Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 30

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vi si possono fare varie osservazioni circa il numero di anni passati
dal Principe in prigione, circa i motivi della prigionia, ed anche
circa i motivi del ritorno in libertà, ma a' poveri calabresi la sola
«cessata ragione di Stato» dovea sembrare un motivo soddisfacente.
Passando alle Poesie politiche, ne troviamo solamente cinque,
intitolate all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma, e «Roma a
Germania»[321]. Le tre prime furono poi pubblicate, le altre due
furono scartate; ma quella all'Italia fu pubblicata sotto la forma di
Canzone, mentre originariamente era stata composta in forma di Sonetto
con appendici, e fu anche intitolata «Agl'italiani che attendono a
poetare con le favole greche», mentre originariamente non aveva titolo
determinato; nè sarà superfluo far avvertire, che le prime notizie
delle proprie Poesie date dal Campanella nella lettera al Card.^l
Farnese del 1606, seguita dalle altre al Card.^l S. Giorgio e al Re
di Spagna, poi anche nel Memoriale al Papa del 1611, fanno distinta e
principale menzione di tali poesie politiche[322].
Quella all'Italia può dirsi un vero Inno al primato italiano, nel quale
son pure notevoli diversi concetti generali e particolari: l'essere
cioè «sepoltura de' lumi suoi, d'esterni candeliere», il ferir sempre
di nuovi affanni «lo stilense» il quale «quella patria honora che poi
lui dishonora», il non cessar mai «di servir chi la paga d'ignoranza,
discordia e servitute» alludendo certamente a Spagna ed a' Principotti
italiani. Non parliamo poi del Sonetto a Genova nè di quello a
Venezia, permettendoci solamente di ricordare ancora una volta, che
da quest'ultimo, e non da ciò che dovè scrivere in certi momenti
tristissimi, conviene desumere i convincimenti del Campanella intorno a
quella mirabile repubblica, fondata sul sapere e sul potere, condotta
senza fiacchezze sentimentali, e perciò durata tanti anni. Circa il
Sonetto a Roma, conviene notarvi quel concetto osservabile
«Deh non pianger l'Imperio, Italia mia,
ch'hoggi l'hai vie più certo e venerando»,
mentre nel primissimo Sonetto all'Italia, composto in altre
circostanze, il poeta si era doluto che non si vedeva già più
«vergognarsi per l'onor di Dina» nè Simeone nè Levi. Ecco dunque uno
spiccato ritorno indietro, e non di poco momento: ma non deve sfuggire
che il Sonetto fu scartato quando si venne alla pubblicazione delle
poesie, e si può anche osservare, che mentre ne' versi originarii della
poesia menzionata più sopra e diretta «Agl'italiani» etc. si leggeva
«...... la gran Roma
dove anche ha Dio suo tribunal costrutto»,
ne' versi rifatti posteriormente e così dati alle stampe si lesse
«E del cielo alle chiavi alfin pervenne»;
cioè a dire, fu sostituito un encomio di abilità politica ad un
riconoscimento di dono soprannaturale. Circa il Sonetto «Roma
a Germania», esso segna il passaggio alle poesie religiose,
rappresentando una tirata contro la riforma, e questo veramente
non è affatto nuovo nell'ordine delle idee del Campanella, cui la
dissociazione nella fede cristiana riuscì sempre assai molesta: ma è
nuovo quel tuono da pergamo accompagnato da vaticinii d'immancabile
rovina, e bisogna tener presente che questo Sonetto fu pure scartato,
e manifestamente uno studio dello scarto fatto riescirebbe davvero
istruttivo.--Citiamo qui, al sèguito degli anzidetti, il Sonetto «Sovra
il monte di Stilo»[323], poesia di niun valore, ma espressione di un
caro ricordo del povero prigioniero, e passiamo subito a' Sonetti
religiosi. Essi sono al numero di sei, de' quali furono poi pubblicati
quattro, e riflettono la morte di Cristo, il sepolcro di Cristo, la
Croce, l'Ostia consacrata[324]. In tutti brilla la professione di
cristianesimo senza riserve, il concetto di Cristo vero figliuolo di
Dio, ciò che il processo mostrava essere stato da lui negato; intorno
alla Croce, egli spiega la sua poca simpatia verso la tendenza a
mettere in mostra Cristo crocifisso invece di Cristo trionfante, ed
anche in ciò si trova una giustificazione riferibile alle cose emerse
dal processo. De' due, che non furono poi pubblicati, l'uno tratta
ancora del sepolcro di Cristo ma in tuono assolutamente predicatorio,
l'altro rappresenta un fervorino sull'Ostia consacrata, e risulta esso
pure una giustificazione. Si direbbero tutti questi Sonetti composti
nella Pasqua del 1601.
