Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 44

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stesso Scioppio, sebbene avesse avuto ragione di convincersi che
si era servito delle opere trasmessegli per comporre le proprie.
Appunto nella prefazione dell'_Ateismo debellato_ stampato nel 1631,
ricordando di aver mandato «ad un amico» quel libro con molti altri,
il Campanella aggiunse, «quibus ad suorum compositionem profecit», ed
augurò all'_Ateismo_ «meliores fructus apud veritatis et non propriae
gloriae cultores»: nella prefazione poi della ristampa parigina
dell'opera _De Sensu rerum_, nel 1637, lodando Tobia Adami che gli si
era mostrato fedele nell'aver procurata la pubblicazione delle opere
avute, e menzionando lo Scioppio ed altri tedeschi e francesi, che
avute le opere «nulla fecero per la gloria dell'autore», aggiunse
«nisi Scioppius pro vita in principio». Così fino agli ultimi anni
suoi il Campanella, ricordando il male, non dimenticò il bene, e ciò
prova la bontà della sua natura, la quale del rimanente è attestata
anche da varii altri fatti memorabili: basta considerare la difesa di
Galileo Galilei, che scrisse mentre si trovava tuttora nel carcere di
Napoli, e la difesa di Girolamo Vecchietti, che sostenne con pieno
successo quando se lo trovò a lato nel carcere del S.^{to} Officio
in Roma[486]. Le speranze di prossima liberazione lo tennero inerte
per molto tempo. Dopo di aver menato a termine febbrilmente le opere
da doversi trasmettere allo Scioppio, scrisse soltanto gli opuscoli
epistolari che abbiamo menzionati: gli ultimi tra questi, riferibili al
1608, furono gli opuscoli _Sul Peripateticismo_ e _Sul tempo successivo
alla morte dell'Anticristo_, che forse rappresentano le risposte al
Re d'Inghilterra delle quali si trova fatta menzione nel Syntagma, ed
inoltre quello _Sul Pieno e sul Vacuo_ diretto al Fabre. Al sèguito di
essi si può mettere quello _Per l'Abate Persio sull'uso della bevanda
calda_, che dovè essere di maggior mole e vedesi già preconizzato
nell'opuscolo antecedente _Sul calore estivo_: esso apparisce
riferibile a questo periodo, nel quale certamente il Campanella
trovavasi in assidua corrispondenza col Persio, come mostra l'ultima
sua lettera al Fabre tra quelle da noi pubblicate; ma bisogna anche
dire che vi furono molti opuscoli e lettere all'indirizzo de' Fuggers,
secondochè risulta dalla menzione fattane nel _Syntagma_. Compose
inoltre senza dubbio molte poesie di dolore o di sdegno pubblicate
poi dall'Adami, delle quali riesce di poter determinare talvolta la
data precisa e più sovente la data approssimativa, sia dietro qualche
circostanza che vi si vede notata, sia dietro qualche riproduzione di
pensieri che si trovano espressi nelle lettere e nelle opere di data
conosciuta. P. es. non si può dubitare che l'«Elegia al Sole», composta
quando stava ancora nella fossa, debba dirsi della fine di marzo 1607,
poichè vi si parla del sole in ariete e del tempo in cui Gesù risorse,
ciò che ci mena alla Pasqua di risurrezione del 1607, sapendosi che
in quest'anno veramente la Pasqua si celebrò col sole in ariete il
26 marzo, mentre nell'anno anteriore e nel posteriore si celebrò in
aprile; dippiù vi si trova quel pensiero che fu poi riprodotto nella
lettera a Mons.^r Querengo del luglio 1607:
«Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive,
invidio misero tutta la schiera loro».
