Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 05

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come per altro apparisce assai bene dall'estensione del territorio che
diede inquisiti. Del resto, se non sappiamo i nomi de' molti Baroni
propriamente detti, sappiamo che molti tra' carcerati appartenevano
a famiglie nobili riconosciute: basterà fare avvertire che tra' soli
carcerati di Catanzaro, oltre quelli sopra nominati, anche il Franza,
i due Cordova, il Famareda, il Giovino, appartenevano a «famiglie
nobili serrate», come rilevasi dal D'Amato, che ne fa distinta menzione
e ne offre i rispettivi stemmi[53].--Notiamo poi che il tribunale
di Napoli, coll'anzidetto elenco di forgiudicati, ci si mostra
più severo di quello di Calabria: poichè se pel Baldaia, lasciato
dapprima in pace, emerse la testimonianza posteriore del Vitale che
aggravò gl'indizii contro di lui, pel Merlino e pel Santaguida non
s'intende quali nuovi indizii fossero venuti in campo, mentre un altro
Santaguida ecclesiastico, come vedremo a suo tempo, fu incolpato dello
stesso fatto e subito apparve catturato senza fondamento. Dobbiamo
del resto aggiungere, che se fu spiegata tanta severità per alcuni,
nessun provvedimento risulta preso per altri non meno gravemente
indiziati, come in verità è accaduto sempre in tali faccende sino a'
giorni nostri. Ognuno p. es. crederebbe che i fuorusciti nominati dal
Campanella nella sua Dichiarazione scritta, i figli di Jacobo Grasso,
il figlio di Nino Martino, Carlo Bravo, i Baroni di Reggio, fossero
stati immancabilmente perseguitati; lo stesso si crederebbe p. es. per
Geronimo Camarda, colto nientemeno che in corrispondenza con Claudio
Crispo; invece documenti che abbiamo trovato intorno a tutti costoro
mostrano persecuzioni e catture pe' loro delitti comuni, senza che
sia mai citato il delitto di ribellione, onde si deve conchiudere che
da questo lato siano stati veramente lasciati in pace. Ma di ciò più
tardi, quando con la nostra narrazione giungeremo agli anni successivi,
ne' quali vedremo da una parte assoluzioni e rilasci, da un'altra parte
la cattura e l'invio in Napoli di taluno de' forgiudicati sopradetti e
del rispettivo manutengolo.
Sorgeva intanto il nuovo anno 1600, e il Breve Papale, per cominciare
a procedere contro gli ecclesiastici, non arrivava ancora. Come
dicevamo, durante l'aspettativa, il Vicerè aveva interceduto a Roma per
l'assoluzione del Principe di Scilla dalla scomunica che il Vescovo
di Mileto gli aveva già da un pezzo inflitta; in pari tempo aveva
sempre continuato ad insistere presso il Nunzio per la venuta del
Vescovo medesimo in Napoli. Da Roma fu presto data al Nunzio, fin dal
22 dicembre, la facoltà di assolvere il Principe, a patto che fossero
state già adempite tutte le necessarie condizioni. E il Principe venne
assoluto, e in tale occasione egli medesimo fece istanza che venissero
assoluti egualmente il suo Vice-Principe dottor Fabrizio Poerio e D.