Giungiamo alle poesie con indirizzo o menzione di persone diverse,
talora non determinate, talora più o meno determinate, delle quali,
potendo, c'ingegneremo sempre di dare qualche notizia, massime
allorchè si tratti di persone benefattrici del povero prigioniero. Ci
liberiamo dapprima di due Sonetti, l'uno per l'entrata di un alunno
incognito nell'ordine monastico de' Somaschi, l'altro per l'entrata
di un'Artemisia del pari incognita in un convento[325]. Citiamo poi
due Sonetti indirizzati a due persone delle quali già abbiamo fatto
conoscenza[326]: l'uno al Sig.^r Cesare Spinola «splendor d'Italia,
difensor di virtù», che l'autore encomia e ringrazia
«Del Campanella per la defensione
contro lo stuol traditoresco e rio»,
e manifestamente esso deve dirsi scritto poco dopo il 15 novembre
1600, giacchè a questa data lo Spinola lo difese mentre era chiamato
qual testimone dal Pizzoni; l'altro, senza dubbio di pari data e per
la stessa circostanza, indirizzato a D. Francesco di Castiglia, che
l'autore loda molto anche come poeta, cantore di donne sante, di
cocenti amori, e perfino di Antiochia vinta. E forse egualmente al
Castiglia, seguace del Tasso, deve dirsi indirizzato il Sonetto che
nella Raccolta vien subito dopo[327]: esso rappresenta una gentile
ammonizione al seguace del Tasso, cui addita una meta più alta e
abbastanza notevole per l'argomento della nostra narrazione, quella
meta per la quale, il poeta dice, gioverebbe avere a guida Dante e
Petrarca, scaldarsi al «fuoco de' lor petti», sentirsi il cuore punto
«da giuste ire», elevarsi ed elevare
«Al degno oggetto dell'umana mente».
Ricordiamo inoltre qui il Sonetto indirizzato a un Sig.^r Aurelio[328],
un «canoro Cigno» tra' molti che si riunivano nelle Accademie
napoletane, tanto più pullulanti quanto più avversate da Spagna. Non
sapremmo, tra' mille Accademici di quel tempo, chi abbia potuto essere
questo Sig.^r Aurelio: ad ogni modo egli dovè vedere il Campanella ed
eccitarlo a cantare di Cesare, e il Campanella se ne scusò adducendo le
sue tristi condizioni,
«Che in atra tomba piango i miei dolori
sol pianto rimbombando il ferro e il sasso».
Ecco ora un Sonetto al Sig.^r Troiano Magnati[329], un cavaliere
del quale possiamo dare qualche notizia sicura. Primogenito di D.^a
Ippolita Cavaniglia, che vedremo tra poco celebrata egualmente, egli
faceva parte della Compagnia de' così detti Continui, una specie di
Guardia del corpo del Re, e per esso del Vicerè, composta per metà
di spagnuoli e per metà di napoletani, scelti sempre tra le persone
nobili, e ne' primordii dell'istituzione tra le persone nobili di
prim'ordine: una cedola di pagamento del soldo per l'anno 1596, ed una
dimanda di licenza al Vicerè per l'anno 1610, che si leggono nelle
scritture dell'Archivio di Stato, ci hanno fatto conoscere questa
sua condizione di Continuo[330]. Il Campanella, dopo lodi enfatiche
e seicentesche, gli chiede umilmente protezione per sè e pei suoi
compagni:
«. . . . . . vendichi l'onte
fatte a tanti virtuosi e a me meschino».