Ancora il pensiero che trovasi nella stessa lettera, l'esser cioè il
povero prigioniero «un meschino condannato dall'opinione popolare e
di Principi, come il più empio e malvagio che fosse mai stato nel
mondo», ci apparisce quello che ispirò i Sonetti «Della plebe» ed «A
certi amici, ufficiali e Baroni» etc.; ma perfino le lettere al Papa,
oltrechè l'_Ateismo debellato_, recano pensieri posti del pari in
versi quasi letteralmente, nè possiamo far altro qui che indicare tale
criterio per la ricerca delle date. E poichè abbiamo citati que' due
Sonetti, vogliamo pur dire che nell'uno «Della plebe» il sentimento
di un legittimo disgusto ci apparisce fin dal titolo predominante su
quello della compassione, e nell'altro «A certi amici» il contesto di
tutta la proposizione, là dove si dice che «un piccol vero gran favola
cinge», non rende queste parole applicabili propriamente alle imprese
tentate in Calabria, come è parso ad un egregio storico; nè sappiamo
poi resistere alla tentazione di ricordare qui l'aurea sentenza che vi
si legge, e che non è riferibile propriamente alla plebe, da cui il
Campanella professava non potersi trar nulla, bensì riferibile a coloro
che vanno per la maggiore:
«Nè il saper troppo come alcun dir suole,
ma il poco senno degli assai ignoranti
fa noi meschini e tutto il mondo tristo».
Ma ciò che qui principalmente c'interessa di ricordare si è, che tutte
queste poesie insieme con le altre scritte posteriormente fino al
1613, come pure le note delle quali vennero corredate dallo stesso
Autore, sebbene fossero state soggette ad una scelta e non col solo
criterio del merito filosofico e letterario, bensi con quello pure
della convenienza politica e giudiziaria, costituiscono pur sempre
un fonte prezioso di ricerche sugli atti e sugl'intendimenti veri
del Campanella, le notizie de' quali doverono sottostare a tanti
garbugli. Come da un lato la _Città del Sole_ mostra le idee riposte
del Campanella, così questa _Scelta delle Poesie filosofiche con
l'esposizione_, studiata con amore ed accorgimento, rivela notizie
importanti e testimonianze autentiche ben capaci di stare a fronte
alle testimonianze del pari autentiche ma in senso affatto diverso:
nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, a proposito della
edizione Adami da noi trovata e studiata nella Biblioteca de' PP.^i
Gerolamini, ci si è offerta l'occasione di fare alcune considerazioni
su tale proposito, e ad esse rimandiamo i nostri lettori[487].
Abbiamo detto che secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano
il Campanella sarebbe uscito dalla fossa di S. Elmo, rimanendo sempre
in quel Castello, verso il febbraio o marzo 1608, dopo che era stata
scritta la 1^a lettera dall'Arciduca Ferdinando nel gennaio: noi
eravamo pervenuti allo stesso risultamento con calcoli fatti sopra
una notizia, per altro poco chiara, che trovasi nella nota posta in
coda alla Canzone «Della Prima Possanza»[488]. Quivi si legge che egli
uscì dalla fossa, in cui stava quasi disfatto, otto mesi dopo di avere
scritta quella Canzone, «sebbene ci stette tre anni ed otto mesi»: il
«sebbene» rende poco chiara la notizia, ma ritenendo l'entrata nella
fossa avvenuta in luglio 1604 secondo i còmputi altrove esposti, e
aggiungendovi tre anni ed otto mesi, abbiamo che, mentre la Canzone
fu scritta in luglio 1607, l'uscita dalla fossa dovè accadere verso
il marzo 1608; ed è superfluo fare avvertire come rimanga provato
sempre meglio che la data dell'entrata nella fossa deve dirsi quella
da noi stabilita. Importerebbe poi conoscere con precisione la data
del trasferimento dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, e finora si ha
in modo vago che il trasferimento sarebbe accaduto dopo la 2^a lettera
di Ferdinando, vale a dire dopo l'ottobre 1608: dal _Syntagma_ si ha
dippiù che nel 1611 era già accaduto un altro trasferimento dal Castel
nuovo al Castello dell'uovo. La conoscenza della data precisa del
1^o trasferimento, dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, importerebbe
anche per fermare una circostanza fondamentale, capace di contribuire
al chiarimento di un fatto della vita intima del Campanella, che è
affermato dalla tradizione ma che potrebb'essere piuttosto leggendario.
