Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 35

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viva attenzione verso Roma. Questo si può argomentare da due Lettere
Regie esistenti nell'Archivio di Stato[367]; ma anche senza di esse,
si comprende che, dopo le lungaggini verificatesi nello svolgimento
della causa, il Governo Vicereale dovè rimanerne tanto più diffidente
e sospettoso. Nulla poi conosciamo intorno a' particolari della fuga,
la quale del resto non era un fatto assolutamente straordinario; basta
ricordare che ne abbiamo già citato un altro esempio in persona del
cav.^{re} gerosolomitano fra Antonio Capece. Non potremmo nemmeno
dire con certezza chi fosse stato il carceriere che se ne andò co'
fuggiaschi. Senza dubbio non fu il Martines, che avea già da un pezzo
perduto l'ufficio; ma tutto induce a credere che sia stato Antonio
de Torres detto «sotto-carceriero» nella denunzia e ricorso di
Camillo Adimari contro fra Pietro Ponzio, e successo interinalmente
al Martines, perchè ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel
nuovo, dopo di aver figurato più volte a motivo di paternità dal 7 8bre
1587 al 4 7bre 1601, egli scomparisce affatto senza lasciare alcuna
traccia di sè, e d'altra parte Onofrio Martorel, che dovrebb'essere
l'Onofrio sotto-carceriere citato nel processo e nella Narrazione del
Campanella, dopo di avervi figurato del pari assai sovente fin dal
1583, è registrato nell'elenco de' morti in data del 14 gennaio 1605;
aggiungiamo poi che nel processo, fin da' primi giorni del 1603, poco
dopo la data di cui qui si tratta, incontrasi il nome di un nuovo
carceriere, Martino Sances. Conosciamo per altro che fra Dionisio
se ne andò a Costantinopoli e quivi abbracciò la fede Maomettana:
ma le ricerche da noi istituite nell'Archivio Veneto, rovistando il
grandioso Carteggio de' Baili, ci han fatto sapere che egli giunse a
Costantinopoli nel maggio dell'anno seguente, essendosi trattenuto
segretamente sulle galere di Malta, ed avendole lasciate nel trambusto
di una fazione vittoriosa di quelle galere contro il castello di
Lepanto. Avremo campo di parlarne più in là: per ora notiamo che questo
incidente faceva peggiorare moltissimo la causa del Campanella.
Apparve allora un ordine di cattura «a' cursori, aguzzini ed
inservienti di qualsivoglia Curia, tanto ecclesiastica quanto secolare,
in qualsivoglia luogo, ecclesiastico, secolare, regolare ed anche
di Monache comunque dotato di esenzione, non ostante qualunque
privilegio», venendo dal tribunale accordate le veci e le voci
proprie, ed inculcato a tutti e singoli, ecclesiastici e secolari, di
dare aiuto, consiglio e favore necessario ed opportuno all'effetto
predetto[368]. Quest'ordine si trova in processo senza data, ma non
è dubbio che dovè essere emanato propriamente il 17 ottobre; poichè
vi si rileva questa circostanza, che al momento in cui fu scritto,
vi si parlò solamente della cattura di fra Dionisio fuggito, e poi,
con una postilla in margine, vi si aggiunse anche il Bitonto; e non
ci manca nemmeno un documento fuori il processo, che attesta essere
dapprima venuta al Vescovo di Caserta la notizia della fuga del solo
fra Dionisio[369]. Un'altra circostanza dobbiamo notare nell'ordine
suddetto. Esso fu emanato a nome del Nunzio, del Vescovo di Caserta e
del Vicario Alessandro Graziano: era costui il nuovo Vicario generale
successo al Vaccari, e da questo momento in poi trovasi in quasi tutti
gli Atti co' quali ebbe termine il processo principale.
Ma finalmente con lettera del 29 novembre il Card.^l Borghese
partecipava la risoluzione della Sacra Congregazione de'
Cardinali[370], ed ecco quanto alla presenza di S. S.^{tà} si era
risoluto. Pel Campanella, «che sia condannato alle carceri di questo
santo Uffitio (_int._ di Roma) ove perpetuamente sia ritenuto senza
speranza alcuna di esserne liberato»; pel Lauriana e fra Pietro di
Stilo, «che si dia loro la corda moderatamente... et non sopravenendo
cosa che gli aggravi, si facciano abiurare come leggiermente sospetti
di heresia, con impor loro alcune penitenze salutari»; pel Petrolo,
«che se gli dia la corda più acremente... et non risultando altro, si
faccia abiurare come sospetto vehementemente di heresia con imporgli
alcune penitenze salutari»; e si aggiungeva per questi ultimi tre
frati «l'essilio da tutto cotesto Regno» e l'assegnazione «da' loro
superiori» in conventi ne' quali si vivesse con maggiore osservanza,
notando essere «mente di N. S.^{re} che per le dette pene... non si
pregiudichi nè si ritardi la speditione della causa della pretensa
ribellione da farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.^{tà}».