Luise Xarava, i quali erano stati scomunicati insieme con lui. Questo
fu pure più tardi concesso, e con lungo giro eseguito pel Poerio,
mercè facoltà trasmessa all'Arcivescovo di Reggio, ma non risulta
che sia stato eseguito del pari per lo Xarava, il quale sappiamo che
assai più tardi, nel 1605, richiese al Gran Duca di Toscana che gli
ottenesse da S. S.^{ta} la dispensa da qualunque irregolarità commessa
pel passato[54]: così non a torto il Campanella scrisse essere stato
lo Xarava perseverante nella scomunica. Arrivava poi nella capitale,
la prima settimana del nuovo anno, il Vescovo di Mileto, che aveva
impiegato circa un mese per venirsene a tutto suo comodo da Calabria,
onde il Vicerè pretendeva doversi ritenerlo contumace. Una lettera del
Nunzio, in data 11 gennaio 1600, narra tutti i particolari dell'udienza
datagli dal Vicerè, essendovi lui pure intervenuto, e ci fa conoscere
gli appunti e le ammonizioni dal lato del Vicerè, e le discolpe e la
richiesta di un passaporto dal lato del Vescovo, con la conclusione del
rilascio del passaporto senza difficoltà. Uno degli appunti che riesce
importante per la nostra narrazione fu questo, che il Vescovo «desse
occasione di sospettar di lui, come haveva fatto adesso col difendere
qualch'uno di quelli che si pretendevono complici della ribellione
seguìta in Calabria; come era un Clerico Cesare Pisano, in favore del
quale si trovava fatto ex officio un Processo per Giustificatione del
suo Clericato per essimerlo dalla Corte Secolare quando si trattava
d'un negotio così grave». Il Vescovo disse «che il Processo del
Clericato di quel Cesare era stato fatto avanti si sapesse nulla della
congiura, ò ribellione, ad altro fine come poteva vedersi»[55]. Ma
finalmente, nella stessa data 11 gennaio, arrivò pure il Breve Papale,
e D. Pietro de Vera lo portò di persona al Nunzio. E già costoro si
disponevano a dare cominciamento al processo, quando il Vicerè, avuto
il Breve, e trovandosi ancora in Napoli il Vescovo di Mileto, diede
improvvisamente ordine che Cesare Pisano fosse giustiziato.
Il Pisano, secondo il solito, fu tradotto alle carceri della Vicaria,
e un documento, che abbiamo allegato al processo di eresia, ce lo
mostra il sabato 15 gennaio 1600 entro la cappella segreta di quelle
carceri, in presenza de' Rev.^{di} Orazio Venezia, Curzio Palumbo e
Geronimo Perruccio, ufficiali della Curia Arcivescovile appartenenti
alla Congregazione diocesana del S.^{to} Officio, alla quale, mediante
i Confrati bianchi, vicino ad essere giustiziato, egli avea fatto
istanza di voler confessare per disgravio della sua coscienza. La lunga
confessione che egli fece, e che secondo lo stile del S.^{to} Officio
è detta denunzia poichè in fondo con essa riusciva a denunziare sè
medesimo e gli altri, lo rivela turbato, confuso, in qualche punto
speciale contradittorio, ma nel complesso coerente in tutte le cose
di eresia che altre volte avea deposte, con qualche rettificazione
verso fra Dionisio, con qualche circostanza aggravante verso il
Campanella ed anche verso sè medesimo, riconoscendo di aver creduto
a quelle opinioni, la qual cosa aveva altra volta negata. I lettori
troveranno questa confessione riportata nella sua integrità tra gli
altri Documenti, e potranno scorgere le varianti in raffronto delle
deposizioni anteriori[56]; qui basterà citarne i punti più importanti
per la nostra narrazione. Intorno al Campanella, egli rivelò che fra
Tommaso, nelle carceri di Squillace, gli avea raccomandato di non
voler «ruinare li amici» col suo esame, quando non poteva salvare
sè stesso; che inoltre, a tempo della gita da Monasterace a Stilo
(cosa da lui precedentemente negata) fra Tommaso gli avea parlato
dell'analogia de' nostri corpi con quelli dei cavalli e giumente, e
della conversione delle anime nostre «in non essere» non trovandosi
inferno, purgatorio e paradiso, ma circa l'esistenza di Dio avea detto
dovergli bastare quanto gli aveano comunicato que' frati, essendo
cose troppo alte per poterle capire; infine accennò all'essere stato
visitato da fra Tommaso nelle carceri di Castelvetere a' primi tempi
della sua carcerazione. Intorno a fra Dionisio, revocò di aver saputo
da lui le cattive relazioni tra S. Giovanni e Gesù, ma non altro che
questo, e intorno a fra Bitonto e fra Jatrinoli non revocò nulla; che
anzi ripetè ancora una volta tutti i discorsi di eresie fatti da'
frati da lui accompagnati nelle gite a Bagnara e a Messina, e poi a
Stignano in casa Grillo etc., come pure i discorsi consimili da lui
stesso tenuti nelle carceri di Castelvetere col Gagliardo, che vi
partecipava, e col Santacroce, col Marrapodi e coll'Adimari, che egli
voleva indurre in quelle opinioni, delle quali infine si pentiva e
voleva far penitenza, vedendo «di havere da morire fra breve termino».