Alludiamo alla nascita di quel grande che fu Gio. Alfonso Borrelli,
alla cui memoria si vedrebbe già elevato in Napoli un monumento, se vi
fosse, come vi dovrebb'essere, il culto della dottrina e della virtù;
è noto che verso questo tempo egli nacque nel Castel nuovo, e che una
tradizione vorrebbe fosse nato dal Campanella[489]. Aggiungiamo poi
che tanto nel Castel S. Elmo, quanto nel Castel nuovo e del pari nel
Castello dell'uovo, il Campanella, assomigliandosi a Prometeo, continuò
sempre a dire di trovarsi «nel Caucaso»; altre volte disse di trovarsi
«nella Ciclopèa caverna»; questo rilevasi dalle Lettere e dalle
Poesie. Perchè mai il Campanella si assomigliava a Prometeo? In molte
sue lettere egli si riconobbe colpevole di aver voluto servire alla
rivelazione de' tempi, e così essendo le cose dovrebbe intendersi avere
avuta la sorte di Prometeo per aver voluto scrutare ed annunziare agli
uomini i pensieri di Dio, gli eventi ordinati da Dio. Ma nella lettera
allo Scioppio pubblicata dallo Struvio parlò esplicitamente della sua
condizione di Prometeo, consegnando l'opera dell'_Ateismo debellato_
con queste parole: «Eia mi Scioppi, cape facellam hanc, in pectoribus
hominum interclude, si forte ex ruderibus fiant animalia, ex animalibus
homines; tibi debetur hoc munus, qui hujus saeculi es aurora; ego
tanquam Prometheus in Caucaso detineor, quoniam non rite hoc functus
sum munere, abusus sum donis ejus, ebibi indignationem ejus».
Intanto nella lettera medesima lo Scioppio era sospettato tutt'altro
che l'aurora del secolo, e quindi ognuno, tenendo presente l'alto
concetto che il Campanella aveva di sè e della sua missione nel mondo
(principale ragione di fargli desiderare la vita), ammetterà piuttosto
che siasi rassomigliato a Prometeo nel senso della trilogia di Eschilo:
aver concepito disegni divini, riflessi del Primo Senno, ed essersi
sforzato d'infonderli ne' petti umani; venir punito «per avere troppo
amato gli uomini»; aspettarsi un giorno la liberazione e il trionfo.
Su questo ultimo fatto non cade dubbio, sapendosi dalle sue Poesie che
egli sperava doversi al termine del suo carcere gridare «Viva, Viva
Campanella»; sicchè da tutti i lati emerge abbastanza chiara anche la
vera condizione sua per la quale ritenevasi punito, conforme a quella
dichiarata dal Prometeo d'Eschilo:
Τὸν Διὸς ἐχθρὸν, τὸν πᾶσι θεοῖς
δι' ἀπεχθείας ἐλθόνθ' ὁπόσοι
τὴν Διὸς αὐλὴν εἰσοιχνεύσιν
διὰ τὴν λίαν φιλότητα βροτῶν.
