolo ha petizioni da presentare, le depositi, la Camera si
ritirerebbe, e le prenderebbe in considerazione; al che fieramente
Niccolini soggiunge: non essere quella petizione, ma comando del popolo
al quale la Camera deve obbedire. Plaudono i tristi con minaccie e con
urli; il Presidente seguito da alcuni Deputati si ritira nella sala
delle Conferenze; il tumulto continua; Niccolini salito in tribuna
legge il decreto del Circolo intorno alla decadenza del Principe.
Guerrazzi invitato per la terza volta a recarsi nella sala delle
Conferenze risponde: «_Io non mi muovo di qui perchè non ho paura
del Popolo_.» Montanelli pregato dal Tabarrini a sedare il tumulto
replica: «non è più in mia mano farlo.» Si sentono minaccie di morte
ai Deputati che si assentassero. Vanni ritorna nella pubblica sala
cedendo al timore, incussogli dal Montanelli, di guerra civile e di
strage. — Riapertasi la seduta, Guerrazzi legge il Processo verbale
dettato nella notte dai Ministri, concludendo deporre il potere _per
lasciare il paese a sè stesso_. Incomincia un simulacro di discussione
alla presenza degl'Invasori e dei Tumultuanti, dopo la quale, _sotto
la coazione evidente della forza maggiore_, la Camera delibera un
Governo provvisorio, senza determinarne lo scopo nè le attribuzioni,
nominando a comporlo le persone indicate dagli agitatori che lo
avevano imposto, e finalmente si scioglie al grido del Montanelli:
«Se Leopoldo di Austria ci ha abbandonato, Dio non ci abbandonerà!» I
Faziosi, conseguito lo intento, _conducono_ gli eletti sotto le Logge
dell'Orgagna, dove, per attestare fiducia al popolo, e confermarlo
nella presa deliberazione, arringando dicono: — fuggito il Principe,
— falso pretesto lo scrupolo di coscienza allegato, — motivo vero
il desiderio di dare luogo all'anarchia e alla guerra civile.... —
rammentasse il Popolo i suoi diritti.... Dio avere scritto sotto i
merli del ballatoio di Palazzo Vecchio la parola _Libertas_, perchè il
Popolo dopo tanti secoli vi rientrasse padrone. Ciò fatto, i Triumviri
salgono in palazzo, il Circolo _si ritira_ a Santa Trinita imprecando
a Leopoldo secondo, e _acclamando la repubblica_. Il Governo, per
mostrarsi grato ai suoi partigiani, invita per mezzo del Guerrazzi
il Circolo a tenere la sua adunanza nel salone del Palazzo Vecchio
nella sera del 9 febbraio, come di fatto avvenne, e a spese dello
Erario vi fu festeggiata la partenza del Principe, vilipeso il nome,
applaudito il Governo provvisorio, preparata la instituzione della
Repubblica; nè qui si ristette, chè, ricompensando coloro che avevano
violentato il Consiglio generale, promosse Mordini a ministro degli
Esteri, Ciofi gestatore del cartello nell'emiciclo mandato a Siena,
Dragomanni cancelliere della legazione toscana a Costantinopoli;
Niccolini ricompensato con danari (da Guerrazzi ebbe _dieci scudi_!).
Da questi fatti emergono fino di ora bastanti argomenti a convincere,
che il Governo dell'8 febbraio ed i suoi principali aderenti avevano
artificiosamente _preparata_, o per _lo meno accettata_ coi suoi
criminosi caratteri la rivoluzione, considerando abolito lo Statuto
da essi giurato, e reputandosi commessi non già a mantenere il potere
conferito alla persona del Principe secondo il _diritto universale in
casi analoghi_, ma sì a consolidare le basi della Rivoluzione.» —
Per ora basti fin qui, chè il rimanente sarà tema doloroso della
speciale Difesa.
IV.
Confronto del metodo praticato dall'Accusa con le dottrine del Guizot.