Veniamo a D.^a Ippolita Cavaniglia, la più alta benefattrice del
Campanella e de' frati; a lei sono indirizzate non meno di tre
poesie[331]. Un documento, da noi rinvenuto nell'Archivio di Stato, ci
mostra questa Signora esser figliuola di D. Garzia Cavaniglia Conte di
Montella, ma forse figliuola naturale, già vedova fin dal 1593 di Fabio
Magnati, e madre di Troiano, Flaminio, Gio. Battista e Geronimo[332].
Si sa che i Cavaniglia, gente valorosa e fida e di sangue regio,
vantavano l'essersi stabiliti nel Regno col 1.^o D. Garzia, venuto da
Valenza in Napoli con Alfonso d'Aragona, fatto Conte di Troia nel 1445
e celebrato dal Sannazzaro (la Contea di Montella sopraggiunse più
tardi, nel 1477, con D. Diego, l'amante della sorella di Ferdinando
Aragonese): ne abbiamo un trattato scritto dal Sarrubbo, oltre le
notizie registrate dal De Lellis nei suoi ms. che si conservano nella
Bibl. nazionale di Napoli; ma le donne non figurano mai nel Sarrubbo,
e il De Lellis ricorda solamente, quali figlie del 2.^o D. Garzia,
Cornelia e Fulvia monache; e tuttavia il documento suddetto non lascia
dubbio sulla origine di D.^a Ippolita, mentre d'altra parte i libri
parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo fanno spesso menzione di
lei e de' suoi[333]. Quanto a Fabio Magnati, il Capaccio mostra la
famiglia de' Magnati proveniente da Bologna, dove essa era una delle
40, venuta in Napoli con Carlo 1.^o, e dichiara Fabio «dottore di
leggi, gentil' huomo virtuosissimo»[334]: non è improbabile che egli
fosse Auditore del Castel nuovo, ma ad ogni modo là abitava con la sua
famiglia. Nel corso di questa narrazione abbiamo visto raccomandata a
D.^a Ippolita la lettera inviata da Sertorio del Buono a fra Dionisio,
che fu poi trovata il 2 agosto 1601 dagli ufficiali del Castello.
Nelle poesie, oltre la sua nobiltà affermata con le nozioni storielle
suddette, oltre la maestosa bellezza e tanti altri pregi, vediamo
esaltata la sua
«Generosa pietà, man liberale»
e sempre col maggior rispetto, e con una impronta di serietà sovente
lasciata da parte nelle altre poesie dirette al bel sesso; onde si vede
che effettivamente il Campanella sentiva per lei quanto le esprimeva
nel verso
«L'altre femine son, tu donna sei».
Ma nella terza delle poesie, che è un Madrigale, il Campanella rivela
tutta l'intensità della sua gratitudine:
«. . mille grazie e benefizii farmi
volesti ancor; felici ferri e sassi,
che stringete i miei passi,
ringraziar non poss'io
nè gioir del sol mio,
ringrazio voi e di voi più non mi doglio» etc.