Certamente poi bisogna del pari intendere con le nozioni dateci da
Omero quell'arguta versione tra le tante, che lo stesso Campanella
fornì circa il termine della sua condizione di Prometeo o l'uscita
dalla Ciclopèa caverna: tale versione si legge nella sua lettera a
Pietro Seguier, posta innanzi all'opera intitolata _Disputationum
Philos. realis lib. quatuor_ Paris. 1637, ed essa, a parer nostro,
avrebbe dovuto fermare moltissimo l'attenzione de' biografi del
filosofo. Parlando degli ergastoli, ne' quali i persecutori,
«gl'ingrati padroni», l'aveano tenuto «gratis», il filosofo dice che
non avrebbe mai pubblicato le opere in essi composte, «nisi Deus per
miraculum longe mirificentius quam astutum facinus Ulyssis, quod de
antro Polyphemi fecit ut exiret, me liberasset». Si comprende che il
titolo d'«ingrati» dato a' padroni, naturalmente tanto laici quanto
ecclesiastici, è consentaneo all'atteggiamento preso dal filosofo
dopo la carcerazione e mantenuto per tutto il resto della sua vita;
ma in ultima analisi questi padroni rappresentavano per lui Polifemo,
e coll'aiuto di Dio egli ne scampò mediante un «astutum facinus longe
mirificentius» di quello di Ulisse, vale a dire che astutamente, e
in una sfera ben più elevata, egli li ubbriacò, li accecò, e riuscì
a salvarsi ponendosi in branco tra le pecore, aggrappato bravamente
agli egregi velli del pecorone massimo (storia che non ha bisogno di
commenti e che dice anche troppo):
ἀρνειὸς γὰρ ἔην, μήλων ὄχ' ἄριστος ἁπάντων,
τοῦ κατὰ νῶτα λαβὼν, λασίην ὑπὸ γαστέρ' ἐλυσθείς
κείμην· αὐτὰρ χερσὶν ἀώτου θεσπεσίοιο
νωλεμέως στρεφθεὶς ἐχόμην τετληότι θυμῷ.
Una simile proposizione, anche figurata, emessa quando già non c'era
più nulla a temere e tanto meno a sperare da tutti i lati, riesce degna
di fede incomparabilmente più di tutte le altre emesse in tempi ben
diversi: e questo criterio vale senza dubbio per giudicare le cose
dette sì dal Campanella che da' suoi più intimi amici circa le cause
delle sue sciagure; poichè non mancano neppure proposizioni di qualche
suo intimo amico, attestanti piena innocenza quando gravi riguardi
imponevano di parlare in tal modo, ed attestanti tentativi di nuovo
Regno e di nuova religione quando non c'era da usare riguardi e poteasi
dire la verità senza danni.
Il nostro compito è esaurito; dobbiamo solamente fermarci ancora un
poco su due quistioni, che senza dubbio saranno sorte nell'animo de'
lettori, i quali per avventura abbiano seguito con interesse il corso
di questa narrazione. Perchè mai il Governo Vicereale volle comportarsi
così brutalmente col Campanella, costituendosi anche dal lato del
torto, mentre avrebbe potuto ottenerne dal tribunale Apostolico la
condanna all'ultimo supplizio? Perchè mai il Governo Vicereale volle
far soffrire al Campanella il martirio di oltre un quarto di secolo, e
la Curia Romana, tanto lesta ed ardita nell'esigere il rispetto delle
prerogative degli ecclesiastici, non ebbe alcun sentimento o per lo
meno alcun sentimento efficace della tutela di queste prerogative in
persona del Campanella?
Circa la prima quistione, a noi sembra evidente che sulla
determinazione del Governo abbiano avuto ad influire dapprima il
sospetto e la diffidenza, poi anche il puntiglio giurisdizionale, in
sèguito la sconvenienza assoluta di un supplizio tanto ritardato.