Questo metodo presenta i caratteri indicati dal Guizot? Furono
accumulati fatti a me estranei? Fui immerso dentro una atmosfera vaga
e indefinita dove non si trova la strada per uscirne? Si espose la
storia, o piuttosto la novella dello stato del paese, e delle pubbliche
disposizioni, per appuntarmela al petto? Fuori dei fatti dell'accusa
speciale non fu egli costruito uno edifizio per rovesciarmelo sul
capo? Ebrei con Sammaritani mescolaronsi o no? La Chimera favolosa
non si doveva vedere ridotta a verità nei Documenti della Accusa? La
lunga rete non si strascinava per tratto largo di mare onde pescare di
tutto un po' ai miei danni; fatti estranei, induzioni, rumori plebei,
calunnie, rabbia di partiti, sofismi, per invilupparmici dentro? Non si
è prima tentato di stabilire una cospirazione diretta a distruggere la
Monarchia Costituzionale, e poi si è detto: _ecco il colpevole_?
È stato fatto anche più; dopo avere con faticosa solerzia raccolto
un cumulo di pietre destinate a lapidarmi, ad un tratto me lo hanno
mostrato, e incominciando a gittarmele contro la persona soggiunsero:
difendetevi! — Al punto stesso però mi negarono gli atti della mia
Amministrazione[5] capaci a chiarire le condizioni toscane in cotesti
tempi quali erano, e gli sforzi supremi da me adoperati per mantenere
i popoli alla devozione della Monarchia Costituzionale, che l'Accusa
pretende da me insidiata mai sempre, e la ragione, anzi pure la
necessità, delle opere incriminate. — Difendetevi! — Ma in mezzo alla
bufera rivoluzionaria, fra tremende perplessità, e incessanti terrori,
che da un punto all'altro subbissasse la società, per ispossatezza,
e per vigilia febbricitante, avevo io modo di notare i singoli casi?
Quando si apre una via all'acqua nel corpo della nave, bada egli il
pilota quale delle sartie le schianti la tempesta? — Come rammentarsi
di tutti i successi, che varii, moltiplici, infiniti, si tenevano
dietro con ispaventevole rapidità? Chi conosce a nome le migliaia delle
persone che mi passavano davanti, in ispecie se si consideri che da
tempo breve io avevo stanza a Firenze? E conoscendole ancora, come
ricordarmene dopo spazio sì lungo di tempo? Perchè non concedermi le
conferenze co' segretarii miei, e con le persone che mi circondavano,
onde potere instituire ricerche a difesa, come l'Accusa le instituiva
laboriosamente e per anni ben lunghi ad offesa? — Difendetevi! — Ma
se mi legate le mani, se mi chiudete la bocca, se da due anni e più
mi tenete iniquissimamente in carcere segreta, come ho a fare per
difendermi io? — Difendetevi! — Ma se le testimonianze avverse al
concetto, che vi tramandate dall'uno all'altro _stereotipato_, non
curate; se, giudicando della mia amministrazione, gli archivj della mia
amministrazione a voi e ad altrui chiudete; se invece di dissetarvi
a cotesta fonte viva, correte dietro a rigagnoli di acqua fangosa;
se i documenti e i riscontri non leggete; se le deduzioni rigorose di
logica aborrite, a che e come mi difenderei io davanti a voi? Invece
di distinguere confondete, vero a falso mescolate, la progressione dei
tempi invertite; gli stessi errori, le medesime enormezze, anzi pure le
stesse parole da un Decreto all'altro (funesto augurio di non possibile
difesa) trasportate; e con quale cuore poi voi mi dite: — Difendetevi? —
Invocherò il diritto, che m'insegna il Guizot nella opera citata, ma
nessuno mi ascolterà. Questo diritto consiste «nel pretendere, che la
mia colpa sia cercata là dove io mi trovo, e fabbricata con le mie
proprie azioni; si esaminino i fatti che a me si referiscono, e nei
quali sostengo una parte.»
Il Pubblico Ministero con l'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851, come
di già notava, seguitò lo esempio dei Decreti che lo hanno preceduto,
anzi intristiva quello che già appariva tristissimo, e sarà dimostrato.
Anche al Ministero Pubblico, anzi a lui principalmente, rivolgendo
il Guizot la sua grave parola, scriveva nella opera citata: «ma che
il Ministero Pubblico a cagione di un uomo o di un fatto stabilisca
la presenza di una fazione, ve lo inviluppi dentro, declami contro i
_tristi_, e i desiderii, e i disegni loro; che in appoggio di accusa
speciale svolga tutte le considerazioni generali, che possono addursi
in favore di una misura del Governo....... questo è sovvertimento di
giustizia, è introdurre le procelle della tribuna nel Santuario della
Legge.» L'Atto di Accusa del 27 gennaio 1851 non ha fatto altro che
questo. — Oh! Il Ministero Pubblico pensando unicamente sostenere
l'interesse dell'Accusa, s'inganna intorno alla nobiltà del suo
ufficio: non sono, no, i soli interessi dell'Accusa quelli che vengono
confidati nelle sue mani, ma eziandio quelli più santi della innocenza
perseguitata, della morale pubblica, della intera civiltà. —
Chi cerca lo errore confonde, chi indaga il vero distingue. Ora a me
pare che, volendo instituire diritta indagine intorno alle ragioni
della mia vita politica, debbansi nella seguente maniera determinare le
ricerche:
1º Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori di
Toscana, e in casa.