Abbastanza analoga a codeste poesie, comunque meno fervorosa, è l'altra
seguente, indirizzata a una Sig.^{ra} Olimpia[335]: non ci è riuscito
interpetrare chi abbia potuto esser questa Signora e parrebbe che non
abitasse nel Castello, poichè i libri parrocchiali non fanno alcuna
menzione di un nome simile; il Campanella ne loda essenzialmente
«l'umanità». Lo stesso dobbiamo dire della Sig.^{ra} Maria, della quale
il Campanella esalta la grande bellezza ed invoca la cortesia e la
pietà, mostrando pure che glie ne avesse dato prova una volta e poi si
fosse posta in contegno[336]: tali circostanze ci hanno fatto per un
momento pensare che potesse trattarsi della Castellana medesima, cugina
e moglie di D. Alonso, che varii documenti e perfino il Carteggio
dell'Agente Toscano attestano sovranamente bella, e che per la sua
posizione sarebbe stata veramente in grado di giovare il Campanella con
la pietà; ma non può ritenersi punto consentaneo all'indole de' tempi
veder chiamata la Castellana di casa Mendozza col nome di «Sig.^{ra}
Maria», e difatti «D.^a Maria» o semplicemente «Maria» si trova sempre
chiamata ne' libri parrocchiali del Castello. Potrebbe essere stata una
Maria Gentile o una Maria Spinola, e piuttosto quest'ultima, poichè le
si vede anche indirizzato ad istanza del Sig.^r Francesco Gentile un
Madrigale tutto smancerie e peggio secondo il gusto de' tempi; e vi
sarebbe una Maria Spinola Centurione da potersi supporre quella di cui
qui si tratta, ma non vale la pena di sciupare il tempo in supposizioni
troppo vaghe. Giungiamo alla Sig.^{ra} «D.^a Anna». Qui il titolo è tale
da dover fare ammettere senz'altro una Signora di casa Mendozza, ma,
secondochè insegnano i libri di materie nobiliari e i libri parrocchiali
del Castello, vi furono non meno di tre Signore di questo nome; 1.^o
D.^a Anna di Toledo figlia di D. Pietro il Vicerè, maritata a D. Alvaro
di Mendozza già Castellano e madre di D.^a Maria la Castellana moglie
di D. Alonso, rimaritata a D. Lope di Moscoso Osorio 4.^o Conte di
Altamura, onde ne' libri parrocchiali trovasi anche detta «Anna
Moscosa»; 2.^o D.^a Anna sorella del predetto D. Alvaro, quindi zia
di D.^a Maria ed anche dello sposo di lei D. Alonso il Castellano che
le era cugino, maritata a Lelio Carafa e rimaritata al Conte di S.
Angelo, lungamente vedova e fondatrice della Chiesa di Pizzofalcone,
spesso detta ne' libri parrocchiali Contessa di S. Angelo; 3.^o D.^a
Anna ultima sorella di D. Alonso il Castellano, malamente detta
Claudia dal De Lellis, maritata nel 1594 a D. Ferrante de Bernaudo e
dimorante senza dubbio nel Castello, detta sempre «D.^a Anna» ne' libri
parrocchiali[337]. Forse a quest'ultima, forse anche meglio alla prima
D.^a Anna, la quale era tuttavia una delle belle, fu indirizzato il
Sonetto dal filosofo; ma a qualunque delle dette Signore sia stato esso
indirizzato, si tratterebbe sempre di persone in parentela stretta col
Castellano, ed in ciò precisamente risiede la singolarità del fatto,
mentre il filosofo mostravasi a quel tempo nel colmo della sua pazzia.
Quanto ai concetti espressi nel Sonetto, vi si trova lodata la bellezza
e nobiltà di D.^a Anna, se ne vede invocato l'amore, con quegli spasimi
a freddo che è maraviglioso come abbiano potuto regnare in poesia tanti
e tanti anni senza nauseare[338]: lo stesso si trova egualmente in più
composizioni del Campanella, delle quali dobbiamo ancora discorrere,
onde si rileva che pure da questo lato egli abbia sacrificato al gusto
e alla necessità de' tempi senza esitazione.