Quanto a fra Paolo, si era risoluto: «che sia rilasciato con imporgli
alcune penitenze salutari»; e quanto a fra Pietro Ponzio, «che sia
rilasciato liberamente dalle carceri per quello che spetta al santo
Uffitio».
Ben si vede che in Roma furono accolti i voti de' Giudici nel senso più
mite; solo per fra Paolo furono aggiunte le penitenze salutari, e per
gli altri fu accolto propriamente il voto del Vicario Arcivescovile,
che si era mostrato mite più di tutti. Ma pel Campanella, pel quale non
vi furono o non giunsero fino a noi i voti de' Giudici, si prese una
risoluzione abbastanza difficile a spiegarsi. Secondo la giurisprudenza
del S.^{to} Officio che abbiamo già altra volta avuta occasione di
ricordare, come pazzo, quale era legalmente riuscito a dimostrarsi
col tormento della veglia, il Campanella non avrebbe dovuto essere
_condannato_, ma ritenuto in carcere, fino a che o rinsavisse o
morisse, potendo solo in uno di questi due casi avere una condanna (è
noto che in materia di eresia anche i morti non venivano risparmiati);
invece come sano di mente, per la sua qualità di relapso, avrebbe
dovuto essere condannato alla degradazione e consegna alla Curia
secolare, dalla quale sarebbe stato giustiziato. Il carcere perpetuo ed
irremissibile, ovvero la così detta «immurazione» che avea lo stesso
significato, era la pena dell'eretico pentito, e più propriamente,
secondo una prescrizione del Concilio Tolosano, la pena dell'eretico,
che _pel timore della morte_ o per qualunque altro motivo, ma non di
spontanea sua volontà, era tornato in grembo alla Chiesa: posto che
_pel timore della morte_ il Campanella si fosse finto pazzo, egli non
avea però dato alcun segno di ritorno in grembo alla Chiesa. D'altronde
la condanna al carcere perpetuo avrebbe dovuto sempre essere preceduta
dall'abiura pubblica ed anche dalla degradazione, almeno verbale se
non attuale, come ordinava un rescritto di Urbano IV; e di ciò, a
proposito del Campanella, non si fece alcuna parola, nè realmente si
vide poi alcun Atto in sèguito. Bisogna del resto ricordare ancora che
nè il carcere perpetuo, nè l'irremissibile, importavano assolutamente
la ritenzione vita durante, come dalla loro denominazione si potrebbe
inferire; il S.^{to} Officio non isconosceva del tutto la massima del
foro laico, che cioè il carcere doveva servire a custodia e non a
pena, e quindi soleva condonare il carcere perpetuo dopo tre anni, ed
il carcere irremissibile dopo otto anni[371].--Queste considerazioni
non poterono certamente sfuggire al Governo Vicereale, che a simili
argomenti attendeva con molta premura in que' tempi, ma non ci pare che
siano state fatte da coloro i quali si sono occupati del Campanella;
e però si sono avuti giudizii veramente un po' strani sullo spirito
della condanna che il Campanella ebbe da Roma, sull'atroce condotta
del Governo Vicereale verso di lui, sulla stessa determinazione
presa in Roma, quando, dopo tanti anni di ritenzione in Napoli, il
Campanella giunto nelle carceri Romane finì per acquistare la libertà.