2º Lo Incolpato, prima e durante il suo Ministero, fu aiutatore,
complice, o docile arnese di questa forza rivoluzionaria?
3º Come agisse questa forza, e a quale intento. Condizione dello
Imputato di contro alla forza rivoluzionaria.
4º Come vi si opponesse lo Imputato, e in che cosa riuscisse; in che no.
5º Come lo Imputato provvedesse alla società minacciata; — primario
scopo del mandato ricevuto dalle Camere, dal Popolo, dalla sua
Coscienza, da Dio.
6º Come lo Imputato intendesse alla restaurazione della forma politica;
— secondario scopo del mandato medesimo.
7º Se sia vero, che lo Imputato si opponesse alla Restaurazione.
Io entro nella difesa a mani ignude, come lo schiavo romano gittato
nel circo alle belve: non ho esaminato il processo; ignoro il deposto
dei testimoni; non ho conferito con persone che portino alla mia
travagliata memoria il soccorso delle loro reminiscenze; non parlerò
di Diritto, e nonostante confido disarmare l'Accusa. Esporrò una serie
di fatti e di raziocinii, non perchè i primi sieno tutti, e molto più
stringenti non possano argomentarsi i secondi; ma perchè mi è parso,
che in causa propria io dovessi, parlando, somministrare alcuna guida
alla Difesa, e tema al Pubblico, onde se dico il vero, e la mia causa
gli sembri giusta, egli mi approvi, e mi ami; se invece trova la mia
_lingua dolosa_, e la mia causa ingiusta, allora si chiuda le orecchie
e il cuore, e mi scagli la pietra.
V.
Origine, progresso, e motivi della forza rivoluzionaria fuori e in casa.
La Storia male si accomoda sempre con le Accuse; e forse, anche
ad uomini che accusatori per indole e per instituto non sieno,
riesce, per non dire impossibile, male agevole assai dettare storie
contemporanee, chè la passione guida la mano a chi tiene la penna, e
versa nel calamaio i suoi colori, e troppo spesso la rabbia: — comunque
sia favellerò, per quanto possa, imparziale. — Varii sono i sistemi
immaginati intorno alle origini della Società; ma o tu vogli credere
(ed è questa la più dannata ipotesi) che un violento avendo legato per
forza o per inganno i suoi simili abbia detto loro: io non vi sciorrò
se prima non promettete servirmi; o si reputi più dirittamente, che
gli uomini convenendo in sociale consorzio abbiano pattuito cedere
tanta parte di naturale libertà quanta era necessaria al vivere
civile: fatto sta, che torna nell'uomo irrevocabile il desiderio di
rivendicare la sua alienata libertà, o perchè la Società gliel'abbia
sottratta tutta, o perchè, come sembra più consentaneo al vero, gliene
abbia tolta troppa. Carissima è poi la libertà nella estimazione di
coloro che la dispensano, e di quelli che la ricevono, conciossiachè
i primi sogliono concederla o per cuore magnanimo, o per molta paura,
e i secondi l'accolgono con allegrezza, che talora è delirio. Invano
la libertà viene duramente respinta, perseguitata, e sepolta; essa
vive anche nei sepolcri, e, quando vengono i tempi, rompe la lapide, e
torna a chiedere la sua giustizia. Lord Brougham l'ha paragonata alla
Sibilla di Tarquinio, la quale quante volte era ributtata, altrettante
tornava offrendo numero di libri più scarso, prezzo maggiore. La
libertà gira perpetuamente pel mondo: poserà ella mai? Questo non
so: solo io conosco, che dove ella non trovi la compagnia della
religione, dei costumi onesti, del temperato vivere, e della concordia
fraterna, passa senza fermarsi, o breve soggiorna. La libertà poi non
arriva come ladro notturno, ma invia davanti a sè nunzii precursori
a prepararle la stanza per potersi presentare pacata col saluto su
i labbri: _la pace sia con voi_; ma la gente che l'odia, invece di
accogliere i nunzii festosamente, mostra loro il viso dell'arme, li
perseguita come _liberali_, — più tardi come _demagoghi_, — più tardi
ancora come _rossi_, e gli uccide, o gl'imprigiona. Intanto la libertà