Coi criterii d'oggidì sarebbe quasi impossibile intenderlo, ma
è necessario riportarsi a' criterii del tempo. Il sospetto e la
diffidenza, che aveano sempre campeggiato in questa causa per una lunga
serie d'incidenti, doverono al termine di essa destarsi con maggiore
intensità. C'era il gusto della soverchieria anche tra' Governi, e
l'abilità si faceva consistere nel soverchiare. Poteva darsi il caso,
veramente improbabile ma non impossibile, che all'ultima ora da Roma
fosse stato insinuato al Nunzio il risparmio della vita del Campanella,
con la condanna p. es. alla galera in vita; l'altro Giudice, compagno
del Nunzio, si sarebbe invece pronunziato per la pena di morte;
chi avrebbe allora dovuto risolvere la discrepanza? E risoluta la
discrepanza nel senso della galera in vita, come si sarebbe scansata la
richiesta dell'invio del condannato a Roma, per remigare sulle galere
di S. S.^{tà}? Quanto al puntiglio giurisdizionale, bisogna considerare
le tendenze del tempo veramente incredibili in tale materia, la lotta
vivissima e continua, benchè non sempre appariscente, tra Napoli e
Roma. In questa lotta, anche più degli spagnuoli, si distinguevano
i napoletani, e il Vicerè medesimo, trattandosi di quistioni
giurisdizionali, difficilmente riusciva a sottrarsi all'influenza loro
nel Consiglio Collaterale; se si avesse, come sarebbe a desiderarsi
grandemente, una storia di questo Consiglio, riuscirebbe manifesto
che i Consiglieri napoletani, serbando tutte le possibili forme
di devozione e di ossequio, in sostanza erano i più diffidenti e
puntigliosi verso Roma; tra le scene di servilismo più abietto, le
quistioni con Roma avevano il potere di far lampeggiare in essi il
patriottismo più rovente. Così a ragion veduta, anche a proposito
degl'indegni trattamenti a' quali il filosofo venne sottoposto, noi
abbiamo parlato di Governo Vicereale più che di spagnuoli e Corte di
Spagna, contro cui sono stati sempre esclusivamente diretti i biasimi
e i vituperii, sapendo che il Vicerè dovè udire l'avviso del Consiglio
Collaterale negl'incidenti della causa del Campanella[490]. E pur
troppo Roma avea data occasione a' puntigli: durante la causa, i
superbi «comandamenti di S. S.^{tà}» erano venuti in campo abbastanza
sovente, ma l'ultimo di essi, quello di far sentenziare dal solo
Nunzio in una causa di Stato mentre si era pure convenuto altrimenti,
sorpassava davvero ogni limite. Bisognava dare una risposta a Roma, e
la risposta fu atroce, quantunque in forma più che modesta e affatto
calma. Roma la comprese perfettamente e non parlò più, ma bisogna pure
ammettere che essa venne ad accomodarvisi di buon grado: riuscirebbe
altrimenti inesplicabile l'aver potuto tollerare in pace, nè per breve
tempo bensì per anni, la violazione perfino di quanto si era convenuto
fin da principio, di doversi cioè tenere il Campanella in carcere,
egualmente che tutti gli altri ecclesiastici, a nome ed istanza del
Nunzio, come prigione di lui; e ciò mentre quotidianamente per ogni
menomo clerico, ancorchè malfattore de' più feroci, fioccavano i
suoi reclami laddove si fosse verificata la più lieve infrazione
dell'immunità ecclesiastica. Non occorre poi spendere molte parole per
dimostrare, che essendo scorsi già varii anni dal momento del reato e
della cattura del reo, al Governo doveva ripugnare l'esecuzione di una
pena capitale, massime in persona di un ecclesiastico. Trattandosi
di reati gravi, non appena il voluto reo era caduto nelle mani della
giustizia, per canone indeclinabile si abbreviavano i termini in modo
spietato, e si preferiva di andare incontro ad una condanna meno
giusta, anzichè ad una condanna tardiva: la prontezza ed esemplarità
della pena era ritenuta una condizione tanto necessaria, che quasi non
occorreva più pensare alla pena allorchè quella condizione mancava.