Certamente il Campanella fu da Roma giudicato colpevole in eresia, e
non sapremmo punto ammettere che il S.^{to} Officio gli avesse dato
una condanna al carcere irremissibile senza motivo, o per semplice
finzione con lo scopo di trarlo a Roma: se i compagni del Campanella
furono sottoposti a tortura ed obbligati ad abiurare come sospetti
leggermente o veementemente di eresia, come mai si può concepire
che egli non sia stato giudicato eretico? Forse potè non essere
ritenuto plenariamente convinto, come si era riconosciuto dai Giudici
per fra Dionisio; ma anche ammesso ciò pel Campanella, il cui caso
era veramente più grave di quello di fra Dionisio, rimane sempre a
spiegarsi come mai potè avere la condanna che ebbe. Se ci è lecito
esprimere una nostra opinione, essa è, che da Roma si volle dare a
questa faccenda un termine ad ogni costo, poichè con la semplice
ritenzione nel carcere, per aspettare il rinsavimento o la morte del
Campanella e poi venire alla condanna, la faccenda sarebbe durata
indefinitamente, e questo era divenuto impossibile: si mutò quindi la
ritenzione continua in carcere perpetuo _sine spe_, senza prescrivere
l'abiura e la degradazione, che nello stato in cui il Campanella si
trovava, o più veramente fingeva di trovarsi, non si sarebbe nemmeno
riusciti ad effettuare, e con tale ripiego si apriva la via di dare
un termine anche alla causa della congiura, essendo esaurita quella
dell'eresia. La condizione poi del doversi la pena scontare nel carcere
di Roma non fu nemmeno speciale, perocchè trattandosi del giudizio
di un tribunale non diocesano, l'andata a Roma era di regola, e se
si credè conveniente di esprimerla nella risoluzione, ciò si fece
per evitare ulteriori controversie col Governo Vicereale, oltrechè
per affermare quella «superiorità ecclesiastica» sempre ambita da
Roma più di ogni altra cosa e non del tutto riconosciuta dal Governo
in tale faccenda: d'altronde l'andata a Roma si sarebbe effettuata
dopo la spedizione della causa della congiura, che non doveva essere
«nè pregiudicata nè ritardata», e se per questa causa il Campanella
avesse riportata la condanna della degradazione e consegna alla Curia
secolare, come D. Giovanni Sances avea già chiesto, egli non sarebbe
andato a Roma certamente. Adunque la risoluzione della Congregazione
Romana non avea punto lo scopo di trarre il Campanella da Napoli
a Roma: essa facilitava solamente, e di molto, ciò che il Governo
Vicereale bramava, la spedizione della causa della congiura; essa
dava modo di far proferire una condanna in quella causa, come una
condanna era stata proferita nella causa dell'eresia, senza tener conto
della pazzia legalmente accertata! Con ciò non diremo che il Governo
Vicereale avesse dovuto rimanerne contento e soddisfatto. Si comprende
che esso avrebbe preferita una condanna di degradazione e consegna
alla Curia secolare, essendo il Campanella relapso in eresia, come D.
Giovanni Sances non avea mancato di ricordare nella sua Allegazione:
d'altronde non poteva fargli un'ottima impressione quella condanna di
ripiego ad un carcere irremissibile che tale non era di fatto, quel
ricordo di doversi codesta pena scontare in Roma, dopo «la speditione
della causa della pretensa ribellione da farsi da' giudici sopra
ciò deputati da S. S.^{tà}», quasi che tale causa potesse terminare
con una condanna a pena insignificante o con un semplice rilascio.
Quando vi erano già state tante ragioni od occasioni di sospetti
e diffidenze, riesce ben naturale ammettere che tutto ciò venisse
ad aggiungere qualche cosa a' sospetti e alle diffidenze. Eppure
non abbiamo alcuno indizio che il Governo Vicereale fosse rimasto
irritato dalla risoluzione di Roma: se ne rinverrebbe qualche traccia
nel Carteggio del Nunzio, come la si rinviene ogni qual volta vi era
stato un positivo scontento da parte del Governo. Invece se dovessimo
credere a ciò che ne disse poi il Campanella nella sua Narrazione,
tutto fu fatto per compiacere il Governo; e per verità, quanto a sè,
egli aveva ragione di dirlo, poichè Roma avea mostrato di non ritenerlo
pazzo, mentre egli avea comprovata col più solenne de' tormenti la
sua pazzia. Non sarà inutile ricordare qui le parole del Campanella.
«Dopo questo (dopo il suo tormento) fuggio F. Dionisio dalli carceri,
e li altri fur liberati; ma solo li frati furo esiliati dal regno
per soddisfar alli regi Fiscali, el Campanella in perpetuo carcere
del S. Officio in Roma _sine spe_. Ma perchè li frati condannati a
compiacenza d'officiali regi subito in Napoli et altri in Roma fur
aggratiati e diventaro priori et officiali nella Religione, e si vide
che questa condanna era _ad ostentationem_ fatta dalli ecclesiastici;
e sapendo ch'il Campanella senza esser esaminato fu condannato, e la
sentenza è nulla per questo e per le appellationi secrete che prima e
poi mandò a Roma, non volsero mai permettere che andasse alli carceri
di Roma; nè che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli» etc.