sopraggiunge, e non trovando albergo apparecchiato ad ospitarla, si
ferma dove si trova, e prende più che non bisogna, donde poi nascono
disordini, e perturbamenti grandissimi attribuiti alla sua presenza,
mentre da un lato hassene ad incolpare la incauta trascuraggine dei
suoi avversarii, e dall'altro le giunterie dei _trecconi_ e degli
_zingani_, che in difetto dei veri e buoni rappresentanti della
libertà, cacciati in prigione, ne usurpano il titolo di gestori di
negozii. Giuseppe II e Leopoldo I, imperatori (ai tempi che corrono
lasciati mordere poco meno che per eretici), furono prudenti reggitori
dei popoli, e gli avrebbero condotti, a prova di arte, a lido amico
di libertà duratura, se la Francia non era. Sia detto senza ira come
senza disprezzo, la Libertà di questa nobilissima nazione, che si vanta
_battistrada_ dei Popoli, troppo spesso porta in mano una torcia che
incendia, invece di fiaccola che illumini il cammino; precipitando
negli orrori del 93, spaventò Principi, sbigottì Popoli; sè stessa
spossò nei delirii di sangue, e rifinita cadde fra le braccia di
Napoleone che la uccise con uno amplesso da soldato. Napoleone barattò
alla Francia la sua libertà in tanta moneta falsa di gloria bugiarda;
però, che egli imprendesse la perpetua guerra in benefizio della
umanità, poco è da credersi; la monarchia universale di Carlo Magno, di
Carlo V, e di Filippo II, nella vasta mente mulinava, o piuttosto il
sospetto che i Francesi quietando, la libertà smarrita cominciassero
a desiderare. Intanto i Popoli, distinguendo a prova i vizii degli
uomini dalla bontà della dottrina, tornarono ad amare i benefizii
della onesta libertà, e ad infastidire il superbo giogo del soldato
imperiale. I Principi vennero fomentando con sommo studio siffatti
umori dei Popoli, e gli adoperarono come leva potentissima a sovvertire
la buonapartiana onnipotenza; nè la tirannide di Napoleone, nè la
libertà dei Popoli essi amavano; però la prima allora maggiormente
temevano. Sortito il fine desiderato, le promesse fatte ricusarono
mantenere. Di qui, e unicamente di qui, la lotta talora violenta, più
spesso di parola, eterna di desiderio, fra governanti e governati. I
Governi si logorarono nella contesa, e l'aborrita pianta stancava le
braccia a tagliare piuttosto che ella si stancasse a mettere fronde; e
sradicarsi non si poteva, nè si può. La passione, compagna infallibile
di principii perseguitati, sorgeva a fare più veemente il cordoglio. Da
per tutto alla fine straripò torrente, che mena in volta sassi e fango;
rovina dei luoghi coltivali.
Nè il ciclo infelice di questo avvicendarsi di successi sembra completo
fin qui, mercè i consigli di una gente improvvida, che non comprende,
come la fede mancata assai più nuoccia alla causa delle Monarchie, che
le grida insensate pel socialismo. «Quando la buona fede fosse bandita
da tutta la terra, dovrebbe ricoverarsi nel cuore dei Re,» il senno
antico ammaestrò; la quale sentenza io non so bene se più corrisponda
co' precetti della morale, o con quelli della politica (seppure
questa distinzione può farsi), comecchè sappia, che con entrambi
necessariamente la lealtà si mantenga.
VI.
Agitazione in Toscana.
Ma inopportuno ragionamento sarebbe qui discorrere le vicende di
Europa; mi ristringo in più modesto confine; parlo di Toscana.
La lunga amministrazione precedente al Ministero Ridolfi aveva, da una
parte, aumentato fra noi universale disgusto: delle cause non tratto,
nè mi gioverebbe trattarle: accenno un fatto, che male può revocarsi
in dubbio: dall'altra, si disfacevano nel disprezzo e nell'odio gli
agenti dell'autorità, utili in Istato che goda la pubblica opinione,
necessarii negli Stati che dalla pubblica opinione si scompagnano,
perchè, se essi difettano di credito e di forza, chi gli sosterrà?