Un cumulo di circostanze, non provocate ma deplorate dal Governo
Vicereale, aveano prodotto un ritardo notevole, ed oramai alla pena
capitale non si poteva più pensare: si devenne a ciò che dapprima il
Campanella medesimo avea proposto come il migliore espediente, il
carcere per un tempo indefinito, il quale fu poi anche mitigato, sia
pure dietro le potenti commendatizie, e mitigato di certo ulteriormente
in modo niente affatto ordinario, ma senza dubbio facendo rimanere
negata la giustizia, calpestata ogni maniera di dritto. Tuttavia non
deve sfuggire che se in dritto il non essersi proceduto alla sentenza
fu una solenne ingiustizia, nel fatto solamente in tal guisa il
Campanella riuscì ad aver salva la vita, non potendo dubitarsi che la
sentenza del tribunale Apostolico, anche col nuovo Nunzio e col nuovo
Consigliere, sarebbe stata sempre la degradazione e la consegna alla
Curia secolare e quindi l'ultimo supplizio. Così bisogna pure guardarsi
dal maledire l'interruzione della causa, e bisogna piuttosto esser
grati alla lotta giurisdizionale, alle superbie, alle pretensioni, alle
diffidenze, a' puntigli, all'abbandono; perfino all'abbandono, poichè
se Roma avesse insistito su ciò che era veramente un suo dritto, la
cosa non sarebbe andata affatto meglio pel povero Campanella, e si è
visto che egli medesimo si protestava energicamente che la sua causa
non doveva terminare in Napoli.
Circa la seconda quistione, non ci pare dubbio che i due fatti
egualmente notevoli, cioè la pervicacia e crudeltà del Governo
Vicereale nel non desistere da un'ingiustizia, e l'indolenza e mollezza
della Curia Romana nel non reclamare seriamente un suo dritto per anni
ed anni, si spieghino solamente con l'opinione divenuta comune ad
entrambe le parti, che il Campanella fosse un uomo pericoloso per lo
Stato e per la Chiesa. Possiamo aggiungere senza esitazione, che più
si mostrava la rigogliosa vitalità del prigioniero, più si veniva a
manifestare la sua dottrina, la sua energia, la sua versatilità, la sua
vena inesauribile, più doveva egli essere giudicato pericoloso. La cosa
merita di essere ben valutata, e gioverà trattenervisi qualche momento.
Lo Stato, che avea veduto sorgere in breve tempo un disegno non lieve
di ribellione per la sola parola efficace del Campanella, non potè mai
rimanere tranquillo sul conto di lui; e per quanto egli si stemperasse
in proteste di devozione, e spiegasse nelle sue opere un grande
attaccamento a Spagna, non gli accordò mai fede. Vedendolo poi rivolto
a Roma assiduamente, con la teorica del dovervi essere una sola
greggia ed un solo pastore Sacerdote e Re al tempo medesimo, sospettò
sempre che una volta liberato avrebbe potuto riuscire nelle mani del
Papa una forza notevole. Così dopo una diecina di anni al più, sebbene
il Campanella avesse continuato a dire che si trovava nel Caucaso,
in realtà sappiamo che il Governo Vicereale lo tenne in carcere da
potersi veramente chiamare _cortese_, come il Baldacchini chiamò
il carcere di S. Officio sofferto più tardi in Roma, e con ragione
incomparabilmente maggiore, vista la qualità del Governo che a tanto
si piegava e il tempo in cui vi si piegava; ma di mandarlo via non
volle mai udire a parlare, presago che avrebbe avuto a pentirsene. Gli