Ma i frati, nella più gran parte, furono liberati dopo tortura e
solenne abiura, e se furono di poi graziati dell'esilio, ciò accadeva
sempre nelle condanne del S.^{to} Officio, e sarebbe del pari accaduto
per lo stesso carcere perpetuo del Campanella: e dopo tutto quello
che abbiamo visto, potrebbe mai ritenersi che le condanne con le
torture fossero state date a compiacenza degli officiali Regii e _ad
ostentationem_? A noi basta assodare che non vi fu, come non vi poteva
essere, una grave dispiacenza del Governo Vicereale per quella specie
di condanne, e che esso non ne rimase irritato più di quanto lo era
già per molti altri fatti, ed in ultimo luogo pel lunghissimo tempo
impiegato nello svolgimento della causa e per la fuga di fra Dionisio;
vedremo in sèguito che la sua irritazione crebbe veramente più tardi
per qualche altro fatto, il quale esacerbò la diffidenza e il sospetto,
aggiungendovi il risentimento e il puntiglio della peggiore specie.
Pervenuta in Napoli la risoluzione di Roma, non rimaneva che spedire la
causa secondo il dettato di essa. Si sarebbe potuto farlo in pochissimi
giorni, ed invece, non sapremmo dire per quale motivo, scorse oltre un
mese, e le sentenze e gli atti ultimi non si compirono che al principio
dell'anno seguente: lo stesso fra Pietro Ponzio, per lo quale era stato
ordinato il rilascio semplice, e già il Nunzio avea più volte dato a
Roma promesse formali di sollecita spedizione, non si vide libero e
dovè attendere ancora. Il Nunzio si limitò a partecipare al Card.^l
Borghese di aver ricevuta la risoluzione presa intorno alla causa del
S.^{to} Officio, e di aver fatto sapere al Vescovo di Caserta, che era
sempre pronto ad intervenire nella spedizione di detta causa[372].
L'8 gennaio 1603 si venne finalmente alla spedizione della causa.
Secondo lo stile del S.^{to} Officio, le sentenze furono prima scritte,
e quindi promulgate e lette dal Notaro della causa agl'interessati,
non essendo lecito fare altrimenti sotto pena di nullità. Si cominciò
dal Campanella[373]. La sentenza, sottoscritta da' tre Giudici,
diceva che, viste le informazioni e gli Atti, visto il tenore della
lettera del Card.^l Borghese scritta il 29 novembre 1602 d'ordine
de' Cardinali sommi Inquisitori, in esecuzione di detta lettera
essi Giudici provvedevano e decretavano, che per le cause di eresia
per le quali trovavasi carcerato e detenuto il Campanella doveva
essere condannato, come con quel decreto era condannato, sua vita
durante alle carceri formali della S.^{ta} Inquisizione in Roma etc.
etc., ripetendo la condanna e la pena ne' termini precisi da Roma
trasmessi. Nel medesimo giorno suddetto il Prezioso, chiamato il
Campanella con l'intervento di due testimoni, i Rev.^{di} D. Antonio
Peri e D. Vincenzo Pagano, gl'intimò e lesse la sentenza _audiente et
intelligente_, e ne rogò un Atto appunto in questi termini. Dunque il
Campanella udiva e comprendeva, e non tenevasi più conto della sua
pazzia, circostanza di cui non avea da dolersi certamente il Governo
Vicereale: intanto, in una ricevuta di piccolo sussidio tratto dalla
somma venuta di Calabria, alla data del 30 marzo 1603, trovasi che
la parte spettante al Campanella era ancora esatta da fra Pietro
di Stilo, il quale dichiarava di aver «pensiero» della persona del
Campanella, naturalmente perchè pazzo[374]. Si venne poi a fra Paolo
della Grotteria, per lo quale la sentenza, scritta con lo stesso
formulario, decretava il rilascio dalle carceri con l'indicazione
delle penitenze impostegli (recitare in giorni determinati l'ufficio
de' morti, il Credo, i Salmi penitenziali e le Litanie, recitare ogni
giorno il Rosario, digiunare il sabato) «riservatane la moderazione,
la mitigazione e la commutazione a' Cardinali sommi Inquisitori». Ed
egualmente il Prezioso, con le cautele medesime, gli lesse la sentenza
_audiente et bene intelligente_, _et omnia acceptante_; più tardi poi,
scorse oltre due settimane, gli consegnò la copia delle dette penitenze
salutari, rogandone un altro Atto innanzi a due altri testimoni,
uno de' quali era Martino Sances carceriere. Ma bisogna notare che