Tutto ciò dovè sembrare di troppa gravità agli ufficiali della Curia,
i quali non presero alcuna risoluzione; sicchè l'indomani, 16 gennaio,
intervenne il Vicario Arcivescovile in persona, Ercole Vaccari, che poi
troveremo come Giudice nella causa dell'eresia, e costui, fatta qualche
altra interrogazione, decretò che per rendere valida la deposizione
anche contro i complici «et ad omnem alium bonum finem et effectum»
fosse al Pisano amministrata la tortura con la corda per un ottavo di
ora. Ed immediatamente la tortura venne amministrata, ed i lettori
troveranno fra' Documenti il primo processo verbale di questo genere.
Spogliato, legato ed attaccato alla corda, di poi tratto in alto,
il Pisano dovè più volte dichiarare che le cose dette erano vere,
verissime; e soggiunse «lhò ditto per scaricarmi in tutto è per tutto
la conscientia, è per salvarmi l'anima, et se non l'havesse ditto, lo
tornaria a dire». Poi soggiunse ancora: «Monsignor mio, misericordia,
che hò ditto la verità, et sono quattro giorni che non hò mangiato, è
mi trovo debole»; ed allora, con la solita formola, il Vicario ordinò
che fosse deposto, che gli fossero accomodate le braccia e venisse
rivestito, quindi lo condannò come eretico formale, imponendogli
l'abiura ed alcune penitenze «in questo poco spacio di tempo di vita»
che gli rimaneva. La sentenza fu subito letta dal Mastrodatti della
Curia Gio. Camillo Prezioso, l'abiura fatta e sottoscritta dal Pisano
e l'assoluzione data dal Vaccari, nell'Audienza criminale della
Vicaria.--Ma in pari tempo anche i Confrati bianchi ricevevano dal
Pisano talune «esculpationi» intorno alla congiura, come ci mostra
il documento relativo alla sua esecuzione, e queste meritano bene di
essere ricordate[57]. In fondo il Pisano si ritrattava sul conto di
talune persone che avea nominate ne' tormenti sofferti in Squillace,
e negli «ultimi tormenti» sofferti in Gerace. In Squillace egli avea
dichiarato che il fratello di Orazio Santacroce avrebbe dato aiuto
«al trattato della rebellione», ed inoltre che avea parlato pure con
Geronimo Conia di detto trattato, e questo non era vero. In Gerace
avea dichiarato che i fratelli Moretti consentivano al trattato e che
fra Dionisio glie l'avea detto, come pure che Gio. Angelo Marrapodi
avea promesso di portar gente in aiuto, e tutto questo nemmeno era
vero.--Tali furono gli atti estremi del Pisano, che nel medesimo
giorno, malgrado fosse di Domenica, venne condotto al supplizio; ci
corre pertanto il debito di giudicarli. A rigore, la confessione delle
eresie potrebbe dirsi fatta con la speranza di suscitare direttamente
nel S.^{to} Officio la premura di avocare la causa al suo tribunale,
e quindi intercedere perchè l'esecuzione fosse sospesa; tuttavia il
tenore di essa è tale da poterla credere sincera, mostrando un uomo
per quanto turbato altrettanto scevro d'illusioni, mentre d'altra
parte tutta la vita anteriore di lui ce lo rivela di costumi tristi,
ma leggiero più che malizioso. Le discolpe poi intorno alla congiura,
le quali attenuano la responsabilità di parecchi ed anche esonerano