Ed eccoci all'ultimo gruppetto di poesie, nelle quali generalmente
il pessimo gusto signoreggia sovrano. Le facciamo cominciare dal
Sonetto che fra Pietro Ponzio trascrisse senza titolo, ma che mostrasi
indirizzato ad un Gentile[339]. Non è dubbio che si tratti qui del
Sig.^r Francesco Gentile, per conto del quale fra Pietro raccoglieva
le poesie del Campanella nel libretto che gli fu poi trovato dagli
ufficiali; e possiamo affermare di non aver risparmiato assolutamente
nulla per sapere chi fosse questo Sig.^r Francesco Gentile, ma pur
troppo senza esservi riusciti. Dalle poesie egli apparisce parente di
una Sig.^{ra} Giulia Gentile, alla quale il Campanella non manca di
scrivere un Sonetto e un Madrigale, innamorato di una Flerida, alla
quale il Campanella scrive poesie per conto di lui e poi anche per
conto proprio, e spesso e vivacemente: ad istanza di lui ancora il
Campanella scrive il Madrigale alla Sig.^{ra} Maria già ricordato qui
sopra, e crediamo che per conto egualmente di lui sieno state composte
molte poesie di amore anche lascivo, mentre alcune altre dello stesso
genere appariscono pure indubitatamente scritte dall'autore per conto
proprio. Avevamo dapprima pensato che potesse essere Francesco Gentile
da Barletta, nipote della Sig.^{ra} Giulia Gentile, presso la quale
stava ritirata D.^a Ilaria Sifola sposata a D. Andrea de Mendozza
figlio di D.^a Isabella Marchesa della Valle con grandissimo sdegno di
costei (confr. pag. 258): questo D. Francesco, nobile di prim'ordine
ed amico delle buone lettere come lo provano due Commedie che di lui
ci rimangono[340], avea potuto venire con la sua zia in Napoli, per
placare la Marchesa e cercare un accomodamento nella lite di nullità
intentata da lei a proposito del matrimonio di suo figlio. Ma al tempo
del quale trattiamo egli doveva essere molto giovane, e la Marchesa
trovavasi nel maggior colmo de' suoi furori: abbiamo infatti visto che
il povero Nicolò Napolella ne soffrì le conseguenze fino ad una parte
del 1602, e i libri parrocchiali del Castel nuovo ci mostrano D.^a
Ilaria riunita a D. Andrea non prima del 1618. D'altronde fra Pietro
Ponzio nel principio di dedica della Raccolta delle poesie lo dice
Patrizio Genovese, e il processo dell'eresia ci mostra nel 14 novembre
1600 dato per testimone dal Pizzoni nelle sue difese un D. Francesco
di Genova che verosimilmente è il Gentile, inoltre ci mostra dopo il 2
agosto 1601 dato per testimone da fra Pietro nella denunzia contro gli
offensori de' frati il Sig.^r Francesco Gentile, di cui il Mastrodatti
dice, «è stato carcerato e liberato...» etc. (ved. pag. 241). Dovè
dunque essere compagno di carcere de' frati, forse uno della famiglia
de' Gentili che tenevano Banco in Napoli, del quale Banco esistono
tuttora nel Grande Archivio tre libri che vanno dal 1592 al 1599; e
ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo egli figura qual
padrino in un Battesimo del 18 aprile 1601. Ad ogni modo egli non
era persona volgare, e nel Sonetto già citato, dicendosi pazzo, il
Campanella gli chiede aiuto per sè e pe' suoi in nome dell'amore che
egli porta a Flerida,
«Ond'io m'inchino a lei e per lei ti priego
ch'a lei, et a te, et a noi Gentil ti mostri
il fatal pazzo Campanella aitando».