il rilascio di fra Paolo rifletteva le cause di S.^{to} Officio, e
poichè egli era inquisito anche della ribellione, continuò a rimanere
in carcere.--Si passò quindi a fra Pietro Ponzio, cui fu decretato
il rilascio per le cause spettanti al S.^{to} Officio, sempre in
esecuzione della lettera di Roma; e il Prezioso gli lesse la sentenza
_audiente et intelligente_. Fra Pietro fu veramente posto in libertà:
non abbiamo notizia della data precisa in cui uscì dalle carceri, ma
verosimilmente ciò accadde senza molto ritardo, non essendovi empara
per lui; possiamo solamente dire con certezza che nell'ordine di
pagamento del piccolo sussidio menzionato sopra, alla data del 22
marzo, egli non era più computato tra' frati esistenti in Castello e
non figurava di poi nella ricevuta. Lo troveremo in sèguito nel suo
convento di Nicastro, poichè ci darà ancora occasione di parlare di lui.
Nello stesso giorno 8 gennaio, innanzi al Nunzio, al Vescovo di Caserta
e al Vicario Graziano, si amministrò la tortura, prima a fra Pietro
di Stilo e poi a fra Silvestro di Lauriana[375], tortura moderata,
di poco più di mezz'ora, dimandando loro se fossero vere le cose che
aveano deposte contro gli altri, e se avessero aderito all'eresie che
avevano udite (precisamente come in Roma era stato risoluto). Possiamo
dire che l'uno e l'altro si mostrarono quali li abbiamo visti finora
in tutto il processo. Fra Pietro di Stilo, lettogli il testo della sua
deposizione fatta in Gerace, dichiarò vere le cose che avea deposto
avere udite dal Campanella in Calabria, e quanto all'avervi aderito,
disse che egli non avea nemmeno capito tutto quello che il Campanella
diceva, anche perchè come Vicario del convento non gli riusciva star
sempre fermo e poter udire tutto il discorso: incalzato dalle domande,
se avesse creduto a ciò che aveva udito intorno a' miracoli, che era
manifesta eresia, e se sapesse che un cristiano avea l'obbligo di
farne denunzia a' superiori ecclesiastici, disse che non vi aveva mai
creduto, che non aveva nemmeno immaginato essere quella un'eresia, che
aveva appreso l'obbligo della denunzia solamente dopo di essere stato
carcerato (sempre la parte dell'ignorante). Posto allora alla corda,
fra le solite grida di dolore confermò ad una ad una le risposte date,
ed avendogli i Giudici domandato se volesse scendere per poter dire
più comodamente la verità, disse «io non voglio scendere et non sò
altro che dire, è la verità è detta». Poi oppresso dall'atrocità del
dolore si fece a dire, «scenditimi, scenditimi che dirrò la verità»;
ma mentre i Giudici ne davano l'ordine gridò, «non mi scenditi, non mi
scenditi, perchè la verità l'hò ditta» (il povero fra Pietro diffidava
di sè medesimo, e si sforzava in tutti i modi di non lasciarsi andare
a dire cose compromettenti). Infine non potè più resistere e volle
scendere, ma disse «per Dio che non hò da dire niente, nè posso dire
altro per Dio»; e più volte mantenuto in alto, più volte sceso, dicendo
sempre che la verità l'avea detta, con segni di grandi sofferenze,
essendo scorsa oltre mezz'ora, fu lasciato definitivamente.--Quanto al
Lauriana, lettogli il testo della deposizione fatta in Monteleone alla
presenza di fra Cornelio, e dimandatogli se le cose quivi deposte erano
vere, disse, «io sono stato essaminato un'altra volta in Napoli dinanzi
al Vescovo di Termoli» (sempre un appello a deposizioni anteriori);
circa poi l'avere aderito all'eresie, lo negò con gravissimi
giuramenti; dimandatogli se sapesse che c'era l'obbligo della denunzia,
disse di sì, ed osservatogli che non avea subito fatta la denunzia
a' superiori disse «mi riferisco all'essamine». Posto alla corda,
emettendo le solite grida, deplorando di aver conosciuto quelle persone
che aveano proferito eresie, rispondendo sempre di aver detto la
verità, fra le angosce del suo dolore esclamò, «Monsignore aiutatemi,
Frà Campanella è luterano marcio, abrusciatelo»! Ed allora gli venne
domandato in che fosse luterano fra Tommaso Campanella, ed egli «me
rimetto alle mie essamine» (sempre ignorante e brutale). Infine,
essendo anche per lui trascorsa mezz'ora e più, fu fatto scendere.