Certo la forza poco dura; ma finchè dura, costringe. Così il Popolo,
un giorno commosso dal medesimo impulso (e a torto si affaticano
qui a rintracciare instigazioni di sètte), prese a imprigionare e a
manomettere tutti gli ufficiali superiori e subalterni della Polizia.
Io non assumo di certo la difesa della vecchia Polizia: troppo bene
conosco che i Governi la nutrivano e l'accarezzavano allora, come si
sopportano i gatti in casa, per prendere i topi: oggi poi, mi dicono,
che non è più così; _amen_! — ma nel giorno che il Popolo incomincia
a fare da sè, mi sembra che pel Governo sia finita, là dove egli non
sappia adoperare i mezzi acconci pel restauro della smarrita autorità.
Nè si obietti, che in Inghilterra costrinsero Giovanni Senza-terra
a segnare la magna carta, e nonostante la Monarchia si resse;
conciossiachè non il Popolo, ma i baroni gli usarono violenza, pei
quali, quanto importava circoscrivere l'autorità regia per estendere
il proprio dominio, altrettanto poi premeva conservarla in piede,
come quella che era fondamento dell'ordine feudale. E di vero, indi
a poco, qui fra noi, ebbero a cansarsi tutte o la massima parte delle
Autorità governative partecipi della medesima animavversione. Allora
corse un plauso generale, ed io udii battere le palme con gli altri
a Magistrati gravissimi, che mi avevano garbo del folle che menava
trionfo nel contemplare lo incendio di casa sua. Il Governo non osò
difendere (e nemmeno lo avrebbe potuto) la Polizia, e la lasciò, come
la mignatta, morire dentro al sangue ch'ella aveva succhiato. Così
rimase in un subito disarmato di forza per farsi rispettare, e soli
avanzarono i partiti di sapienza e di conciliante composizione, i quali
si reputarono allora, e tuttavia dovrebbero reputarsi, meglio alla
toscana civiltà convenevoli. Però che la mente che considera quanto sia
arduo revocare gli uomini dalla naturale ferocia alla mansuetudine, e
quanto, per lo contrario, facile farli trascorrere ai bestiali istinti,
trema ogni volta che vede gittare a piene mani la semenza dell'odio nei
cuori che Cristo destinava ad amarsi.
Dalla parte del Vaticano soffiava un vento, che non pure in Toscana,
ma in Italia, in Europa, anzi, per tutto il mondo, alzava le menti
a incredibile aspettativa. Allora _uomini_, che io voglio credere
inspirati da puro amore di patria, allo scopo di condurre Toscana a
migliore governo, e alle riforme troppo ritardate, _impresero a far
circolare_ per le vene del Popolo stampe clandestine eccitatrici a
desiderarle, ed a chiederle.
La Legge sopra la stampa si promulgava: egli è evidente, che il Popolo
minuto, il quale poco legge o punto, non poteva poi fare le stimate per
cosiffatta Legge: nonostante _invitato_ ad applaudire, si rese _allo
invito_, ed applause. Coloro, che primi lo invitarono, per certo a
fine di bene, non avvertirono come sia più agevole sprigionare i venti
dall'otre di Ulisse, che ricacciarveli dentro, e come, _appellato_ il
Popolo una volta in piazza ad _approvare_, bisognava sopportarlo quando
_spontaneo avrebbe disapprovato più tardi_. Fu in quel tempo, che
considerando io come il Popolo ricevuto cotesto impulso non si sarebbe
rimasto soddisfatto alla Legge della stampa, ma avrebbe richiesto cose
maggiori mano a mano che gliene fosse venuto il desiderio; nè essere
senza grandissimo pericolo per l'Autorità esporsi a lasciarsi svellere
ora questa concessione, ora quell'altra, imperciocchè, così operando,
il potere non acquista il merito del pronto concedere, e il Popolo
si educa a crescere più intemperante nelle domande; fu, dico, in quel
tempo ed in questo concetto, che dettai il libro _Del Principe e del
Popolo_, il quale prima di stampare sottoposi allo esame di Magistrato
per altezza di mente distinto, e fu tenuto allora non indegno dei
casi consigliere discreto di quelli ai quali m'indirizzavo, presago
poi delle sopravvenute vicende. Era mio conforto al Governo ritirarsi
indietro dallo immediato contatto del Popolo minuto, concedendo
subito quanto reputava prudente, riacquistare credito, e temprato per
nuova opinione, prendere tempo a ricostruire gli arnesi necessarii di
Governo. Questo non volle fare il Ministero; lasciò che gli eventi
lo strascinassero legato dietro il carro. Di qui gratitudine poca,
esitanza a concedere crescente, su le labbra concordia, in cuore
sospetto.