Ma alla Sig.^{ra} Giulia il poeta chiede nè più nè meno che amore e in
un Sonetto la dice
«Gioia, idea, vita, luce, idolo, amore»,
e in un Madrigale ne loda la bellezza al punto, che dichiarandola
superiore a Lia e Rachele egli si compiacerebbe di essere schiavo
per sette e sette anni[341]. Intanto ad istanza del Sig.^r Francesco
Gentile scrive un Madrigale per Flerida, forse anche il Sonetto che
segue, più probabilmente ancora un altro Sonetto posto nella Raccolta
dopo quello indirizzato a lui[342]; e scrive inoltre il Madrigale alla
Sig.^{ra} Maria, dal quale si vede che il Gentile si compiaceva di fare
il cascante a dritta ed a manca[343]. Vogliamo credere che egualmente
per lui egli indirizzi a Flerida un Madrigale, da cui si rileverebbe
essere stati ammalati entrambi ed essere ciò accaduto alla fine
dell'anno, naturalmente alla fine del 1600[344]; dippiù il Sonetto col
quale ne loda i nèi sul labbro e sul ginocchio, da' quali il poeta si
lascia trasportare perfino
«. . . . . sul consecrato fonte
dell'immortalitate all'appetito»[345],
onde poi riesce di comprendere quel Madrigale, in cui si accenna a un
certo fiasco fatto e spiegato non senza sufficiente industria[346];
finalmente anche il Sonetto in cui ringrazia Amore, l'altro
sull'inestricabile laberinto d'Amore, e poi le Ottave e il Sonetto di
sdegno, che dinotano una rottura completa e perfino villana[347].
Ma non siamo sicuri che tutte le poesie amorose dirette a Flerida
siano state scritte per conto del Gentile, e una parte di esse ha
potuto essere stata scritta per conto dell'autore, massime dopo la
rottura anzidetta: è certo d'altro lato che l'autore credè egli pure
dilettevoli o piuttosto comodi simiglianti passatempi, onde abbiamo
almeno sei Sonetti di relazioni amorose indubbiamente sue, non mancando
nemmeno nel titolo di alcuni fra essi indicato specificatamente
«l'Autore». Forse presso Flerida ed anche qualche altra fanciulla egli
trovò distrazioni, come di sicuro ne trovò presso una Dianora, al cui
indirizzo la Raccolta ci offre un Sonetto; vedremo poi, nel sèguito
della nostra narrazione, attestato da lui medesimo in una sua lettera
il ricordo di scherzi a' quali certe donzelle lo invitavano dalle
finestre, ed attestato dal Gagliardo in alcune sue deposizioni il
ricordo di una certa Oriana, o secondo l'uso del paese D. Oriana, nome
ingarbugliato che risponde bene a quello di Dianora, la quale abitava
sotto la prigione e gli conservava libri e scritti, fornendoli ad ogni
sua richiesta mediante una cordicina. La Dianora parrebbe una suora
francescana, a giudicarne da' versi co' quali comincia il Sonetto
«Donna che in terra fai vita celeste
sotto la guida di colui che in Cristo
amando trasformossi»:
a lei il Campanella fa ringraziamenti, ma si dichiara nel tempo stesso
devoto abbastanza intimo co' versi
«Stella DIAN, ORA al mio fragil legno
che solca un mar d'affanni, onde non parte
l'occhio del mio desire e della mente»;
nè ci manca ne' Reg.^i _Partium_ la notizia di una «Sore Elionora
Barisana», e, ciò che vale dippiù, ne' libri parrocchiali del Castel
nuovo la notizia di una «Sore Dianora Barisciana di Barletta»[348].
Per questa donna, che potrebbe supporsi appartenente alla famiglia
del «torriero» come allora si diceva il guardiano della torre, o per
Flerida e altre fanciulle che potrebbero supporsi appartenenti alla
bassa famiglia de' Mendozza, egli dovè scrivere i rimanenti cinque
Sonetti ne' quali canta il suo intrigo amoroso, un laccio di capelli
da lui dimandato ed avuto, un presente di pere inviatogli, un bagno
fornitogli in sollievo de' suoi dolori, ed anche una scena erotica
abbastanza vivace accaduta a traverso il muro della prigione[349].
