Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 23

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se ne morì, onde la Sacra Congregazione di Roma dovè persuadersi che
non c'era più nulla a sperare da quella via. Dalla via di Napoli poi
nemmeno si potè raccapezzare qualche cosa, e il risultamento più
certo dovè esser questo, che il Governo Vicereale rimase tanto più
sospettoso ed irritato per quelle lungaggini, le quali doveano parergli
tergiversazioni.
Il 7 aprile fu esaminato Geronimo di Francesco, uno de' due testimoni
da doversi interrogare in Napoli secondo le ultime prescrizioni di
Roma. Il Vescovo di Caserta si era già istallato in Napoli, ciò che
mostra in lui molta alacrità nel compiere l'ufficio suo, e conosciamo
che prese stanza nelle case di S. Andrea delle monache, propriamente
nel palazzo posto all'angolo tra la via di Costantinopoli e quella
della Sapienza. Aggiungiamo che il Nunzio medesimo, al contrario di
quanto avea fatto durante la vita del Vescovo di Termoli, non mancò
mai più alle sedute, o almeno alle sedute riguardanti la trattazione
dell'argomento principale. Il di Francesco, interrogato, disse di
conoscere molto bene il Petrolo e il Campanella patriotti suoi, di
aver trattato poco col Petrolo, ma aver desiderato di far amicizia col
Campanella «per la nominata che sentiva di esso, di essere litterato,
et nominata di esser dotto»: ma soggiunse che fu colto da una infermità
che lo tenne a letto cinque mesi, onde non potè trattare con lui, e
poi per un cattivo ufficio fattogli da esso Campanella presso certi
suoi parenti, al punto da metterlo in questione con loro, gli divenne
nemico. Dietro altre interrogazioni, disse di non aver mai trattato
da solo a solo col Campanella, di avergli parlato una volta di cose
comuni insieme con fra Pietro di Stilo, di averlo un'altra volta visto
«in sua cella dove legeva di filosofia» essendosi lui fermato alla
porta senza parlargli, e di avergli forse qualche altra volta parlato
in piazza, senza ricordarsi di che, presenti Marcello Dolce, morto, e
Gio. Francesco d'Alessandria (che sappiamo nascosto e forgiudicato;
sempre testimoni irreperibili). Soggiunse di non ricordarsi che in
presenza sua il Campanella avesse mai parlato di cose di fede. Con ciò
manifestamente non v'era alcun luogo a ripetizione, e gl'interrogatorii
e gli articoli doveano mettersi da banda.--Ci sarebbe stato da
esaminare anche Giulio Contestabile; ma non si sapeva nemmeno dove si
trovasse, ed è certo che, oltre un mese dopo questo al quale siamo
pervenuti, il Nunzio non era riuscito ad averne notizia, come rilevasi
da una sua lettera al Vescovo di Squillace[242].