concesse perfino di tenere insegnamento privato nelle carceri, oltrechè
scrivere a sua volontà, porsi in corrispondenza con chi gli piacesse,
ricever visite anche da illustri viaggiatori di passaggio per Napoli,
e quanto alle opere che componeva, si vide il Nunzio nel 1611 fargli
fare una perquisizione ed impossessarsi di quello che gli si trovarono,
mentre nulla di simile si vide da parte del Governo. I Vicerè che si
successero, il Conte di Lemos figlio, il Duca d'Ossuna, infine anche il
Duca d'Alba, ebbero per lui stima e riguardi, più che non ne ebbero i
Vicerè ecclesiastici, il Card.^l Borgia e il Card.^l Zapatta, e fin dal
3 novembre 1616, certamente pe' favori dell'Ossuna, il Campanella potè
scrivere al Galilei «sto quasi in libertà»; ma l'uscita dal Castello
non gli venne accordata, se non dopo che scorse oltre un quarto di
secolo, dopo che il processo si era già perduto da un pezzo, ed
un'ulteriore custodia del prigioniero non sentenziato nè sentenziabile
si potea dire, più che inumana, vergognosa. La preoccupazione del
Governo fu sempre che il Campanella avrebbe potuto riuscire una forza
notevole nelle mani del Papa: ce lo ha dimostrato tutto l'atteggiamento
da esso preso durante i processi, e ce lo conferma un prezioso
documento da noi rinvenuto in Madrid. Perfino poco tempo prima che
il Campanella fosse liberato, il Card.^l Trexo spagnuolo, ammiratore
suo e giudice competentissimo della posizione, gli ricordava le
condizioni del Regno a fronte di Roma, gli faceva riflettere che troppo
sovente egli aveva ne' suoi scritti lodato l'insolito governo di un
Principe che fosse Re e Sacerdote ad un tempo, e soggiungeva: «poni
mente a cancellare quest'articolo, o almeno a spiegarlo in un senso
tale, che l'animo del Re, il quale non è nè può essere Sacerdote,
e le orecchie de' suoi ministri non se ne offendano e ti abbiano
ancora in sospetto». Nessuno intanto, speriamo, vorrà supporre in noi
l'intenzione di scusare il Governo Vicereale, adducendo le concessioni
fatte al Campanella e la preoccupazione che gli vietava di accordargli
la libertà: noi, forse più di chiunque altro, siamo convinti che
il procedimento del Governo fu non solo iniquo ma anche letale
segnatamente pel Napoletano; poichè il colpo gravissimo, inflitto alla
cultura e al carattere di un uomo portentoso, ricadde sulla cultura e
sul carattere del paese. Colui che aveva iniziato la sua carriera con
la «Filosofia dimostrata co' sensi», ed aveva osato concepire un più
che audace progetto di riscossa nei campi dello Stato e della Chiesa,
non potè appunto profittare dei suoi sensi, dovè abbondare in fantasie,
abbondare anche pur troppo in simulazioni; e parecchi i quali emersero
di poi sulla folla degl'ignoranti, essendo accorsi al suo privato
insegnamento non appena mitigati i rigori del carcere, ne riportarono
naturalmente i molti pregi ma anche i gravi difetti. A noi però incombe
il debito di spiegare la condotta del Governo e di mostrare che essa
non fu capricciosa. Il Campanella era giuridicamente colpevole verso
lo Stato, e venne ritenuto inesorabilmente un pericolo continuo per
la Spagna: fu questa la maggiore delle sue glorie, e il Governo vi
provvide con quella ferocia che era la sua forza.