perfino fra Dionisio circa un punto speciale, non fanno motto nè
del Gagliardo, nè del Bitonto, nè del Jatrinoli, e però implicano
evidentemente una conferma dell'esistenza del concerto per la
ribellione: se non era vero che il tale e il tal altro vi avessero
avuta parte o che ve l'avessero avuta nella misura prima deposta, era
vero che vi avessero avuta parte in una misura più circoscritta e che
ve l'avessero avuta tutti i rimanenti. Di certo non gli era mancata
l'opportunità di disdirsi in tutto e per tutto, e gli sarebbe riuscito
tanto più facile il farlo in poche parole qualora la coscienza glie
l'avesse consentito. Dopo ciò bisogna dire che fu assai male informato
il Campanella, quando nella sua Narrazione scrisse che «il Pisano si
ritrattò più volte, e poi dicendo che l'heresia lo havea salvato,
lo fecero morir di domenica, avanti che si presentasse la bolla del
clericato per lunedì, e nella sua morte si scommosse il cielo el mare,
e s'annegaro 8 navi e galere in porto di Napoli». Che propriamente
nella notte del 16 gennaio, ed anzi sull'alba del 17, vi sia stato un
uragano, pel quale perirono in Napoli 7 navi e diverse altre egualmente
nelle spiagge vicine, è ricordato da' nostri Storici, e meglio anche
dagli Agenti di Toscana e di Venezia ne' loro Carteggi, e su ciò non
v'è nulla da dire[58]. Che l'esecuzione sia stata fatta di Domenica
per ragione non del Vicerè ma del S.^{to} Officio, si rileva da quanto
abbiamo narrato con la scorta de' documenti autentici ed anche dal
documento de' Bianchi che dice: «a questa giustitia andò la compagnia
il sabato prima 15 del mese et aspettò sino a 2 hore di notte, et poi
fu licenziata per non possere l'afflitto essere assoluto del s.^{to}
officio». Che non la bolla ma l'informazione del clericato abbia dovuto
già essere stata esibita al tribunale innanzi questa data, si è visto
dall'averne il Vicerè fatto perfino un appunto al Vescovo di Mileto.
Che infine il Pisano non siasi ritrattato mai, ed invece con una
desolante persistenza abbia ripetuto, più o meno, le cose dell'eresia
e della congiura innanzi qualsiasi tribunale, è accertato da tutti gli
esami e rivelazioni che di lui possediamo, e precisamente nella persona
di lui la raccolta che possediamo è completa.
I particolari del supplizio del Pisano ci vengono forniti dallo
stesso documento dell'Archivio de' Bianchi. Col lunghissimo giro
altrove accennato, dalla Vicaria «s'andò per palazzo»; e si eseguì
la «giustitia per ordine di S. E. ad appiccare et squartare vicino
la guardiola del Castello». Anche nelle scritture di S.^{to}
Officio relative alle persone di questa causa, troviamo che Felice
Gagliardo, menzionando Cesare Pisano, lo disse «giustitiato al
largo del Castello»[59]. Così quest'infelice giovane, di 26 anni,
servì di spettacolo non solo al popolo della fedelissima città, ma
anche a' suoi compagni di sventura, che dalle carceri del Castello
doveano vederlo. E meritano pure di essere notate ed interpetrate due
circostanze che si trovano riferite dal Residente Veneto[60]. La prima,