Fu quindi sospesa la trattazione della causa, probabilmente con la
speranza di trovare la persona del Contestabile, ed anche con la
speranza di avere qualche risultamento dalle informazioni commesse a
Squillace. Scorsero cosi presso a poco due mesi senza far nulla, e può
intendersi con quanta mala soddisfazione del Governo Vicereale: ma si
verificarono in questo periodo di tempo diversi avvenimenti, de' quali
andiamo a dar conto. E dapprima furono ripigliate le sedute dell'altro
tribunale per trattare la causa del clerico Marcantonio Pittella, che
le forze Regie aveano catturato nuovamente dopo la sua fuga: ma di
questo, che non entra nell'argomento attuale della nostra narrazione,
discorreremo altrove. Un avvenimento, da doversi qui ricordare,
fu l'invio di un memoriale di fra Pietro Ponzio a S. S.^{tà}, per
reclamare un provvedimento intorno alla sua singolare posizione. Non
ci è venuto sott'occhio il testo del memoriale, ma ne abbiamo trovato
qualche altro consimile inviato più tardi dallo stesso fra Pietro,
che non cessò mai dall'inviarne; e in sostanza egli, non vedendosi
incriminato in nulla, chiedeva di essere giudicato, e non trattenuto
in carcere solamente perchè germano di fra Dionisio. Il Nunzio, cui
fu trasmesso il memoriale dal Card.^l S. Giorgio, con sua lettera del
6 aprile rispose, esser vero che fra Pietro «fu preso come fratello
di fra Dionigi Pontio capo insieme con il Campanella della pretensa
ribellione, pretendendolo informato di essa, et non havendo trovato
contra di lui cosa di fondamento, si sarebbe liberato con molti altri
che si liberarono, se egli stesso con i ragionamenti fatti di notte
con il Campanella da certe finestre non si fosse reso sospetto d'esser
informato del tutto; et perchè questa causa della ribellione resta
sospesa da quella della Inquisitione, per questo non si è passato più
avanti contro di lui; quando si tratti di nuovo di questo negotio, che
potrà esser presto, per la speditione che si deve dare ad un Clerico
(_int_. il Pittella), che dopo d'essere stato un pezzo latitante è
venuto finalmente in mano della Corte, et la sua causa è in speditione,
procurerò si tratti anche di spedir quella di questo fra Pietro, che
per quanto vado considerando deve essere anche lui di mala razza»[243].
Vegga ognuno se possa dirsi questo il linguaggio di un Giudice serio e
giusto: d'altronde egli non fece nulla di quanto promise; scorso poco
più di un mese il Pittella era già fuori carcere come si rileva dalla
sua lettera al Vescovo di Squillace, e fra Pietro rimaneva a languire
nel Castel nuovo[244].
Un altro avvenimento d'importanza anche maggiore fu l'invio di un
memoriale di fra Dionisio a S. S.^{tà}, per far conoscere che fra
Marco di Marcianise avea mandato fra Cornelio in Ispagna, la quale
circostanza poteva ben connettersi con le loro gesta in Calabria contro
i poveri frati[245]. S. S.^{tà}, per mezzo del Card.^l di S.^{ta}
Severina, ingiunse al Nunzio che s'informasse di tale partenza di fra
Cornelio per la Spagna, «da chi vi sia mandato, et à che effetto»; ed
il Nunzio, con sue lettere del 6 e del 20 aprile, rispondeva in certi
termini che meritano di essere testualmente riferiti e ben considerati.
«Quanto al particolare che mi domanda di quel fra Cornelio, posso dirle
che hò parlato à chi l'hà visto in Genova per la volta di Spagna, et
hò ritratto che è andato con partecipatione del Sig.^r Vicerè, nè son
lontano à credere che sia stato di consiglio et d'ordine di quel fra
Marco da Marcianise, il quale sò che era mal sodisfatto del Vescovo di
Termoli, che Dio habbia in gloria, per l'opinione che teneva, et se ne
lasciava intendere, che le essamine fatte da lui et da fra Cornelio
in Calabria fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri
Regii che per la verità, et Dio voglia che l'opinione in ciò di detto
Vescovo non l'habbia fatto più largo di quel che conveniva in dar
adito à quei frati di ritrattare le loro confessioni, come mi lasciai
un tratto intendere che mi pareva, et ne avvertii, se bene lasciavo
guidare à lui il negotio, come pratico et essercitato lungo tempo in
cotesto S.^{to} officio dal quale era stato deputato, ma per le molte
occupationi non potei sempre trovarmi à quelle lunghe repetitioni
et difese che potettero fare, vi mandai bene il mio Auditore quelle
volte che non potei esser io. Se sarà vero, come temo, che detto fra
Cornelio sia andato alla Corte per scusare tal fatto, ò per far altro
officio concernente questo interesse, lo reputerò molto errore et del
Marcianese et di lui, perchè se erano mal sodisfatti dovevano pigliare
altra strada». Ed in sèguito: «Hò havuto occasione di parlare con il
Padre Fra Marco da Marcianise, il quale mi hà detto che egli (fra
Cornelio) è andato in Spagna principalmente per un negotio del Sig.^r
Carlo Spinello, et che sapeva che haveva parlato al Sig.^r Vicerè
avanti partisse, et che poteva esser che trattasse là del negotio della
ribellione et dell'Inquisitone, poi che si era trovato in Calabria à
quei Processi, ma che sopra di ciò non gli haveva ordinato cosa alcuna.