Ma al martirio del Campanella non contribuì solamente lo Stato. La
Chiesa aveva avuto occasione di conoscerlo già da un pezzo, nè poteva
non tener conto degli antecedenti; dapprima un grave sospetto di eresia
finito con una solenne abiura, poi varie altre imputazioni dello
stesso genere ma riuscite a vuoto, da ultimo un disegno di ribellione
d'accordo col nemico del nome Cristiano e un mucchio di eresie,
accertati con un processo Apostolico ed un processo Inquisitoriale;
c'era più di quanto occorresse, per rimaner sorda alle proteste
di devozione, e guardare con diffidenza le opere del prigioniero
ancorchè riboccanti di fervore religioso. Come abbiamo dimostrato,
la condanna pronunziata dalla Chiesa nel processo di eresia non fu
benevola pel Campanella, ma al contrario, e le ripetute istanze fatte
perchè si sentenziasse nel suo processo di congiura, dopo di aver dato
termine a quello di eresia, non erano dirette a salvarlo. Ignoriamo
quali pratiche Roma abbia veramente fatte dopo un lungo, lunghissimo
silenzio, a fine di ottenere il passaggio del Campanella almeno sotto
l'autorità del Nunzio, come essa esigeva per ogni ordinario delinquente
ecclesiastico, e come erasi convenuto fin da principio. Conosciamo
soltanto con sicurezza, che pur quando si seppe indubitatamente che il
processo della congiura non si trovava più essendo stato disperso o
bruciato, come accadde nel 1620 a tempo del Vicerè Card.^l Borgia il
quale volea vederlo e non lo potè avere, nessun reclamo efficace fu
sporto da Roma per uscire da una posizione tanto scandalosa. Conosciamo
inoltre che perfino dopo 25 anni di carcere, durante il Pontificato
di Urbano VIII, il Campanella chiedeva istantemente che il P.^e
Generale dell'Ordine facesse una dimanda al Re perchè lo concedesse
a' Superiori, come da Spagna si desiderava per uscire dall'imbarazzo:
e non avendo potuto ottenerlo, ed essendosi fatto raccomandare al
potentissimo Card.^l Barberini per questo, ebbe a provare che il
Cardinale si acquetò facilmente alla negativa del P.^e Generale, e
ripetendo una proposizione emessa già dal Fabre e dallo Scioppio disse
che il Campanella «stava meglio dove stava»[491]. Conosciamo infine
che dietro le insistenze di Mons.^r Massimi Nunzio in Ispagna, fautore
particolare del Campanella e carissimo al Re, venne una lettera Regia
per lui, e sopra un memoriale da lui presentato si decretò in Consiglio
Collaterale non la consegna al Nunzio ma la libertà provvisoria con
l'obbligo di risedere nel convento di S. Domenico in Napoli; che di
poi, in barba del Governo Vicereale, se ne fuggì travestito a Roma, e
quivi scontò tre anni di pena nel carcere del S.^{to} Officio, come
era solito farsi pe' condannati al carcere perpetuo, senza che fossero
veramente computati i 26 anni di carcere sofferti in Napoli; nè per
quanto mite sia stato il carcere di Roma, si può dirlo più mite di
quello di Napoli negli ultimi quindici anni, mentre in quest'ultimo era
stato permesso fin l'insegnamento, che non fu mai permesso in Roma,
non solo dentro, come era naturale, ma neanche fuori del carcere,
consecutivamente. Tutto ciò mena a far ritenere che durante la
prigionia di Napoli l'abbandono del Campanella fosse dipeso anche dalla
sua condizione di delinquente politico, giacchè di simili abbandoni si
ebbe pure un altro esempio più spaventoso sotto lo stesso Pontificato
di Papa Urbano: è noto come finì l'allievo del Campanella fra Tommaso
Pignatelli, reo di Stato in un ordine incomparabilmente inferiore a
quello del suo maestro, abbandonato al giudizio di un ecclesiastico
gradito al Vicerè nominato dal Nunzio per delegazione avutane dal
Papa; egli fu atrocemente strangolato, dopochè quell'ecclesiastico,
con la semplice assistenza di un Consigliere Regio, lo sentenziò reo
di lesa Maestà, e bisogna tenerlo presente quando si discute de' casi
del Campanella. Del resto la sola condizione di condannato per eresia
bastava a far sì che Roma si curasse poco o niente del Campanella
prigione, e sarebbe strano il pretendere che avesse dovuto mostrare
tenerezze per lui. Qui dunque, speriamo, nessuno vorrà attendersi da
noi vederci ingrossar la voce contro Roma: noi invece siamo dolenti
di ciò che accadde più tardi e che è da tutti glorificato, della
benevolenza mostrata al Campanella da Papa Urbano, la quale per
verità non fu punto disinteressata, e in ultima analisi finì con la
compromissione, con l'esilio, con l'abbandono spietato del filosofo
nella più affliggente miseria. Ma pel nostro assunto ci preme ora
solamente rilevare e spiegare la condotta di Roma verso il Campanella
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