che il Vicerè fece affrettare l'esecuzione, poichè il Pisano nelle
carceri avea disegnato di avvelenare Maurizio, il quale continuava a
svelare il negozio della congiura; e fu questa verosimilmente una voce
sparsa dal Governo medesimo, per giustificare un abuso giurisdizionale
aggravato anche dal modo tenuto. La seconda, che il Pisano, essendo
prete, fu impiccato in abito di prete; e questa circostanza dovè esser
vera unicamente nel senso che si fece andare il Pisano al patibolo col
ferraiolo nero di clerico; poichè non solo trovasi attestato dalla
lettera del Residente il fatto dell'impiccato coll'abito di prete,
ma anche trovasi riferito da tutti gli Avvisi del tempo essere stato
impiccato un sacerdote, anzi lo stesso Campanella, ciò che significa
esservi stata tale credenza, originata verosimilmente dal fatto
dell'abito, che va interpetrato come uno sfregio inflitto al potere
ecclesiastico.--Per certo il Nunzio ebbe a rimanere duramente deluso
nella sua aspettativa intorno al Pisano, e non se ne potè neanche
lagnare immediatamente in Corte, essendosene il Vicerè andato fuori
Napoli: ne fece bensì risentimento con D. Giovanni Sances, e ne diè
conto al Card.^l S. Giorgio con la sua lettera del 21 gennaio, senza
far motto della circostanza dell'abito di clerico fatto indossare al
Pisano. Più tardi potè parlarne al Vicerè, il quale disse che di queste
cose se ne rimetteva a' suoi ufficiali e che non avea saputo nulla
di tale esecuzione; ed al Nunzio parve che le sue lagnanze avessero
lasciato il Vicerè «confuso» e perciò si era espresso in quel modo
«punto verisimile»! Per non intralciare la narrazione, aggiungiamo che
ancora più tardi ne dovè dar conto egualmente al Card.^l di S.^{ta}
Severina, il quale glie ne scrisse inculcando di risentirsene; ed egli
fece del pari conoscere di averne già parlato al Vicerè, e di essergli
stato da lui risposto «che non haveva saputa tal esecutione», come pure
di averne parlato a' Ministri e di esserne costoro «rimasti confusi
ad ogni modo»[61]. In verità bisogna dire che il Nunzio non rifuggiva
dai concetti più arrischiati, quando si trattava di scusare la sua non
rara indolenza in queste materie così delicate, che egli aveva per lo
meno il torto di mettere allo stesso livello de' negozii ordinarii. Due
volte la Compagnia de' Bianchi era andata in Vicaria pel Pisano, due
volte il S.^{to} Officio si era trattenuto col povero condannato, e il
Nunzio non ne avea saputo nulla. Il vero è che egli soleva scansare ad
ogni costo le imprese laboriose: così avea fatto pel Caccìa, così fece
pel Pisano, così lo vedremo fare anche in qualche altra occasione.

III. Intanto, dietro l'arrivo del Breve Papale, il tribunale della
congiura per gli ecclesiastici si costituiva, e sollecitamente
cominciava a funzionare. L'11 gennaio il Breve era stato presentato
al Nunzio da D. Pietro de Vera e letto da entrambi; il 16 la nomina
del medesimo D. Giovanni Sances per fiscale e di Marcello Barrese per
Mastrodatti fu trasmessa ufficialmente, da parte del Vicerè, a D.