Come si sia, non voglio dubitar punto che ne parlerà, et questo non sò
se potrà piacere; saprà V. S. Ill.^{ma} quello che dovrà farsi»[246].
Con ogni probabilità il Card.^l di S.^{ta} Severina non fece nulla
contro que' frati: ma ciò che riesce ancor più interessante per noi
è il vedere il Nunzio riscaldarsi tanto, sol perchè poteva essere
alla Corte di Spagna riferita sotto mala luce l'opera de' Giudici
ecclesiastici di Napoli, e con questa preoccupazione, intento solo a
salvare sè medesimo, spingersi fino a censurare l'opera del defunto
Vescovo di Termoli. Egli che non aveva forse nemmeno letto il processo
di Calabria, egli che certamente non aveva avuto cura de' più sacri
dritti degl'inquisiti nel tribunale della congiura e d'altra parte
aveva assistito ben poco alle sedute del tribunale dell'eresia, egli
osava mettere innanzi i suoi scrupoli, perchè il Vescovo di Termoli
era stato largo nel dare agl'inquisiti agio di ritrattarsi, ed aveva
professata l'opinione che i processi di Calabria fossero stati fatti
piuttosto per dar soddisfazione a' Ministri Regii. Ed era proprio
bene scelto il momento per fare queste osservazioni, mentre que' due
ribaldi davano la miglior dimostrazione che il Vescovo di Termoli
era nel vero, e facevano manifesta la loro scelleraggine, ricorrendo
a Spagna d'accordo col Vicerè e con Carlo Spinelli. Ma bisognava
dunque schiacciarli ciecamente quegl'inquisiti per non turbare le
buone relazioni con la Corte di Spagna, bisognava sacrificarli alla
«ragione di Stato», della quale ben si vede che non a torto si dolse
continuamente in versi ed in prosa il Campanella. Per verità il
Campanella e socii potevano essere molto colpevoli, ed anzi per noi
giuridicamente lo erano, ma meritavano senza dubbio Giudici assai
migliori di quelli che ebbero.
L'ultimo avvenimento, che si verificò nel periodo di tempo al quale
siamo pervenuti, fu la morte dello sciagurato fra Gio. Battista di
Pizzoni. Il 14 maggio, dopo tante sofferenze per la spalla slogata
e suppurata, dopo un'apoplessia che gli tolse la parola per quattro
giorni (circostanza da notarsi), egli spirò nelle carceri del Castello:
lo mostra un'informazione, che d'ordine de' Giudici fu presa da Gio.