Gli _agitatori_, i quali dapprima non furono i _demagoghi_, chè questi
vennero in fondo, ma sì uomini chiari per fama, e per condizione
cospicui, ottennero le riforme da loro reputate sufficienti. Giusta
il costume antico di quelli che commuovono le moltitudini, pretesero
allora, ch'esse posassero; contenti loro, contenti tutti. Il Popolo
minuto, poco soddisfatto della Legge sopra la stampa perchè non legge,
nè della Guardia Civica perchè n'era escluso, _continuò ad agitarsi per
conto proprio_.
Giuseppe Mazzoni deputato, con molta verità accennava a questo con le
parole profferite nella Seduta del Consiglio Generale toscano del 16
ottobre 1848: «Però le agitazioni anteriori al settembre dell'anno
passato, le quali non _si disapprovavano nemmeno da certi alti
personaggi_, furono generalmente riguardate come politiche necessità; e
s'esse non erano, l'antica Babele della Polizia non sarebbe espugnata,
e le libertà dello Statuto, che tutti stimiamo carissime, sarebbero
tuttora un sogno.»[6]
Io però non dubito punto affermare, che i Toscani di natura
contentabile, acquistate le libertà costituzionali, sarebbonsi tenuti
soddisfatti, se anche sopra di loro non fosse passato il vento che
sconvolse l'Europa intera dal Mediterraneo al Baltico, dall'Atlantico
al Mar Nero, e minacciò portar via, come la polvere di una strada
maestra, i troni di Vienna, di Berlino, di Roma, di gran parte della
Germania, e d'Italia, nella guisa stessa che disperse quello di
Francia; ed in ispecie poi il prossimo incendio di Sicilia, di Milano,
e di Venezia, la guerra della Indipendenza prima, poi i disastri della
guerra.
Per la rivoluzione di Francia si diffuse la idea della Repubblica, e
parecchi fra noi presero a coltivarla, non perchè ve ne fosse bisogno,
ma per fare qualche cosa; e poi corre sciaguratamente nelle contrade
nostre antico il vezzo di ricavare dalla Francia pensieri e voglie,
e begli e fatti i vestiti. Le moltitudini rimasero un cotal poco
spruzzate di _comunismo_ e di _socialismo_, di cui però non conobbero
le dottrine, e giova che le ignorino. Imprudenti, a mio parere,
suonarono le parole del Lamartine nel suo Manifesto alla Europa,
affermando essere la Repubblica il punto estremo dove giunge la civiltà
di un Popolo per mezzo di reggimenti costituzionali, imperciocchè
somministrassero a molti motivo di non posare, finchè non avessero
toccato il vertice, e nei Principi mettessero sospetto di confidarsi
intieri sopra una via sdrucciolevole; nè lo avere raccomandato,
com'egli fece, ai Popoli i quali non fossero peranche giunti alla
maturità dei Francesi, rimanessero indietro ad ammaestrarsi, assicurava
punto, avvegnadio facesse comprendere ai Principi, che potevano sperare
tregua, pace non mai. E come imprudenti, se male non mi appongo,
furono coteste parole non vere, però che nella Inghilterra le libertà
costituzionali durino dal 19 giugno 1214 in poi, nè mostrino per ora
di volere cessare, e la Repubblica v'ebbe vita brevissima dal 1649 al
1660; per la quale cosa evidentemente apparisce, come nella formula
costituzionale i destini dei popoli possano quietarsi, almeno per tempo
lunghissimo.[7] Nè danno minore, io penso, ci ridondò dal proclamare
che fece il Lamartine, non avrebbe sofferto in pace la Francia,
che alcuna Potenza si fosse mossa contro i Popoli rivendicantisi in
libertà; imperciocchè questa sicurezza rese baldanzose a insorgere
nazioni, le quali forse diversamente ci avrebbero pensato due volte.
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Next - Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - 03
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