Pietro de Vera con l'incarico di comunicarla al Nunzio; il 18 si tenne
la prima seduta. Queste date risultano dagli Atti che si conservano in
Firenze, posti al sèguito del Breve, parzialmente anche dal Carteggio
del Nunzio, e dal Carteggio del Vicerè, infine da un documento che
abbiamo rinvenuto nell'Archivio di Stato[62]: ma prima d'inoltrarci
nella narrazione di ciò che si fece nel tribunale, non sarà inutile
dare un'occhiata al Breve. Esso vedesi diretto al Vescovo di Troia
Nunzio Apostolico e a Pietro de Vera Consigliere, e reca la data
dell'8 gennaio. Con quella dicitura contorta e stentata di Marcello
Vestrio Barbiano Segretario de' Brevi, e con quel piglio altiero ed
ingiurioso tanto comune ad incontrarsi ne' documenti della Curia,
Clemente VIII comincia dal ricordare la partecipazione avuta «pocofà»
dal Vicerè, che taluni frati e clerici «figli dell'iniquità» aveano
cospirato nello Stato del carissimo figlio Filippo e trattato di dare
la Calabria «nelle mani de' turchi nemici del nome cristiano», e la
dimanda dello stesso Vicerè, che si fosse degnato di provvedere con la
benignità Apostolica perchè i parecchi carcerati avessero il meritato
gastigo; ond'egli stimando que' «ribaldi e sediziosi uomini indegni
dell'immunità e libertà ecclesiastica», concede alla fraternità del
Vescovo, e alla discrezione di Pietro, facoltà di esaminare carcerati
e carcerandi, complici, testi etc. Finquì ognuno avrà notato quel
«pocofà» da doversi riferire a tre mesi indietro, una definizione della
congiura che la Curia sapeva da un pezzo non esser la vera con qualche
sospetto che la congiura medesima fosse destituita di fondamento,
inoltre una durezza estrema di linguaggio verso individui i quali
tuttora non erano che semplici imputati: si faccia un confronto col
linguaggio tenuto dal Vicerè nell'istituire il tribunale pe' laici
(Doc. 209 p. 109) e si vegga la differenza. Ma cosa voleva dire
quell'essere i ribaldi e sediziosi uomini indegni dell'ecclesiastica
immunità? Era forse un tribunale laico quello che s'istituiva per essi?
Senza dubbio si derogava ai Canoni e alla procedura ordinaria, massime
coll'intervento del Fiscale Sances e del Mastrodatti Barrese, individui
laici nominati dal Vicerè; ma coloro i quali doveano in ultima analisi
giudicare e sentenziare erano sempre il Nunzio, giudice naturale
segnatamente de' frati, e il de Vera clerico, proposto dal Vicerè ma
nominato giudice dal Papa, e quindi funzionario Papale, precisamente
come p. es. erano i Vescovi proposti dal Governo e nominati dal Papa
senza potersi dire perciò funzionarii Governativi. Difatti «Commissarii
Apostolici, Delegati Apostolici», si dissero poi sempre il Nunzio e
il De Vera, e solo per le facoltà avute direttamente dal Papa essi
furono in grado di esaminare gl'imputati, prescrivere i tormenti,
emettere le sentenze; se il Campanella in sèguito pose sempre innanzi
il Sances e le sue crudeltà, è chiaro che lo fece unicamente per
mettere nell'ombra le persone e le crudeltà de' Commissarii Apostolici
de' quali non gli conveniva sparlare. Si chiami dunque «tribunale
misto» il tribunale creato col Breve, ma s'intenda bene la costituzione
sua, e non se ne sconosca la natura al punto da attribuire al Governo
Vicereale ciò che esso fece: sicuramente esso fu costituito in modo da
dover servire in tutto e per tutto il Governo Vicereale, ma rimanendo
pur sempre un tribunale i cui Giudici funzionavano in nome del Papa,
coll'autorità avuta dal Papa. Non meno importante poi riesce il notare
l'estensione de' poteri accordati a questi Giudici verso gli inquisiti:
concediamo, diceva il Breve, facoltà «di sottoporli alla tortura ed
altri tormenti giusta le disposizioni del dritto,... di procedere fino
alla sentenza _esclusivamente_, e di consegnare e rilasciare alla Curia
secolare, senza pericolo di censure.., colpiti dalle condegne pene