Camillo Prezioso, e sulla data della morte concorda anche la notizia
che ne abbiamo trovata ne' libri Parrocchiali della Chiesa del Castel
nuovo. Difatti in un elenco di morti posto al sèguito del libro III,
col titolo «Memoria de quilli che morino in questo Castello novo dal
di 23 de giugno fatta 1597» si legge: «A di 14 de maggio 1601 morse
fra gio. batt.^a calabrese». Con questa vaga indicazione, impossibile
a decifrarsi senza l'aiuto di altri documenti, trovasi registrato
l'amico intimo divenuto poi accusatore del Campanella, colui che fornì
la base principale a quei processi, onde il povero filosofo ebbe a
patire tante miserie, ed egli medesimo fu tratto ad una precoce fine
odiato e malmenato da tutti.--L'informazione su questa morte fu presa
il 1^o giugno, e fu inserta nel 3^o volume del processo, al sèguito
delle difese che il Pizzoni avea fatte. Vennero esaminati Alonso
Martines carceriere, Antonio de Torres carceriere anche lui e socio del
Martines, inoltre Marcello Salerno carcerato per la ribellione, che
già abbiamo conosciuto in altri Atti precedenti. Il Martines espose
la malattia e la morte del Pizzoni a questo modo: «l'infermità sua fù
che havea un braccio guasto per la tortura che hebbe quà in questo
Castello per ordine delli Officiali Regii per la causa della ribellione
(si vede bene che il Nunzio, la tonsura di D. Pietro De Vera, il Breve
e Clemente VIII, non bastarono per far credere nemmeno al Prezioso,
che raccolse la deposizione, essere sul serio quel tribunale per
la ribellione un tribunale ecclesiastico); et per tal causa a lo
braccio se li fece una postema, et dalla postema poi... se li fece una
piaga, et li sopravenne un discenso grande che li levò la parola, et
sequitandoli quella infirmità trà quattro giorni se morì, et morse la
notte de li quattordici di detto mese di maggio, alle cinque hore, et
io lo viddi morto ad una camera dove stava, e morse in questo regio
Castello novo, et non solo lo viddi morto ma anco lo viddi sepellire
alla sepoltura dove si soleno sepellire li preti, et di detta morte
di frà Gio. Battista de pizzone ne è stata et è publica voce et fama
in questo Castello novo trà quelli che lo conoscevano, è così è la
verità». Le cose medesime esposero in sostanza anche gli altri, con un
identico formulario; potrebbe appena rilevarsi che aggiunsero essere
stato il Pizzoni leso nel braccio destro, avere usato molti rimedii
inutilmente, avere avuta la visita di due medici etc. In conchiusione
la morte di lui risultò con siffatte testimonianze legalmente accertata.
Intanto fin dagli ultimi giorni di maggio erano in corso i preparativi
per ripigliare il processo, in adempimento delle diligenze ordinate
da Roma a fine di scovrire la pazzia simulata del Campanella. Si era
provveduto che due medici visitassero più volte il Campanella, come
risulta da una delle fedi che costoro scrissero e come d'altronde era
stato da Roma ordinato; ma senza attendere tali fedi, si era provveduto
anche quanto occorreva pel tormento della veglia; per questo dovè farsi
venire ogni cosa dalle carceri della Vicaria, poichè sappiamo di certo
essere stato della Vicaria uno degli aguzzini che a suo tempo vedremo
entrare in iscena. Siffatti preparativi, che non potevano tenersi
nascosti, posero in agitazione vivissima i poveri inquisiti: apparve
a tutti che specialmente o fra Dionisio o il Campanella fossero sul
punto di avere un tormento de' più gravi, e che di poi sarebbe venuta
la volta degli altri; si pensò quindi di fare qualche tentativo capace
almeno di trattenere un poco l'amministrazione del tormento.
Il 3 giugno fra Pietro di Stilo trasmise con una sua lettera al
Vescovo di Caserta alcune carte del Campanella, sulla provenienza
delle quali, dovendo nascondere il vero, fece una narrazione
abbastanza inverosimile[247]. Erano le proprie Difese con gli Articoli
Profetali, che il Campanella aveva scritte durante il processo della
congiura, e che non aveano potuto essere presentate a tempo debito.