Mettendo da parte siffatta scena che i lettori potranno rilevare col
loro comodo, notiamo quella singolare dichiarazione che il Campanella
fa nel Sonetto sul presente di pere
«Che solo Amor può darci il sommo bene
lo qual filosofando io non trovai»[350];
notiamo poi con tanto maggiore interesse la circostanza, che
l'avvenimento del bagno fornitogli dalla sua donna si deve riferire al
tempo che scorse dopo il tormento della veglia, onde il povero filosofo
si sentì ristorato ed anzi poeticamente risanato,
«Tolsi l'acqua, applicaila al corpo mio
già fracassato dopo lunga guerra
per gran tormento ch'ogni forte atterra,
del medesmo liquor bivendo anch'io»[351].
Abbiamo dunque un Sonetto composto certamente dopo la veglia, a tempo
de' bagni, vale a dire in luglio secondo il costume del paese: ma esso
non fu il solo, e possiamo con ogni probabilità aggiungervi anche
con precedenza due altri Sonetti indirizzati a un «Sig.^r Petrillo»;
nè ci trattiene il rinvenirli a capo di tutto il gruppo delle poesie
appartenenti al periodo di cui discorriamo, giacchè questo potrebbe
significare solamente una speciale distinzione[352]. Dal primo de'
due Sonetti questo Sig.^r Petrillo apparisce un fanciullo, o più
verosimilmente un giovanetto, leggiadro e riservato, che consola il
povero filosofo con la sua presenza, e l'eccita a scrivere nuovamente
qualche poesia,
«Il vecchio canto a ripigliar m'invita»;
e il filosofo dicendosi pazzo ed incapace di poetare con gusto,
apparisce addolorato e affranto addirittura,
«Carme ti rendo d'ogni gusto parco,
ch'esce da bocca di dolcezza lungi,
ch'agli ultimi sospiri è fatta varco»;
ci parrebbe impossibile riferire simiglianti espressioni, e tutto
il resto, ad un tempo diverso da quello che seguì immediatamente la
veglia. Con l'altro Sonetto il filosofo loda la bellezza del fanciullo
e gli comunica eccellenti riflessioni morali, ma continua sempre ad
apparire profondamente mesto, ed anche oppresso dal pensiero dei
tradimenti che nella vita si patiscono; e chi era dunque questo Sig.^r
Petrillo? I libri parrocchiali del Castel nuovo ci dànno un po' di
luce anche in questa come ce l'hanno data in altre circostanze: vi era
un «Petrillo» figlio dello speziale del Castello Ottavio Cesarano e
di Polissena Cammardella; nato nel 1583, egli morì nel 1603, ed avea
quindi poco più di 17 anni allorchè comparve al filosofo, e doveva
essere leggiadro come uno di que' fiorellini i quali, al vederli, fanno
temere che ben presto piegheranno il capo[353]. Grande meraviglia ci
avea recato il non trovare qualche poesia diretta dal filosofo al
suo migliore aiuto, al chirurgo Scipione Cammardella; ma ecco che
lo vediamo onorato in persona del nipote, il quale verosimilmente
l'accompagnò in taluna delle prime visite e poi più tardi, quando
il filosofo era sempre assai sofferente, e in principio tuttora non
fiducioso al punto da fargli comprendere la simulazione della pazzia,
in sèguito divenuto fiducioso in modo da mostrarglisi un vero e buono
sapiente.
Furono queste le poesie che il Campanella compose dal maggio 1600 al
2 agosto 1601, e tutt'al più una sola di esse potrebbe dirsi apocrifa
nella Raccolta fattane da fra Pietro, quella intitolata «Sonetto di
Horatio di G.» etc.[354]. Sicuramente dopo il detto periodo egli non
cessò dal poetare, ed anzi allora appunto compose le maggiori sue
poesie, che si leggono nella Scelta pubblicatane più tardi dall'Adami:
cercheremo a tempo e luogo di determinare, se sarà possibile, la data
almeno di taluna di esse.