giusta le sanzioni canoniche coloro i quali a voi sia constato essere
legittimamente convinti e confessi». Ecco un abbandono insolito di ciò
che le Autorità, tanto ecclesiastiche quanto laiche, ordinariamente
si riserbavano; ma si noti che i Delegati potevano agire fino alla
sentenza di condanna «esclusivamente», sicchè quando una tale sentenza
si fosse dovuta emettere, sarebbe occorsa l'approvazione del Papa. Con
ciò risulta chiarita anche meglio la natura del tribunale; e s'intende
che l'approvazione del Papa non sarebbe mancata, ma s'intende pure
che per salvare l'apparenza della superiorità ecclesiastica, il Papa
consentiva ad assumere di dritto la responsabilità di ciò che sarebbe
avvenuto, mentre abbandonava di fatto gli ecclesiastici inquisiti
all'influenza prepotente del Governo Vicereale; non si neghi dunque
tale responsabilità, e si riconosca questo abbandono del Campanella
e socii fin dal momento della istituzione del tribunale col detto
Breve.--Poniamo qui che il Campanella, nella sua Narrazione e poi
anche in una delle sue lettere pubblicate dal Baldacchini[63], disse
questo Breve «sorrettitio ch'esponea ribellione», ed affermò che
«el S. Papa Clemente 8.^o donò licenza che si facesse questa causa
nelli carceri regi per confrontar li frati con li laici carcerati e
mostrar che lui non era consapevole». In verità la concessione del
Breve fu indipendente dal fatto della confronta, che venne in campo
più tardi; quanto poi all'esporre ribellione, certamente il Breve non
poteva esporre altro, e solamente avrebbe potuto esporla in migliori
termini; sappiamo poi che già da un pezzo il Governo Vicereale si era
mostrato o aveva finto di mostrarsi persuaso che il Papa non fosse
consapevole della congiura. Assai meglio di questo avrebbe potuto il
Campanella dire intorno al Breve; ma, come sempre, nelle parole di lui
bisogna leggere lo sforzo costante di appoggiarsi a qualunque specie di
argomento, e al tempo medesimo di non dare motivi di disgusto al Papa,
dal quale soltanto potea sperare la sua liberazione.
Dicevamo che il 17 e 18 gennaio si tennero le prime sedute del
tribunale. Probabilmente il 17 si tenne seduta preparatoria facendo
la rassegna degli Atti raccolti a carico degl'inquisiti, ma il 18 si
produsse il rescritto Vicereale che nominava il Sances e il Barrese, e
si deliberò di conservarlo ed eseguirlo, quindi si dovè subito metter
mano all'interrogatorio del Campanella: così venne iniziato il 4.^o
ed ultimo volume di tutto il processo, consacrato appunto alla causa
della congiura per gli ecclesiastici. La «deposizione» del Campanella
è solo menzionata negli Atti esistenti in Firenze, e ciò si spiega
con la circostanza che essa risultò negativa: quegli Atti per altro
mostrano che si estese dal fol. 3 a 9 del volume e quindi fu molto
lunga[64]. Una lettera del Nunzio, in data del 21 gennaio, fa conoscere
precisamente che il Campanella negava, e che forse l'indomani si
sarebbe fatta la confronta: «sono stato, egli dice, già due volte con
il Sig.^r D. Pietro di Vera in Castello, et essaminato (_sic_) fra
Thomaso Campanella il quale stà sù la negativa, ma hà tanti che gli
testificano contro, de' quali forse domani si farà la confrontatione,
che credo bisognerà si risolva à dir il fatto come stà circa la
congiura, et ribellione». Ma la confronta si fece solamente il giorno
23 gennaio, come risulta da una lettera del medesimo Nunzio scritta
l'indomani, e non vi furono altri Atti fra l'esame del Campanella e
la confronta, vedendosi questa occupare nel volume il fol. 10 ed 11,
come è notato negli Atti sopra menzionati. Si ricominciò coll'esame
del Campanella rammentandogli la Dichiarazione da lui scritta, ed
egli, secondo il Nunzio, la negò egualmente, ed allora si venne alla
confronta; ma forse il Nunzio volle dire che negò la ribellione della