Fra Pietro, che fin dall'inizio di questi processi avea prescelto
di far la parte dell'ignorante, mostrando di non conoscere che cosa
quelle carte rappresentassero, scriveva al Vescovo di aver ricevuto
dal Campanella già da un anno, poco dopo il suo primo tormento (il
tormento del polledro), alcune carte scritte di sua mano, con preghiera
che le facesse copiare e le conservasse, perchè erano cose di molta
importanza; ed egli le avea prese, e perchè non le intendeva, le avea
fatte leggere all'_olim_ fra Gio. Battista di Pizzoni (sempre citato
il morto o l'assente) acciò vedesse se ci fossero cose di S.^{to}
Officio da poterlo compromettere, nè avea mai più potuto riaverle,
dicendogli il Pizzoni che le avea perdute e che erano cose sospette;
ma appunto nella sera precedente le avea riconosciute tra altre carte
lasciate dal Pizzoni, e per suo discarico le consegnava a S. S.^a
Ill.^{ma}, perchè vedesse se c'erano cose di eresia come il Pizzoni
avea detto, e provvedesse secondo giustizia, assicurando che quelle
carte erano «il vero trasunto di quelli scritti del detto frà Thomaso
Campanella».--Da parte sua fra Dionisio, il 4 giugno, trasmise con una
sua lettera a' Giudici, perchè provvedessero come meglio fosse loro
parso di giustizia, una lettera a lui diretta dal Petrolo fin dal 28
maggio, nella quale costui, dicendosi infermo ed abbandonato, scriveva:
«intendo che si fanno molti preparamenti di tormenti, e dubito che
non siano per V.^a Reverenza, o per il Padre Campanella, io, come hò
possuto vedere nella copia del processo suo, non m'hò esaminato contra
V.^a paternità in niente, perche non ci era occasione, si bene mi hò
esaminato contra di frà Thomaso ad un certo fine, ch'io esposi in un
memoriale all'Ill.^{mo} Sig.^r vescovo di Termoli olim commissario di
questa causa (pia menzogna, sempre citando il morto), per il quale
memoriale credeva io che fossemo tutti rimessi alli nostri superiori,
ma vedo che non ha fatto effetto mentre cquà si tormenta, dunque vostra
paternità mi favorisca di avvisare li signori superiori e protestarsi
che facciano la causa nelle carceri delli nostri superiori (ciò era
stato già eseguito appunto da fra Dionisio), ò vero che prima che
procedano a cosa alcuna mi reesaminino» etc.[248]. Evidentemente
questa lettera, fatta scrivere dal Petrolo infermo, era un pretesto
per pigliar tempo e scansare il tormento almeno per qualche giorno;
la lettera medesima di fra Pietro di Stilo, senza dubbio poggiata su
qualche cosa assai più concludente, non aveva uno scopo diverso; ma i
Giudici cominciarono per fare amministrare il tormento, e di poi, anzi
durante il tormento, si occuparono di tali lettere ad essi inviate.
Il 4 giugno dunque il povero Campanella ebbe quell'atroce tormento
detto la veglia, prolungato senza misericordia fino alla metà del
giorno successivo. E prima di tutto dobbiamo spiegare in che consisteva
la veglia, ed inoltre rammentare in che modo lo stesso Campanella
ne parlò specialmente nella sua Narrazione. Anche qui le più esatte
notizie ci sono fornite da un medico, e questa volta de' più celebri,
da Paolo Zacchia. Si conosce che la veglia fu inventata nella 1^a metà
del 1500 da Ippolito de Marsiliis, famoso criminalista bolognese e
Giudice nella Valle Lugana, «avverso gli ostinati e coloro i quali non
temevano i tormenti». Egli si serviva soltanto di uno scanno di legno
su cui faceva sedere l'inquisito per 40 ore, con due uomini a lato, i
quali, ogni qual volta l'inquisito accennava a dormire, gli davano con
la mano sul capo e glie lo sollevavano per tenerlo desto, venendo di
tempo in tempo surrogati da altri, mentre i primi andavano a riposare;
e il De Marsiliis si applaudiva molto di questo suo trovato, il quale,
come egli scrisse, eragli parso piuttosto una cosa da ridere che un
tormento, prima che ne avesse fatta l'esperienza, mentre invece ebbe
a vedere «non trovarsi alcuno tanto feroce da potervi resistere» (era
feroce l'inquisito, non il Giudice); al più tardi in due notti ed un
giorno, con la promessa del riposo, l'inquisito confessava tutto, e
però bisognava rammentarsi di questo genere di tormento che era della
massima potenza e non affliggeva il corpo, «sicchè per esso il Giudice
non incorreva mai in sindacato». Immediatamente i suoi contemporanei
e successori se ne giovarono, accertandone tutti i vantaggi, come li
accertò p. es. Paolo Grillando nel suo trattato. Ma il progresso si
fece sentire anche in questo tormento, e si cominciò coll'aggiungervi
copioso cibo e vino in precedenza, acciò il sonno divenisse tanto
più grave, e si finì col modificare lo scanno ed associarvi altre
specie di tormenti per accrescerne l'efficacia. Così diedesi allo
scanno una maggiore altezza affinchè i piedi dell'inquisito non
poggiassero a terra, ed anche una superficie non piana ma ad angolo,
denominando perciò lo scanno _capra_, _cavallo_ o _cavalletto_,
affinchè le parti deretane dell'inquisito ne venissero travagliate.