Gli 11 gennaio, del pari innanzi a tutti e tre i Giudici, si amministrò
la tortura a fra Domenico Petrolo, secondo le prescrizioni di Roma,
più acremente e rivolgendogli le solite dimande[376]. Con molti
particolari, come era suo costume, egli disse avere udito le cose
deposte non tutte in Stilo, dalla bocca del Campanella, ma averne udite
anche in Castelvetere, quando fra Tommaso gli persuase di imitare il
Pizzoni, di farsi leggere la deposizione di costui e deporre alcune
delle cose che costui avea deposte ad oggetto di scampare dalle mani
de' secolari: ond'egli così fece, e fra Cornelio scrisse aggravando
la deposizione, ed egli non si curò di questo aggravamento perchè fra
Tommaso gli avea detto che così gli piaceva; ma poi, innanzi al Vescovo
di Termoli, avea corretto il primo esame, spogliandolo di tutto ciò che
fra Cornelio aveva aggiunto. E lettegli le deposizioni fatte innanzi al
Vescovo di Termoli, egli dichiarò che le cose in esse contenute erano
vere, ed aggiunse che non aveva mai aderito alle proposizioni eretiche,
ed aspettava che il Campanella le avesse proferite alla presenza di
altri, per poterlo denunziare e far constare le cose da testimoni.
Fu allora posto alla corda, sempre in esecuzione di quanto era stato
ordinato con la lettera di Roma, che venne costantemente ricordata
in tutti questi Atti. Le sue sofferenze furono vivissime, le sue
esclamazioni strazianti continue: rivolgevasi al Nunzio, rivolgevasi
al Vicario, diceva loro che si sentiva aprire il petto e si protestava
che moriva; al Nunzio ricordò pure che compivano appunto allora tre
anni, ed era egualmente giorno di sabato, quando aveva altra volta
avuta la corda (per la congiura). Del rimanente confermò sempre che le
cose deposte erano vere, e che non aveva aderito all'eresie udite: ed
essendo scorsa un'ora intera, fu ordinato, come per tutti gli altri,
che lo scendessero, lo slegassero, gli accomodassero le braccia, lo
rivestissero e lo riponessero nel suo carcere.
Immantinente si passò a dar fuori le sentenze già scritte, e a
promulgarle e leggerle, procedendo anche alla consegna delle copie
delle penitenze, agli Atti dell'abiura e a quelli dell'assoluzione
dalla scomunica, tanto pel Petrolo quanto per fra Pietro di Stilo
e pel Lauriana successivamente; sicchè tutto venne esaurito nello
stesso giorno 11 gennaio 1603[377]. Le sentenze furono questa volta,
secondo il rituale, scritte con maggiore solennità ed in lingua
volgare. I Giudici, dichiarandosi speciali delegati de' Cardinali
sommi Inquisitori, e rivolgendo la loro parola all'inquisito, gli
ricordavano la sua causa: trovarsi lui nel tribunale del S.^{to}
Officio per avere udito «da alcuni religiosi» proferire eresie formali
e non averle denunziate, avere avuto un termine per le difese senza
averle fatte, essersi proposta e discussa la causa e fattane relazione
a' Cardinali sommi Inquisitori, e dietro loro risoluzione essersi
proceduto all'esame rigoroso (la tortura) con le debite proteste
del Procuratore fiscale, e visti e considerati i meriti della causa,
essersi deliberato di venire alla spedizione e alla sentenza anche
d'ordine particolare di detti Cardinali. Invocato quindi il nome di
Gesù Cristo e di Maria Vergine, nella causa vertente tra il Procuratore
fiscale e lui «reo, inquisito et processato», sedendo _pro tribunali_,
dicevano, pronunziavano, sentenziavano e dichiaravano essere stato lui
giudicato sospetto di eresia (veementemente o lievemente) e perciò
incorso nelle censure: ed affinchè togliesse dalle menti loro e di
altri fedeli questo sospetto contro di lui concepito, ordinavano che
avanti di loro, nella Chiesa del Castello, pubblicamente e in giorno
festivo abiurasse, maledicesse, detestasse ed anatemizzasse questa