Veniamo alle opere alle quali il Campanella attese consecutivamente,
e per ora a quelle composte dall'agosto 1601 fin verso la fine del
1602, cioè fino a che si compì il processo dell'eresia. Gioverà qui
avvertire una volta per sempre che i fonti migliori, per determinare
in un modo meno fallace le date di quanto egli compose negli anni più
difficili della prigionia, saranno sempre le sue Lettere del 1606-1607
a' Card.^{li} Farnese e S. Giorgio e al Re di Spagna, alle quali
egli annesse l'elenco delle opere fin allora composte; meglio ancora
la lettera allo Scioppio, egualmente del 1607, posta come proemio
all'«Ateismo» e pubblicata dallo Struvio, nella quale citò ad una ad
una con un certo ordine, ma nemmeno con un ordine cronologico esatto,
le opere che realmente teneva a sua disposizione e che infatti gli
mandò, avendole rivedute, ritoccate, ovvero composte di pianta, e
facendo menzione anche di taluna che avea composta e perduta o stava
componendo e non potea mandare ancora; inoltre il Memoriale del 1611
al Papa pubblicato dal Baldacchini, al quale fu pure annesso un elenco
delle opere, e in generale tutte le lettere del Campanella scritte
durante la prigionia. Ma ad un grado limitatissimo potrà servire il
_Syntagma de libris propriis_, pubblicato tanti anni dopo su note
confusamente raccolte dal Naudeo, e manifestamente disordinato intorno
alle opere scritte nel carcere, come si può rilevare dalle notizie che
fornisce il processo dell'eresia, da quelle che forniscono i documenti
anzidetti, non che dalla lettura medesima del libro[355]. Pel momento
il processo dell'eresia è ancora il fonte certo, su cui si può contare
senza riserva, e da esso sappiamo che il 2 agosto 1601 il Campanella
già metteva mano a compiere l'_Epilogo di Filosofia_, o la _Filosofia
epilogistica_.
Rammentino i lettori il manoscritto buttato giù dalla finestra del
carcere del Campanella il 2 agosto, mentre venivano a visitarlo gli
ufficiali del Castello. Oggi ancora vi sono in Italia due Manoscritti
col titolo di «Epilogo...» o «Epilogo magno di quello che della natura
delle cose ha filosofato e disputato fra Thomaso Campanella servo
di Dio»: analogamente al manoscritto buttato giù dalla finestra del
carcere, l'uno, della Magliabechiana, comincia con le parole, «Perchè
teco menar la vita non posso Signore, come il desiderio _suo_ grande
della virtù vorrebbe», l'altro, della Casanatense comincia con le
parole, «Perchè menar teco la vita non posso Signore» etc.; entrambi
finiscono con le parole, «quel che ne fece poi voi lo sapete», alle
quali parole nell'esemplare della Magliabechiana succede un epigramma
latino in lode del Campanella, e nell'esemplare della Casanatense
succede un piccolo numero di brevissime note e postille. L'opera poi in
latino, stampata a cura dell'Adami nel 1623 col titolo di «Philosophiae
realis epilogisticae partes quatuor», comincia con le parole, «Quoniam
tecum vitam ducere, charissime, non datur, ut avidissime cupis» etc.,
e nella sua 2^a parte, che rappresenta l'_Etica_, finisce con le
parole tradotte alquanto liberamente, «quid autem subinde fecerit,
historia docet». Come si vede, trattasi qui dell'opera che sappiamo
cominciata in Roma verso la fine del 1594 col titolo di «Compendio di
Fisiologia», quando il Campanella non potea «menar la vita» con Mario
del Tufo cui la mandò, continuata poi in Napoli nel 1598 con l'aggiunta
anche dell'_Etica_. Dopo due mesi dal tormento della veglia, stando
sempre a letto, il Campanella già attendeva a rivedere quest'opera e
ne meditava il compimento: perduta la copia che ne aveva avuta senza
dubbio da Mario del Tufo, è naturale ammettere che se n'abbia procurata
un'altra, ma intanto, senza sospendere il suo lavoro, compose gli
_Aforismi politici_ e l'_Economica_, poi ritoccò l'_Etica_ e compose
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