E vi si associò pure la sospensione dell'inquisito alla corda con
le braccia torte in dietro, nei soliti modi, ed anche con gli omeri
fermati mediante funicelli alle mura laterali della stanza, talora
perfino col petto fermato mediante una fascia al muro corrispondente
al dorso, senza dubbio per impedire che l'inquisito col dondolarsi
potesse sfuggire l'azione dello scanno. Infine vi si aggiunse lo
scostamento, e l'elevazione forzata degli arti inferiori, mediante un
lungo bastone posto per traverso, sulle cui estremità venivano ligati
i piedi con altri funicelli, mentre un terzo funicello attaccato alla
parte media del bastone lo attirava verso il muro di fronte, senza
dubbio per impedire del pari che il tormentato, con lo stringere
le cosce sullo scanno, potesse di tempo in tempo sottrarre le sue
parti deretane all'azione di esso. Prospero Farinaceo, criminalista
appunto del tempo del quale trattiamo, volle mostrarsi umanitario
rifiutandosi di descrivere il tormento della veglia, perchè, egli
disse, non era «nè aguzzino nè birro»; ma l'Ambrosino accennò alle
condizioni dello scanno, alto 7 o 8 palmi, fornito di tre piedi e a
superficie angolare ottusa, su cui doveva poggiare l'inquisito con
le parti deretane nude, aggiungendo di aver visto talvolta lo scanno
ad angolo acuto, che poteva uccidere il torturato venendogli rotte e
perforate quelle parti. Paolo Zacchia, di poco posteriore per tempo,
ci diede la descrizione completa del tormento quale allora si usava,
e non è dubbio averlo dovuto il Campanella sostenere presso a poco
in quella maniera perfezionata, che lo Zacchia descrisse e che noi
abbiamo stimato necessario riferire[249]. Che al Campanella sia stata
amministrata la veglia secondo gli ultimi perfezionamenti risulta
dall'Atto del suo tormento, in cui oltre lo scanno di legno detto
il cavallo, la sospensione alla corda con le mani ligate dietro la
schiena, l'aguzzino sedutogli accanto che lo toccava ed avvertiva di
non dormire, è citato anche il funicello applicato a' piedi, che il
povero tormentato chiedeva si portasse più in alto perchè i piedi gli
bruciavano; e risulta egualmente da quanto ne lasciò scritto in ispecie
nelle _Quaestionum moralium_, non che dalle parole stesse della sua
Narrazione, in cui i funicelli sono ricordati in primo luogo, e sono
ricordati anche i guasti verificatisi nelle sue parti inferiori. «Al
tempo del Manini (_int._ Mandina) fu ad istanza del Sances Fiscale,
ch'andò fin a Roma _personaliter_ per tal licenza, tormentato 40 hore
di funicelli _usque ad ossa_, legato nella corda a braccia torte,
pendendo sopra un legno tagliente et acuto, che si dice la Viglia:
che li tagliò di sotto una libra di carne, e molta poi n'uscìo pesta
et infracidata, e fu curato per sei mesi con tagliarli tanta carne,
e n'uscir più di 15 libre di sangue delle vene et arterie rotte, et
sanò delle mani, e parti inferiori contra la speranza di medici quasi
per miracolo, nè confessò heresia nè ribellione, è restò per pazzo non
finto come diceano». E qui non possiamo dispensarci dal far avvertire
che questa menzione del Sances, fatta già anche nella lettera a Paolo
V, ci apparisce uno de' più spinti ripieghi del Campanella per mettere