ed ogni altra eresia nella forma che da loro sarebbe stata data,
contentandosi, dopo ciò, di assolverlo dalla scomunica incorsa. E per
non far rimanere que' gravi errori totalmente impuniti e dare esempio
agli altri, lo condannavano all'esilio fuori Regno vita durante o pel
tempo che parrebbe a' detti Cardinali, e alla permanenza in un convento
assegnato dal suo superiore regolare, dando cauzione di 25 once d'oro
per l'osservanza dell'esilio, e in difetto obbligandosi a servire
«per un remigante alle galere della S.^{ta} Sede» per un tempo ad
arbitrio di detti Cardinali. Gl'imponevano poi per penitenze salutari
la confessione una volta la settimana, la frequente celebrazione della
Messa e il Rosario ogni giorno, dichiarando che questa condanna non
dovea ritardare nè impedire la spedizione della causa della ribellione,
e riservando la moderazione, commutazione e mitigazione delle dette
pene e penitenze a' Cardinali sommi Inquisitori. Conchiudevano: «Et
così dicemo, pronontiamo, sententiamo, condanniamo, penitentiamo, et
riserviamo in questo et in ogn'altro miglior modo et forma che di
raggione potemo et dovemo», sottoscrivendosi ognuno col suo titolo
e con la qualità di Commissario Apostolico.--Una simile sentenza di
veemente sospetto fu dal Notaro della causa promulgata e letta dapprima
al Petrolo, _audiente et intelligente_, alla presenza di 7 testimoni, e
subito dopo, avuta anche la copia delle penitenze salutari impostegli,
tutto addolorato com'era, il Petrolo fu tradotto nella Chiesa del
Castello, ed ivi inginocchiato innanzi ai Giudici pronunziò la solenne
abiura, secondo la scritta già preparata, e vi appose la sua firma.
L'abiura conteneva la notizia della causa e della condanna, calcata sul
formulario della sentenza. L'inquisito dichiarava che, inginocchiato
innanzi a' Giudici e toccando i Santi Evangeli, confessava e si doleva
di avere gravemente errato contro la Chiesa, perchè avendo da alcuni
religiosi udito proferire eresie formali non li aveva denunziati; ed
essendo stato giudicato veementemente sospetto di eresia, per rimuovere
dalla mente di tutti i fedeli questo veemente sospetto abiurava etc.
etc., promettendo e giurando di non mai più ascoltare eretici, di
denunziarli subito qualora gli accadesse di conoscerli e udirli per
l'avvenire, di adempiere a tutte le pene e penitenze impostegli, ed
infine ricercando il Notaro là presente di scrivere quella cedola di
abiura recitata parola a parola, non sapendo lui bene scrivere (!) e di
fare d'ogni cosa pubblico istrumento (ciò che per altro era stato già
preparato). Da ultimo il Curato D. Gaspare di Accetto, con le solite
cerimonie, procedeva alle assoluzioni dalla scomunica, censura e pene
incorse; ed anche di questo fu rogato un Atto.--Allo stesso modo si
fece di poi per fra Pietro di Stilo e pel Lauriana colpiti di lieve
sospetto: l'uno dopo l'altro adempirono agli Atti e formalità di cui si
è finora discorso.
Rimaneva intanto a compiersi ancora la parte più difficile pei poveri
frati, la fideiussione di 25 once d'oro per ciascuno. Naturalmente,
nella loro condizione, era quasi impossibile trovare anche uno degli
strozzini i quali solevano fare questa specie di affari, e i Giudici
l'aveano preveduto nella loro sentenza. Mandarono dunque un memoriale
con cui diceano volersi obbligare alla pena della galera invece di
dare la fideiussione, giacchè «per essere forastieri» non aveano
fideiussori. E il 16 marzo il Notaro Prezioso, andato in Castel nuovo,
rogò un Atto coll'intervento di cinque testimoni, e tra essi Felice
Gagliardo, pel quale i tre frati, «sciolti da' ceppi e dalle catene
e costituiti in libera libertà» secondo la formola solita in questi
casi, spontaneamente dichiararono che non avendo trovato fideiussori
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