quale aveva altra volta scritto, e non deve far meraviglia questa
distrazione da parte del Nunzio, che sempre, così nella causa della
congiura come in quella dell'eresia, lasciò fare a' suoi colleghi,
intervenendo solo in qualche occasione nella quale gli pareva che
potesse «far conoscere la superiorità ecclesiastica». Ecco come egli
riferì il fatto nella sua lettera del 24 gennaio. «.. Hieri stando
pur frà Thomaso Campanella sù la negativa, etiam d'una narratione
del fatto scritta di sua mano sin nel principio che fu preso, se
gli condusse à petto, et per riscontro cinque, et particolarmente
un' Mauritio de Rinaldi che fù quello che condotto alle forche si
risolvette à dire spontaneamente, et per scarico di conscienza, tutto
quello che sempre havea negato nei tormenti, il quale disse sul viso
à detto Campanella il trattato della Ribellione che havevano havuto
insieme, e che per questo era stato sù le Galere Turchesche, e tutto
quello ch'era seguito; et egli pure stette sù la negativa, onde il
fiscale fece instanza che si venisse à tortura»[65]. Prima d'inoltrarci
nell'incidente della tortura, dobbiamo dire che se nel giorno suddetto
vi furono soltanto cinque confronte come il Nunzio asserì, ve ne furono
di poi altre due, poichè sette ce ne mostrano fuori ogni dubbio,
successivamente avvenute, gli Atti esistenti in Firenze; da' quali
apparisce pure che queste confronte non durarono a lungo, occupando
appena il fol. 10 ed 11 del volume[66]. Difatti, secondo la procedura
che costantemente accade d'incontrare in qualunque processo del tempo,
s'introduceva il teste, gli si deferiva il giuramento in presenza
dell'inquisito, gli si dimandava se conoscesse costui, e verificatosi
che lo conosceva, gli si dimandava in termini generali se le cose che
avea deposte contro di lui fossero vere; ed allora, riuscendo negativa
la confronta, mentre il teste diceva che tutto era vero, verissimo,
l'inquisito diceva che non era vero, che tutto era bugia, che il teste
ne mentiva per la gola; così la confronta finiva in pochi momenti. I
sette confrontati furono, oltre Maurizio, Gio. Tommaso di Franza, Gio.
Paolo di Cordova, Tommaso Tirotta, Felice Gagliardo, Geronimo Conia,
fra Silvestro di Lauriana. Le parole del Nunzio sopra riportate ci
mostrano che Maurizio, alla presenza del Campanella, non dovè limitarsi
alla semplice rafferma della sua confessione in termini generali, ma
trasportato dal suo zelo per l'anima dovè rammentare qualche cosa del
progetto e de' preparativi di ribellione, e segnatamente dell'andata
sulle galere turche deliberata d'accordo con lui. Quanto a Gio. Tommaso
di Franza, Gio. Paolo di Cordova e Tommaso Tirotta, evidentemente la
loro confronta dovè servire a raffermare il fatto del convegno di
Davoli e de' discorsi ivi tenuti; quanto a Felice Gagliardo e Geronimo
Conia, la loro confronta dovè raffermare segnatamente il fatto della
visita del Campanella a Cesare Pisano nelle carceri di Castelvetere
e le parole ivi scambiate, giacchè vedremo essere stato questo uno
dei principali capi dell'accusa che il fiscale scrisse contro il
Campanella. Infine quanto al Lauriana, la sua confronta dovè raffermare
il fatto del convegno di Pizzoni e delle parole del Campanella ai
congregati, ed è manifesto che al cospetto de' Giudici caddero tutti
i proponimenti di ritrattazione che il Lauriana aveva esternati al
Campanella. Vedremo altre confronte di altri inquisiti col Campanella
nel tratto successivo: intanto già fin dalle prime confronte il fiscale
dimandò a' Giudici che si ordinasse di amministrare la tortura, ma il
Nunzio volle che prima se ne informasse S. S.^{tà} per ottenerne la
licenza.
Ecco in che modo il Nunzio riferì questo incidente. «.. Il fiscale fece
instanza che si venisse à tortura, et mettendogli io in consideratione
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