nella penombra l'opera dei Giudici ecclesiastici e far risaltare la
ferocia degli ufficiali Regii; il ripiego gli riuscì bene, se non
presso Roma, presso il resto del mondo, poichè fino a' giorni nostri è
stata sempre attribuita agli ufficiali Regii l'amministrazione della
veglia, rimanendo pure dimenticato il canone allora vigente, «clericus
regulariter torqueri non potest per laycum». Non intendiamo mettere in
dubbio che il Governo Vicereale, e per commissione di esso il Sances,
abbia potuto insistere presso la Curia, perchè si badasse bene a
provare energicamente la pazzia la quale si avea ragione di credere
simulata; ma crediamo assai difficile poter ammettere che da tali
insistenze fosse nata l'idea di amministrare il tormento della veglia.
Da un lato non si comprende in che modo il Sances avrebbe potuto
sapere, o mostrar di sapere, lo stato della causa di S.^{to} Officio
e prendervi un'ingerenza diretta; d'altro lato in Roma non aveano
bisogno di eccitamenti per ordinare l'amministrazione della veglia,
non solo perchè era massima di giurisprudenza che agl'inquisiti finti
pazzi si potevano e dovevano amministrare i tormenti gagliardi, tanto
più che ritenevasi esservi con loro minor pericolo di morte[250], ma
ancora perchè, ogni qual volta a Roma appariva necessario un tormento
gagliardo, solevasi in quel tempo ordinare l'amministrazione della
veglia. Difatti dal Carteggio del Nunzio si rileva che, meno di un
anno dopo di aver data la veglia al Campanella, ad un altro frate
Domenicano, fra Raimo dell'Olevano, essendo stata inutilmente adoperata
la corda nel tribunale della Nunziatura, dietro licenza di Roma fu data
pure la veglia e del pari senza cavarne nulla, sì che fu poi mandato
alle galere: vero è che questo frate trovasi qualificato «Theologo et
Predicatore se bene un gran tristo», già evaso dalle carceri del Nunzio
fin dal 1593, ripigliato dalla Corte nel 1601 in abito di assassino con
7 palle in tasca, stato in campagna ed imputato di 6 delitti capitali
ed un ricatto; ma l'imputazione del Campanella non era niente meno
grave per la Curia Romana[251].
Ecco ora il doloroso racconto di quanto accadde durante la veglia
data al Campanella, come risulta dall'Atto che ne fu disteso e che
pubblichiamo tra' Documenti[252]. Tutti i Giudici erano al loro posto:
il Campanella introdotto dal carceriere Martines e richiesto del
giuramento disse, Juravit Dominus, Deus in adiutorium...; ammonito su'
guai a' quali andava incontro rispose, dieci cavalli bianchi; toccato
dal cursore della Curia Arcivescovile gli disse, non mi toccare che
sei scomunicato per la bolla in coena Domini. Alle ore 7 del mattino
(ora 11^a) fu ligato alla corda e sospeso sul cavalletto: nell'essere
ligato diceva, ligatemi bene, badate che mi storpiate; poi con alte
grida cominciò a dolersi, massime per la forte strettura de' polsi,
dicendo son morto, non feci niente, e tante altre cose fuor di
proposito, che era un santo, che era un Patriarca, che aspettava il
Breve della Crociata etc. chiamando uno de' Giudici Monsignore, e il
Vicario Arcivescovile «zio Arciprete». Chiese che gli si pulisse il
naso, e si dolse di nuovo fortemente quando gli furono ligati i piedi;
toccato dall'aguzzino gli disse, non mi toccare, che sii squartato.
Udì suonare le trombe sulle galere ormeggiate al molo presso il Castel
nuovo, e disse, suonate, suonate, sono ammazzato frate; guardò la
porta della camera che stava aperta e disse all'aguzzino, aprimi, oh
frate, oh frate. Poi abbassò il capo e tacque per un pezzo, e toccato
dall'aguzzino disse, oh frate, e continuò a stare per un'ora col capo
e col petto abbassati. Richiesto se volesse discendere, giurare e
rispondere, accennò di sì, ma non volle proferire parola: lo fecero
poi discendere perchè soddisfacesse a' bisogni naturali. Quindi fu
posto di nuovo al tormento (2^a volta) e disse, ora mi ammazzate
ohimè, e tacque: l'aguzzino gli ricordava di non dormire, ed egli
diceva, siedi, siedi alla sedia, taci, taci, nè rispose mai alle
continue ammonizioni di mettere da parte la pazzia, ed alle diverse
interrogazioni sulla sua patria, sulla sua età etc.; si lagnava di
tempo in tempo, ma alle interrogazioni non rispondeva. Si giunse così
alle 8 della sera (ora 24^a) essendo questa volta rimasto sempre nel
tormento senza interruzione, nè altro si udì da lui che, ohimè, ohimè;
e battute le 9 (1^a ora di notte) chiese da bere e l'ebbe, nè mai
rispose alle interrogazioni, ma si notò che mostrava di udire con cura
e di percepire le parole e le ammonizioni a lui dirette, e guardava
anche i circostanti. Di poi disse, Cicco Vono l'ammazzò; e dichiarò che
era di Stilo, Domenicano da Messa, che aveva impiantato il monastero
di S. Stefano, che aveva preso l'abito alla Motta Gioiosa, e nominò
Lucrezia sua sorella e Giulio suo fratello ivi dimoranti, nominò anche
Emilia figlia di suo zio che egli aveva maritata. Più tardi chiese da
bere vino e l'ebbe, e ricominciò a lagnarsi, a dire che chiamassero suo
padre, quindi si ripose a tacere, e gli dicevano, «Tommaso Campanella
che dici? non parli?», ed egli non rispondeva, e solo volgevasi di
qua e di là guardando i vicini. Sorse così il giorno e furono aperte
le finestre e spenti i lumi, ed egli, sempre taciturno, appena diceva
qualche volta, moro, moro, non posso più, non posso più, per Dio. Ma
poco dopo parve che svenisse, onde i Giudici ordinarono di toglierlo
dal tormento e porlo a sedere; quindi gli concessero di soddisfare
a certa sua necessità, e poco dopo batterono le 7 (erano già 24 ore
di tormento). L'infelice chiese allora qualche uovo da bere, e glie
ne furono date tre, aggiuntovi del vino; disse che sentivasi morire,
e chiestogli se volesse confessare i suoi peccati, rispose di sì e
che gli chiamassero un confessore. Ma non se ne fece nulla essendosi
ristabilito, e venne ordinato che fosse riposto nel tormento, ed egli
incominciò a dire, lasciatemi stare, aspettate frate mio; gli fu
detto allora perchè mai avesse tanta cura del corpo e non dell'anima,
ed egli, «l'anima è immortale». Fu dunque riposto nel tormento (3^a
volta), e rimase taciturno, ma poi chiese all'aguzzino che portasse più
in alto il funicello con cui erano ligati i piedi, perchè questi gli
bruciavano; e i Giudici lo concessero. Continuò a star quieto, gli si
dimandò se volesse dormire e disse di sì, gli si promise che avrebbe
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